domenica 9 giugno 2013

Una scrittura femminile? - 09 giugno 2013

Probabilmente no, anche se qui abbiamo quattro scrittrici. Per una scrittura piena, a tutto tondo, di qualità migliore delle ultime letture. Anche e soprattutto dove ci sono donne che descrivono donne (o ragazze) come nella Liebrecht o nella Gamberale. Ma anche sentimenti diversi e conflittuali  come nella Dische o nella Lahiri. Insomma, una buona settimana, di letture con più alti che bassi e tutte da consigliare.
Irene Dische “Le lettere del sabato” Feltrinelli euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 11/01/2013 – T: 11/01/2013]
[tit. or.: Zwischen zwei Scheiben Glück; ling. or.: tedesco; pagine: 93; anno 1997] qui nella versione inglese [tit. or.: Between Two Seasons of Happiness; anno 1999]
Quest’anno di numeri diversi (e tra l’altro i primi, anche se in ordine sparso) è caratterizzato dalla lettura di molti suggerimenti ripresi dalle pagine “librarie” di Repubblica. Questo viene da una “Terza dei Libri”, dove in genere si affrontano argomenti “seri”. Ed anche se la forma ha più dell’apologo ed è rivolta ai giovani, questa favola triste-allegra ha una sua dignità ed un suo spazio reale. Non serve a riempire vuoti, né a fare melense storie come quella (a me veramente non piaciuta) del “Bambino a righe”. Siamo più sul versante di Schmitt, con il “Bambino di Noè" e in sottofondo la musica di Piovani. L’autrice, americana di origine tedesca, ormai risiede quasi stabilmente a Berlino. E scrive nella lingua degli avi, come ci dice il titolo originale del testo, che qui però Feltrinelli ci propone nella traduzione dall’inglese. Inoltre, benché i due titoli originali siano similari, il nostro editore decide di intitolarlo “Le lettere del sabato”, che sono una costante del libro, un asse portante, ma altrettanto portante è la stagione che vive il piccolo Peter, una stagione appunto a metà tra due momenti di felicità. Per rendere più completo questo “nazismo spiegato ai miei figli”, l’autrice fa agire da protagonisti una famiglia ungherese, il vecchio dottor Nagel, il figlio Laszlo ed il nipote Peter. Noi vediamo (quasi) tutto con gli occhi di Peter, salvo alcune parti narrate in terza persona “onnisciente” che però servono a completare quanto Peter non vede o non capisce. Laszlo è una persona dal carattere esuberante, che non si abbatte per la morte della moglie, e, intrapresa la carriera diplomatica, viene inviato a Berlino dove si trasferisce con Peter, il quale vi vive una stagione meravigliosa. Piena di scoperte, e piena del padre, che lo porta ovunque, che lo fa partecipe di tutte le sue imprese. Ed è anche protetto dalla tata Thea, che lo porta a scuola, gli insegna il tedesco. Peccato che ben presto si arrivi al 9 novembre 1938, la Notte dei Cristalli, il primo pogrom contro gli ebrei. Peter non capisce molto, salvo la scomparsa del droghiere Herr Braum. Laszlo invece capisce e lo rispedisce dal nonno, promettendogli una lettera ad ogni sabato che saranno lontani. Comincia così la seconda parte della vita di Peter, nella casa avita, con il burbero nonno ormai in pensione, e con le incombenze quotidiane. Lo studio, con una Fraulein appositamente scelta, i pochi giochi, il tè delle cinque con il nonno. E l’attesa del sabato, quando arrivano le lettere di Laszlo. Scritte con una calligrafia impossibile, tanto che il nonno è costretto a leggerle lui. E Laszlo racconta di tutto, meno quello che sembra realmente succedere. Sempre affrontando la vita come “un ragazzo nato con la camicia”. Peter ha poco da raccontare, perché poco succede lì in campagna. Ed allora comincia ad inventare una sua vita parallela, fatta di corse, di amici, di biciclette. Gli anni passano, le lettere ormai vengono scritte a macchina così Peter le leggerà da solo. Laszlo non si vede. La guerra non si sente, ma c’è. Il Dottor Nagel