domenica 30 giugno 2013

Grandi città - 30 giugno 2013

Ma non è una trama dedicata ai viaggi, ma grandi città come teatro di azioni più o meno violente, portate con mano abbastanza ferma da quattro autori italiani, nuovi e vecchi. C’è la Milano di Colaprico, anche se poi ci si muove per tutta la penisola, e c’è la Firenze di Vichi. Ma c’è anche la Roma di Foschi e l’interessante puntata a Parigi di Pandiani. Storie violente, come detto, ma anche storie di vita, e storie di persone.
Enrico Pandiani “Les Italiens” Instar euro 9
[A: 04/10/2012 – I: 01/03/2013 – T: 02/03/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 301; anno: 2012]
Un esordio (nella mia libreria) interessante e da incoraggiare. Dopo un tedesco che scrive di poliziotti italiani a Trieste, ecco nascere un italiano che parla di una brigata di gendarmi italo-francesi a Parigi. Spero che venga (o sia stato) tradotto in francese, che lo merita. Perché unisce un tocco di francesità a molto hard-boiled americano. Un Luc Besson alla Nikita, risciacquato con un Tarantino doc. Narrato in prima persona dal responsabile della brigata detta “Les Italiens”, dato che è composta tutta da oriundi (di diverse generazioni), la narrazione e l’azione entra subito nel vivo, sin dalle prime righe. Una sparatoria che colpisce il Quai des Orfevres, decima la brigata, facendo fuori 2 gendarmi e mandando all’ospedale un terzo, nonché una donna innocente. Si entra subito nel vivo, e con un bel ritmo. E si rimane su questo filo senza fiato, quando il suddetto narratore viene incaricato dal capo della polizia di indagare su un probabile tentativo di furto a carico di una persona che (guarda caso) assomiglia alla donna morta per caso. E tuttavia non è una donna, ma un trans. Questo è un bel colpo di genio dell’autore, che infila anche tematiche sociali e personali nel bel mezzo di questa corsa verso (ancora) non si sa cosa. La bella Moët (o il bel Thomas a seconda di quale parte si privilegia) si dedica alla pittura, ed ha un discreto successo con tutti i generi (maschili e femminili). Lo studio è devastato, e così anche la casa, che si trova in periferia (bella la gita in auto verso gli stagni di Saint – Claude). Non solo, ma lì i nostri due eroi in fuga si trovano assaliti da una banda, tra cui c’è anche un poliziotto. Il mistero si infittisce, non si sa chi è amico e chi no. Il nostro decide di potersi fidare di due persone soltanto: la ricca Ocèane, dal cui attico partirono i colpi che hanno dato origine alla vicenda, ed il resto della sua brigata, con a capo ora André Serandoni (rigorosamente con l’accento sulla i). Continuano a fioccare morti e sangue. Muore l’avvocatessa di Moët. E si passa una serata hard tutti a casa di Ocèane. Intanto cominciano a diradarsi alcune nebbie: il nostro trans è stato adottata (difficile utilizzare desinenze maschili e femminili in questo caso…), ed il suo amante – amica – avvocato (appena dal trans mollato) per tornare alla carica aveva deciso di scoprire i veri genitori di Moët. Che però avevano chiesto il segreto, che l’avvocato riesce comunque a sapere che siano, che sono in una posizione pericolosa per Moët e per “les Italiens”. Nonostante tutto, i nostri italiani decidono di procedere a spron battuto, aiutati dalla tribù di immigrati: il padre ed i parenti di Serandoni, dalla brigata fluviale, alla brigata motorizzata. Che i cattivi hanno una bella struttura delinquenziale a loro supporto (e si capirà alla fine i veri motivi di tutto ciò), ramificata in molte strutture della Pubblica Amministrazione francese, polizia in primis. Ed allora proseguiamo con gli inseguimenti, le agnizioni, le morti violente (alla fine credo di averne contate una ventina), i tentativi di incastrare il nostro narratore (di cui però fino alla fine non veniamo a conoscenza del nome) uccidendo persone a destra e a manca con il suo coltello o le sue pistole. Il nostro comincia inoltre non solo a capire Moët, ma ad esserne attratto, ed è interessante il percorso di denudamento dei sentimenti dei personaggi principali. Alla fine, si chiariranno i misteri: l’origine di Moët – Thomas, la rabbia del narratore, il suo pencolare verso Ocèane, ed il chiarimento finale (che non vi anticipo) tra tutti i protagonisti, che metterà ognuno ad un posto congruo, ma che apre (credo) le porte ad una successiva puntata. Insomma, una scrittura interessante, degna erede di Chandler, forse con qualche ingenuità, ma, in definitiva, uno dei prodotti più interessanti dell’ultimo periodo. Bravo Enrico! E grazie del piccolo ricordo – cammeo con il gelato da Berthillon nell’Ile-Saint-Louis!
