Perché è una domenica strana in
cui bisogna tenere a mente di essere saggi. Perché dopo qualche settimana di
relax e dopo aver smaltito felicità (tante) e tristezze (poche) della grande
festa, bisogna a volte tornare a pensare. Secondo direttrici consolidate ma non
banali. Libri non facili, ma che vi segnalo assolutamente: la trasformazione
delle idee in valori nel saggio del giurista Schmitt, due saggi sull’etica
della morte e della vecchiaia, con lo spagnolo Savater che mi ha impegnato ma
non convinto e con Marco Tullio Cicerone che mi ha sedotto con la sua
semplicità, passando per un libro di Trevi che mi ha innamorato basandosi
sull’assunto che nei libri ci può essere di tutto, basta saper scavare. E se
non avete la pazienza né di leggere i libri, né di leggere queste trame, vi
consiglio con forza ed amicizia di leggere le frasi che riporto. Già bastano
per riflettere, magari insieme, su questi temi.
Carl Schmitt “La tirannia dei valori” Adelphi euro 5,50 (in realtà,
scontato 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 21/01/2013 – T: 23/01/2013]
[titolo: Die Tyrannei der
Werte; lingua: tedesco; pagine: 107; anno:
2008]
Anche questo libretto è uscito
dal gran calderone dei miei autoregali di Natale: approfittando di un maxi
sconto su Feltrinelli online, ho preso una quindicina di titoli poco reperibili
pescando dalle mie lunghe e variegate liste. Così anche Carl Schmitt vi è
entrato, provenendo dai suggerimenti della “Seconda” pagina dei Libri di
Repubblica. Pur sperando che ci fosse qualche affinità con il mio amato Schmitt
(che però è francese, e si chiama Eric-Emanuel, anche se entrambi sono
alsaziani), immaginavo già fosse un libretto non facile. Tra l’altro nasce come
contributo ad una serie di seminari su “Virtù e valore nella dottrina dello Stato”
tenutisi ad Ebrach in Germania nel ’59, poi assemblati e prefati da Schmitt nel
’67 e solo in questa edizione accompagnati da un bel saggio didascalico
esplicativo di Franco Volpi. Confermo, dopo la lettura, l’impressione della
difficoltà avuta nel comprenderne i passaggi, dove si utilizzano categorie
filosofiche e loro applicazioni ed implicazioni nella teoria dello Stato (non a
caso Schmitt è eminentemente un giurista). Cosa mi rimane, a mo’ di riflessione
sparsa dalle dense parole del pensatore tedesco? Innanzi tutto l’affermazione che
coll’elevare un’idea o una convinzione a valore si finisce col giustificare
qualunque mezzo e alla fine qualunque pretesa. Emerge con chiarezza sopratutto
dal commento di Franco Volpi - nel quale è tracciata anche una puntuale e
questa sì facilmente seguibile ricostruzione storica del concetto di valore -
come il “valore”, sconfinando dalla sua sfera originaria - l'economia - e
invadendo ogni ambito dell'esistenza sociale e politica, abbia prodotto, per
Schmitt, una moralizzazione non scevra di pericoli. Perché il valore non è mai
oggettivo, bensì solo soggettivamente riferito alla realtà; ciò
significa, che "il valore non è, ma vale" e ciò che vale, sottolinea
Schmitt, "aspira apertamente a essere posto in atto". È dunque l'uomo
che definisce i valori ed è proprio il soggettivismo - sotteso ad ogni valore -
a rendere pericolosa, agli occhi di Schmitt, ogni filosofia dei valori e ancor
più ogni tentativo di "oggettivazione" degli stessi. Ma è sul terreno
giuridico – politico, sostiene Schmitt e qui lo seguo con difficoltà, che gli
esiti inquietanti di ogni valutazione evidenziano il portato discriminatorio di
un pensare per valori. In quest'ambito - più che in ogni altro - l'appello ai valori
rievoca elementi non condivisibili come la guerra giusta, mostrando i suoi
tirannici effetti. Consapevole, nonché testimone, che il richiamo a ragioni
morali - e la loro pretesa di universalità - conduce all'annientamento, Schmitt
