Domenica da Festa della
Repubblica, e come festeggiarla al meglio, al meglio darle un senso celebrando
scrittori isolani, da quella Sardegna dove sarebbe sceso il nome del Re
d’Italia verso il resto del continente alla Sicilia delle conquiste
garibaldine. Ed ecco quindi il sardo Atzeni e la sicula Agnello, inframmezzati
da un’entrata nuova (per ora isolata) di un libro che mi ha piacevolmente
sorpreso di Paolo Di Paolo.
Sergio Atzeni “Passavamo sulla terra leggeri” Ilisso euro 7 (in realtà,
scontato 5,95 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 05/02/2013 – T: 10/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 163;
anno: 1996]
Grazie
alle indicazioni de “Il libraio” di Repubblica, avevo inserito questo libro tra
quelli da cercare, prima o poi. Anche perché non sembrava (ed, in effetti, non
lo è stato) di facile reperibilità. Sicuramente, poi, è un libro che avrei
comunque messo nelle mie infinite liste, per via del ricordo dell’autore.
Sergio Atzeni era un prima promettente poi maturo scrittore, mio coevo, di cui
lessi dei racconti che mi lasciarono freddo, ma poi un romanzo “alla Kurosawa”
su una figura di bandito anarchico che invece mi aveva coinvolto ed incuriosito
(l’ottimo “Figlio di Bakunin” di cui ho parlato un paio di anni fa). Purtroppo
Atzeni, messo il punto finale a questo romanzo di cui oggi parlo, viene
travolto da onde impetuose mentre fa il bagno in quel di Carloforte,
lasciandoci poco meno di venti anni fa. E lasciandoci soprattutto come memento
e sintesi della sua opera questo testo, che non è un romanzo, ma migliaia di
micro - romanzi partecipi di una cavalcata onirica che ci porta dalla Sardegna
pre-istorica sino alla fine dell’indipendenza sarda. Cioè a quel 1409, pochi
anni dopo la morte di una delle regnanti più interessanti della storia isolana,
la giudicessa
Eleonora d’Arborea, quando, nella piana di Sanluri, gli
Aragonesi sconfiggono definitivamente le forze libere della Sardegna,
condannando l’isola ad un futuro di sottomissione, non ancora terminato.
L’idea, bella e coinvolgente, di Atzeni, è quella di istituire una categoria di
persone, nominate “custodi del tempo”, che si tramandano oralmente la storia
dell’isola, appunto dagli albori al 1409. Ogni trenta anni un custode nomina un
suo successore e gli narra la
storia. Nei tempi antichi, la narrava sino al momento che
stavano vivendo. Poi, ovviamente, sino al momento che si pone a fine della
libertà. L’autore immagina di essere partecipe di questo rito trentennale, ma
che, allo scadere dei suoi trentanni decida di volger in scritto questa
oralità, consegnandocela per l’eternità. La bravura dello scrittore è di
mantenere il ritmo orale anche alla parola scritta, di fare degli intarsi per
spiegare la genesi di quanto Antonio Setzu sta narrando al giovane. Ma
soprattutto, con una documentazione che deve essere stata lunga, difficoltosa,
e tuttavia fruttuosa, Atzeni lega e collega le vicende isolane, narrando con
nomi, fatti, luoghi e avvenimenti quanto sia successo sulla terra barbaricina.
