domenica 20 gennaio 2013

Viaggi italiani - 20 gennaio 2013


Tutti sanno che essendo un viaggiatore viaggiante (come direbbe Fossati) non solo adoro viaggiare ma anche parlarne e leggerne. E visto che la nostra Italia è tuttora (e speriamo ancora) un Bel Paese, non perdo l’occasione di leggerne, riuscendo ad infilare qui quattro libri degni di lettura. Due città e due regioni. Una Roma vista percorrendola a piedi (e dove mi ritrovo a guardare i posti che so e che rivedo ad ogni descrizione) ed una Torino descritta a mo’ di casa (e sebbene la conosca meno, la segue e ne capisco). E poi la Romagna, sul cui confine ormai spesso mi ritrovo in questi ultimi anni. Ed il Sud Tirolo, che mi riporta amicizie attuali e ricordi lontani (e mi ha ricordo quella bellissima gag che riporto in citazione).
Cristiano Cavina “Romagna mia!” Laterza euro 12
[A: 16/09/2012 – I: 22/09/2012 – T: 26/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 122; anno: 2012]
Intanto, cominciamo con delle scuse a Cavina: sono andato a rileggere la trama che avevo fatto del suo primo libro (“Alla grande” tramato a febbraio del 2011), dove avevo scritto che era Emiliano. No! Anche se Casole Valsenio è quasi a Castel San Pietro, siamo proprio in Romagna. E questo lungo canto d’amore per la sua terra ce ne porta gusti, radici, passati e possibili futuri. Secondo poi un plauso all’ideatore di questa collana di Laterza che continua a rendermi graditi i suoi scritti, a farmi conoscere piccoli e grandi scrittori, ed a farmi viaggiare e viaggiare ancora lungo rotte di questa nostra nonostante tutto bella Italia. O interessante. O comunque ed infine da conoscere. Come dissi altrove e ben volentieri ripeto (si sa gli anziani…), val certo la pena aver visto Timbuctù, ma vale di più se hai visto, prima o dopo, i sassi di Matera. Intanto torniamo a questo “luogo della mente”, a quest’isola non geografica che è la Romagna. Un quadrato, più o meno, tra l’Adriatico e il Falterona, tra Pesaro e Urbino e Ravenna. Cavina, fortunatamente, ci porta poco al mare, ai luoghi consueti, anche se fascinosi, come Riccione e Rimini (tra Barbara e Fellini), perché Romagna e anche (soprattutto?) entro-terra, cinghiali, monticelli, terme e castagne (tra Mariagiovanna e San Marino). Mescolando il tutto con sapienti tocchi auto e biografici. Ci parla di lui e della sua gente (e come non voler bene ad uno il cui nonno si chiama Giovanni e che Giovanni chiama il proprio figlio). Ma anche degli altri romagnoli, famosi o meno. Significativi sempre. Come Natale Zen, il primo morto della Prima Guerra Mondiale. Come Luigi Brighi detto Zaclen (che significa tacchino) l’inventore del liscio ed il padre musicale di Secondo Casadei. O come Gregorio Ricci Curbastro, che ai molti dirà poco, ma che per me è uno dei pilastri di un mio pantheon privato (è l’inventore  del calcolo differenziale assoluto che permise ad Einstein di sistematizzare matematicamente la Teoria della Relatività). Così mi risulta piena di colori e calori, questa scampagnata tra Ravenna (e come scordarsi le pagine di Barbero sull’Impero Romano d’Oriente e le sue appendici ravennati), Forlì e la sua architettura fascistizzante, Imola e i rombi dei suoi motori, su fino al Monte Falterona, tra Firenze ed Arezzo, là dove nasce il Tevere, ed ancora su verso il Monte Titano, che domina la piana digradante verso Rimini e il suo mare. Pieno di quello spirito indomito romagnolo, che fece dire a Mazzini che solo con loro avrebbe fatto l’Italia. Spirito ricco, anche, e contraddittorio, sempre tra Peppone e Don Camillo. Stupende le poche pagine, piene di ironia e frasi giuste, sul crollo della sinistra a Casole Valsenio, dove fino al ’93 aveva comandato con percentuali bulgare (si dice sempre così per un partito che viaggiava sull’80% dei consensi; e a me i bulgari stanno un po’ sui cabasisi). Ma è sempre e comunque pieno di ritratti e di storie. Dello zio Mario detto Tarzan. Della nonna Cristena e delle sue lotte infinite con il nonno Gianì (appunto Giovanni, che, tra l’altro, era l’unico socialdemocratico saragattiano del paese). Per finire anche e senza dimenticarsene, del cibo. Tortellini? Ma non proprio, che si è più verso l’Emilia. Meglio i passatelli. E tutta la scienza culinaria del figlio di Forlimpopoli, tal Pellegrino Artusi. Amici di lettura me lo avevano consigliato, forse enfatizzato un po’. Io l’ho trovato del giusto umore per sorridere un po’. E per ballare, senza timori e vergogne, quel “Romagna mia!”, dedicandolo, non so, alla soubrette di Bellaria (e se non sapete chi è, problemi vostri).
