lunedì 14 gennaio 2013

Insalata italiana - 13 gennaio 2013


Nel senso che sarebbe russa come fattura, cioè romanzi, racconti ed altro messi insieme a dar sapore, e legati tra loro magari da una splendida maionese fatta a mano. Ma non essendo russi, li prendiamo così come sono, cioè italiani. Due grosse delusioni: una perché di un libro regalato che speravo fosse migliore (ma poi conoscendo meglio l’autore non me ne sono meravigliato) ed una del mio caro psicologo ligure, che altrove mostra meglio di sé. Le altre prove, di autori noti, pur non eccelse, ne sono almeno meglio: le solite storie di Vigata senza Montalbano ed alcuni racconti del mio amato storico torinese, altrove meglio esprimentesi.
Massimo Gramellini “L’ultima riga delle favole” Tea s.p. (regalo di A)
[A: 15/08/2012 – I: 15/08/2012 – T: 23/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 259; anno: 2010]
Si può parlare male di un libro regalato? Secondo me, si può e si deve. Perché regalare un libro è sempre un atto d’amore, ed a me piace riceverli, irrilevantemente se piacciano o meno al donatore. La mia “onestà” di lettore mi costringe alla fine di dire cosa ne penso, sapendo che tutti (donatore, tramatore e destinatari) ne trarranno le personali conseguenze. Ora di questo libro di Gramellini io non posso parlarne bene. Non ho letto altro del plurilodato autore, né ho seguito le sue rubriche in televisione, quindi non posso dire di essere prevenuto. Ma questo libro mi ha profondamente deluso. È furbetto, cerca di ammiccare, ed è farcito di frasi ad effetto, quasi che Gramellini cerchi di fare il Coelho o il Redfield (quello della profezia dei celestini) di casa nostra. Tra l’altro mi si dice che più volte, nelle sue melensaggini scritte, il nostro è stato epigrafato come un Alberoni in salsa new age. L’unica idea interessante è il titolo e come potrebbe essere sviluppato. Perché tutti si domandano se l’ultima riga delle favole, quello sdolcinato “e vivessero felici e contenti” abbia un suo senso reale. Non poche ricordo di quasi - parodie dove si facevano continuare le suddette favole oltre la loro fine, per trovare principesse che si stufano di principi ranocchi o cenerentole che decidono di emanciparsi o altre facili ironie. Potrebbe essere una frase con un suo perché anche se si riuscisse a sviluppare bene il percorso per arrivarci. Poteva preludere ad un romanzo che ne approfondisse il senso, che distinguesse tra favole e realtà. Oppure, ed infine, poteva essere solo una frase di commento ad una storia che non è detto debba in ogni caso sviluppare un tema come se si fosse al liceo. Invece che fa il nostro? Parte da qui, per imbastire una “scalata verso la purezza” dell’eroe del romanzo, il bel Tomas, che, fallito un appuntamento con la bella Arianna, sta per annegare in mare. E come tutti sanno, quando si sta per annegare (o in genere per morire), tutta la tua vita ti passa nella testa. E ti domandi dove hai sbagliato, dove potevi fare scelte diverse. Gramellini, allora, come in mille e mille altri romanzi è già stato scritto e sviluppato, imbastisce una storia di un mondo dove i “quasi - morti” passano al setaccio la propria vita, per fare sette passi verso la perfezione. Qui vengono fuori tutta la serie di frasi fatte e ad effetto, sulla falsariga di alcune che riporto in calce. Con tutta una sequela di situazioni scontate, di pagine su pagine che non aggiungono nulla. Tomas non fa un reale riesame di se stesso (ed un bravo psicologo saprebbe consigliarlo sui passi da effettuare in questo caso). Così come non lo fanno gli altri quasi - morti, il negativo, che alla fine ritornerà all'inizio del gioco dell’oca perché non ha capito nulla, e la positiva - svampita, che in fondo, solidarizzando con Tomas, trova una sua via di uscita. Ed alla fine ci si aspetta una conclusione, ed invece no. Perché è molto più furbetto lasciare qualcosa di aperto. Quindi Tomas non si sa se farà colpo sulla bella Arianna. Ma ha fatto il suo percorso. Ora sa che la sua virtù, quella per cui vale la pena di vivere, è l’empatia con gli altri. E conosciuto se stesso, starà meglio. Indizi ci fanno capire che ritroverà la sua anima gemella, ma (e per fortuna) Gramellini si ferma prima. Se vi vengono in mente epiteti irripetibili fate pure. Io preferisco tacere, e gridar forte: non leggetelo! Non buttate via questi pochi euro, saranno comunque più utili altrove, magari con qualche gelato al cioccolato che ci rinfreschi nell'arsura estiva (come nel tempo della lettura) o del cioccolato caldo che ci riscaldi (come ora per voi che leggete).
