giovedì 1 novembre 2012

Contromano - 01 novembre 2012


Sia per la mai poco lodata collana di Laterza, sia per un libro che non è di viaggi, ma che ci fa viaggiare, nel mondo e nella coscienza (ma sempre contromano). Mentre volano auguri per tutti nella giornata di tutti i Santi, ci imbattiamo in due interessanti itinerari itineranti (con Fossati sul CD) nel nord Tirreno, tra una Liguria che ancora non conosco bene, ed una Versilia che ho imparato a conoscere. Poi un libro, quasi da carnet di viaggio per visitare e guardare con altri occhi gli splendori siciliani (e riflettere anche sugli uomini). Ed infine, un sentito omaggio, girando per il mondo ad aiutare la gente, con forza e con coerenza.
Rosella Postorino “Il mare in salita” Laterza euro 10 (in realtà, scontato 8,50 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 01/07/2012 – T: 03/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 180; anno: 2011]
Non è facile tramare quando si conosce l’autore dello scritto. Certo la mia conoscenza di Rosella non può essere paragonata a quella con il professor Luciano (di cui prima o poi si dovrà parlare per qualche suo nuovo libro) o dell’amica Roby (e della sua “Bolla”). Più sul versante dell’Agnello. Che con la Postorino ho condiviso non un viaggio, ma alcune sessioni del corso di Rebibbia ed un convegno al Museo di Criminologia. Devo dire che comunque preferisco la sua scrittura, che risulta più asciutta del parlato. E dico anche che questo scritto è ben inserito nella collana Contromano di Laterza, di cui tanto ho parlato e bene. Una collana che riesce a sfornare libri che ti mettono voglie: di leggere, di girare, di viaggiare. E questo non è da meno, riuscendo a comunicare un senso (personale quanto vogliamo) ad un pezzo d’Italia quanto mai bello e interessante. Quella che viene univocamente indicato come “Riviera dei fiori”. Quel pezzo d’Italia, tra Genova e la Francia, incentrato sulla sua città più nota (Sanremo) ma che, sopra e intorno, ha tanti altri luoghi, che Rosella ci presenta quasi facendoci partecipi di una gita in macchina, magari in una delle mezze stagioni che non esistono più. Partendo dal suo vissuto di emigrante dalla natia Calabria, ci conduce sulla costa da Sanremo ad Imperia. Ma non dimentica, e noi con lei, tutte quelle cittadine e borghi che ne costituiscono l’entroterra (e l’ossatura storica). Mescolando pubblico e privato, facciamo una rapida ripassata di luoghi e situazioni, ognuna pronta a risvegliare echi, vicini o lontani. Proprio a cominciare da Sanremo, strangolata ma esaltata dal suo famoso festival (che tutti, prima o poi hanno visto, e non prendiamoci in giro; tanto che si è fatto il tifo per il giovane Guazzone l’ultimo febbraio). Certo, chi ci vive o ci ha vissuto intorno ha ricordi altri rispetto a noi semplici osservatori televisivi (a proposito, Rosella, il tuo Lorenzo Zecchino è tornato nella natia Puglia e continua a cantare e fare serate, ma solo intorno a Foggia). Ricordi di cantanti, serate, tappeti. E fiori, tanti fiori (per cui poi non ci si può esimere dal ricordare e citare Calvino). E poi scendendo sulla costa, Taggia e Arma di Taggia con la sua (unica) spiaggia, la mussoliniana Imperia, che meglio ricordano i locali come Porto Maurizio. Fino alla deamicisiana Oneglia. Ma come si fa poi, non salire insieme a lei e Livio verso la magica Apricale e le sue serate del Teatro della Tosse all’aperto. O Dolceacqua dal nome così evocativo. Per poi finire, passati i Molini di Triora, nella diatriba tra Dolcedo e Moltedo sul possesso di un quadro, che si dice sia un Van Dyck. O della scuola sua. Ma di certo Van Dyck lì si rifugiò per sue storie d’amore. Perché il mare in Liguria, come ci sottolinea Rosella, è un mare difficile, in salita, senza né gli spiaggioni adriatici, né le insenature tirreniche. Un mare che lotta con le colline, in lingua locale “bricchi”. Insomma, una bella cavalcata, piena anche di storia e di storie. Piena di gesta risorgimentali, di mazziniani in fuga, di partigiani ed altro (commovente il pezzo dedicato a Felice Cascione, autore dei versi di “Fischia il vento”…). Un libro da compitare mentre ci si aggira per la Riviera dei Fiori e per i bricchi (non dimenticando che oltre la storia c’è anche il presente, i cinesi, gli extra, e via discorrendo). Meno mi sono piaciuti gli incipit dei capitoli, dove, per introdurre i luoghi, Rosella racconta brevi storie “tematiche”. Le ho trovate un po’ forzate, ed aspettavo con gusto che finissero per potermi gustare le descrizioni. E le chiacchierate che immaginavo si facessero andando in giro. Per poi proseguire, verso l’Italia e la Toscana, magari fermandosi (finalmente) a vedere la nonnesca Varazze.