“Niente se ne va mai davvero; tutto gira, e prima o poi torna indietro da te.” (3)
“Non riordino più la mia camera perché quando raduno tutte le cose inutili che la ingolfano, poi scopro di non riuscire a separarmene, che siano vecchi biglietti d’aereo o lacci spaiati di chissà quali scarpe.” (73)
Alessandro Banda “Due mondi e io vengo dall’altro” Laterza euro 12
[A: 30/09/2012 – I: 08/10/2012 – T: 09/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 103; anno: 2012]
E non dimentichiamoci del sottotitolo: “Il Sud Tirolo detto anche Alto Adige”. Ma fatta questa premessa, su cui torneremo, il libretto “Contromano” (dal titolo della collana), mi è piaciuto anche se mi aspettavo qualcosa di più. C’è sempre presente ironia, visioni non convenzionali di luoghi e posti, ed altre analoghe caratteristiche tipiche della serie. Tuttavia è anche presente un po’ (e forse anche un po’ di più) dell’autore, e non sempre queste sortite personali hanno l’efficacia di altre analoghe dei precedenti libri della collana. Intanto diciamo che ci collochiamo per la maggior parte del tempo in quel di Merano. Ridente (più o meno) cittadina che ho visitato l’ultima volta in occasione del convegno del trentennale degli amici di Bologna, fine Novembre del 2010. Ed era una Merano in lustro: fioccava la neve, scorreva allegro il Passirio, risuonavano canti e luci dei mercatini di Natale. Banda mi riporta un po’ di tutto questo, passando per due punti fondanti del libro: il rapporto tra tedeschi e italiani e la geografia di Merano. Questa l’ho ben vista, e la condivido appieno. Quelle belle passeggiate lungo il Passirio. Quel giro a mezza costa del paese, che come apprendo da Banda si chiama “Tappeiner”. Ma soprattutto quel primo punto, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. Laddove qualcuno parlava di Alto Adige, cioè della zona sopra il grande fiume veneto, ed altri rispondeva con Sud Tirolo (o meglio Suedtirolen) indicando la zona sotto le montuosità ora austriache. Ed in mezzo cresce il giovane Alessandro, capitato in Merano per un’emigrazione decisa dal padre. Da dove cerca di sfuggire con un’onesta laurea in filologia a Padova (e qui ripenso al mio amico Panizza bibliofilo fiorentino) che, gira che ti rigira, l’unica cosa che gli porta è una cattedra di minoranza. Sì perché in questo mondo diviso in due, ci sono le quote da rispettare per salvaguardare le minoranze. Ed il nostro futuro scrittore riesce ad entrare come docente di “italiano come seconda lingua” in un liceo tedesco. E pur tuttavia, molla e vai, sempre lì ritornerai. Ad un rapporto con le lingue. Ad un chiamare le cose ognuna con un nome diverso, a volte simile, a volte completamente altro. C’è Merano – Meran, Terlano – Terlan, poi si passa a Castelrotto - Kastelruth, poi a Bolzano – Bozen, per finire a Isarco – Blumau o Vipiteno – Sterzing. E dai nomi di luogo, alle cose, financo alle persone. Laddove, da buon insegnante, non è spiacevole interrogare qualcuno che di cognome fa Marx o Heidegger. E poi Merano come luogo climatico, dove si va a cercare guarigioni (Kafka, ad esempio). Dove si aggirano poeti e letterati. Qui le parti meno felici, dove Banda si lamenta e si compatisce (certo a ragione) ma un po’ troppo. Dove compare qualche bozzetto poco riuscito nell’ironia e quindi inutilmente lungo (vedi quello di Citati). Per finire con quel forse un po’ troppo lungo capitolo, in cui non fa che lamentarsi di non essere preso in considerazione. Di essere trattato, proprio perché provinciale, come uno che non conti molto. Gli autori di città sono, quantomeno, riconosciuti, anche perché coinvolti sempre in qualche chiacchiera para-televisiva. Gli autori della provincia sembra che debbano sempre ricominciare da zero. Proprio perché ai margini, proprio perché della provincia. Ma non per questo, giocando sul doppio significato, provinciali. Mi verrebbe da rispondergli parafrasando Forrest Gump: “provinciale è chi da provinciale agisce”. Continua a scrivere invece, che lo sai fare, anche bene (e certo meglio di me, che scrivo solo piccoli pezzi, lunghi al massimo una pagina), e non ti preoccupare se qualcuno ti legge, o chi è quel qualcuno che ti legge.
