Tutti sanno che essendo un
viaggiatore viaggiante (come direbbe Fossati) non solo adoro viaggiare ma anche
parlarne e leggerne. E visto che la nostra Italia è tuttora (e speriamo ancora)
un Bel Paese, non perdo l’occasione di leggerne, riuscendo ad infilare qui
quattro libri degni di lettura. Due città e due regioni. Una Roma vista
percorrendola a piedi (e dove mi ritrovo a guardare i posti che so e che rivedo
ad ogni descrizione) ed una Torino descritta a mo’ di casa (e sebbene la conosca
meno, la segue e ne capisco). E poi la Romagna, sul cui confine ormai spesso mi
ritrovo in questi ultimi anni. Ed il Sud Tirolo, che mi riporta amicizie
attuali e ricordi lontani (e mi ha ricordo quella bellissima gag che riporto in
citazione).
Cristiano Cavina “Romagna mia!” Laterza euro 12
[A: 16/09/2012 – I: 22/09/2012 – T: 26/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 122;
anno: 2012]
Intanto,
cominciamo con delle scuse a Cavina: sono andato a rileggere la trama che avevo
fatto del suo primo libro (“Alla grande” tramato a febbraio del 2011), dove
avevo scritto che era Emiliano. No! Anche se Casole Valsenio è quasi a Castel
San Pietro, siamo proprio in Romagna. E questo lungo canto d’amore per la sua
terra ce ne porta gusti, radici, passati e possibili futuri. Secondo poi un
plauso all’ideatore di questa collana di Laterza che continua a rendermi
graditi i suoi scritti, a farmi conoscere piccoli e grandi scrittori, ed a
farmi viaggiare e viaggiare ancora lungo rotte di questa nostra nonostante
tutto bella Italia. O interessante. O comunque ed infine da conoscere. Come
dissi altrove e ben volentieri ripeto (si sa gli anziani…), val certo la pena
aver visto Timbuctù, ma vale di più se hai visto, prima o dopo, i sassi di
Matera. Intanto torniamo a questo “luogo della mente”, a quest’isola non
geografica che è la Romagna. Un quadrato, più o meno, tra l’Adriatico e il
Falterona, tra Pesaro e Urbino e Ravenna. Cavina, fortunatamente, ci porta poco
al mare, ai luoghi consueti, anche se fascinosi, come Riccione e Rimini (tra
Barbara e Fellini), perché Romagna e anche (soprattutto?) entro-terra,
cinghiali, monticelli, terme e castagne (tra Mariagiovanna e San Marino).
Mescolando il tutto con sapienti tocchi auto e biografici. Ci parla di lui e
della sua gente (e come non voler bene ad uno il cui nonno si chiama Giovanni e
che Giovanni chiama il proprio figlio). Ma anche degli altri romagnoli, famosi
o meno. Significativi sempre. Come Natale Zen, il primo morto della Prima
Guerra Mondiale. Come Luigi Brighi detto Zaclen (che significa tacchino)
l’inventore del liscio ed il padre musicale di Secondo Casadei. O come Gregorio
Ricci Curbastro, che ai molti dirà poco, ma che per me è uno dei pilastri di un
mio pantheon privato (è l’inventore del
calcolo differenziale assoluto che permise ad Einstein di sistematizzare
matematicamente la Teoria della Relatività). Così mi risulta piena di colori e
calori, questa scampagnata tra Ravenna (e come scordarsi le pagine di Barbero
sull’Impero Romano d’Oriente e le sue appendici ravennati), Forlì e la sua
architettura fascistizzante, Imola e i rombi dei suoi motori, su fino al Monte
Falterona, tra Firenze ed Arezzo, là dove nasce il Tevere, ed ancora su verso
il Monte Titano, che domina la piana digradante verso Rimini e il suo mare.
Pieno di quello spirito indomito romagnolo, che fece dire a Mazzini che solo
con loro avrebbe fatto l’Italia. Spirito ricco, anche, e contraddittorio,
sempre tra Peppone e Don Camillo. Stupende le poche pagine, piene di ironia e
frasi giuste, sul crollo della sinistra a Casole Valsenio, dove fino al ’93
aveva comandato con percentuali bulgare (si dice sempre così per un partito che
viaggiava sull’80% dei consensi; e a me i bulgari stanno un po’ sui cabasisi).