conclude esortando "Non usiamo con leggerezza le nostre parole", in
particolar modo quando si parla di valori. Sia cauto, dunque, quel legislatore
che fa ricorso ad essi, perché nulla più del valore necessita di mediazione. Di
fronte al dilagante processo di valorizzazione "è compito del legislatore
e delle leggi da lui decretate stabilire la mediazione tramite regole
misurabili e applicabili e impedire il terrore dell'attuazione immediata e
automatica dei valori" (p. 67). La logica di affermazione dei valori nello
scenario globale attuale - magistralmente rappresentata dall'etica neocon della
"lotta del bene contro l'asse del male" - mostra con evidenza quanto
il messaggio schmittiano sia stato disatteso. Che cosa sono le guerre odierne -
malgrado le "bombe intelligenti" e i loro inevitabili "effetti
collaterali" - se non gli strumenti per l'attuazione dei propri valori, al
prezzo dell'annientamento di quelli altrui? Una difficile lezione, questa di
Schmitt, che ho letto (inconsapevolmente) come suggerisce il saggio di Volpi,
senza sapere nulla dell’autore e badando alle parole. Che Schmitt, nella sua
prima fase di vita pubblica, fu uno strenuo sostenitore dello stato forte
contro lo stato liberale, dando anche elementi teorici giustificativi alla
prima ascesa del nazismo. Per questo, e giustamente, fu emarginato dopo la
Guerra. Ma non per questo le sue parole vanno solo bollate come
“indifendibili”. Che queste conclusioni sono invece condivisibili, come poi
mostrarono studi sul pensiero di Schmitt da parte di persone non sospettabili
di compiacimenti, come Giorgio Agamben o Giacomo Marramao o Massimo Cacciari.
Da qui, per noi, dovrebbe cominciare un percorso di riflessione che possa
portare dalla critica dei valori verso la definizione di un comportamento
etico, verso gli scritti di Baumann, ad esempio. Chissà. Un sottoprodotto della
lettura è anche la riflessione di come sia difficile tradurre i linguaggi da un
idioma all’altro. Chissà se “Werte” in tedesco ha la stessa valenza di “valore”
in italiano? E da dove deriva questo, che in latino non veniva usato (si dice
venga da “valere”, ma l’accezione è diversa)? Che abisso si apre…
"Non usiamo con leggerezza le nostre parole." (66)
“Quanto è più grave la crisi, tanto più grande è il numero di incapaci
che si sentono chiamati a risolverla scrivendo di valori." (97)
Emanuele Trevi “Musica distante” Ponte alle Grazie s.p. (natalino
dell’arabista di Rosanna, anche se poi era il mio regalo e non ci siamo visti
ed allora l’ho letto io)
[A: 01/01/2013 – I: 27/01/2013 – T: 04/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 149;
anno: 1997-2012]
Entrato
di soppiatto nella mia libreria, come natalino di ritorno, ha fatto un’ottima
riuscita, libro di contenuti e di riflessioni. Doppia la data di riferimento,
che questa edizione è sì del 2012, ma il nostro simpatico autore l’ha scritto
nel lontano 1997. Nel compimento del quindicesimo anno, quasi un’uscita
dall’adolescenza per affacciarsi al mondo adulto, Ponte alle Grazie ce lo ripropone,
con una nuova introduzione dello stesso Emanuele, che tuttavia, non toglie né
aggiunge molto al fascino del libro. Un fascino che si basa sull’assunto che
nei libri ci può essere tanto, basta avere la pazienza di scavare, sempre con
occhi attenti ed aperti. Si parlava, poco sopra, di valori e della loro
tirannia (cui rimando per non ripetermi). Qui si parla dell’altro corno del
dilemma, delle virtù, anche se non affrontandone nella loro accezione etica
(anche se immancabile), quanto nel modo che le suddette virtù vengono
esemplificate e spiegate attraverso una lettura attenta di testi esimi. Per
restringere il campo, Trevi fa riferimento a quelle che vengono etichettate
come virtù “classiche”, cioè bibliche: le tre teologali e le quattro cardinali.