invecchia. Peter cresce e… Forse basta così, per ora. Alla fine, non è che sia un “grande” apprezzatore di libri dedicati ai ragazzi, anche a motivo della mia richiesta personale a tutti gli adulti: non esistono lingue diverse per parlare alle diverse età. Esiste solo chiarezza ed onestà, con le quali si può dire tutto a tutti. Ovvio, che ci possono essere passaggi delicati, ma questi vanno forse diluiti, non narrati con false voci chiocce. Irene questo fa, non demordendo mai da un narrare, in forma semplice, ma mai in forma elusiva. Peter alla fine comprenderà meglio (e noi con lui) la bontà del rude nonno Nagel, l’irreale felicità del padre Laszlo, la dolcezza della governante Thea. Ci vorrà forse un momento di sospensione della felicità per comprendere tutto ciò, ma il titolo ci porta già altrove. Ci fa già salire sul secondo versante della stagione della felicità. Un libro agile, quindi, non al massimo delle mie corde, letto un po’ per sbaglio (sì, va bene il suggerimento, ma l’avevo messo in un appunto diverso, e pensavo di aver comprato altro), ma, al fine, sicuramente degno. Come sempre saranno tutti quei libri che si occupano di momenti tragici della storia (vicini o lontani) per non farli dimenticare. E per narrarne le mille possibili sfaccettature.
“Il mondo si divide in quelli che adorano la cioccolata e quelli che adorano la liquirizia.” (34)
Savyon Liebrecht “Prove d’amore” E/O euro 7,75 (in realtà, scontato 6,20 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 14/02/2013 – T: 20/02/2013]
[titolo: Ish veishà veish; lingua: ebraico; pagine: 237; anno: 1998]
Ancora un sentito ringraziamento alle note de “Il libraio di Repubblica” che mi ha suggerito questo tiolo che non credo altrimenti avrei preso in esame. Una prima considerazione riguarda gli ambiti letterari in cui si muove. Credo che ci sia un’alta densità di scritti interessanti che ci vengono dalla terra d’Israele. Sarà forse perché, come sostiene Amos Oz in una recente intervista, la lingua ebraica è ricca di possibilità, e permette di esprimere e rappresentare situazioni dando loro molti colori che (forse, ma non sono in grado di giudicare) non verrebbero fuori in altre lingue. Sicuramente ho approfondito solo quanto deriva dal titolo originale e dalla sua (indegna) traduzione. Ora queste prove d’amore hanno sì un bell’essere possibilmente rappresentate come richieste di amore (prove) o come tracce di un amore che c’è o c’era tra i vari protagonisti della storia (prove quasi in senso poliziesco). L’originale invece è molto scarno e fa riferimento a un lui (maschio), una lei (donna) e un diverso lui (di nuovo maschio). Ed è proprio intorno a questa lei, centrale nel titolo, che si sviluppa il libro. Una lei, centrale anche nello sviluppo. È con i suoi occhi che vediamo svolgersi una trama, che è intensa, dolorosa, piena di momenti di riflessione, a volte buttati lì quasi per caso, ma che (per me) denotano un’intensità nel pensare e nell’osservare. Lei è Hamutal, nome biblico che (purtroppo) non so tradurre ma che fu madre di due degli ultimi re del Regno di Giuda (la cui fine fu decisa quando Nabuccodonosor distrusse il primo tempio del re Salomone). Ed un’attenta lettura porta a vedere tutti i riferimenti biblici sempre molto presenti nella letteratura ebraica. Hamutal qui è madre di due figlie, e c’è tra loro una grossa tensione, scarsamente alleviata dal marito Aron (che nella Bibbia è il fratello di Mosè). Quindi la vita familiare di Hamutal è sull’orlo di una grossa crisi. Che si accentua con il ricovero della di lei madre in un ospedale geriatrico per malati terminali. Assistiamo così alla scissione di Hamutal tra le lotte (appena accennate, ma si intuisce dirompenti) in famiglia e la battaglia per recuperare un rapporto con la madre, che, sicuramente malata di Alzheimer, esce a tratti dal buio della