Dall’arrivo di gente sull’isola, gente che non sapeva navigare e si arroccò
nell’entroterra. Gente che rispondeva a nomi monosillabici (Rg, Ug, Tze, e così
via). Che nomina un luogo segreto all’interno di un monte cavo. E da quella,
sempre, prenderà il potere non colui che regnerà sulle terre, ma un giudice. In
realtà i cosiddetti “regni di Sardegna” sono meglio noti come “Giudicati” (ed
erano quattro, come le grandi ripartizione sarde dovrebbero rispettare: Logudoro,
Gallura, Arborea e Calari, cioè Sassari, Olbia, Oristano e Cagliari). Ed il
giudice non comanda, ma dirime i problemi della gente, che rispetta le sue
sentenze. Ogni epoca ha i suoi piccoli o grandi momenti. Scoperta delle
prossimità. Riti di fertilità. La fondazione di Bosa. Il grande e centrale
giudicato di Arbaré (che noi conosciamo come Arborea). Il Sud con Keral (oggi
Cagliari) sempre più vicina delle altre alla terra ferma. Un vangelo aramaico
miracolosamente arrivato dalla Terrasanta. Le vicende personale e pubbliche di
Barisone, uno dei più stimati, e dei più in difficoltà, che vede per primo la
sua terra contesa ed attaccata sia dalle potenze marinare italiche, sia dagli
aragonesi. Per terminare con le vicende di Eleonora, con la sua saggezza, con
la promulgazione di una “Carta de Logu” che sarà il codice civile e penale dell’isola
sino al cedimento ai piemontesi nel 1827. Detto così sembra un trattato di
storia. Ebbene, non lo è, perché tutti i mini-racconti che Atzeni utilizza in
modo auto-contenentesi, per far sì di descrivere il momento dell’accadimento, e
concatenantesi, in modo che, uniti in una lunga ghirlanda, ci fanno vedere in
controluce non solo la storia di un popolo, ma la genesi del suo essere. La
genesi delle sue peculiarità, delle sue bontà e delle sue cattiverie. Sempre
con questa scrittura che anch’essa è parafrasi del titolo: anch’essa, come il
popolo sardo, passa sulla terra leggera. Utilizzando poi, con capacità e
coinvolgimento, questa prima persona plurale: come se, o forse proprio perché,
il popolo sardo è un collettivo di cui è bello far parte. Un popolo di cui
Atzeni cerca di reinventarsi anche una lingua, dove la gente si chiamava tra
loro s’ard, che vuol dire danzatori delle stelle. Bisogna proprio leggerlo!
Simonetta Agnello Hornby “Il veleno dell’oleandro” Feltrinelli s.p.
(regalo di Alessandra)
[A: 16/03/2013 – I: 20/03/2013 – T: 25/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 216;
anno 2013]
Un
libro entrato nella mia libreria per l’ostinazione (benefica e che spero non
cessi mai) di chi continua a regalarmi un libro ogni volta che parto. E
partendo spesso, si capisce l’incremento di libri non pianificati. D’altra
parte l’Agnello non mi dispiace nella lettura (e prima o poi riuscirò a trovare
il tempo di leggerne le ricette) anche se in questa opera mi è sembrata con una
scrittura in calando rispetto ad altre. Non dispiace l’alternarsi dei capitoli
tra le due visioni degli avvenimenti: quella di Mara, la figliastra della
protagonista-ombra del libro, e quella di Benedetto detto Bede, l’ambiguo
poli-sessuale su cui fa perno la vicenda della tenuta di Pedrara, lì dalle
parti del catanese, nei dintorni del fiammante vulcano. Ma è proprio la vicenda
in sé, che, uscita dai frammenti delle narrazioni lascia un po’ distanti, non
coinvolge. O forse non riesce ad uscire con potenza, come sarebbe forse da una
narrazione più diretta, meno a flash-back. Perché tutta la narrazione, tutte le
presentazioni dei personaggi (che sono tanti e che a volte ci si perde un po’,
almeno all’inizio) mira alla costruzione della vicenda di una grande famiglia siciliana,
del suo apogeo e del suo perdersi, mattone dopo mattone, come una casa vecchia
cui nessuno provvede alla manutenzione. Alla fine, la ricostruiamo la vicenda.
Quella del capostipite Tommaso, ricco e console in terre arabe, dove apprende
piaceri della vita e gusti sessuali ambivalenti. La morte della prima moglie.