Ma è sempre e comunque pieno di ritratti e di storie. Dello zio Mario detto
Tarzan. Della nonna Cristena e delle sue lotte infinite con il nonno Gianì
(appunto Giovanni, che, tra l’altro, era l’unico socialdemocratico saragattiano
del paese). Per finire anche e senza dimenticarsene, del cibo. Tortellini? Ma
non proprio, che si è più verso l’Emilia. Meglio i passatelli. E tutta la
scienza culinaria del figlio di Forlimpopoli, tal Pellegrino Artusi. Amici di
lettura me lo avevano consigliato, forse enfatizzato un po’. Io l’ho trovato
del giusto umore per sorridere un po’. E per ballare, senza timori e vergogne,
quel “Romagna mia!”, dedicandolo, non so, alla soubrette di Bellaria (e se non
sapete chi è, problemi vostri).
“Niente se ne va mai davvero; tutto gira, e prima o poi torna indietro
da te.” (3)
“Non riordino più la mia camera perché quando raduno tutte le cose
inutili che la ingolfano, poi scopro di non riuscire a separarmene, che siano
vecchi biglietti d’aereo o lacci spaiati di chissà quali scarpe.” (73)
Alessandro Banda “Due mondi e io vengo dall’altro” Laterza euro 12
[A: 30/09/2012 – I: 08/10/2012 – T: 09/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 103;
anno: 2012]
E
non dimentichiamoci del sottotitolo: “Il Sud Tirolo detto anche Alto Adige”. Ma
fatta questa premessa, su cui torneremo, il libretto “Contromano” (dal titolo
della collana), mi è piaciuto anche se mi aspettavo qualcosa di più. C’è sempre
presente ironia, visioni non convenzionali di luoghi e posti, ed altre analoghe
caratteristiche tipiche della serie. Tuttavia è anche presente un po’ (e forse
anche un po’ di più) dell’autore, e non sempre queste sortite personali hanno
l’efficacia di altre analoghe dei precedenti libri della collana. Intanto
diciamo che ci collochiamo per la maggior parte del tempo in quel di Merano.
Ridente (più o meno) cittadina che ho visitato l’ultima volta in occasione del
convegno del trentennale degli amici di Bologna, fine Novembre del 2010. Ed era
una Merano in lustro: fioccava la neve, scorreva allegro il Passirio,
risuonavano canti e luci dei mercatini di Natale. Banda mi riporta un po’ di
tutto questo, passando per due punti fondanti del libro: il rapporto tra
tedeschi e italiani e la geografia di Merano. Questa l’ho ben vista, e la
condivido appieno. Quelle belle passeggiate lungo il Passirio. Quel giro a
mezza costa del paese, che come apprendo da Banda si chiama “Tappeiner”. Ma
soprattutto quel primo punto, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro.
Laddove qualcuno parlava di Alto Adige, cioè della zona sopra il grande fiume veneto,
ed altri rispondeva con Sud Tirolo (o meglio Suedtirolen) indicando la zona
sotto le montuosità ora austriache. Ed in mezzo cresce il giovane Alessandro,
capitato in Merano per un’emigrazione decisa dal padre. Da dove cerca di
sfuggire con un’onesta laurea in filologia a Padova (e qui ripenso al mio amico
Panizza bibliofilo fiorentino) che, gira che ti rigira, l’unica cosa che gli
porta è una cattedra di minoranza. Sì perché in questo mondo diviso in due, ci
sono le quote da rispettare per salvaguardare le minoranze. Ed il nostro futuro
scrittore riesce ad entrare come docente di “italiano come seconda lingua” in
un liceo tedesco. E pur tuttavia, molla e vai, sempre lì ritornerai. Ad un
rapporto con le lingue. Ad un chiamare le cose ognuna con un nome diverso, a
volte simile, a volte completamente altro. C’è Merano – Meran, Terlano –
Terlan, poi si passa a Castelrotto - Kastelruth, poi a Bolzano – Bozen, per
finire a Isarco – Blumau o Vipiteno – Sterzing. E dai nomi di luogo, alle cose,
financo alle persone. Laddove, da buon insegnante, non è spiacevole interrogare
qualcuno che di cognome fa Marx o Heidegger. E poi Merano come luogo climatico,
dove si va a cercare guarigioni (Kafka, ad esempio). Dove si aggirano poeti e
letterati. Qui le parti meno felici, dove Banda si lamenta e si compatisce
(certo a ragione) ma un po’ troppo. Dove compare qualche bozzetto poco riuscito
nell’ironia e quindi inutilmente lungo (vedi quello di Citati). Per finire con
quel forse un po’ troppo lungo capitolo, in cui non fa che lamentarsi di non
essere preso in considerazione. Di essere trattato, proprio perché provinciale,
come uno che non conti molto. Gli autori di città sono, quantomeno,
riconosciuti, anche perché coinvolti sempre in qualche chiacchiera
para-televisiva. Gli autori della provincia sembra che debbano sempre ricominciare
da zero. Proprio perché ai margini, proprio perché della provincia. Ma non per
questo, giocando sul doppio significato, provinciali. Mi verrebbe da
rispondergli parafrasando Forrest Gump: “provinciale è chi da provinciale
agisce”. Continua a scrivere invece, che lo sai fare, anche bene (e certo meglio
di me, che scrivo solo piccoli pezzi, lunghi al massimo una pagina), e non ti
preoccupare se qualcuno ti legge, o chi è quel qualcuno che ti legge.