 “Mia madre … recita a menadito le poesie che ha imparato alle elementari.” (27)
“Mi chiedo da anni … dov’è che si baciano i ragazzini romani? …” (145)
Roberto Alajmo “L’arte di annacarsi” Laterza euro 9,50 (in realtà, scontato 7,13 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 07/07/2012 – T: 14/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 274; anno: 2011]
“Un viaggio in Sicilia” come dice argutamente il sottotitolo. E di questo si tratta. Una lunga cavalcata per luoghi, personaggi e storie della Sicilia cui vogliamo bene e che abbiamo imparato ad amare in tante e tante visite. Ma prima di addentrarci nei luoghi, un cenno al bel titolo.”Annacarsi” viene da “naca” culla. Ma non è cullarsi. È un modo di muoversi portando al minimo la fatica. Come ci spiega Alajmo, sarebbe fare il massimo del movimento con il minimo dello spostamento. Ed è un’immagine bella e forte che ci rimanda molti dei luoghi che si è visitato. Allora partiamo, con questo libro a mo’ di Bedaeker, non per cercare le cose note, che appunto a questo servirebbe un Bedaeker, ma per guardarle con occhio altro. E magari per scoprirne di diverse. Lasciamo i racconti e gli spunti ad Alajmo (poi ci si tornerà), per ora mettiamoci davanti alla piantina a inizio libro, cominciando a rinvangare. Facendo un po’ come l’autore, saltando di qua e di là. Dalle Eolie, che videro un’estate di gommoni e canzoni, scendendo al golfo di Tindari dove qualcuno imparò ad andare in bicicletta. Muoviamoci verso Palermo, saltando posti poco noti, se non ripensando a Castelbuono ed alla manna della Torregrossa. Saltiamo anche Polizzi, o Nicosia, per arrivare a Palermo. Palermo città del cuore, tanto amata per politici motivi in gioventù e poi odiata e poi riscoperta, con Piazza Garibaldi, il mercato di Ballarò, il pane co’ a meuza, la Kalsa, fino alla bellissima ed aulentissima chiesa di Santa Maria alla Catena. Da Palermo a Trapani, ecco risvegliarsi la memoria antica, il primo viaggio con mio padre, la 124, a vomitare tutto il tempo. La scoperta della Valle del Belice, l’incontro con Danilo Dolci, e Gibellina e Mazara e Trapani stessa. Purtroppo non Segesta, e neanche Erice, la cui descrizione nel libro mi prende e mi fa voler riprendere il viaggio (passando anche per Mozia, sia chiaro). Traghetto per Favignana, dopo due giorni in 500 (la macchina) con l’amico Luciano e gli altri (e due gomme forate vicino a Lagonegro). Scendiamo bordeggiando il Canale di Sicilia. Di là del mare, Tunisi. In mezzo la figlia del vento, Pantelleria, e l’assolata e non dimentica Lampedusa. Fermiamoci un poco ai tempi di Agrigento, lasciando la città alle spalle. Città orrenda, quindi bellissima perché da lì si vedono i tempi, ma non la città, quindi… E ricordo del maggio di traversata in treno, lunghissimo e bellissimo, da Palermo ad Agrigento, passando attraverso l’erica di Racalmuto (e leggendo Sciascia). Ripassando Pirandello ad Agrigento, compulsando Camilleri andando verso il trionfo barocco dove sta la mia grande amica Marina: Scicli, Modica, Ragusa, Noto. E come scordare la scalinata di ceramiche di Caltagirone? La cioccolata di Modica, che comperavo quando ancora i produttori erano due. La bellezza delle cattedrali di San Giorgio: l’inarrivabile di Modica (ma perché Alajmo scordasti Quasimodo?) e quella di Ibla (che tanta fatica fece fare sotto il sole). Non ho visto Pachino, ma adoro Ortigia più che Siracusa. E voglio bene anche alla via Etnea di Catania (solo perché mi porta a quel chiosco dove bere sale, limone e selz, uno sballo!). E finalmente sono totalmente, completamente d’accordo con Alajmo su Taormina. Una città bellissima, da vedere d’inverno in giorno feriale. E possibilmente assistendo all’alba dal Teatro greco ed al tramonto nella folle villa della marchesa Trevelyan. Ecco, il giro s’è finito, si arriva a Messina, città che non conosco né voglio conoscere. Ma queste sono (alcune) delle mie storie, più belle ed intriganti quelle dello scritto. Con i misteri, le sorprese, i gusti culinari, il mare e i monti. Finisco con un personale grazie di avermi fatto scoprire il termine “ubris”, io che non so di greco, per indicare eventi del passato che influiscono negativamente sul presente. Un libro da gustare per chi è già stato in Sicilia. Un libro che stimola per chi (mischinello) ancora non è sbarcato sull’isola.
“Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro.” (16)
“La tolleranza ... non rappresenta un traguardo soddisfacente. Si tollera qualcuno perché non se ne può fare a meno, e in ogni caso con una riserva mentale.” (45) (tolleranza vs. rispetto)
“I matti sono un monito ai sedicenti normali … basta poco per scivolare dall’altra parte della razionalità.” (165)
“Dell’essenziale ci manca tutto, del superfluo non ci facciamo mancare nulla.” (187)
“Alla morte non c’è rimedio, ed esiste solo a posteriori. Come faceva notare Marcel Duchamp, a morire sono sempre gli altri.” (197)
“La siesta … è la difesa dell’uomo contro il tempo … è il frigorifero dell’anima. Lavorare con trenta, quaranta gradi è qualcosa di controindicato, che qualsiasi persona dotata di intelligenza cercherà di evitare in ogni modo possibile.” (250)
Fabio Genovesi “Morte dei Marmi” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 29/06/2012 – I: 04/09/2012 – T: 05/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 140; anno: 2012]
Già di base parte per essere un buon libro: collana sui luoghi di Laterza, giovane scrittore con un paio di libri alle spalle, località descritta/vissuta: Forte dei Marmi. Da questa buona partenza, si sviluppa un libro non esilarante, ma di certo con qualche punto di sorriso. Soprattutto si sviluppa una narrazione che percorre luoghi che mi furono cari, e che son rimasti nella memoria. Vogliamo parlare delle focaccine di Valè? Ci aggiungiamo la libreria Giannelli? Se poi al tutto colleghiamo Vittoria Apuana, Querceta, Serravezza, non possiamo che arrivare a livelli (almeno di memoria) impagabili ed alti. Guardiamo, anche, verso la fine, di metterci là sul pontile, forse a cercar la Corsica, per poi tornare passeggiando lentamente, verso la piazzetta, dare un’occhiata alle vetrine (lo shop-watching di Fabio), ed imboccare via Mazzini, salutare Lucrezia, la barista all’angolo. Così, mentre leggevo i ricordi e le elucubrazioni di Genovesi, riandavo ai miei ricordi ed ai miei pensieri. Trovandomi in sintonia con (quasi) tutto lo scritto. La grande rabbia dell’invasione russa, Forte dei Marmi come icona dei propri ricordi (Mina e la Capannina, tanto per dirne una), la contrapposizione tra locali e forastieri (turisti in genere, ma non solo stanziali, anche di passo e di voliera, come direbbe il fine dicitore). Certo, il rischio di un’elencazione gozzaniana (del tipo Nostalgia Canaglia…) è forte, ed ogni tanto anche il nostro giovane scrittore ci fa qualche scivolata. Ma quando lo riconosci, sai che la scivolata verrà perdonata. E così è. Ma, nostalgia a parte, il libro, pur nella veloce cavalcata tra ricordi e pensieri, pone alcune piccole domande, che faccio mie, e sulle quali stavo riflettendo durante la lettura. La prima riguarda proprio quell’invasione di soldi che ha portato (e porta) russi ed altri ex d’Oltre Cortina, ad invadere (e con che cafoneria) i nostri mondi. Prima hanno colonizzato Rimini. Poi, attraversato l’Appennino, eccoli lì, euro alla mano, a comprare, abbattere e ricostruire con uno stile dove er Piotta sarebbe un lord inglese. Ho visto con i miei occhi buttare giù villini liberty, per tirar su costruzioni a due piani, con colonne doriche, piscine di forme improbabili, marmi slavati, statue dorate, ed altre inimmaginabili oscenità. Come dice Fabio, si presenta un russo, chiede il prezzo, tu gli dici uno sproposito, e lui ti offre il doppio. Ma da dove vengono tutti questi soldi? Mafie? Contrabbandi? Oli e Petroli? Misteri! Ma l’impressione è che non ci sia proprio tutta questa pulizia dietro. Il secondo è l’incontro-scontro tra Vip e Mezzi Vip. E la loro trasformazione nel tempo. Si rimaneva un