malattia, ma non ha (come non ha mai avuto) una parola di gentilezza verso la figlia. In questa situazione critica si inserisce Shaul (in italiano Saul, anche lui forte personaggio biblico, prima inneggiato poi osteggiato dalle tribù di Israele, che spinsero poi sul suo trono il giovane David vincitore di Golia). Figlio di un altro malato terminale. Tra i due, miracolosamente, scoppia una scintilla. Un sentimento di reciproco sostentamento, nel momento del dolore. Nel recupero del rapporto con i genitori. Con quella sensazione (reciproca) di aver trovato qualcuno che comprende le parole che vengono dette (ed anche quelle che vengono taciute). Shaul è tornato lì, a Tel Aviv, per accudire il padre, lasciando moglie e figli a Chicago, dove si è trasferito da anni. La storia è tutta giocata tra questi personaggi che si muovono con difficoltà, che spesso fanno passi falsi, ognuno perseguendo in realtà un proprio gioco, un proprio disegno. Che scoppierà (ma non dico come) alla morte del padre di Shaul. Da contrappunto, inoltre, come spesso in questa letteratura, i discorsi della guerra, delle deportazioni, di Auschwitz. Shifra (che in ebraico significa amorevole) è una madre che ha subito grossi danni durante la Shoah, e questo riaffiora anche nei più alti momenti di obnubilazione mentale. Non è un libro consolatorio, anche se ognuno uscirà più maturo alla fine del romanzo (e continuerò a non dirvi in quale direzione). È un libro di pensieri: come può avere un’infanzia serena una figlia di deportati che non hanno superato quel trauma? Come fa una ragazza a diventare una madre consapevole se non ha mai avuto la sensazione di essere amata? Quali sono i modi per interagire tra adulti e ragazzi, quando entrambi hanno momenti problematici? Come fanno i lui a capire cosa vuole lei? Fortunatamente, ed è questa un’altra delle bellezze del romanzo, Savyon è donna e si cala in Hamutal, e ce ne fa seguire i ragionamenti, le deduzioni, le paure, le gioie. Per me è stata una cartina di tornasole su cui vedere dei ragionamenti che anche io (come tanti) abbiamo fatto nella nostra vita, ma dal punto di vista femminile e non maschile. Non sono uscito allegro dal libro, troppe frecce lanciate, ma pieno della speranza che c’è sempre un modo per andare avanti: continuare ad essere se stessi.
“Tutto è predestinato, ma ognuno è libero di decidere.” (101)
“Quando l’uomo è un ragazzo, canta; quando è adulto, racconta parabole; quando è vecchio, dice cose vane.” (126)
“Penso che preferirei dimenticare la maggior parte delle cose che ricordo.” (135)
Jhumpa Lahiri “L’omonimo” Guanda euro 9 (in realtà, scontato a 6,84 euro)
[A: 07/08/2012– I: 09/05/2013 – T: 10/05/2013]
[tit. or.: The Namesake; ling. or.: inglese; pagine: 342; anno 2003]
Mi avevano incuriosito alcune circostanze temporalmente coincidenti con la scoperta di questo libro negli scaffali della ex-libreria MEL in via Nazionale. Avevo da poco finito il libro dell’indiano Ghosh sull’epopea indiana dell’emigrazione dall’India alle Maldive. Avevo visto uscire un film tratto da questo libro. E mi colpiva il titolo, questa volta fedelmente riprodotto dall’originale. Omonimo? Ma a chi? A cosa? E chi è questa Jhumpa, vincitrice di un Pulitzer nel 2000? Date queste premesse, si acquista, e poi si lascia riposare fino a quando non è stato il suo turno. La scrittura, venendo da un Pulitzer, non poteva che essere gradevole. E la storia anche, mantiene le promesse, anche se non si accosta alle grandi saghe dell’a me più consono Amitav. Perché alla fine, il risultato è dignitoso, tant’è che l’ho letto in un paio di giorni (anzi di notti), ma mi aspettavo qualcosa di più. Certo, ritrae, e credo fedelmente vista la storia personale della scrittrice, il mondo degli indiani espatriati. Dei loro problemi nei mondi di arrivo. E di quello che lasciano nei mondi di partenza. La