Forse avrei dovuto dire molto de
Giovanni, visto che abbiamo ben tre libri dello scrittore napoletano. Ma sono
libri senza molto Ricciardi, il commissario a me caro, ed in compenso con molta
città. Sia nelle prime avventure del nostro, sia negli ultimi due libri,
ambientati nella Napoli d’oggi. Il primo tutto imperniato sul nuovo
personaggio, l’ispettore Lojacono, ed il secondo sulla squadra che viene messa
in piedi per tirar su le sorti del commissariato di Pizzofalcone. Una serie che
sta avendo successo (anche se per me non ancora “a pieno ritmo”), tanto che
esce un terzo libro in questi giorni. A completar la quaterna, un inutile e
dimenticabile romanzo giallo di Enrico Luceri (il poco altro del titolo).
Maurizio de Giovanni “L’omicidio Carosino” Edizioni CentoAutori euro 9
[A: 15/04/2013– I: 12/06/2013 – T: 13/06/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 107;
anno 2012]
Un
libretto veloce che riprende, assembla e compendia, come dice il sottotitolo,
“Le prime indagini del commissario Ricciardi”. E seppur nei tre brevi racconti
che lo compongono si vedono in filigrana gli aspetti della migliore scrittura
di de Giovanni (quella di Fandango, per intenderci, che a me il passaggio ad
Einaudi lascia tuttora perplesso), è un libretto che mostra molto presto i suoi
limiti. Il commissario non ha il passo per il racconto, le sue ponderazioni ed
il suo incidere nella vita ha bisogno del respiro più lungo che gli viene dal
romanzo. Il primo testo, poi, è in assoluto la prima uscita del commissario,
nato quasi per scommesso come risposta ad un concorso letterario cui l’autore
non voleva partecipare. E mentre pensa (come confessa nella postfazione) seduto
al Gambrinus, gli viene fuori la storia di questo commissario che vede i morti.
Solo i morti di morte violenta, che gli ripetono, come in un film che si
inceppa, le ultime parole prima della morte. Un dono (o una maledizione) che
sappiamo anche dai romanzi gli deriva dall’infanzia, e forse gli viene trasmessa
dalla madre. Ed anche qui, ne “L’omicidio Carosino”, è la frase della duchessa
che gli fa venire in mente la reale soluzione dell’omicidio. La duchessa è
donna di mondo, si accompagna con un giornalista sposato, e sarà la moglie di
questi (non svelo nulla che viene ben presto detto) a spararle al petto. Ma noi
ed il commissario sappiamo che la duchessa è già morta. E la frase, nel giro di
tre pagine, lo porta alla soluzione. Che forse non porterà alla condanna perché
poi il commissario è anche empatico con le situazioni che affronta. E, benché
nel pieno dell’era fascista, è sempre al limite della ribellione. Anche se non
aperta, essendo commissario regio (ma ci andrà vicino in uno degli ultimi
romanzi, per salvare il suo amico dottore). E mentre qui non porta avanti
l’indagine oltre la colpevolezza per sua decisione, nel secondo “I vivi e i
morti”, lo fa per decisione superiore. Che l’assassino del prete pedofilo,
della prostituta, dei malavitosi al ristorante, se svelato, darebbe un risvolto
che le autorità non vogliono venga preso. Qui la brevità delle pagine toglie
molto al procedere delle indagini. Certo, Ricciardi con il fido Maione si reca
nei vari luoghi dei crimini, affronta i “suoi” morti da solo, ne prende e ne
mastica l’ultima frase. E ben presto trova la soluzione, aiutato dal modus
operandi e dalla dislocazione delle case nel centro della città. Ancora più breve,
ed ancora meno “avvincente” è l’ultimo racconto, “Mammarella”, che pensavo si
riferisse al trans che vedremo protagonista di ben altre storie insieme al
brigadiere Maione per aiutare il commissario in difficoltà. Invece anche qui è
l’ultima frase di una prostituta, il cui profilo verrà poi preso ed ampliato
nell’ultimo libro uscito “Vipera”. Non c’è molta storia, dietro la prostituta uccisa,
che non vuole smettere di farlo, che ha un cliente fisso che la vuole fuori da
quel mondo, ma che di certo non l’ha uccisa. Potrà essere solo qualcuno che