dì, ai tempi delle discussioni di piazza con Romano Battaglia, a vedere personaggi famosi scivolare incogniti, che quello era una specie di limbo. Tutti siamo famosi, quindi è cafone ostentarlo. Poi cresce l’ondata di mezzi Vip, quelli per cui l’importante è apparire, non essere. Quelli che per una passata televisiva sono pronti a vendere la famiglia (o a vendere se stesse). E che invadono il Forte, con la caciara della loro presenza. Il Vip ora fa il manager di grandi industrie, si tiene appartato e non è di facciata (ha i soldi, ma anche qualche capacità di giudizio). Ma curiosamente, è lo stesso Vip, che riconosce il tamarro televisivo, e ne fa le lodi. Un giorno qualcuno mi spiegherà l’arcano. Con al centro una parentesi, che ci attanaglia il core. Ma perché esiste qualcuno che ai propri figli mette nomi così “improbabili”, tanto che poi si avranno dei Nathan Falco Briatore o dei David Lee Buffon? In fondo e comunque, però, è sempre un canto d’amore per la Versilia, e per questa terra stretta tra mare e monte, piena di quei marmi che riempiono il mondo di bellezza e luminosità (dalle sculture di Michelangelo alle colonne della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme). E per questo ringrazio Fabio, il suo scritto, e chi mi ha fatto conoscere posti incantatati come Pietrasanta.
“Se uno scrive, allora per forza deve fare delle robe strane” (129)
“”La vita degli adulti è questa, si dicono cose che non si pensano, se ne promettono altre che non manterremo, e questo funziona perché è un gioco chiaro a chi parla e a chi ascolta, è un tacito accordo per potersi dire addio e far finta che sia un arrivederci. (130)
Gino Strada “Pappagalli verdi” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 5,20 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 13/09/2012 – T: 14/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno: 1998]
Deve essere un periodo in cui si cercano gli altri, perché ecco, a poca distanza da Pincio (di cui parlerò in altre trame), un altro libro nato da un suggerimento. E non ci si meraviglierà, quindi, se ringrazio Roby per averlo messo nella sua lista “must”; d’altra parte mi sembrava immancabile tra i suoi libri. Tra i miei, non so. È senza dubbio un libro forte, ma perché il contenuto delle azioni di Emergency è forte, a prescindere di quello che si dice e si fa. D’altro canto è anche un libro in un certo senso “mancato”: non dice, non spiega Gino di sé stesso. Forse non era questa l’intenzione, ma a me sarebbe piaciuto, ogni tanto, qualche pensiero in più. Certo ci sono riflessioni, ma, almeno nel mio immaginario, navigano più su quello che so che su quello che c’è scritto. E questo non è un bel commento per un libro. D’altra parte, è anche un libro di quindici anni fa, quando l’esperienza Emergency era agli inizi, e forse Gino Strada aveva anche bisogno di scaricare sulla carta, aiutato e sorretto dai tanti mentori che ha intorno, tutte le tensioni che si accumulano in un mestiere difficile, pericoloso. Ma, per fortuna, necessario ed impagabile. In maniera molto personale, lo accosto ai libri di pensieri e viaggi di Laterza. Perché in realtà è un libro anch’esso di viaggi. Ogni capitolo, introdotto da una cartina che situa la zona di cui si sta parlando, varia nei tanti luoghi di guerra intorno al globo che Strada ha visitato e poi vissuto ed amato ed ivi lavorato come “chirurgo di guerra” (questo anche il sotto titolo del libro). Non sono quindi né viaggi da diporto, né viaggi della speranza. Ma sono comunque viaggi, di un riparatore. Che così lo vedo. Sarebbe bello poter essere anche un riparatore di torti, ma per questo ci vuole altro, e ci vuole altra emergenza. Ad