Facendo un piccolo sforzo di memoria (dai che ce la potete fare), quindi, fede,
speranza, carità, prudenza, giustizia, forza e temperanza. Senza cadere nel
giacobinismo della rivoluzione francese (il famoso “terrorismo delle virtù”),
lo scrittore ne abbozza i tratti concreti, perché ne vuole condividere la comprensione. E poiché
comprendere significa anche poterne spiegare, si avvale dei mezzi a lui consoni
per poterne parlare: testi letterari. Certo la fede è quella che più potrebbe
tormentare l’orecchio attento alle disquisizioni attuali su relativismi ed
altro, ma come non seguirne le mosse se la traguardiamo attraverso la “Gita al faro” di Virginia
Woolf. Attraverso cioè tutto il percorso di Lilly e del suo ritratto della
signora Ramsey, attraverso l’amore non dichiarato e la difficoltà del vedere in
mezzo alle lacrime. Ma ancor di più seguiamo il percorso della speranza, con la Balena Bianca di
Melville o “Il grande Meaulnes” del troppo presto dipartito Alain-Fournier. O
ancor di più, nell’unico testo che, ad ora, mi trovo a gustare con piacere, di
Conrad, quella “Linea d’ombra”, nella grande attesa di speranza della bava di
vento da parte del neo-capitano. D’altra parte, la speranza (per Trevi e per
me) è sempre legata ai viaggi, così come la carità al rapporto con il prossimo
(ed andiamo a rileggere le brevi note che scrissi sul libro di Sofri, o sulle
prediche di Enzo Bianchi o del cardinale Martini). Come non restare incollati
alla pagina che ci descrive il San Martino di Simone Martini, o che ci porta,
lettino dopo lettino, a visitare infermi e malati con Kafka, Flaubert e
Bulgakov. Falsamente più semplici, perché sembrano più vicine al quotidiano di
ognuno, la prudenza e la
giustizia. Ma prudente è colui che si ferma prima di agire,
per poi agire, o si ferma per poi non agire per nulla (l’immenso Bartleby di
Melville con il magnifico “preferirei di no”)? O la giustizia che dopo un lungo
giro per le strade del mondo, torna per esigere il suo tributo, utilizzando
quel bellissimo racconto di Joyce “I morti”, ultimo della raccolta “Gente di
Dublino”? Se la mia penna elettronica fosse capace di esprimersi al meglio,
vorrei potervi portare a riguardare la teoria di sguardi e suoni che ci avvolge
nell’immagine di Joyce attraverso lui che guarda lei che ascolta la ballata che
riporta entrambi, anche se in modo diverso, a punti dolenti ed “ingiusti” del
loro passato. Le ultime due virtù terroristiche vengono, e con ragione,
accumulate dall’autore in un unico passo: laddove sono complementari, e la
forza (o meglio fortezza, come dice il testo originario) è mitigata dalla temperanza,
e questa è corroborata dalla fortezza. In questo caso, meglio che le parole,
vedo i due quadri del Botticelli che si specchiano l’uno nell’altro, con la
forza visione di donna con corazza e sguardo mitigato, e la temperanza, con una
faccia similare (anche se dovrebbe essere Pallade Atena) che tempera la
brutalità del centauro, assoggettandone la forza. Insomma , per
finire con quel lato etico che a me sarebbe caro, le virtù possono far parte
del nostro incidere giorno dopo giorno, guidandoci i passi con il loro sapiente
utilizzo. Unico elemento, forse per me, è la mancanza (a volte) della parola
scardinante, che trasforma (trasformerebbe?) ognuna di queste virtù in momenti
(anche) di felicità. Per Lilly, per Achab, per Mikail, per Lord Chandos, per
Gregory, e via citando. Perché (come diceva la mia mentore) le domande è sempre
bene farle. Meglio affrontare un No espresso che un Si non detto.