“I se sono la patente dei falliti. Nella vita si diventa grandi nonostante.” (53)
“L’amore è una meta che si raggiunge in due, a condizione di aver trovato la strada da soli.” (106)
“Ho passato la vita a desiderare che fosse la persona giusta. Il guaio è che una persona non diventa giusta solo perché tu lo desideri.” (194)
Andrea Camilleri “La Regina di Pomerania e altre storie di Vigata” Sellerio euro 14
[A: 25/03/2012 – I: 17/10/2012 – T: 21/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 303; anno: 2012]
Ancora storie di Vigata, prima di tornare (si spera presto e con piacere) alle storie di Salvo Montalbano. Continua ad essere piacevole la scrittura del “vecchio di Porto Empedocle”, anche se queste storie hanno soltanto un’identità di luoghi, e non sempre di personaggi ed azioni. In fondo non sono altro che bozzetti, acquarelli del paesaggio dell’entroterra e della marina ragusana, in quell'ottimo posto inventato/incantato che è Vigata. Nonché il suo corrispettivo interno di Montelusa. Benché appunto di identità di luoghi si parla (e quindi spesso di modalità similari di approcciare le situazioni) non siamo in presenza di un affresco a grandi tinte di un luogo e dei suoi abitanti, come, ripeto, la serie pressoché innumerabile, delle storie di Andrea Vitali e della cittadina di Bellano. Inoltre, e non è un dettaglio minore, siamo anche in presenza di racconti e non di romanzi. Storie che si esauriscono al di sotto della cinquantina di pagine. Ed in questo numero esiguo devono far entrare la descrizione dell’atmosfera e dei personaggi principali, l’enunciazione dell’elemento specifico che scatena il racconto, e lo svolgimento dello stesso. Non sempre Camilleri ha interesse, o intenzione, di sviluppare tutti gli elementi della catena, perché si può anche lavorare per ellissi (non certo con quella prosopopea che descrive e presuppone l’estensore delle note, il da me sempre osteggiato Salvatore Silvano Nigro), l’importante è il messaggio che si manda. E non tutte le storie hanno la stessa solidità e presenza. Alcune sono anche sorrette da almeno un’idea non bislacca, altre scorrono un po’ così, lasciando non dico l’amaro in bocca, ma quanto meno un po’ di dubbi in testa sul senso e sulle intenzioni. Molto intelligente, ad esempio, l’idea di una Giulietta che ragiona rispetto ad un Romeo un po’ tonto. Ed anche sulle sedute spiritiche, dove ci s’immerge un po’ nelle credenze popolari, ed un po’ nella credulità, per sfruttarla verso propri fini (questa l’ho già vista anche altrove). E perché no, sui duellanti – gelatai, emblemi di una storia che vede acerrimi nemici combattersi con ogni mezzo, ma certamente nella scoperta di un reciproco rispetto. E sicuramente sulla storia della “santa – prostituta” e del figlio di padre ignoto, anche qui andando con l’ingenuità della verità a scoperchiare pentole da lasciar chiuse. Con un suo finale forse ingenuo o forse no. Discreta la storia delle scarpe, abile pittura di un mondo contadino nel trapasso verso “una” civiltà, forse solo un po’ scontato. Già sentita altrove quella delle lettere anonime, racconto anche qui teso alla dimostrazione della potenza della maldicenza (ma non porta tanti nuovi elementi). Meno intrigante la storia del marchese cinquantino che non si vuole sposare (idea di partenza buona, che si evolve in altro, perdendosi per strada, tanto che non sappiamo la fine della famosa eredità iniziale, per finire con un’inutile gelosia che porta ad un altrettanto inutile finale). Lascia un po’ senza un vero perché la storia del titolo, che già di partenza si capisce trattarsi dell’organizzazione di una truffa in grande stile, che ci aspettiamo solo di capire quanto grande. Che si rivela esattamente per quello che è, ma senza un rivolo di consequenzialità, soltanto per sottolineare quanto si possa essere creduloni se abbagliati da perle, lucette e, soprattutto, sorrisetti femminili. L’unica abilità di questo racconto, è quella di imbastire idee strampalate con fatti reali. Reali come l’esistenza della Pomerania, regione contesa tra Polonia e Germania, e per pochi attimi assurta a volere indipendenza (per chi ne fosse ignoto, le due maggiori città della Pomerania sono in italiano Danzica e Stettino). O come quella del volpino di Pomerania, cane pregiato ed ivi originario, or meglio noto perché docile e amato dalle star cinematografiche. Ma non graffia. Come purtroppo, non graffia tutto il libro del nostro autore. Rimane solo la “beltà” di leggere una scrittura in lingua, come se si capisse tutto. Non è vero, ma piacevolmente fluisce sotto i nostri cuori. Aspettiamo il ritorno di Salvo, allora.