l’ha vista “nature”, che la sua bellezza fa impazzire. Ed in due mezze pagine,
Ricciardi risolve il caso senza farci assaporare che molto poco dei suoi
ragionamenti. Quindi, dei racconti per filologi che vogliono vedere come nasce
un caso letterario. Come se non bastasse, a questi pochi punti a favore, si
aggiungono molti e pesanti punti negativi, sia nella prefazione che nella
confezione del libro. La prefazione di Aldo Putignano sembra voler fare un’esegesi
del commissario, spiegarcene psicologie e movenze, ma risolta un poco utile
sfoggio di cultura “ricciardiana”, con quel tono “aulico” di chi sta
impartendoci una lezione, ma che avrebbe fatto meglio ad entrare nel vivo,
spiegare connessioni, rimandi, riflessioni. E che soprattutto tace
completamente le possibili evoluzioni dei rapporti amorosi del nostro, preso
tra la dolce Enrica e la travolgente Livia. E prende solo come dato, senza
studiarne le possibilità, il fatto che qui in queste prime storie, ambientate
nel ’29, Ricciardi ha 36 anni, mentre quando parte con i romanzi Fandango, e ci
si colloca nel ’31, il commissario ringiovanisce di 5-6 anni. E viene citato
solo en passant che queste storie sono scritte nel 2006, mentre il primo
romanzo è del 2007. Forse una scrittura completa avrebbe giovato anche di una
bibliografia ragionata, così da vederne l’evolversi e ragionare sulle uscite
finora una ogni anno. Invece viene solo citato il 2012, ma è solo l’anno di
questa collazione. Ed aspettiamo qualcosa anche nel 2013? Personalmente, poi,
non ho trovato qui rimandi alle stagioni come dice Putignano rispetto ad Ed
McBain (supposto maestro di de Giovanni, e che si rivelerà meglio nei
successivi e non ricciardiani scritti). E poi la sciatteria dell’editing: a
pag. 26 la frase “inconsapevole della propria morte” viene pubblicata come “inconsapevole
della propria mode” (!!), a pag. 28, 39 e 43 invece di una “l” viene stampato
“1”, facendo diventare “Il” un “I1” e “là” un “1à” (!!). Bocciato, irrimediabilmente
bocciato l’autore del software di stampa delle edizioni CentoAutori.
Enrico Luceri “Buio come una cantina chiusa” Mondadori euro 4,90
[A: 07/05/2013– I: 29/07/2013 – T: 30/07/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 146;
anno 2013]
Avevo
letto il primo sforzo letterario di Luceri, interessante anche se non
pienamente riuscito. Anche perché aveva vinto (credo meritatamente) nel 2008 il
Premio Tedeschi, un premio dedicato dalla casa editrice Mondadori a gialli
italiani inediti. Ripetendo quindi quanto i miei tramatori sanno a memoria,
visto che esce un nuovo giallo italiano, e visto che l’autore è anche noto,
vado subito all’acquisto. Non subito alla lettura (colpita del solito
algoritmo), ma una volta letto devo, purtroppo, alzare il tiro e sparare a
zero. L’unica cosa decente del libro “Giallo Mondadori n.3082” è il catalogo
dei Gialli Mondadori usciti dal n.1 antico in poi (il primo giallo è, infatti,
del 1926, contraddistinto dalla sigla 1A ed è il favoloso caso del signor
Benson di S.S. Van Dine; e nella lista scopro che nel 1931, con il numero 21A
esce anche il primo giallo italiano di Alessandro Varaldo: mitico!). Il romanzo
invece scorre via senza prendere, senza incuriosire, facendo immaginare dalle
prime pagine cosa succederà, chi sarà e cosa farà. Il peggio (per me) è un po’
di presupponenza che fa della scrittura il tentativo (solito) di dire e non
dire, di alludere, di far vedere senza mostrare. Invece… La storia è presto
descritta: Alfredo torna nella casa paterna ad un anno dalla morte (suicidio?)
del padre. Deve riaprila, vuole rimetterla a nuovo. Ben presto però c’è qualche
elemento che stride. La casa sembra abitata, micro incidenti si succedono. Come
se il padre fosse lì. Oppure, ma che facile contromossa, se qualcuno sapesse
quale ossessione fosse per Alfredo il padre Giacomo. Da quando, giocando a
palla da solo in giardino, con una pallonata recide un fiore amato dal padre.