Paolo Foschi “Il castigo di Attila” E/O euro 13 (in realtà, scontato 11,18 euro)
[A: 14/03/2013 – I: 25/03/2013 – T: 27/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 167; anno 2012]
Secondo episodio delle indagini del commissario Igor Attila, ex-pugile e capo della squadra speciale della polizia dedicata ai crimini sportivi. Foschi (anche lui del Corriere della Sera, come il da poco letto Ruggeri sul versante asiatico dei viaggi) migliora la scrittura rispetto al primo libro. Almeno per quanto riguarda la storia e l’intreccio. Forse non tanto per i personaggi in sé, sui quali ritornerò. Nel delitto alle Olimpiadi, probabilmente anche nell’ansia della presentazione dei personaggi e delle situazioni, la storia “gialla” rimane un po’ risibile rispetto al resto, nonché con quella forzatura di prevedere due atleti bianchi sul podio in una finale degli 800 metri piani (cosa che non succede alle Olimpiadi dal lontano 1980 con gli inglesi Ovett e Coe). Qui invece ha un suo spessore autonomo. Anche perché si passa a parlare di calcio. E quando si parla di calcio, ovvio il collegamento al calcio scommesse ed alla malavita organizzata. Con un po’ di cattiveria (o masochismo) il romano Foschi fa perno della vicenda il portiere della Roma, Rocco Graziano, che dopo essere diventato l’idolo delle folle per aver parato il rigore decisivo della finale di Champions tra Roma e Liverpool (e ben ricordiamo la “vera” partita tra le due squadre, quella del maggio del 1984, quando molto venne deciso dall’errore dal dischetto di Ciccio Graziani, qualche rimando, Foschi?) viene ucciso a colpi di pistola. Attila viene subito attivato e non impiega molto a scoprire tutti gli altarini del portierone, che da ragazzo di provincia assurge alle prime pagine, alla gloria, agli onori. E scopre le sue molteplici vite: il denaro, e quindi i collegamenti con gente poco raccomandabile, le scommesse, le partite truccate o pilotate (Foschi sfondi porte aperte su questo terreno, anche se dolorose) e le donne, tante, e soprattutto tutte molto ingannate. Che il buon Rocco pensava (solo?) a sesso facile e senza pensieri. Ma le sue donne? Ovvio il rapporto ufficiale con la velina di turno. Ma ovvi anche i passaggi per altre e meno conclamate belle ragazze. Il nostro commissario segue così la doppia pista: vendetta di malavitosi che hanno perso soldi per la parata finale di Rocco o vendetta di una qualche fidanzata (troppo) ingannata. La verità, o meglio, il vero andamento della vicenda lo lascio scoprire a chi avrà voglia di leggere le veloci pagine del nostro giornalista. Quello che piace e che Attila ha una coscienza, e farà in modo, in ogni caso, che i cattivi, ovunque essi siano ricevano una più o meno giusta punizione. Quello che convince meno  è l’insistere su alcune tematiche dei personaggi. Soprattutto, il tormentone di Attila per la perdita di Titta. Ogni due pagine il buon poliziotto si lamenta, si rammarica, si fa percorsi mentali assurdi, che alla lunga stancano. Anche perché noi già sappiamo una parte della storia, avendo letto il primo romanzo, e queste lungaggini sono veramente troppo reiterate. Come troppo insistito il ritorno all’incontro di boxe con il quale Attila perse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seoul per una combine degli arbitri a favore di un coreano (e di cui ho già parlato tramando il primo libro del commissario). Insomma ci sarebbe bisogno di un po’ di freschezza in queste parti. Che potrebbe venire dai sottoposti di Attila alla squadra speciale, ma non quagliano. Come non arriva dall’agente speciale Celeste Quinteri, di cui io personalmente faccio il tifo ma che il nostro autore non fa sbocciare come potrebbe. In definitiva, un libro discreto che ben ha accompagnato le giornate al sole delle isole thailandesi (come avrebbe fatto anche in altro sole). Insomma, un libro da spiaggia e non molto di più, anche se scorrevole.