Lo sposarsi con la sorella di lei, che si prende cura dei figli piccoli di lui,
tra cui la narrante Mara. E che si innamora, ricambiata, di Bede, pur essendo
questi l’amante del marito. Muore il patriarca, i figli crescono e si spargono
per la penisola italica. Fanno le loro vite: Mara si sposa, genera Viola, si
separa e si danna della possibile anoressia della figlia; Giulia si dedica al
possessivo ed ambiguo Pasquale; Luigi è ossessionato dalla possibile
omosessualità del figlio Thomas. E Anna, invecchia, si ammala e torna a
Pedrara. Dove viene accudita con amore e rispetto dall’invecchiante Bede. Ma la
tenuta sta andando in rovina. E per trovare i soldi per tirare avanti, la
cricca dei fratelli di Bede, coadiuvata dal notaio e dal dottore, mette in
piedi un traffico di clandestini che transitano per Pedrara, prima di essere
smistati altrove. L’aggravarsi di Anna fa precipitare la situazione. I figli
tornano a Pedrara. Giulia per cercare dei fantomatici gioielli scomparsi. Mara
per affetto. Luigi per dovere. Ma tutta questa confusione mette i bastoni tra
le ruote della cricca del malaffare. Che prima tenta con le buone. Poi, Bede
nolente, si comincia a fare sul serio. Minacciando. E poi provocando
(accidentalmente? intenzionalmente?) la morte della vecchia Anna. E come aveva
detto sin da quando era giovane, Bede morirà insieme ad Anna. Per questo si
getterà d’alta rupe prospiciente il mare. Tutto questo, ed altro ancora, lo
scopriremo pagina dopo pagina, che le prime si aprono proprio sul funerale
congiunto di Anna e Bede, come entrambi avevano scritto nelle loro ultime
volontà. Ma tutte le scoperte, le agnizioni, le buone e le cattive azioni che
riempiono le altre 200 pagine del libro non provocano sentimenti di
partecipazione. Leggo la storia, la ricostruisco. Ma non mi emoziona, non mi
coinvolge. Una grande storia della decadenza di un’isola e della sua gente.
Dispiace. Mette tristezza. Ma non c’è mai un passo positivo, un senso di volontà
verso e non sudditanza a. Ho bisogno di personaggi positivi. E qui non ce ne
sono. Mi si dice che così è la vita. Le mie letture vogliono forse anche altro.
E forse lo vogliono ora. Non discuto di altri tempi ed altri sentimenti. Per
questo, alla fine, il libro non mi è piaciuto come mi aspettavo. Mi ha fatto
compagnia in alcune serate solitarie thailandesi. Non molto di più. Aspetto
scritture più coinvolgenti, amici scrittori.
“I figli si creano per piacere e con
egoismo; si allevano per necessità. … La grande beffa della vita è proprio
questa: i genitori continuano ad essere il sostegno dei figli, ma alla fine
muoiono soli come sono nati.” (21)
“L’amore capita, non si pianifica. E quando
si ama si dimentica il passato e il futuro. … Si ama nel presente. Mai per
gratitudine di un passato felice, e nemmeno nell’aspettativa di un bene
futuro.” (181)
Paolo Di Paolo “Dove eravate tutti” Feltrinelli euro 8 (in realtà,
scontato a 5,20 euro)
[A: 01/02/2013 – I: 27/03/2013 – T: 31/03/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 319;
anno 2011]
Passando
in libreria, durante il forzato e dorato esilio dovuto ai lavori di casa, ho
visto questo libro. Ignoto l’autore (almeno a me), ma potente il titolo.
Portato a zonzo anche lui per la Thailandia, e letto durante il lungo ritorno a
casa, devo dire che … sono contento. Bella scrittura, scorrevole, piacevole.