Che per punirlo lo chiude a lungo nella cantina, buia ovviamente. La moglie
Veronica sembra solidale con le angosce del marito, anche se si mantiene fredda
e distante. Il commissario Viani, che sente puzza di bruciato, mette una bella
ispettrice sulle orme di Alfredo e della storia. Anche perché il commissario
indaga sulla strana scomparsa di un barbone, ex colto personaggio nonché
violinista. Senza neanche farci perdere non dico il sonno, ma neanche un
tremolio di occhi, scopriamo la presenza del cognato di Alfredo nonché fratello
di Veronica, che compare e scompare misteriosamente. Ma chi, se non Veronica,
conosce proprio i problemi infantili del marito? E visto che Alfredo sembra
proprio non poterne più della bella di turno, Veronica, panicata di perdere tutto,
fa l’impossibile per innervosire Alfredo, farlo agire sconclusionatamente,
eventualmente cercandone l’interdizione di modo che possa approfittarne lei ed
il fetente fratello. Inconsapevolmente, tuttavia, queste messe in scena, certo
innervosiscono Alfredo, ma in modo diverso da come si aspetta Vero. In modo
traverso, Alfredo fa in modo che la polizia scopra il tristo ordito della
coppia e se ne sbarazza. Ma Viani persiste ed insiste. Fino a quando scopre, o
meglio lo scopre la bella Claudia, tutto il retroscena. Cioè che Giacomo è
proprio morto, così come il finto sosia barbone violinista. Il tutto collegato
con quel roseto infantile. Non sembra un po’ labile la traccia per il filo
degli anni? O forse quello fu solo l’iceberg di una vessazione che per decenni
portava Giacomo ad angariare l’inutile figlio Alfredo. Ma non ti sembrano
troppe 146 pagine per dire tante cose banali, che dopo la terza pagina sono già
ipotizzabili. Non trovo neanche la scrittura solida, come qualcuno afferma. Né
la trama degna dei migliori film thriller. Al massimo degna di qualche giallo
di serie B degli anni ’70. Da dimenticare in fretta.
Maurizio de Giovanni “Il metodo del coccodrillo” Mondadori euro 10
[A: 19/05/2013– I: 07/08/2013 – T: 08/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 247;
anno 2011]
Aspettando che il mio amato
commissario Ricciardi torni sulla cresta dell’onda in un'altra opera dedicata a
qualche altra festa da santificare, il nostro bravo scrittore napoletano si
dedica ad aprire un altro filone di storie. Sempre ambientate a Napoli, anche
se siamo nella Napoli di oggi, città cupa, inospitale, caotica, non più quella
calda degli anni Trenta. Dove pure c’erano tanti problemi, ma sembrava esserci
più attenzione all’altro. Qui invece, come spesso nelle città moderne, si può
fare molto senza essere visti, mischiandosi alla folla che ci costruisce intorno
un paravento di invisibilità. E nessuno sembra vedere “il Coccodrillo”, un
killer così chiamato dai giornali quando si trovano sempre fazzoletti bagnati
di lacrime sul posto dei delitti. Freddi, efferati, che colpiscano tre giovani,
di età differenti, di quartieri differenti, di stato sociale differente. Che
sembrano proprio non avere nulla in comune. Solo l'ispettore Giuseppe Lojacono pare
riuscire a bucare il velo delle apparenze, sorretto dal suo fiuto e dalla sua
stessa storia triste. Infatti, è da poco stato trasferito a Napoli dall’amata
Sicilia, dopo che un collaboratore di giustizia lo accusa (ingiustamente) di essere
colluso con la mafia. Potenza delle parole, viene emarginato, prima dalla
squadra mobile di Agrigento, poi lasciato da moglie e figlia, quindi trasferito
(promoveatur ut amoveatur) a Napoli. Ma quando le indagini sono affidate alla
bella e scontrosa sostituto procuratore Laura Piras, questa si accorge delle
capacità intuitive dell’ispettore, e, contro molti, decide di dargli
un’occasione di riscatto. Aggirandosi nella cupa città di cui sopra, collegando
fatti, all’apparenza scollegati, Lojacono comincia a ricostruire il filo rosso
che lega i delitti. Legati a fatti dolorosi di molti anni prima, ad una ragazza
morta dopo un aborto clandestino. Ed alle morti che segnano i figli dei
protagonisti della vicenda. L’amica, l’infermiera, il medico abortista. Ormai
perdutisi di vista, ma che qualcuno, di certo legato alla ragazza morta,
ricostruisce i collegamenti. Organizzando per anni, ed ora finalmente e
dolorosamente compiendo la sua vendetta. Lojacono e la Piras risolvono alla
fine il caso, ma senza riuscire a salvare nessuno. Questo il terribile verdetto
che porta a conclusione l’amaro scritto di de Giovanni. In questa odissea tra
bene e male, non ci sarà un salvifico ritorno a casa dell’eroe. Si comprenderà
tutto, e tutto avrà alla fine un senso. Ed una fine. Definitiva per il
Coccodrillo e le sue vittime. Sospesa nel limbo delle prosecuzioni per
l’ispettore ed il sostituto procuratore. Le cifre stilistiche di de Giovanni
sono sempre presenti, l’attenzione ai particolari, le costruzioni ambientali.