Piero Colaprico “La donna del campione” Repubblica – Noir euro 7,90
[A: 27/08/2012– I: 15/05/2013 – T: 17/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 395; anno 2007]
In attesa di leggere i gialli a quattro mani di Colaprico e Valpreda, che finalmente sono entrati nella mia libreria, finalmente ho tra le mani un romanzo intero del giornalista di Repubblica. Di lui, oltre agli articoli sul giornale, ho letto racconti, brevi o lunghi, ma è la prima volta che mi imbarco in un romanzo completo. Ed anche discretamente complesso. Ma che, da bravo utilizzatore della penna, riesce a gestire sufficientemente bene, anche se, complessivamente, forse mi aspettavo qualcosa in più. Se non altro sul lato del coinvolgimento, della suspense, insomma di quelle caratteristiche che, negli articoli giornalistici sono presenti in dosi diverse, ma che, nel tempo mi hanno fatto apprezzare il suo modo di scrivere. Qui siamo in una vicenda pienamente italiana, pienamente attuale, con la dovuta attenzione a tutti quei personaggi “in margine” che riempiono continuamente la vita di tutti i giorni. Colaprico, per darci uno spaccato della vita milanese (che quella è la cifra costante di tutti i suoi romanzi, per quanto non so), decide di affrontare la vicenda centrale (il rapimento di un ricco e giovane affarista sportivo, legato al mondo della Formula1) utilizzando tre punti di vista (anche se sempre in oggettiva). Come li battezza lui: il consulente, il poliziotto e il killer. Il consulente è un ex-poliziotto, uscito ricco ed indenne da storie ai limiti della legge, e riciclatosi con successo come investigatore. Viene assunto dalla super bonazza moglie del rapito per liberarlo prima del Gran Premio d’Italia del 18 settembre. E Corrado, saputo chi tiene l’ostaggio in custodia, organizza un contro-rapimento ricatto. Rapisce i parenti dei rapitori, e propone uno scambio, con un bonus di qualche milione di euro. Il poliziotto è invece un amico di Corrado che rimane al di qua della legge, e, sebbene con modalità a volte al limite, è uno che ragiona (e molto) e soprattutto entra in empatia con i casi che affronta. Ora ha per le mani una ragazza trovata bruciata, ma morta prima di botte. Con l’osservazione ed il ragionamento, riesce a ricostruire la vita di Valentina, da quando fugge di casa sino alla sua entrata in un centro massaggi, altro nome (come da cronache attuali) di un centro di prostituzione di alto livello. Il killer è invece un ex-bandito alla Vallanzasca, ritiratosi da Milano nella Puglia natia, ma che non può tirarsi indietro se “gli amici” gli chiedono qualche lavoro. Che gli frutta fior di quattrini. Peccato che ora venga ingaggiato dai siciliani per eliminare Iole la Santa, sua ex compagna di rapine, passata a collaboratrice di giustizia. Le tre storie si dipanano, fortunatamente non a capitoli alterni, come da malcostume di scrittori di thriller di secondo piano. Ogni storia ha un suo respiro, prende tempo, a volte forse Colaprico si dilunga un po’. Ci inzeppa scopate a destra e sinistra, tra Corrado e Maretta la moglie del rapito, tra Francesco il poliziotto ed il sostituto procuratore, benché Iva sia sposata e lui fidanzato, tra il killer e la sua fidanzata alle soglie della laurea. L’abilità di Colaprico consiste invece nel portarci, passo dopo passo, alla convergenza di tutte le storie. Che Corrado e Francesco sono amici. Così arriviamo a scoprire che il rapito è sparito nel centro massaggi