Non direi bella trama, che in realtà la trama c’è e on c’è. Non mi azzardo a
dire, come fece il mai troppo compianto Tabucchi, che siamo di fronte ad una
rivisitazione italiana del giovane Holden. Certo, l’autore divaga, girella, ci
fa vedere una storia. Ma è anche LA (maiuscola) storia di noi tutti, dei nostri
giorni. Non è un caso, che, ogni tanto, ci siano inserti, disegni, fogli di
giornale. È la storia di una persona normale, nel nostro mondo normale. Di
fronte ai problemi di tutti e di nessuno. Volendo, poi, scavare la storia, una
storia, c’è. È quella del protagonista, io-narrante, che si trova ad affrontare
l’ultimo scoglio da studioso, una laurea di cui nessun relatore vuole prendersi
carico, e che lui, ostinatamente, cerca di portare avanti. Intanto il padre,
professore di liceo, va in pensione. E cosa fa, il primo giorno della
non-scuola? Investe con la macchina il Thomas Marangoni, suo ex-alunno che lo
ha tormentato nell’ultimo anno. Non solo, ma che ha anche una storiella con la
figlia del professore, nonché sorella del protagonista. Thomas, per vendicarsi,
manda una lettera ipotizzando una strana serata durante l’ultima gita
scolastica tra il professore ed una supplente. Su questo plot ricorrente ed
insistente, il narratore comincia ad interrogarsi sul suo mondo. Sui suoi
rapporti con il padre (ed ogni tanto immagina scene di discussioni, litigi ed
agnizioni). Sui suoi rapporti con la madre. Sui rapporti tra i suoi genitori,
dato che la madre decide di andarsene da una zia a Berlino per “rifiatare”.
Sarà vero quello che dice Thomas? Insomma si interroga sui suoi rapporti con
il mondo, con gli altri. Ed anche con le
altre. Pensando che una sua amica di infanzia, da lui soprannominata Scirocco
(e non vi dirò perché) sia a Berlino, ci va anche lui. Non la trova, ma ha un
bel colloquio con la madre. Capisce meglio il padre. Scava in sé stesso. Torna.
Ritrova Scirocco. Spero (tutti speriamo) che nasca qualcosa, anche se, giustamente,
il narratore non ci dice tutto. Trova la sorella cresciuta, ed in
allontanamento dal Thomas di cui sopra. E torna, ritorna, e rimugina su questa
tesi dei tempi moderni. Perché lui la vuole incentrare su Berlusconi e su come
abbia cambiato il modo di essere italiano. Troppo politica, gli dicono. Troppo
attuale, per chi vuole laurearsi in storia. Meglio una bella tesi sul fascismo
(mi fa pensare…). Ma lui non demorde, con quel grido di dolore del titolo, che
sempre si porta appresso. Dove eravate quando nascevano le TV private. Dove
eravate quando l’unto scendeva in campo. Perché avete nascosto la testa da
un’altra parte. Non c’era modo di vedere oltre? Non c’era modo per il padre
professore di accorgersi che anche gli alunni crescevano. Dove siete, ora che
cade la neve a Roma? E ben ricordo che quella neve mi accompagnò poco dopo la
fine del libro in un ospedale, dove tutto è finito bene. Ma noi c’eravamo,
quando succedevano tutte queste cose. E cose facevamo? Non ci chiediamo dove vadano
i cigni come Holden. Ma ci chiediamo dove andiamo noi. Anche ora, in questi
altrettanto terribili tempi, con l’economia allo sbando, la politica ai minimi
termini. Noi che facilmente diciamo di andarcene altrove. Forse dovremmo prendere
per mano il giovane Paolo (felicemente trentenne) e dirgli che ci siamo.
Cercando con lui di farci trasportare verso lidi felici da un soffio di
scirocco. Insomma, mi è proprio piaciuto. Con tanti rimandi, che giustamente
spiega nell’epilogo, ma soprattutto uno di cui lo ringrazio, quando imbastisce
un capitolo sull’onda dell’amore liquido di Baumann. Grande! In alcuni punti
poteva essere più leggero, in altri più positivo. Va bene così. Mi sa che ne
terremo da conto per altre letture.