“[Il medico] porta in sé senza troppe parole
[…] il confluire di innumerevoli patimenti.” (64)
“Un simbolo vale per l’interrogazione che
produce, non per le risposte che consente.” (109)
“Non preoccupatevi del domani, perché il
domani si preoccuperà di se stesso; a ciascun giorno basta la sua pena.” (137)
Fernando Savater “La vita eterna” Laterza euro 6,90 (in realtà,
scontato 5,52 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 21/02/2013 – T: 22/04/2013]
[tit. or.: La vida eterna; ling. or.: spagnolo; pagine: 248;
anno 2007]
Ci
sono voluti due mesi per leggere questo denso libro, suggerito da “Filosofia e
Idee di Repubblica”. Un Libro difficile, con alcune parti (soprattutto
l’inizio) che ho dovuto affrontare più volte, non cerco capendo tutto (in fondo
Savater è un fine filosofo, ed io un puro lettore), ma almeno (credo) dando una
mia interpretazione allo scritto. Che, riassumendo per mia comodità, affronta
tre argomenti: l’ateismo e la fede, la vita e la morte, il significato di laico
nel mondo attuale. Certamente nelle parole di Savater questi argomenti sono
anche (come pare ovvio) correlati, discussi in modo trasversale, e tante altre
costruzioni (non solo filosofiche, ma anche morali, etiche, e chi più ne ha).
Il primo argomento è, come si può capire, quello che mi ha impegnato di più, e
da cui sono uscito senza credo comprendere a fondo le tesi di Savater. Mi ha
dato solo un po’ fastidio una certa aria di, mi verrebbe da dire, irrisione
verso credenze ed incredulità. E non riuscendo a confrontarmi con il filosofo,
direi che ometto un confronto su questa parte. Più fertile mi è sembrato invece
il discorso sulla vita e sulla morte. Sarà un retaggio dell’età attuale, ma
sono riflessioni che mi accompagnano. Non a caso, ne ho estratte molte
sentenze, che mi sono rimaste impresse durante la lettura. Sono, infatti,
convinto che solo comprendendo realmente la nostra mortalità, possiamo fare
qualcosa che abbia un senso, qui ed ora. Dobbiamo andare oltre la battuta di
Duchamp (“a morire sono sempre gli altri”), rifiutando l’immortalità immanente,
altrimenti nulla avrebbe senso. Niente utilità nel fare se, data l’eternità,
prima o poi succederà. È quanto mi rimanda ad esempio la mia frequentazione con
i popoli asiatici, dove invece vedo presente questo senso dell’infinto.
Talmente presente che spesso mi sembrano immobili nell’accettare quanto di
peggio esista ora. Ed è un discorso che, nel mio intimo, collego a quel
bellissimo scritto di Hilmann sull’invecchiamento e sul compimento del proprio
carattere giustamente in quella che viene definita “ultima fase della vita”.
Altrettanto convincente, per me, il discorso sul bisogno di laicità nella vita
pubblica. Come sottolineo più in basso, nessuno mi deve imporre un’adesione ad
un credo, eppur tuttavia io, personaggio pubblico, io, Stato, devo vigilare che
ognuno possa aderire a quella che ritiene vicina al proprio essere. Ma, ed è
molto più importante, le leggi di uno Stato NON devono sottomettersi ad alcun
precetto religioso. Ed è questa legge morale imperativa che mi disturba quanto
visito molti posti dove invece viene rovesciata. Mi rendo conto che non sono
queste umili righe che possono sviscerare una materia così ampia. E sono altrettanto
convinto che però ne possiamo tutti trarre degli spunti. Lo scritto di Savater
è mirabile, argomentato, pieno di citazioni utili per approfondirne aspetti.
Non ultima, ad esempio, la scoperta dell’a me ignoto filosofo russo Lev Šestov,
che già nel ’36 scriveva mirabili pagine su “Atene e Gerusalemme”, viste come i
due corni della problematica politica e religiosa. Ma prendiamo infine questo
scritto per i suoi spunti, e, spero, per quello che da me ne viene come stimolo
a voi, amati lettori. Chissà se avremo spazio e tempo per poterci tornare su.