dove lavora Valentina, che forse il capo di Valentina è in accordo con i rapitori, e sicuramente ha messo lo zampino nella morte della ragazza, che Corrado utilizza Iole per il contro-rapimento di cui sopra, che Iole organizza una sua esposizione per far finta di cadere in trappola e prendere in trappola il killer, che il porta valori (quello che procura i soldi del riscatto) è padre di una ragazza che si è uccisa qualche mese prima, e che ha uno strano rapporto con Maretta. Che la fidanzata del killer è meno stupida di quanto sembra. Che il rapito non è proprio una pasta d’uomo, anzi è un gran … Colaprico cerca in questo modo di fare un bel castello, dove alla fine tutti i pezzi vanno al loro posto. Molti cattivi (ma non vi dico quali) pagano il fio delle loro colpe. Ma anche molti buoni ci vanno di mezzo. Insomma, l’autore ci vuole mostrare la vita com’è, un gran casino, dove non sempre tutto riesce. Anzi, qui sembra che non riesca proprio nulla. Dopo aver messo tanta carne al fuoco, il finale si fa un po’ affettato, che stiamo già vicino alle 400 pagine, ed il lettore non riesce a tenere più il filo di tutto. E purtroppo, questo il vero punto negativo, anche Colaprico non ci accompagna per mano verso una spiegazione globale, così come ci avevano insegnato i Nero Wolfe o i Maigret. Ed è un peccato per un noir italiano di fattura decisamente migliore di analoghe prove. Un’ultima nota personale. Quando Maretta scappa, Corrado la va a ritrovare in un luogo che Colaprico non menziona, indicando solo la presenza del “Giardino dei Tarocchi”: cioè per noi, Capalbio e Niki de Saint-Phalle.
“Era una coppia che restava insieme perché era troppo difficile ricominciare da qualche altra parte.” (42)
“Ci sono amicizie finite che si trascinano nel tempo per una serie di obblighi.” (150)
Marco Vichi “Morte a Firenze” TEA euro 9
[A: 15/07/2012– I: 23/05/2013 – T: 24/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 359; anno 2009]
Come sua modalità di scrittura che abbiamo ormai imparato a conoscere, Vichi mescola insieme una serie di storie, a volte quasi non legate le une alle altre, se non per il vincolo temporale. E come riconosce il commentatore di TTL de La Stampa, questo è il meno noir dei romanzi imperniati sul commissario Bordelli. Certo, il nucleo centrale è la scomparsa e poi l’uccisione di un ragazzo di 13 anni (e questa è una delle parti che nei noir degli ultimi anni mi mette più a disagio, che non riesco a seguire bene, talmente mi fa orrore l’idea; le tre cose che più mi colpiscono, infatti, sono la violenza sulle donne, la violenza sui ragazzi e la pedofilia in generale). L’indagine di Bordelli percorre tutto il romanzo, ma non si sviluppa in modo lineare, non aggredisce, non propone piste anche a noi lettori. Riprende quel filone da “procedural thriller” che avevo illustrato parlando dell’opera di Ed McBain, ma non si riesce ad entrare in sintonia con la questura di Firenze. Sarà forse perché viene praticamente emarginato l’alter-ego di Bordelli, quel giovane Piras che nelle altre prove serviva da rimbalzo ed approfondimento dei ragionamenti del commissario. Intanto, il romanzo si riempie d’altro: in maniera totale, dell’alluvione di Firenze del ’66, che, infatti, la storia si svolge proprio tra ottobre e novembre di quell’anno. Da un punto di vista filologico e di rievocazione storica, l’alluvione è ben rappresentata: la pioggia, gli argini, le comunicazioni interrotte, l’acqua