“Strano come s’imprimano nella memoria certi
dettagli apparentemente irrilevanti. E come poi vi permangano per anni.” (34)
“[ad un certo punto discetta di un suo amico
chiamandolo amico del giaguaro, per poi, dopo quindici pagine, ricordarci
l’origine del termine, ripreso da un vecchio sketch di un film di Walter Chiari
del ’59:] un tizio racconta da un suo amico che ha intenzione di andare a
caccia del giaguaro in Brasile; e con cosa lo vai a cacciare? Gli chiede
l’amico. Ma con il fucile! E se il fucile non funziona? Ce ne ho un altro di
riserva. E se non funziona nemmeno quello? Ho una pistola. E se s’inceppa? Ho
qua un pugnale. E se non lo trovi? Se tu un po’, ma tu, dico, tu, sei amico mio
o amico del giaguaro?” (95)
Giuseppe Culicchia “Torino è casa mia” Laterza euro 12 (in realtà,
scontato 9 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 18/10/2012 – T: 22/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 177;
anno: 2005-2009]
Un nuovo libro dedicato allo
spostamento (nello spazio, nella mente). Mi si ricollega idealmente al primo
libro che, ben prima delle trame, lessi di questa benemerita collana.
Trattavasi di una descrizione, accorata e partecipata, di una zona del
quartiere San Giovanni in Roma (“Senza verso” di Emanuele Trevi). E a chi a
Roma vuole bene, ed anche a San Giovanni, è consigliata la lettura. Qui il
discorso si allarga, e di molto. Si passa da poche strade di quartiere ad
un’intera città. Ed allora dedichiamolo a chi Torino ama, e di Torino sa. Certo
meglio di me, che ne ho visti brandelli nel corso degli anni, senza mai
dedicarmici troppo. Rimanendo tuttavia curioso su cosa fosse e come fosse.
L’autore, che penso sincero amante della città, e ben disposto anche a
sottolinearne i limiti (cosa che sa fare bene solo chi veramente ama), ci
prende allora per mano e ce la fa visitare, questa città che lui tratta,
appunto, come fosse la sua casa. Aiutati da una per me preziosa cartina
inserita in seconda di copertina, possiamo allora fare il giro di questa casa,
anzi, viste le dimensioni, di questo villino di stile antico e di sapore
moderno. Casa colta in un momento di passaggio, che questo libro si colloca a
cavallo delle Olimpiadi invernali del 2006, che per Torino e i torinesi sono
stati un evento epocale. Si entra da un ingresso, non
dico trionfale, ma certo aulico, come può essere la Stazione di Porta Nuova. E
poi si fa il giro della casa. Si attraversa via Roma (il corridoio). Si entra a
Piazza San Carlo (il salotto, cui mi ricordo pasticcini e creme inglesi da far
invidia a chi ne sa). Ci si colloca degnamente nel Quadrilatero romano (la sala
da pranzo), aspettando che arrivi qualcosa da Porta Palazzo (la cucina).
Mestamente, attraversando Palazzo Nuovo (lo studio), si arriva a quel
conglomerato di case veramente brutte, le Vallette (la camera da letto, infatti).
