domenica 29 giugno 2014

Misticanza con crauti - 29 giugno 2014

Da un quartetto di autori inglesi, oggi passiamo ad una terzina di lingua tedesca, che come i miei amici ben sanno, è quella a me più ostica delle lingue occidentali. Meno gli autori, soprattutto il ri-emergente Zweig, che dopo anni di oblio sembra tornare sulla cresta dell’onda con quel suo lucido pessimismo sulle sorti del mondo. Qui con due racconti lunghi, entrambi dolorosi, entrambi scritti con una maestria ben lontana dai pressapochismi attuali. Ma tutti i libri di oggi sono sopra media. Anche il bel libro sui suoni e le incomprensioni. Anche, e come spesso accade, nel libro che apre ogni volta le ferite del nazismo tedesco (e da quel bel film che ne fu tratto).
Stefan Zweig “Viaggio nel passato” Ibis euro 8 (in realtà, scontato 6,15 euro)
[A: 06/12/2013 – I: 30/12/2013 – T: 31/12/2013] - &&&&
[tit. or.: Widerstand der Wirklichkeit/Reise in die Vergangenheit; ling. or.: tedesco; pagine: 84; anno 1929/1975]
Due titoli e due date per un romanzo breve dove la storia dei titoli è quasi più lunga del romanzo stesso. In vita, nel 1929, Zweig ne pubblicò una versione sintetica, con il titolo “Widerstand der Wirklichkeit” (Resistenza della realtà). Poi nelle sue carte fu ritrovato l’originale, con il titolo cassato a penna, e qui riproposto, di “Reise in die Vergangenheit” (Viaggio nel passato). E solo negli anni Ottanta, alla pubblicazione delle opere complete dell’autore austriaco il romanzo ha visto la luce per intero. Come molte delle cose di Zweig, è fulminante nel cogliere l’essenza del problema. Purtroppo, sempre per la sua grande capacità, è anche pervaso di quel grande senso di pessimismo che accompagnò l’autore per tutta la sua vita. Non che non ne avesse ben donde, ovvio. Ha visto disgregarsi il mondo austro-ungarico in seguito alle follie della prima guerra mondiale (e cosa di meglio che leggerne ora ad esattamente 100 anni!). Ha visto crescere, episodio dopo episodio, un mondo in cui non si riconosceva, un mondo ariano dove non solo in quanto ebreo, in quanto raziocinante, si trovava a disagio. Tanto da fuggirne. Tanto da dolersene e togliersi la vita. Qui, in questo romanzo, in forma di apologo, cerca  di dare alcuni elementi di questa crisi (e ben ci riesce). Seguiamo così le vicende di questo ragazzo, onesto lavoratore, che si costruisce il proprio mondo con le capacità e la volontà. Viene da famiglia poco agiata, ma la bravura nel trattamento degli affari, lo fanno emergere. Fino a che un potente professore industriale lo prende a ben volere, e decide di farne il proprio alter ego. Tanto da accoglierlo in casa, in qualità di segretario particolare. Con piglio sicuro ed in poche frasi, Zweig ci fa notare le difficoltà di quest’uomo onesto ma povero a rapportarsi nel mondo agiato dell’alta borghesia. Fortunatamente, trova un’alleata nella moglie del magnate. Che fa di tutto, e con successo, per farlo sentire a proprio agio. Il punto di svolto l’abbiamo nel 1912, alla scoperta di una ricca miniera in Messico. Dove verrà inviato Ludwig per sfruttare al meglio la miniera e fare la sua luminosa carriera. Peccato che in quel mentre scopra di essere innamorato (ricambiato) dalla moglie del suo luminare, anche se di dieci anni più anziana. Ma troppo sarebbe il peccato, per cui anche se dolenti, i due “non consumano”. Ed anche da lontano tuttavia, continuano a comunicare, a scrivere. Ludwig passa due anni d’inferno. Quando sta per chiudere la miniera e tornare, ecco il disastro: scoppia la guerra, e non si può varcare l’Oceano. Ludwig è costretto in Messico. E le notizie da casa sono sempre più rarefatte, sino a cessare. Il nostro allora decide di farsi una vita colà. Si sposa. Ha dei figli. La miniera prospera, e lui diventa l’agiato benestante cui aspirava diventare. Per lavoro solo dopo nove anni dalla partenza torna in Germania. E, inopinatamente, decide di incontrarla di nuovo, lei ormai vedova. Alla vista la passione rinasce immutata. Vorrebbe tornare indietro. Vuole passare una notte con lei (ah, potenza della carne). Prima del ritorno in Messico, fanno una fuga, lei obtorto collo, che si rende conto dei mutati contorni della vita. Lui no, accecato dal desiderio della carne. Ma in quella