Senza mascheramenti e con onestà. Confesso che il libro avrebbe molto altro da
dire, ma per la densità di quanto scritto, e per la difficoltà di riuscire a
farne un discorso che abbia un senso, credo che non posso che fermarmi qui. Che
il dibattito (con buona pace del mio coevo Nanni) abbia inizio.
“Dobbiamo accettare la fede degli altri in
Dio e nell’aldilà, nonostante non la si condivida, e prenderla sul serio.”
(XIII)
“Noi esseri umani mentiamo con la stessa
naturalezza con la quale respiriamo. Mentiamo per nascondere le nostre
insicurezze, per far sentire migliori gli altri, per sentirci noi stessi
migliori, perché la gente ci ami, per proteggere i bambini, per liberarci dal
pericolo, per occultare le nostre cattive azioni o per puro divertimento.” (5)
“La psicologia … per quanto non dia la
felicità, se non altro calma i nervi.” (31)
“Tutti gli uomini muoiono, io sono un uomo,
quindi io devo morire.” (35)
“Borges: Morirono altri uomini, ma ciò
accadde nel passato / che è la stagione … più propizia alla morte.” (35)
“Sappiamo che moriremo, ma non ci crediamo.”
(35)
“Come insegna Epicuro … la morte non ci
raggiungerà mai, perché quando noi siamo essa non è, e quando arriva noi ormai
non siamo più.” (43)
“È conveniente la verità o dev’essere vero
quel che conviene?” (82)
“Agire come immortali … ma sapendo che siamo
mortali … per questo dobbiamo comportarci eticamente nei confronti dei nostri
simili.” (105)
“Kant disse che quanto è eticamente
importante per i mortali non è riuscire ad essere felici, ma meritare la
felicità.” (105)
“Libertà, altruismo, rispetto, eguaglianza,
fraternità sono valori che si trovano in maggiore o minor misura in tutte le
culture e che non sono affatto esclusivi della nostra civiltà occidentale.”
(121)
“Le caratteristiche fondamentali della
laicità … sono due: primo, lo Stato deve vigilare che a nessun cittadino venga
imposta un’affiliazione religiosa o venga impedito di professare quella che ha
scelto; secondo, il rispetto delle leggi del paese deve precedere i particolari
precetti di ogni religione.” (134)
“Non è la nostra civiltà a essere
tecnologica, è la tecnologia a essere la nostra civiltà.” (148)
“Sapere che siamo mortali ci trasforma in
uomini, rifiutarci di ammetterlo conferma che lo siamo.” (170)
“La sua ispirazione… lascia a desiderare … è
stato profondo come un posacenere e sottile come una mattonata.” (225)
“Per negarsi alla morte, bisogna scegliere
un’impresa, una crociata, un obiettivo che si voglia invulnerabile e ci faccia
vagare sulla faccia della terra – a noi che ci sappiamo mortali … – come se
fossimo inaccessibili alla morte.” (232)
Cicerone “La vecchiaia” Feltrinelli s.p. (regalo collettivo “Almaviva”)
[A: 07/05/2013 – I: 15/05/2013 – T: 22/05/2013]
[tit. or.: Cato Maior De
Senectute; ling. or.: latino; pagine: 174; anno 2008]
Ho
affrontato subito, con l’opportuna precedenza, questo esiguo ma corposo
libretto, frutto di una componente di regalo nel corso della mia celebrata
festa sorianese, a merito di un collettivo regalante composto da ex-colleghi
(come riporto in testa accumulandoli in un’etichetta che alcuni più non hanno).