“Avevo mai guardato negli occhi mio padre
per un tempo superiore ai venti secondi?” (44)
“Dove sta la verità su qualcuno? … Ogni
giorno ci troviamo a parlare di persone che abbiamo intorno, come se fossimo al
corrente di tutto ciò che le riguarda. È la zona minima di quelli che chiamiamo
i Conosciuti. Si allarga lentamente, anno dopo anno, acquista nuovi membri, mentre
perde quelli meno affiatati… Ma il mondo è soprattutto, o soltanto, questo:
gente che non conosciamo.” (159)
“Stranezza di viaggiare da soli! Ci sediamo
nei caffè dopo aver camminato per ore, senza una ragione precisa e senza aver
contato i chilometri. … Sarebbe bello mimetizzarsi, non essere stranieri mai a
niente.” (174)
Simonetta Agnello Hornby “Un filo d’olio” Sellerio euro 14
[A: 30/09/2012 – I: 25/04/2013 – T: 29/04/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 266;
anno 2012]
Pensavo
di incasellarlo tra i saggi, visto che (leggendone in giro) si parlava di un
libro di ricette. Ma dopo averlo letto, penso bene che sia comunque da mettere
qui, tra i romanzi italiani. Anzi tra i ricordi autobiografici di una grande
famiglia siciliana, quella del barone Agnello. E dell’infanzia delle due bimbe,
Simonetta, ora scrittrice ma anche avvocato in difesa di minori, e Chiara, che
fa rinascere la campagna di Mosè e rinverdisce le ricette di nonna Maria. Il
libro è, infatti, bipartito (cioè diviso in due, non dedito a due parti
politiche come degenera a volte il nome): la parte narrativa di Simonetta e le
ricette descritte e commentate da Chiara. Entrambe mi hanno preso, per motivi
diversi. La narrazione della Agnello Hornby qui ritorna ai passi dei primi
libri che lessi, si fa più intima, e quindi più sentita e partecipata. Facciamo
una piccola corsa tra il ’50 ed il ’57, gli anni delle estati a Mosè, nella
campagna agrigentina. Nella casa avita, che viene ogni anno aperta da maggio a
settembre. E dove gli Agnello si trasferiscono. Dove non succedono grandi cose,
se non lo scorrere degli anni, il crescere dei bimbi, che da infanti si
affacciano alla giovinezza. Contornati da tutte le figure famigliari e di
contorno: i massari, le contadine che raccolgono le mandorle (le mennulare di
buona memoria), la tata Giuliana, il factotum Paolo, la cuoca, ma anche, e
soprattutto, le persone di sangue. La mamma Elena e la zia Teresa, il cugino
Silvano, la sorella Chiara (anche se, essendo la più piccola rimane sempre un
po’ defilata a giocare con le bambole), la nonna, il nonno, gli altri zii che
transitano, per tanto o per poco, nella casa ospitale. E tutti i misteri della
crescita: le chiacchiere dei grandi, le ammucchiate in cucina a vedere cucinare
i dolci, le gite tra i campi, le sbucciature ai ginocchi. I grandi giochi che
impegnano tutta l’estate: la ricerca dei cocci greci e fenici, le automobili da
far correre per la discesa. E con il crescere, anche il distacco verso
l’infanzia, il passaggio alla lettura, il mistero dei rapporti umani, la
nascita delle domande sul sesso. Ma i grandi lo fanno? E quando? Perché litiga
lo zio Nicola? E verso la fine, le grandi scoperte, l’irruzione del frigorifero
che sostituisce il ghiaccio ed allunga la vita del cibo, la televisione che
irrompe nelle case (e come capisco la piccola Simonetta incantata davanti alle
pecore dell’intervallo, anch’io le guardavo, prefigurandomi quello che veniva
dopo, magari la TV dei ragazzi, essendo io passato davanti alla scatola a
transistor qualche anno dopo). Per finire con il distacco, le vacanze che si
spostano in Svizzera, ad imparar le lingue. E la vita che si sposta da
Agrigento a Palermo. Insomma una bella cavalcata, contrappuntata sempre e
comunque dal cibo. Dal cibo della campagna, che poca carne si mangiava, e molto
si prendeva stagionalmente e di verdura. Zucchine, melanzane, e tanti pomodori
(ma solo per fare la salsa). La frutta, fresca, cotta, messa nel pan di spagna.
Le mele cotogne, le marmellate, l’amarena. Un contrappunto che, cessando il
ricordo di Simonetta, dona il là alle ricette rivisitate da Chiara. Sempre
quelle scritte con la bella calligrafia da nonna Maria (ed anche qui ricordo
chi scrive e conserva ricette, tirandone fuori anche sapori antichi).