Alessandro Barbero “New York, 14^” Barbera editore 7,90 (in realtà, scontato 6,72 euro)
[A: 01/11/2012 – I: 05/11/2012 – T: 05/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 76; anno: 2012]
Ho letto saggi del nostro autore di cui ho spesso parlato, ho iniziato a leggerne un romanzo di cui parlerò. Nel mentre mi è capitato questo libretto con 4 racconti. Preso, letto, digerito. Anche se non ha la profondità immediata delle sue esposizioni storiche, la scrittura di Barbero risulta tuttavia gradevole. Sembra aver appreso l’arte del raccontare, ed affabula senza sovraccaricare (troppo) il testo di altro. Non è, come altri, teso a dover dimostrare qualcosa, o a comunicare forzatamente un messaggio. Tuttavia la scrittura e la resa del testo sono di ben diversa intensità. Gradevoli ed anche piacevolmente coinvolgenti i primi due scritti. Scontato il quarto (di cui si immagina la fine fin dall'inizio, e scusate il bisticcio). Inutile il terzo, con quelle frettolose visioni di momenti di fuga, ambientandosi nel 1989 all'epoca della ritirata dall'Afghanistan dell’armata russa. E dove l’autore cerca di cogliere alcuni momenti del disfacimento al sole di quel rovinoso, per i sovietici, decennio. Ma queste appunto rimangono parole un po’ sospese, che neanche suscitano troppo sorriso. Forse pianto, ma non per loro, ma per quello che sarà poi. E questo non è merito del testo, ma delle vicende storiche. Non è così che si valorizzano le parole. Come nel quarto, dove l’aggirarsi di un potente per la Parigi deserta, ce ne fa cogliere elementi prefiguranti. Ma quando il potente si rivolge ad una chiromante già capiamo qualche retroscena, e immaginiamo il resto del racconto. Anche qui poco piacere di lettura. Meglio, come detto, i primi due. Quello che dà il titolo al libro, e che in realtà è il secondo, e che riesce, nonostante non vada nel profondo della vicenda, a darci una sensazione di un certo tipo di America, un po’ sbandata, molto ai margini, che si arrangia per sbarcare il lunario. E che accetta di tutto, anche di usare il proprio corpo senza sapere cosa possa succedergli. Il primo, invece, è quello che più mi ha soddisfatto, coinvolto ed interessato. Innanzi tutto, si svolge a Torino, e già si vede che parlando di casa propria, il buon Barbero ha più frecce al proprio arco. Ha più situazioni che conosce e di cui può parlare, svelandone i retroscena, o adombrandone possibili scenari. Seguiamo quindi nel breve volgere di una serata, le vicende di una senza casa, Heidi dai capelli rossi. Siamo a Porta Nuova alla stazione, e lì (come in tutte le stazioni del mondo) si svolgono momenti di vita e si srotolano microcosmi di avvenimenti. C’è il fast food, tra McDonald’s e Spizzico, con l’inserviente anziana e buonina, che riserva sempre un piatto di avanzi alla nostra Heidi. C’è il bar aperto sino a tardi, dove si attardano albanesi non tanto buoni, pronti ad eccedere nel bere e nel malaffare. C’è la ragazzina che si è persa, cui offrono aiuto sia Heidi che l’albanese. Ed indovinate chi avrà la meglio. C’è l’addetta ad un ignoto magazzino, che offre ad Heidi un posto per accoccolarsi la notte. C’è ancora Heidi che gira tutto il giorno vendendo il giornale dei senza tetto, per racimolare quei pochi spiccioli non per il futuro, ma per arrivare alla sera. Non ci sono giudizi, non ci sono moralismi. Una piccola dolorosa foto. Che non sappiamo cosa era prima Heidi e cosa sarà dopo la fine del testo. La vediamo lì, molto più umana di tanti umani. Ad esempio, nel chiedere elemosina, non millantando, come tanti profughi dell’Est che vediamo nelle nostre stazioni, un improbabile bisogno di spiccioli per un altrettanto improbabile biglietto del treno. No, lei ne ha bisogno per sé. E per sé lo chiede. Al massimo, appunto, vendendo il giornale. Ma questo è tutto quanto concede. Ecco questa prima scrittura è piena, e riesce in poche pagine, a coinvolgere e svolgere il proprio mestiere. Cosa che avviene meno e meno bene con gli altri, come già detto. Vedremo ora nei romanzi, quale sarà il modo narrativo di Barbero. Ma le premesse sono buone. (P.S. di natura filologica: i semi di girasole si sbucciano, come direi io, o si sgusciano, come dice Barbero?).