Certo, uno dei punti alti è il Balon (il ripostiglio, dove c’è di tutto, anche
se come tutti i mercati all’aperto sempre più invaso da etnie altre). Chissà se
prima o poi si riusciranno a ripulire i Murazzi del Po (il bagno)? E lo chiede
un romano che aspetta da troppi anni che sia ripulito il Tevere! Per gli amanti
del verde e delle piante non ci si può non affacciare al Parco del Valentino
(il terrazzo). Prima di fare un salto in via Barbaroux (la cantina), e scendere
a Piazza Castello (il garage), ossessionato dal rumore e dal fumo delle auto.
Io, da timido artigiano, vi ho solo descritto i contorni della casa di
Culicchia, che lui invece vi ci porta per mano. Scoprendo pezzi, illustrando
mura, locali ed azioni. Gentile anfitrione, rinvangante fasti di una città
discreta, anche se “sostenuta”. Mescolando in bella grafia luoghi ed azioni. E
dandoci anche quel senso del passaggio tra la città industriale della Fabbrica
Italiana Automobili Torino e l’attuale città di non so cosa (io spero di arti,
lettere e cinematografia). Ironizzando sul fatto che i torinesi si sentono
sempre primi in (quasi) tutto (anche se la prima squadra di calcio è “l’altra”
come dice da tifoso torinista). Peccato si scordi tra i tanti primati, di
sottolineare che a Torino si installò il primo teatro wagneriano d’Italia, il
Teatro Regio. Tra uno zabaione e l’altro, ricordando città che non dormono mai
(o non dormono più), mi ha anche fatto fare un salto nella memoria, paragonando
le attuali aperture di negozi per lunghi (e notturni) orari a quelli parigini.
Facendomi fare questo bagno proustiano a cercare di notte sigarette al
Drugstore Publicis di Saint-Gérmain! Purtroppo ora scomparso, e rimasto solo
nelle memorie mie e sue… Scritto come detto in periodo pre-olimpico, l’autore
ha giustamente voluto fare un commento ed alcuni aggiustamenti post. Lamentando
la mancanza di respiro prospettico nelle pur lodevoli realizzazioni
architettoniche. E dandomi l’idea che questi libri itineranti abbiano bisogno,
di tanto in tanto, di una risciacquatura nel moderno, così da farli evolvere in
sintonia con il luogo narrato. Peccato che la revisione poteva anche permettere
di correggere qualche errore di pensiero o di battitura. Far tornare a Merlin
la Legge di cui a pagina 128 sulla chiusura delle case, invece di lasciarla ad
una non nota Merlini. O rivedere, a pagina 43, la discesa in un bagno turco,
che dicesi hammam e non hamman. C’è sempre da migliorare,
allora. Ma nel complesso, ho gradito Culicchia e la sua Torino. E chissà che
non si riesca a tornarci per salutare i pochi amici lontani ivi rimasti?
Tommaso Giartosio “L’O di Roma” Laterza euro 12
[A: 23/02/2012 – I: 09/12/2012 – T: 13/12/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 276;
anno: 2012]
Un’idea
luminosa alla base di questa ennesima ottima prova della collana Contromano.
Per narrare di Roma (ma anche di altro) il nostro Tommaso (nome omen) si pone
un compito “alla Queneau”. Prende una mappa di Roma (qualche google di questi),
prende un compasso, fa centro sul centro di Roma (Piazza Venezia), apre il
compasso fino a casa sua (nei dintorni della Piramide) e traccia un bel
cerchio. Anzi, come la definisce lui, una “O”. E decide di fare il giro di Roma
seguendo il tracciato della suddetta. E noi lo seguiamo. Nella preparazione
(cartine, suggerimenti, consigli di amici), nei vincoli (dove non si passa, si
porta una palletta da gettare oltre l’ostacolo, che so, un muro, il fiume, i
binari dei treni), nelle decisioni (quando si incontra un palazzo, cercare di
convincere uno degli inquilini a farlo transitare). Così Tommaso parte. E ci
narra di questa città, dei suoi luoghi, ma anche della gente. Chi lo fa
passare, chi lo blocca. Delle istituzioni (vuoi Ministeri, vuoi Aziende
private, vuoi spazi “osticamente chiusi”). Ce ne parla a lungo, che il periplo
occuperà circa due anni di camminate (ne fa un tratto, poi torna, poi
prosegue). Ma portandolo poi sulla carta, riesce a farne una narrazione
continua e non noiosa. Parte quindi dalla Piramide, attraversa Testaccio, va di
là dal Tevere verso Trastevere, il Gianicolo, villa Pamphilj. Poi scende verso
il Vaticano, attraversa Prati, curvando di nuovo verso il Tevere, risalendo le
Belle Arti, tagliando Villa Borghese, gironzolando tra Nomentana ed il
Policlinico, passando oltre Porta Pia, per tagliare verso la Biblioteca Nazionale.