Anche se, personalmente, preferivo la ricostruzione d’atmosfera che ci regalava
Ricciardi. E quell’idea del commissario empatico e solitario. Trasportate nel
presente, le vicende sono sempre intense, anche se la costruzione è un po’
troppo presto decrittata. Sarà una mia impressione, ma da quando de Giovanni ha
lasciato la Fandango per approdare a Mondadori ed Einaudi, le storie hanno
perso un po’ di mordente. Apparentemente sembrano ancora cercare di mordere il
sociale, ma è solo apparenza. Sono delle belle storie, sicuramente scritte con
capacità e mestiere. Ma sembra quasi che i nuovi editori limino un po’ le
unghie graffianti dello scrittore, lasciando soltanto qualche ferita. Però
superficiale, che si rimargina presto senza quasi lasciare il segno. Tuttavia
rimane immutato il mio rispetto per il suo scrivere ed il piacere di attendere
nuove uscite dei suoi personaggi.
“È un vecchio, avrà almeno cinquant’anni.” (61)
Maurizio de Giovanni “I bastardi di Pizzofalcone” Einaudi s.p. (Regalo
di Alessandra)
[A: 31/07/2013– I: 08/08/2013 – T: 09/08/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 316;
anno 2013]
Gli occhielli di lancio spacciano
questo nuovo libro di de Giovanni come l’inizio di una nuova saga, moderna
rispetto a quella dell’amato ispettore Ricciardi degli anni fascisti. In realtà,
il tentativo dello scrittore di scavare nella realtà contemporanea nasce dal da
poco letto e tramato “Metodo del Coccodrillo”. Il percorso dell’autore è
abbastanza lineare e scontato: prima lanciare un personaggio nuovo e vedere
come risponde, sia alle proprie esigenze che a quello dei lettori ed estimatori.
Mentre Ricciardi aveva dalla sua il contorno degli Anni Trenta che gli consentiva
di rimanere in scena da solo con pochi e scelti comprimari, de Giovanni si
accorge che l’ispettore Lojacono detto il Cinese, da solo non ha la forza di
sostenere una serie di romanzi. Troppa dura e molteplice la realtà della Napoli
di oggi. Dove anche se non compare il cancro della Camorra, l’autore ci porta
in una Napoli contemporanea, sporca e violenta, intasata dal traffico, niente
di più lontano dallo stereotipo di sole, pizza e mandolini, (in questa indagine
piove, fa freddo e tira vento, quasi come in una città del nord) forse meno
poetica ed elegante della Napoli retrò di Ricciardi, ma sicuramente più
realistica e attuale. Passa quindi ad un “procedural thriller” ben mutuato
dalle lunghe scritture del buon Salvatore Lombino (meglio noto come Ed McBain).