“Strano come s’imprimano nella memoria certi dettagli apparentemente irrilevanti. E come poi vi permangano per anni.” (34)
“[ad un certo punto discetta di un suo amico chiamandolo amico del giaguaro, per poi, dopo quindici pagine, ricordarci l’origine del termine, ripreso da un vecchio sketch di un film di Walter Chiari del ’59:] un tizio racconta da un suo amico che ha intenzione di andare a caccia del giaguaro in Brasile; e con cosa lo vai a cacciare? Gli chiede l’amico. Ma con il fucile! E se il fucile non funziona? Ce ne ho un altro di riserva. E se non funziona nemmeno quello? Ho una pistola. E se s’inceppa? Ho qua un pugnale. E se non lo trovi? Se tu un po’, ma tu, dico, tu, sei amico mio o amico del giaguaro?” (95)
Giuseppe Culicchia “Torino è casa mia” Laterza euro 12 (in realtà, scontato 9 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 18/10/2012 – T: 22/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 177; anno: 2005-2009]
Un nuovo libro dedicato allo spostamento (nello spazio, nella mente). Mi si ricollega idealmente al primo libro che, ben prima delle trame, lessi di questa benemerita collana. Trattavasi di una descrizione, accorata e partecipata, di una zona del quartiere San Giovanni in Roma (“Senza verso” di Emanuele Trevi). E a chi a Roma vuole bene, ed anche a San Giovanni, è consigliata la lettura. Qui il discorso si allarga, e di molto. Si passa da poche strade di quartiere ad un’intera città. Ed allora dedichiamolo a chi Torino ama, e di Torino sa. Certo meglio di me, che ne ho visti brandelli nel corso degli anni, senza mai dedicarmici troppo. Rimanendo tuttavia curioso su cosa fosse e come fosse. L’autore, che penso sincero amante della città, e ben disposto anche a sottolinearne i limiti (cosa che sa fare bene solo chi veramente ama), ci prende allora per mano e ce la fa visitare, questa città che lui tratta, appunto, come fosse la sua casa. Aiutati da una per me preziosa cartina inserita in seconda di copertina, possiamo allora fare il giro di questa casa, anzi, viste le dimensioni, di questo villino di stile antico e di sapore moderno. Casa colta in un momento di passaggio, che questo libro si colloca a cavallo delle Olimpiadi invernali del 2006, che per Torino e i torinesi sono stati un evento epocale. Si entra da un ingresso, non dico trionfale, ma certo aulico, come può essere la Stazione di Porta Nuova. E poi si fa il giro della casa. Si attraversa via Roma (il corridoio). Si entra a Piazza San Carlo (il salotto, cui mi ricordo pasticcini e creme inglesi da far invidia a chi ne sa). Ci si colloca degnamente nel Quadrilatero romano (la sala da pranzo), aspettando che arrivi qualcosa da Porta Palazzo (la cucina). Mestamente, attraversando Palazzo Nuovo (lo studio), si arriva a quel conglomerato di case veramente brutte, le Vallette (la camera da letto, infatti). Certo, uno dei punti alti è il Balon (il ripostiglio, dove c’è di tutto, anche se come tutti i mercati all’aperto sempre più invaso da etnie altre). Chissà se prima o poi si riusciranno a ripulire i Murazzi del Po (il bagno)? E lo chiede un romano che aspetta da troppi anni che sia ripulito il Tevere! Per gli amanti del verde e delle piante non ci si può non affacciare al Parco del Valentino (il terrazzo). Prima di fare un salto in via Barbaroux (la cantina), e scendere a Piazza Castello (il garage), ossessionato dal rumore e dal fumo delle auto. Io, da timido artigiano, vi ho solo descritto i contorni della casa di Culicchia, che lui invece vi ci porta per mano. Scoprendo pezzi, illustrando mura, locali ed azioni. Gentile anfitrione, rinvangante fasti di una città