che sale, travolge e uccide, le autorità in parata (mi sembra di vedere un lungo filo che la unisce a L’Aquila). Ed i ricordi personali di aver lavorato, allora tredicenne, alla pulizia dei manoscritti dal fango (e dovrei ancora avere un attestato del Ministro Taviani). Ma non riesce a dare né un senso al romanzo, né a costituire quel sottofondo che penso volesse dargli l’autore. L’altro tessuto di connessione è l’ossessione di Bordelli per le donne, le sue paturnie da quasi sessantenne sia per gli amori passati, sia per quelli a venire, con un’insistenza che, a mio avviso, è particolarmente ridondante. Ne bastava meno, per darne un’idea. Invece lì che insiste, e rimugina, e poi si innamora di una che potrebbe essere sua nipote, piuttosto che sua figlia. E le ossessioni del commissario, questa, e quella più insistente ed altrettanto inutile sul fumo, quasi ripercorresse dei passi di Zeno, ma senza la loro profondità. Come sempre ci sono atre parti, slegate dal filo della trama, che invece comunque piace leggere, soprattutto quando poi l’autore, nella postfazione, ne spiega la nascita. Tutti quei ricordi sulla guerra, sui partigiani e sulle battaglie tra i monti, vengono dai ricordi del padre dell’autore, che trova così un modo per lasciarne una traccia, per non farli cadere nell’oblio. Tra tutto questo la trama va avanti, legata ad una bolletta della SIP trovata non lontano dal cadavere. E scava che ti scava, collega che ti collega, accumulando notevoli dosi di colpi fortunati, Bordelli comincia ad intravedere una trama. Un gruppo di pervertiti, di diversa natura, i cui giochi osceni questa volta hanno passato il limite. Ma non riesce a trovare prove per sostanziare queste intuizioni. Prove concrete non miseri indizi. Allora fa quello che farebbe un eroe d’oltreoceano, ma di cui Bordelli non sembra avere le caratteristiche. Non dico che cerca la giustizia personale, questo andrebbe fuori le righe del personaggio. Cerca tuttavia, come una squadra in difficoltà, di indurre l’avversario ad un errore. Che faccia un fallo, che faccia una mossa falsa. Allora lui potrebbe… Ma non ha le giuste intuizioni. Ed il potere corrotto che lo circonda è sicuramente più forte di lui. Chissà perché alla fine mi viene in mente il re dell’Epiro? Lettura quindi scorrevole, ma troppo intervallata da letture altre, che ne rallentano il filone principale. Non mi ha soddisfatto. Alla fine mi torvo davanti il libro chiuso con quel sentimento ambivalente che dicevo prima, ed un bilancio finale più sul meno che sul più. Un ultimo punto, ho controllato, le canzoni dei Rokes di Shapiro che sono citate sono entrambe del ’66, quindi in linea con la trama. Anche se “E la pioggia che va” (tra l’altro un mio vecchio cavallo di battaglia) è proprio di Ottobre di quell’anno. Forse un po’ troppo fresca per essere cantata quasi a sottolinearne i punti salienti (“e noi che stiamo correndo, avanzeremo di più”…). Ma sono canzoni che adoro e quindi va bene anche così.
“Non voleva pensare alle donne che aveva perso, ma a quelle che dovevano ancora arrivare.” (64)
E visto che si parla di grandi città, non possiamo che chiudere citando l’assenza (praticamente) di città cui vado incontro nel mio prossimo e confermato viaggio per l’Islanda. Curioso di questa terra di ghiacci, parto tra pochi giorni, lasciandovi probabilmente con qualche trama in meno per questo luglio autunnale. 

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