storia segue grosso modo la tempistica di una generazione. Seguiamo, infatti, lo sposalizio di Ashima e Ashoke. La nascita del figlio, e la sua crescita fino ad un intorno dei suoi trenta anni. E le evoluzioni, che in una generazione di espatriati, avvengono nei modi di vivere dei personaggi. Ashoke, da giovane grande lettore soprattutto di letteratura russa, si salva miracolosamente da un disastro ferroviario mentre legge “Il cappotto” di Gogol. Abbandona allora la letteratura, si trasferisce a studiare al MIT di Boston, e, avviato sulla trentina, acconsente ad un matrimonio combinato con Ashima, che non ha mai visto. Anche Ashima si trasferisce a Boston, e viviamo con loro la prima parte del loro espatrio. Non sono certo clandestini, anzi direi quasi benestanti. Ma vivono nel mondo chiuso dei bengalesi all’estero, frequentandosi solo tra di loro. E quando nasce il loro figlio scopriamo la bellezza del nome. Che nel Bengala (forse in tutta l’India) uno è il nome anagrafico, ma altro e più vicino alle persone è il nome familiare. Ma il nome anagrafico deve essere dato dal parente più anziano, la nonna indiana, la cui lettera con il nome mai arriverà. In America, come in tutti i paesi occidentali, non si esce dall’ospedale senza un nome. Viene allora dato al bimbo il primo nome che sorge nella mente di Ashoke: quello dell’autore che gli salvò la vita. Ed ecco l’omonimia. Ecco aggirarsi per Boston il piccolo Gogol Ganguli. Tutta la storia di Gogol sarà permeata da questo dualismo di un nome che non dovrebbe essere il suo, ma che, allo stesso tempo, è quello di un grande personaggio. Questo da modo alla scrittrice di scavare nei meandri dei modi di vivere e di essere degli espatriati benestanti. Dei loro figli (dopo Gogol nascerà la bella Senali, che ben presto verrà chiamata semplicemente Sonia). E Gogol cresce combattuto, amando – odiando il nome e le sue origini. Cercando di allontanarsi, appena può, dall’ambiente bengalese. Dopo la giovinezza che viviamo insieme alle sue frustrazioni, si libera, va a vivere da solo. Fa esperienza. Ha una prima storia d’amore che finisce presto. Poi una grande storia, negli anni universitari e da poco laureato, con l’emancipata Maxine. Intanto, si è anche cambiato il nome in Nikhil, proprio per allontanarsi dall’India. Ma anche la convivenza con Maxine regge fino alla morte di Ashoke. Quando Gogol – Nikhil verrà risucchiato, consenziente, nel mondo degli espatriati. Con i riti funebri. Con la scoperta dell’amore con l’intelligente Moshumi. Il matrimonio, con tutti i rituali indiani, trasportati nella provincia americana. Ma il libro non è un libro di formazione allegro, non intende consolarci, che Gogol sarà sempre sconfitto finché non accetterà l’origine del suo nome. Per riavvicinarsi definitivamente, anche se solitario, al mondo della madre mesta e della sorella allegra. Anche se è e sarà americano e non indiano (vogliamo parlare dello ius soli?). Le parti migliori sono quelle delle contrapposizioni tra usanze americane ed abitudini indiane, e quando di quest’ultime viene dato spiegazione ed approfondimento. È certo un libro dolente, che l’emigrazione sempre lo è. Ma utile per chi l’espatrio lo ha vissuto sulla propria pelle (Jhumpa nasce, infatti, a Londra da genitori indiani e presto si trasferisce in America). A me, tra le altre, lascia il segno il rapporto tra Ashoke e Gogol, soprattutto quando quest’ultimo segue la propria indole di architetto e non fa facoltà scientifiche come voleva il padre. Tuttavia mi aspettavo uno scatto di qualità, che, alla fine, non ho trovato. Anche se ne consiglio la lettura. In ultimo consiglio allo sprovveduto traduttore di Kathy Reichs (di cui ho ampiamente parlato male) di fare un corso di inglese con Claudia Tarolo, che ben traduce il libro, portandoci in tavola, a pagina 242, un’insalata di rucola e pere!