discreta, anche se “sostenuta”. Mescolando in bella grafia luoghi ed azioni. E dandoci anche quel senso del passaggio tra la città industriale della Fabbrica Italiana Automobili Torino e l’attuale città di non so cosa (io spero di arti, lettere e cinematografia). Ironizzando sul fatto che i torinesi si sentono sempre primi in (quasi) tutto (anche se la prima squadra di calcio è “l’altra” come dice da tifoso torinista). Peccato si scordi tra i tanti primati, di sottolineare che a Torino si installò il primo teatro wagneriano d’Italia, il Teatro Regio. Tra uno zabaione e l’altro, ricordando città che non dormono mai (o non dormono più), mi ha anche fatto fare un salto nella memoria, paragonando le attuali aperture di negozi per lunghi (e notturni) orari a quelli parigini. Facendomi fare questo bagno proustiano a cercare di notte sigarette al Drugstore Publicis di Saint-Gérmain! Purtroppo ora scomparso, e rimasto solo nelle memorie mie e sue… Scritto come detto in periodo pre-olimpico, l’autore ha giustamente voluto fare un commento ed alcuni aggiustamenti post. Lamentando la mancanza di respiro prospettico nelle pur lodevoli realizzazioni architettoniche. E dandomi l’idea che questi libri itineranti abbiano bisogno, di tanto in tanto, di una risciacquatura nel moderno, così da farli evolvere in sintonia con il luogo narrato. Peccato che la revisione poteva anche permettere di correggere qualche errore di pensiero o di battitura. Far tornare a Merlin la Legge di cui a pagina 128 sulla chiusura delle case, invece di lasciarla ad una non nota Merlini. O rivedere, a pagina 43, la discesa in un bagno turco, che dicesi hammam e non hamman. C’è sempre da migliorare, allora. Ma nel complesso, ho gradito Culicchia e la sua Torino. E chissà che non si riesca a tornarci per salutare i pochi amici lontani ivi rimasti?
Tommaso Giartosio “L’O di Roma” Laterza euro 12
[A: 23/02/2012 – I: 09/12/2012 – T: 13/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 276; anno: 2012]
Un’idea luminosa alla base di questa ennesima ottima prova della collana Contromano. Per narrare di Roma (ma anche di altro) il nostro Tommaso (nome omen) si pone un compito “alla Queneau”. Prende una mappa di Roma (qualche google di questi), prende un compasso, fa centro sul centro di Roma (Piazza Venezia), apre il compasso fino a casa sua (nei dintorni della Piramide) e traccia un bel cerchio. Anzi, come la definisce lui, una “O”. E decide di fare il giro di Roma seguendo il tracciato della suddetta. E noi lo seguiamo. Nella preparazione (cartine, suggerimenti, consigli di amici), nei vincoli (dove non si passa, si porta una palletta da gettare oltre l’ostacolo, che so, un muro, il fiume, i binari dei treni), nelle decisioni (quando si incontra un palazzo, cercare di convincere uno degli inquilini a farlo transitare). Così Tommaso parte. E ci narra di questa città, dei suoi luoghi, ma anche della gente. Chi lo fa passare, chi lo blocca. Delle istituzioni (vuoi Ministeri, vuoi Aziende private, vuoi spazi “osticamente chiusi”). Ce ne parla a lungo, che il periplo occuperà circa due anni di camminate (ne fa un tratto, poi torna, poi prosegue). Ma portandolo poi sulla carta, riesce a farne una narrazione continua e non noiosa. Parte quindi dalla Piramide, attraversa Testaccio, va di là dal Tevere verso Trastevere, il Gianicolo, villa Pamphilj. Poi scende verso il Vaticano, attraversa Prati, curvando di nuovo verso il Tevere, risalendo le Belle Arti, tagliando Villa Borghese, gironzolando tra Nomentana ed il Policlinico, passando oltre Porta Pia, per tagliare verso la Biblioteca Nazionale. Si scende a San