Ripercorse mese dopo mese, con quella stagionalità che dava un ritmo allo
scandir dei giorni. Le cotolette di melanzane, le frittatine in trippa (questo
si che me le ricordo, frittate tagliate in strisce e ripassate al pomodoro), le
polpette fritte (buonissime da mangiare appena fatte, bollenti). Non posso
nascondere che il tutto mi fa riandare ai dieci anni (dai cinque ai quindici)
passati nelle estati tortoretane. Quando a giugno zia Vittoria apriva le case
del mare (certo in affitto, che non s’era possidenti), in quel luogo sperduto
scovato da mio padre nella riva adriatica, allora praticamente deserto (ed ora
ahi quanto frequentato). E dove a raffica ci spostavamo noi cugini (la nostra
tribù), la libertà del mese di luglio senza i genitori, il cambiamento di ritmo
ad agosto, quando vengono tutti i grandi, i dolori dei primi giorni si
settembre, quando si comincia a tornare a Roma. I giochi dell’estate, le
mitiche olimpiadi estive in spiaggia, le gite alle fonti del Salinello. E
perché no, le passeggiate verso il centro, con le teglie di pomodori al riso da
portare all’unico forno cittadino, l’apertura del cinema all’aperto. Ma queste
sono altre storie, sono le mie. Torniamo agli Agnello, e ringraziamole per la
scrittura, per le foto d’epoca che ci fanno fare mirabili salti di pensiero, e
ringraziamo con loro anche Elena e Giovanna (così come vengono giustamente
ricordate) per aver fatto da cavia alle ricette, sperando di poter ancora a
lungo provarle insieme. Due micro appunti, uno per autrice. Simonetta citando
le canzoni di Lina (che credo si situi intorno al ’53) parla di Grazie dei fior
(prima canzone vincitrice del Festival nel ’51), di Vola, colomba bianca, vola
(del ’52) ma anche de Il bosco innamorato che è solo del ’56. E Chiara parlando
della ricetta del Gelo di melone d’acqua dice “in italiano anguria”, quando più
correttamente dovrebbe dire “in italiano cocomero”, che anguria è regionale
(vedi Devoto-Oli).
“Passeggiate che avevano un’unica meta: il
bar [dove] il gelataio Don Giovannino … offriva ai clienti due soli gusti:
limone e cioccolato.” (93) [i miei preferiti, da ragazzo prendevo sempre lo
stesso cono: limone, cioccolato e panna; lo adoravo!]
Come
i miei più fedeli lettori sanno, alla prima trama del mese riporto elenco e
giudizi dei libri letti in precedenza, cioè nel mese di marzo (come vogliono i
tempi tecnici di inserimento). Marzo di letture normali, dovute anche al
viaggio thailandese, ma di buona resa, con due libri su tutti: quello di Di
Paolo (di cui avete appena letto le trame) ed il noir italo-francese di
Pandiani.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Ian Rankin
|
Cerchi e croci
|
TEA
|
9
|
3
|
2
|
Enrico Pandiani
|
Les Italiens
|
Instar
|
9
|
4
|
3
|
Alexander McCall Smith
|
Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico
|
TEA
|
8,60
|
3
|
4
|
Elizabeth Peters
|
Il segreto della tomba d’oro
|
TEA
|
8,60
|
3
|
5
|
Marco Vichi
|
Il nuovo venuto
|
TEA
|
9
|
3
|
6
|
P. D. James
|
Scuola per infermiere
|
Mondadori
|
9
|
3
|
7
|
Kathy Reichs
|
Ceneri
|
BUR
|
9,90
|
3
|
8
|
Corrado Ruggeri
|
Farfalle sul Mekong
|
Feltrinelli
|
7,50
|
3
|
9
|
Simonetta Agnello Hornby
|
Il veleno dell’oleandro
|
Feltrinelli
|
s.p.
|
2
|
10
|
Paolo Foschi
|
Il castigo di Attila
|
E/O
|
13
|
3
|
11
|
Paolo Di Paolo
|
Dove eravate tutti
|
Feltrinelli
|
8
|
4
|
Intanto siamo qui ad aspettare
notizie dei viaggi, in attesa se (come spero ardentemente) si riesca a partire
per Cuba. Anche su gli altri viaggi si lavora, per i prossimi mesi.
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