Lorenzo Licalzi “La vita che volevo” BUR euro 9,90
[A: 13/05/2012 – I: 20/11/2012 – T: 22/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 197; anno: 2009]
Altra cocente delusione: aspettavo di leggere la prosa del buon psicologo ligure passato ormai alla scrittura (e gliene siamo grati), e mi trovo davanti questo libretto. Dove non c’è un romanzo, ma alcuni racconti (prima delusione). A questo punto mi aspettavo qualcosa di “scoppiettante”, come il mitico “Apposta per te”, ed invece mi trovo una serie di racconti che oscillano tra il bruttino e l’appena decente. Unica consolazione, è che, come illustravo in un recente libro di Schmitt, si tratta di un libro di racconti e non di una raccolta. Che, infatti, questi testi hanno un loro filo che li lega, motivo per cui il nostro autore in premessa suggerisce (ed io con lui) di leggerli in sequenza, essendo ognuno portatore di qualche elemento di conoscenza in più. Ci sono personaggi che si ritrovano, situazioni viste da altri punti di vista. E soprattutto c’è un primo ed un ultimo che sono legati alle vicende personali dell’autore (oltre al fatto di avere lo stesso titolo tra loro e con il libro nel complesso). Infatti, la tematica è la vita che si fa. Se siamo contenti di quello che ci succede, che c’è successo e che ci succederà. Se volevamo altro, dove abbiamo fatto delle scelte che hanno modificato il corso delle cose. Insomma, interrogativi epocali, che tra l’altro sono sempre sottolineati da una domanda che Licalzi fa è che è bene tenere a mente. Le scelte che facciamo (consapevoli o inconsapevoli) ci portano ad essere quello che siamo. Ma che dire di quelle che altri fanno e di cui non sappiamo nulla noi e che (forse) hanno modificato la nostra vita. Che spaventoso abisso di possibilità si aprono in tutto ciò. Per il momento, seguiamo i diversi personaggi protagonisti delle micro-storie di Licalzi interrogarsi se quella che stanno vivendo è la vita che si voleva. Lo chiede il medico – imprenditore alle prese con traffico e malattie di infermiere. Lo chiede il marito che narra della morte della sua famiglia. Lo chiede l’infermiera che si trova sempre alle prese con amori sfortunati. Lo chiede la praticante allo studio notarile mentre attraversa la strada. Lo chiede l’avvocato che sta fermo al semaforo. Se lo chiedono i tossici, sia quelli che usciranno sia quelli che non usciranno dal tunnel delle loro abiezioni. Se lo chiedono i due ragazzi alle prese con le prime canne, pensando al loro futuro. Se lo chiedono i quattro giocatori di poker, mescolando le carte e la loro vita. Lo chiede la moglie di uno di loro, che si domanda sia meglio andare o restare, salvare il salvabile o tentare il gran colpo per migliorare la propria vita. Lo chiede il pescatore che aspetterà tutta la vita un improbabile ritorno. Lo chiede infine l’uomo di Neanderthal, il primo pensatore e gran filosofo, alle prese con il nuovo e rampante uomo di Cro-magnon (e sappiamo noi come andrà a finire, tra i due). E dopo tutte queste domande, Licalzi si ripresenta per tessere una sua micro-biografia ed imbastire le conclusioni a tutte queste domande. I racconti hanno una buona dose di scorrevolezza, soprattutto nel loro impianto di base, quasi sempre basato su dialoghi, che sono l’arma migliore di Licalzi. Che quando parte per la tangente a filosofeggiare rischia sonori sfondamenti di cabasisi. È sempre in bilico, tra la simpatia e la supponenza, anche se non cade mai in eccessi insopportabili. Però rimane tutto un po’ in superficie (anche se non superficiale). Con qualche punta di non detto di troppo (del tipo di imbastire una storia su di un indovinello, senza darne ipotesi risolutive). In realtà, come ben dice anche nelle sue chiose, lo scrivere racconti è quasi un suo modo di imbastire trame per dei romanzi, che le sue storie sembrano traboccare di possibilità. Così come successe al suo primo “Io no”, nato racconto e poi fortunatamente allungatosi nella sua giusta dimensione. Per ora ci lasciamo, amico psicologo. Spero di ritrovarti al meglio in altre prove.
“Di fatto ogni piccola decisione che prendiamo cambia la storia del mondo, e comunque il punto è sempre quello: quando ti va ti sfiga lo sai, invece quando ti va di culo, no!” (80)
“La vita che vuoi non la determina quello che fai ma quello che sei.” (184)
Trama italiana questa settimana, ma anche trama di viaggio non per il cosa ma per il come, inviata dall'eremo fucecchiese presso il mio amico Maurizio. In un giorno di pioggia, ma anche di solare rinvigorimento di scambi ed idee che vanno e tornano ma non fanno pesare i più di venti anni passati. Ora si prosegue sull'onda di idee di lavoro, e nell'attesa di viaggi ed altro.

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