Si scende a San Lorenzo e si attraversa l’impervia Termini, i quartieri ormai
cinesi, Porta San Giovanni, verso il Celio e, traguardando Caracalla, scendere
di nuovo verso la Piramide usando la grande arteria di Viale Aventino. E lo
straniante ritorno a casa dove si accorge che il primo palazzo che aveva
incontrato, un tempo occupato dalle Ferrovie, ora è la sede di … Lottomatica
(un saluto a fratello). Pur non essendo un grande affabulatore (si sente un po’
di solitarismo nel suo andare) la narrazione prende. Si divaga sui nomi delle
vie. Si divaga sui Palazzi e sulle loro storie. Si divaga sugli architetti
dell’urbanismo romano, dal generone alla Federici a tutti i palazzi dei Busiri
Vici. Diventando quasi una piccola guida ad alcuni luoghi di Roma. Ma poi ci
prende anche con le piccole storie. Con i barboni incontrati sul greto del
Tevere vicino all’ex-Mattatoio (ed un saluto anche al Macro, via). Con le
persone che gli aprono casa per fargli seguire la sua “O”. Con gli scontri
(come detto) con le istituzioni, o con le ambasciate, come Villa Abamelek impenetrabile
ma dotata dell’imprevedibile cupola ortodossa di Santa Caterina. E le caserme
nella zona Prati. Le storie della Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio e
della caserma Macao. L’incontro fortuito, che da lì passava la “O” con un suo
sodale di gioventù. Sempre in bilico tra presente, momenti storici e l’idea del
grande cerchio, di girare sempre in tondo senza fermarsi. Come un sogno
infantile che finalmente si realizza. Qui ogni tanto Tommaso si incarta un po’
su questa forza che lo spinge a girare e sul sé bambino che ritrova ad ogni
passo (e non a caso si porta la palletta). Ma alla fine rimane una bella
camminata, quasi una guida alternativa a Roma ed alle sue contraddizioni: tra
accoglienza e rifiuto, tra stranieri integrati ed ai margini, tra romani chiusi
ed aperti. Io, che come si sa voglio un gran bene a questa città, l’ho seguito
passo dopo passo. Che riconosco le strade ed i palazzi, magari i bar ed altri
punti fermi della mia (e non di Tommaso) Roma. Venendo quasi la voglia di
completarne a margine dei punti (soprattutto in questo mio quartiere di confine
tra borghi e rioni, e nella mia via, questa Santamaura che non è dedicata alla
martire cristiana, ma all’isola forse tomba di Saffo dove nel 1684 il veneto
ammiraglio Morosini sconfisse i turchi). Ma tant’è, per ora si continui a
girare in tondo con Giartosio.
“Identificandoci con le nostre difficoltà
potevamo renderle nostre alleate. Non bisogna opporre resistenza né fuggire dal
problema, ma entrare in esso, far parte di esso, usarlo come elemento di liberazione.”
(90)
“Mi viene da pensare, come Pinocchio: questo
paese non è fatto per me! Io non sono nato per lavorare!” (172)
“Mi fa pensare a qualcosa di Wenders … ‘Nel
corso del tempo’, storia di un viaggio e basta:” (197)
“Il
desiderio di scrivere, penso, nasce dal gusto infantile di contare fino a
mille, trattenere il respiro, bilanciarsi sulla ringhiera, scendere in cantina
al buio, e fare altre cose difficoltose o faticose o pericolose o paurose ma
soprattutto inutili.” (222)
“È vivo [solo] ciò che lentamente muore.”
(240)
“Sono sconvolto. Come quando vedi di essere
invecchiato. Lo sapevi, no? Come il nonno di Paul Auster che in ospedale si
guarda le mani rugose: - Che strano che questo sia capitato a un bambino.”
(266)
Settimana di preparazione, con un
occhio ad Avventure che non avvengono ancora, e molte “mani” a pensar pacchi e
studiare ristrutturazioni. Si riuscirà, di certo, e se ne vedranno delle belle.
Attendiamo pazienti
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