Non sono certo io che posso entrare nel merito della scrittura dell’arpinate,
sia per la mia basica cultura classica, sia per i fiumi di inchiostro che i
suoi scritti hanno fatto scorrere nel corso dei secoli. Devo però fare i
complimenti con la fattura di questo libro. Un’ottima introduzione di Oscar
Fuà, che chiarisce i termini ed i contorni del testo. Un’edizione con testo a
fronte, dove (anche chi come me poco sa di latino) si può apprezzare la
facilità dei passaggi maggiori del testo (scritto, tanto per collocarlo nel
tempo, pochi mesi prima dell’uccisione di Giulio Cesare). Ed un corredo di note
esaustive e stimolanti. Nello specifico, poi, tre sono gli elementi di
riflessione che la lettura mi ha suscitato. Il primo, ovvio, dipende
dall’esposizione del problema che ne fa Cicerone, dove con sapiente uso
oratorio, pone quattro domande alla vecchiaia. Quattro accuse, che ribatte e
confuta con stile e larghezza. Il secondo è uno stimolo, una curiosità
derivante dai tanti uomini illustri citati. Illustri per Cicerone ed il suo
tempo, non sempre, non tutti, rimasti tali negli anni. Ma vederne i nomi mi ha
spinto, mi spinge a cercarne notizie anche altrove. Il terzo è una conseguenza
della parte maggiore del testo, dedicata ai piaceri della campagna e della vita
ritirata, dopo una vita ben vissuta (e vedremo cosa possa voler dire). E
domandandomi come io, coevo allo scrittore mentre ne scrive, mi pongo verso la
vita “quieta e contemplativa”. E rispondendomi che non è il prosieguo dei miei
anni, quello. Posso restare del tempo in quiete, ma sarò presto rimesso in moto
dai miei stimoli interiori. E riprenderò, finché ne avrò le forze, il viaggio
per i luoghi del mondo. Dove anche con la quiete, e non più con l’irrequietezza
giovanile, continuo ad accrescere il mio interiore bisogno di conoscenza.
Risposto all’ultimo quesito, torno al primo, ed alle quattro accuse che retoricamente
Cicerone porta alla vecchiaia: la vecchiaia distoglie dalle attività, rende il
corpo debole, priva di quasi tutti i piaceri ed è troppo vicino alla morte. Se
distoglie dalle attività, se rende l’uomo inattivo, questi non è più capace di
grandi imprese. Che però (ed io con lui) non si compiono solo per forza o
agilità, ma spesso e ben più grandi per saggezza ed autorità. Il secondo punto
è quasi un corollario del primo. Possono venir meno le forze, ma l’intelletto
progredisce e matura, tanto che, pur avanti con gli anni, una sua orazione
riesce a tenere l’uditorio in ascolto più e quanto di un concione giovanile ed
arrogante (a meno di non usare i mezzi vocali sopraffattori come spesso si usa
nel mondo odierno). Di modo che gli anziani possono e debbono guidare il
percorso formativo ed intellettivo dei giovani. Certo, volevamo tutto e subito
un dì. Ma ora riconosco che il tutto bisogna poterlo capire. E sarò sempre
grato a chi nel corso degli anni me lo ha spiegato. Il terzo, pur riconoscendo
l’autore che alcuni piaceri non sono propri della sua età, spiega ed argomenta
che quelli che restano (vuoi anche le soddisfazioni sessuali) pur diminuite nel
numero aumentano nell’intensità, essendo accompagnate dall’intelletto. E poi si
aumentano i piaceri meditativi e di condivisione, punto che mi trova
completamente in accordo con Cicerone. Qui parte la sua digressione sulla
campagna, di cui ho già espresso il mio sentire. L’ultima è la più forte, la
più sentita dagli anziani. La morte si avvicina. Ma come già espresso nel
commento ad altri saggi, solo l’esistenza della morte fa si che abbia senso
quello di cui si è vissuto. Il termine, anche se non ne conosciamo la
tempistica, implica una riflessione (che più si comincia per tempo meglio è)
sulla futilità di certi comportamenti e certe mete. E sulla necessità di
concentrare la propria attenzione sulla riflessione di cosa abbia un sé per il
proprio io. Noi, a prescindere dai credi personali, rimarremmo comunque