“Non riesce a liberarsi dall’idea che metà delle persone presenti in quella stanza siano andate a letto insieme.” (281)
“Fissando il mare sterminato di novità [in libreria] si rende conto che non ha letto nessuno di questi libri, e che senso ha regalarle qualcosa che non ha letto?” (320)
Chiara Gamberale “Le luci nelle case degli altri” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato 9,75 euro)
[A: 01/11/2012– I: 25/05/2013 – T: 26/05/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 392; anno 2010]
Una bella e gradevole lettura, per cui devo ringraziare l’amica Paola N del suggerimento. Già altro ho letto della Gamberale, e già ricordai come mi colpì la fulminazione iniziale di quel “La zona cieca”, libro costruito sul quadrato di Johari, che spero ricordino i miei amici psicologi (e che se qualcuno vuole, altrove ricorderò). Anche qui c’è una bella idea “scatenante”, ed un susseguirsi di narrati (in soggettiva) e flashback (in oggettiva e corsivo) dove bisogna un po’ entrare nel meccanismo, ma poi scorre veloce, anche se non lieve, verso l’attesa spasmodica (per me lettore a volte ansioso) del disvelamento finale. E come tutti i libri che mi appassionano, anche qui, alla fine, abbandonato il capo sul cuscino, mi sono posto ad immaginare il dopo. Cosa avrebbero fatto Mandorla, e Matteo, e Lidia, Giulia, Lorenzo, e tutti gli altri coinvolti nella trama. E quale è questa volta l’idea da cui parte la scrittrice? Il nucleo della trama è imperniata sulla vita di un condominio romano, sito in via di Grotta Perfetta a Roma, stretto tra la Cristoforo Colombo ed il Parco dell’Appia. Cinque piani, cinque nuclei familiari. L’amministratrice del condominio (“le sue riunioni condominiali sembravano più che altro sedute di autocoscienza”), muore lasciando la figlioletta, Mandorla, di 6 anni, ed una lettera dove indica come l’abbia concepita nel lavatoio del condominio, a valle di una riunione. I maschi del condominio si sentono parte in causa, ma per il quieto vivere di tutti (forse meno che della piccola Mandorla), decidono di non approfondire la questione, ma di “adottare” come condominio la piccola che vivrà due anni, più o meno, in ogni famiglia. Su questo assunto strampalato, si dipana quindi la storia. Che intreccia la crescita di Mandorla, con l’interazione tra lei e le varie famiglie. E la storia delle famiglie stesse. La signorina Tina, maestra in persona, sarà la prima (è quella del primo piano). E poi salendo, con gli anni e le scale, passa al secondo piano con la famiglia Sgrò, dove c’è l’avvocato Caterina e lo sconclusionato cinefilo Samuele ed il loro figlio Lars (chiamato così in onore di Lars Von Tier). E dove seguiamo la “lucida follia” di Samuele che gira un film alla maniera di Heimat (ad essere buoni) o al Wharol del sonno, riprendendo 24 ore di sonno del figlio. Questo, e il tradimento di Samuele con … (non ve lo dico), porteranno alla rottura della famiglia, ed al trasferimento anzi tempo al terzo piano. Dove invece vivono Paolo e Michelangelo, la coppia gay. Che, nonostante gli attriti tra Paolo e Mandorla, si rivela pieno di dolcezze reciproche. Mandorla sta crescendo, diventa sempre più “difficile”, perché non si adatta agli ADME (come li definisce lei: gli Altri Della Mia Età), e non servirà, anche