I “bastardi” del titolo, i reietti, sono, infatti, questa squadra, poliziotti
scomodi che nessuno vuole, allontanati dai distretti di provenienza e
parcheggiati nel commissariato di Pizzofalcone, “celebre” perché alcuni suoi
uomini furono coinvolti in traffici di droga. E qui giunge l’ispettore
Lojacono, quasi felice di lasciare il territorio del commissario Di Vincenzo,
sebbene la brillante risoluzione del caso del Coccodrillo, avrebbe dovuto
metterlo al riparo da inimicizie e vendette professionali. Ad accoglierlo, il
nuovo commissario Luigi Palma, sorriso da venditore di aspirapolvere,
entusiasmo e buona volontà, che prima di tutti ha creduto nel riscatto del
gruppo. Poi il resto della sua nuova squadra: la vice sovrintendente Ottavia
Calabrese (figlio portatore di handicap e ammalata di asfissia familiare) e il
sostituto commissario Giorgio Pisanelli (urina sangue per cancro alla prostata
e cerca il colpevole di finti suicidi di anziani), gli interni con mansioni di
scrivania, passati indenni dopo il repulisti a seguito dello scandalo legato
alla droga; poi c’è l’assistente capo Francesco Romano, detto dai colleghi Hulk
(rischia sempre di strangolare i criminali ma poi picchia anche la moglie); c’è
l’agente assistente Alessandra Di Nardo, detta Alex, (lesbica e fuori di testa
per le armi); e infine il personaggio più bizzarro del gruppo, l’agente scelto
Marco Aragona, una strana capigliatura alla Elvis, occhiali dalle lenti azzurrate
a goccia, guidatore spericolato, meno scemo di quello che appare. Subito tre
casi si presentano alla squadra. La segnalazione di una vecchia bisbetica che
nota strano che la vicina del palazzo di fronte non esca mai di casa e stia
ritirata nel suo appartamento quasi prigioniera; le ricerche di Giorgio
Pisanelli legate ad apparenti suicidi che lui non crede tali; e infine un
“vero” caso di omicidio, nella parte bene del distretto, affidato a Lojacono (anche
lui come Ricciardi inconsciamente nel privato combattuto tra diversi amori: la
padrona dell’osteria, Laura la bella procuratrice e la figlia problematica) e
Aragona. La morte della moglie del notaio Festa, trovata dalla cameriera bulgara
con il cranio sfondato, da una di quelle palle di vetro, che scrollandole
sembra che cada la neve. Tre casi, tre indagini, un solo obbiettivo: fare sopravvivere
il commissariato di Pizzofalcone. La contemporaneità sembra suggerire
all’autore riflessioni più amare, più dure, riflesso di uno squallore
esistenziale e di una mancanza di umanità e dolcezza che caratterizza il mondo
moderno. Pensiamo solo al personaggio del notaio, un arrampicatore infondo,
freddo ed egoista, circondato da relazioni sterili e quasi mercenarie,
insensibile al dolore della moglie stoicamente ancora innamorata di lui. Poi c'è
la bellissima ragazzina "venduta" dalla famiglia a un ricco
archistar, che la tiene segregata pur di possederla. Chi sia la vittima e chi
il carnefice, alla fine, diventa un’altalena in cui bene e male si confondono.
Come nella realtà. Una scala di valori è stata distrutta e destrutturata,
vittima e carnefice si scambiano i ruoli, la bellezza si è trasformata in arma
sociale. Si può chiamare "effetto olgettine" oppure in altro modo, ma
il fenomeno, spaventoso, resta. Bellissimo anche il personaggio di Giorgio
Pisanelli, dolente, fragile, capace di evocare compassione e tenerezza, oltre a
riflessioni sulla vecchiaia e sulla solitudine. La voce dei colpevoli, del
notaio e dell’amante, della ragazza prigioniera nell’appartamento, si alternano
in prima persona alla cronaca delle indagini fino al finale che naturalmente
lascia qualche porta aperta, per il possibile seguito. Un buon poliziesco
insomma, robusto, essenziale, senza sbavature. Ripeto, personalmente continuo a
preferire il commissario Ricciardi (facendo il tifo che si metta con Enrica, prima
o poi). Ma questo è ben leggibile, e credo che ben presto ne vedremo un
seguito.
Cominciando questo bellissimo
mese di dicembre, dove aspettiamo un lieto Natale, pubblico l’elenco dei libri settembrini,
uno dei più corti dell’anno, stretto tra il caldo marocchino e quello
tanzaniano. E pur nella brevità, questo mese ha brillato per la qualità. Tutte letture
più che sufficienti, dove anche se non si raggiunge la vetta, abbiamo un giallo
(Rankin), un romanzo (Agus) ed un narrato di città (la Parigi di Forlani),
tutti sopra media.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Inês Pedrosa
|
Nas tuas mãos
|
Leya
|
5,95
|
3
|
2
|
Mahi Binebine
|
Les funérailles du lait
|
Fennec
|
2
|
3
|
3
|
Kathy Reichs
|
Le ossa del diavolo
|
BUR
|
9,90
|
3
|
4
|
Ian Rankin
|
Indagini incrociate
|
TEA
|
10
|
4
|
5
|
Francesco Forlani
|
Parigi, senza passare dal via
|
Laterza
|
12
|
4
|
6
|
James Hillman
|
Il codice dell’anima
|
Adelphi
|
13
|
3
|
7
|
Paolo Foschi
|
Il killer delle maratone
|
E/O
|
15
|
3
|
8
|
Milena Agus
|
Mentre dorme il pescecane
|
Nottetempo
|
s.p.
|
4
|
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