presenti al di là dello spazio fisico, con quanto abbiamo fatto, e con quanto
abbiamo lasciato. Tanti sono gli esempi che Cicerone fa per questo punto, punto
forte ovviamente. E come non dargli ragione, nel mio piccolo e personale
pantheon, dove ci sono persone e personaggi, pubblici e privati, che purtroppo
non frequento più fisicamente, ma con i quali continuo a ragionare
internamente. E per sempre (almeno per il mio sempre). Sperando che altrettanto
sia dopo di me. Idealmente, il breve scritto, mi si ricollega al da non molto
citato libro di Hilmann sul completamento del carattere e della propria
personalità giustamente nel tempo cosiddetto della vecchiaia. Il punto centrale
poi, cui accenno solo per non allungare troppo lo scritto, meriterebbe un
trattamento a sé, forse un saggio, dove poter citare ed elencare le gesta ed i
comportamenti quotidiani di Fabrizio Luscino, di Curio Dentato, di Tiberio
Coruncanio, di Marco Valerio Corvino, di Lucio Flaminino. Solo a sentirne i
nomi, mi vien quasi voglia di farlo presto. Si torni però al testo, ricordando
le molte metafore della vita come un’opera di teatro, dove tu attore potrai
avere applausi, anche se non comparirai nell’ultima scena. Ma più ancora, a
quell’immagine del vecchio che guida la nave usando senza sforzo il timone. La
sua conoscenza (la mia?) della vita varrà più a tener ferma la barra sulla
retta andatura, meglio del correre a destra e manca in preda alla paura. Paura
che c’è e rimane, sempre, in ogni istante della vita, ma che va guidata dalla
consapevolezza della finitezza terrena. Riflessione che è bene cominciare sin
da giovani. Grazie Cicerone! (ed anche ai donatori.)
“I vecchi … devono diminuire le fatiche
fisiche e aumentare invece l’attività della mente … La dissipatezza, se
vergognosa in ogni età, nella vecchiaia specialmente è turpe. Se poi si
aggiunge anche l’intemperanza dei piaceri, duplice è il male che ne deriva,
poiché la vecchiaia riceve disonore per sé e rende più spudorata la sfrenatezza
dei giovani.” (27) [da Cicerone ‘Sui doveri’ dedicato a SB]
“Seneca: ogni genere di piacere trova lo
stadio più allettante nel momento finale.” (36)
“Ogni età della vita è gravosa per quelli
che non trovano in se stessi un aiuto che li faccia vivere felicemente.” (55)
“Gorgia da Leontini [per i suoi cento anni]:
Non ho nulla da rinfacciare alla vecchiaia.” (65)
“Solone si vanta nei suoi versi di
invecchiare imparando sempre qualcosa.” (75)
“Ogni parte della vita possiede un che di
naturale da cogliersi al tempo giusto.” (81)
“Non vi è delitto o atto disonorevole che
non trovi spinta nella brama del piacere … dove esso regna… non può abitare la
virtù.” (87)[sempre per SB]
“Ringrazio di cuore la vecchiaia che mi ha
accresciuto il desiderio di conversare.” (93)
“I vecchi sono uggiosi, sospettosi,
intrattabili e difficili: e se vogliamo anche avari. Codesti però sono difetti
del carattere, non della vecchiaia!” (109)
“Non mi pento di aver vissuto perché l’ho
fatto in maniera tale da non ritenere di essere nato invano.” (123)
“La vecchiaia è l’ultimo atto della vita …
del quale dobbiamo evitare la stanchezza, specie quando sopraggiunga la
sazietà.” (125)
“Seneca: ogni giorno ritienilo una vita; chi
si prepara in questo modo e vive ogni giorno nella sua pienezza, è tranquillo.”
(139)
“Temistocle, a chi gli voleva insegnare
l’arte di ricordare, rispose di desiderare maggiormente l’arte di dimenticare.”
(151)
“La qualità della vecchiaia è legata
strettamente al tenore della vita trascorsa da giovani.” (154)
“Dalla nota sui convivi: i commensali devono
essere non meno che le Grazie, non più che le Muse; cioè in numero non
inferiore a tre e non superiore a nove.” (161)
“Il vecchio è in condizioni migliori
rispetto al giovane, in quanto ha già conseguito ciò che l’altro può solo
augurarsi.” (169)
Ed ancora più saggiamente
dobbiamo riflettere in questa giornata che ci porterà un sindaco, speriamo
nuovo, a Roma, speriamo … speriamo … speriamo…