ora ripara corpi, quando è possibile. Ripara pezzi di vita, girellando intorno a tutti quei punti che sorgono dalle cartine. Perù (belle le pagine su Ayacucho e dolenti le domande su Sendero Luminoso), Cambogia (dove tornano domande simili prima di scoprire le realtà diverse dei khmer rossi), Etiopia, Kurdistan (perché è lì che opera, non Iran, non Iraq), Afghanistan, Gibuti, Sarajevo, Pakistan. Almeno questi sono i luoghi che ricordo. E dove in ogni capitolo Gino affonda sempre di più i coltelli nelle piaghe della guerra. Come dice altrove, “Non sono un pacifista, sono contro la guerra”. Ed in giro per questi viaggi (continuerò a chiamarli così, anche se sono più interventi ospedalieri), ogni volta riesce a rinnovare l’orrore. Orrore per le mine anti-uomo, che purtroppo il più delle volte sono anti-bambino, per le ferite insensate inflitte a popoli inermi. Per le donne che partoriscono mentre la città viene bombardata. Per i suoi infermieri che a volte muoiono anche loro. Per la fortuna che bene o male ha avuto nel corso della sua vita: fare il mestiere che si è in grado di fare, accordando cervello e cuore. E va bene anche il modo disordinato di raccontare. Non siamo qui a vedere le bellezze di Sulemania o Quetta, o Kabul o altre mille località toccate dai guasti della follia umana. Siamo qui per soffrire empaticamente con i sofferenti. Noi che non siamo medici, né chirurghi, né infermieri, facciamo quel che possiamo. Se servisse, siamo pronti. Se non serve, almeno ogni anno diamo del nostro anche ad Emergency, perché continui a fare quello che fa, e magari lo faccia meglio. Dicevo, non è un romanzo, né tanto meno un saggio, è un libro in presa diretta sulla realtà. E questo un po’ si sente nel modo di scrivere, nelle ripetizioni di situazioni, che se non fossero orrende sarebbero troppo insistite. E pur essendo di quindici anni fa, è sempre ben intriso d’amore. Per le sue donne: Teresa, che purtroppo è mancata tre anni fa, e Cecilia, che ora ne ha preso il posto alla guida di Emergency. Per il suo lavoro. Sperando che riesca sempre ed ancora, con tutti i problemi, distinguo e contraddizioni a portarlo avanti. Sperando di riuscire a sconfiggere quei pappagalli verdi, come in alcune zone del mondo vengono chiamate le mine.
Anche se non domenica, i miei assidui lettori sanno che “li tramo al dì di festa”. Non solo, dato che siamo ad inizio mese, vi giro anche le letture, con voti, del mese di agosto. Con due buoni spunti, il sempre interessante Barbero e il mio caro Auster, e due basse riuscite, il troppo lodato Gramellini e l’ormai cotto Arbasino.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Massimo Carlotto
L’oscura immensità della morte
E/O
8
3
2
Erik Orsenna
Madame Bâ
Le livre de poche
8,40
3
3
Paul Auster
Uomo nel buio
Einaudi
s.p.
4
4
Pino Cacucci
San Isidro Futbòl
Feltrinelli
6,50
3
5
Massimo Gramellini
L’ultima riga delle favole
Longanesi
s.p.
1
6
Alessandro Barbero
Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano
Laterza
10,50
4
7
Tommaso Pincio
Hotel a zero stelle
Laterza
12
3
8
Qiu Xialong
Visto per Shanghai
Marsilio
12
3
9
Alberto Arbasino
La vita bassa
Adelphi
5,50
1
10
Valter Catoni
L’eterna lotta
Mondadori
4,90
2

Volutamente, pur se di primo novembre come sopra scritto, non parlo di Halloween, una festa che trovo abominevole. Né posso parlare di altri cinema che non si è andati. Si parli allora di cibo. Della bella (ma si può migliorare) cena rimpatriata periodica con i miei amichetti. E delle castagne che verranno (si spera) ancora. E non parlatemi dei funghi, che ultimamente imperversano. Purtroppo il cibo ingrassa, e si vede. 

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