se la farà maturare, il passaggio al quarto piano, da Lidia e Lorenzo. Maturare che Lorenzo è un intellettuale sconclusionato, ma capace di seguire un ragionamento. E Lidia cura un programma “amorevole” alla radio (come del resto la nostra scrittrice). Ma la crisi vera arriverà all’ultimo piano, dalla famiglia Barilla. Che più famiglia non si può: lui, padre, dirigente d’industria, assolutamente privo di qualsiasi traccia di umanità, lei, madre, che fa la madre “classica” che non chiede ma fa. Ed i due figli: Giulia, che ben presto se ne va in Inghilterra, e Matteo. Che ha la stessa età di Mandorla, che vanno nella stessa classe. E di cui (ovvio) Mandorla si innamora. Ma Matteo non pare recepire i messaggi e si mette con Eva, l’unica amica di Mandorla. Che per ripicca si invaghisce di uno spostato, Palomo, che millanta una madre messicana ed ha la sola capacità di inventarsi storie. Strampalate, ma talmente belle che sono quello di cui Mandorla ha bisogno. E per Palomo, Mandorla farà sciocchezze grandi e piccole. Costringendo il condominio a ripensare tutti i gli atteggiamenti tenuti. Ed a prometterle il test del DNA per scoprire chi sia il padre. Mandorla, in una lunga notte in prigione (e non vi dirò perché) ripercorre tutta la sua vita condominiale. Ed una volta uscita, ci sarà una nuova riunione condominiale, per decidere i tempi del test, e per ascoltare cosa vorrà dire Mandorla, e cosa Matteo. Non vi svelo l’ultima parte, significativa e che da anche senso al tutto. È un bel modo, per la Gamberale, di sciogliere i dilemmi, e di portare avanti i problemi dei rapporti interpersonali. Una madre è sempre una madre, ma un padre lo si può diventare, anche non essendolo, o non sapendo di esserlo, come dimostrano in vario modo i condomini di Poggio Ameno. Insomma, un bel flash di situazioni varie, possibili e reali. Che toccano tanti temi: la solitudine della vecchiaia, i gay, i rapporti nati su di una base comune, ma che non si evolvono nel tempo e necessariamente si logorano, paternità biologica o naturale, amori giovanili e giovanili ribellioni. Questo solo per toccarne alcuni. E per ribadire che a me è piaciuto, e ne consiglio la lettura. Magari estiva, davanti ad un mare blu, con una Coca fresca vicino.
“Incredibile… come la vita ci cambia mentre noi siamo tutti concentrati a cambiare lei.” (117)
“Comincio a credere che si possa essere davvero genitori o figli solo dentro di noi, al di là del ruolo che la vita ci assegna e che, giusto accidentalmente, può corrispondere a quello che siamo più adatti a fare.” (255)
“Possiamo mettercela tutta per cambiare le cose che non ci piacciono. Ma ce ne sono certe che dobbiamo solo accettare così come sono. Il gioco sta nel riconoscere quali sono quelle e quali sono queste.” (373)
“L’unico perdono possibile che possiamo concedere alle nostre mamme e ai nostri papà è lasciarli andare, a un certo punto. Continuare a volergli bene … ma smetterla di far dipendere il nostro destino dal loro. Altrimenti avremo solo una buona scusa per non combinarci mai niente, con quel destino.” (385)
Ancora nessuna notizia certa su Cuba, qualche schiarita sul Portogallo, e andiamo a votare con un po’ di tremore ed il passaporto in mano (sperando che si voli anche lì). 

Nessun commento:

Posta un commento