Lorenzo e si attraversa l’impervia Termini, i quartieri ormai cinesi, Porta San Giovanni, verso il Celio e, traguardando Caracalla, scendere di nuovo verso la Piramide usando la grande arteria di Viale Aventino. E lo straniante ritorno a casa dove si accorge che il primo palazzo che aveva incontrato, un tempo occupato dalle Ferrovie, ora è la sede di … Lottomatica (un saluto a fratello). Pur non essendo un grande affabulatore (si sente un po’ di solitarismo nel suo andare) la narrazione prende. Si divaga sui nomi delle vie. Si divaga sui Palazzi e sulle loro storie. Si divaga sugli architetti dell’urbanismo romano, dal generone alla Federici a tutti i palazzi dei Busiri Vici. Diventando quasi una piccola guida ad alcuni luoghi di Roma. Ma poi ci prende anche con le piccole storie. Con i barboni incontrati sul greto del Tevere vicino all’ex-Mattatoio (ed un saluto anche al Macro, via). Con le persone che gli aprono casa per fargli seguire la sua “O”. Con gli scontri (come detto) con le istituzioni, o con le ambasciate, come Villa Abamelek impenetrabile ma dotata dell’imprevedibile cupola ortodossa di Santa Caterina. E le caserme nella zona Prati. Le storie della Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio e della caserma Macao. L’incontro fortuito, che da lì passava la “O” con un suo sodale di gioventù. Sempre in bilico tra presente, momenti storici e l’idea del grande cerchio, di girare sempre in tondo senza fermarsi. Come un sogno infantile che finalmente si realizza. Qui ogni tanto Tommaso si incarta un po’ su questa forza che lo spinge a girare e sul sé bambino che ritrova ad ogni passo (e non a caso si porta la palletta). Ma alla fine rimane una bella camminata, quasi una guida alternativa a Roma ed alle sue contraddizioni: tra accoglienza e rifiuto, tra stranieri integrati ed ai margini, tra romani chiusi ed aperti. Io, che come si sa voglio un gran bene a questa città, l’ho seguito passo dopo passo. Che riconosco le strade ed i palazzi, magari i bar ed altri punti fermi della mia (e non di Tommaso) Roma. Venendo quasi la voglia di completarne a margine dei punti (soprattutto in questo mio quartiere di confine tra borghi e rioni, e nella mia via, questa Santamaura che non è dedicata alla martire cristiana, ma all’isola forse tomba di Saffo dove nel 1684 il veneto ammiraglio Morosini sconfisse i turchi). Ma tant’è, per ora si continui a girare in tondo con Giartosio.
“Identificandoci con le nostre difficoltà potevamo renderle nostre alleate. Non bisogna opporre resistenza né fuggire dal problema, ma entrare in esso, far parte di esso, usarlo come elemento di liberazione.” (90)
“Mi viene da pensare, come Pinocchio: questo paese non è fatto per me! Io non sono nato per lavorare!” (172)
“Mi fa pensare a qualcosa di Wenders … ‘Nel corso del tempo’, storia di un viaggio e basta:” (197)
 “Il desiderio di scrivere, penso, nasce dal gusto infantile di contare fino a mille, trattenere il respiro, bilanciarsi sulla ringhiera, scendere in cantina al buio, e fare altre cose difficoltose o faticose o pericolose o paurose ma soprattutto inutili.” (222)
“È vivo [solo] ciò che lentamente muore.” (240)
“Sono sconvolto. Come quando vedi di essere invecchiato. Lo sapevi, no? Come il nonno di Paul Auster che in ospedale si guarda le mani rugose: - Che strano che questo sia capitato a un bambino.” (266)
Settimana di preparazione, con un occhio ad Avventure che non avvengono ancora, e molte “mani” a pensar pacchi e studiare ristrutturazioni. Si riuscirà, di certo, e se ne vedranno delle belle. Attendiamo pazienti

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