squallida pensione di Heidelberg non potranno consumare, ritrovandosi “come due spettri che cercano il passato”. E su queste dolenti note, il romanzo termina. Immaginiamo, più che sappiamo, il ritorno di lei mesta a Berlino, e quello di lui, in Messico, verso la sua vita e la sua famiglia. Ma non si toglieranno più quella patina di tristezza. Per quello che poteva essere e non è stato. E che tuttavia, tra me ragiono, su chi sia la colpa maggiore. Ne ha chi non ha lottato? Se Ludwig fosse rimasto saldo nel suo amore, avrebbe forse vinto guerre e disfatte. Se avesse deciso, una volta cambiata vita, di voltar pagina definitivamente, avrebbe evitato altre disfatte, morali ma dolorose quante altre mai. Zweig, nel suo pessimismo, ritiene inevitabile la disfatta. Io, nel mio ottimismo, ritengo si possano smorzare i dolori di una sconfitta. Certo, quel che rimane, sono alcune pagine potenti e mirabili, in cui l’autore ci fa immergere in questo mondo di cento anni antico. Ed ancora ne fa emergere la vivezza. Come se neanche un giorno fosse passato.
“Non appartiene alla natura umana vivere soltanto di ricordi.” (50)
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[A: 04/01/2014– I: 15/03/2014 – T: 18/03/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: Der Vorleser; ling. or.: tedesco; pagine: 180; anno 1995]
Ultimamente, nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati tratti film (più o meno) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme espressive siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò nonostante, quando capitano punti di intersezione è anche interessante annotare come, queste due espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una materia omologa. Tutto questo panegirico per introdurre il bel libro di Schlink, e ricordarne l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo “The reader” con Ralph Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori prepotentemente la figura di Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il libro tutto in diversa soggettiva, ne fa si uscire la problematica, ma anche i problemi generali dei tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la solita tirata d’orecchi agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce alta”, dopo che in tutto il mondo il libro è intitolato come nell’originale tedesco, “Il lettore”. Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto. È proprio l’azione di leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura tripartita molto ben scandita. La prima parte è l’innamoramento e poi la storia d’amore tra Michael e Hanna. Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di trenta. Lui va scuola, si sente male, lei lo aiuta. Comincia così prima una frequentazione. Poi sempre qualcosa in più. Fino ad una bella storia d’amore. Certo, è soprattutto Michael che è preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro prendersi e litigare (meglio che nel film). Il tempo passa, Michael cresce, ed Hanna d un certo punto sparisce. Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro ragazzo passerà a leggere libri ad alta voce alla sua bella. Stacco sulla seconda parte. Il ragazzo cresce, fa legge all’Università. E per un seminario partecipa da uditore ad un processo. Che coinvolge Hanna ed altre donne accusate di essere aguzzine di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui esce fuori la capacità giuridica dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa partecipi del processo. Ma tutto dalla prospettiva di Michael che si interroga: perché Hanna fece quello che fece nel lager? Perché non si difende dalle accuse, molto labili, che le vengono mosse? Durante un insight sulla sua vicenda, il nostro capisce: Hanna non sa leggere. E questa “vergogna” è più forte della volontà di essere assolta. Michael, pur nolente, capisce e rispetta questa espiazione. Ed Hanna viene condannata all’ergastolo. Nella terza parte, vediamo il nostro cresciuto, poi sposato, divorziato, sempre problematico con le donne. Al fine l’unico legame che gli resta è proprio con Hanna. E comincia ad inviarle cassette con le sue letture. Fino alla grazia che dopo 18 anni riceve l’ergastolana. Michael finalmente la va a trovare. Scambi di sguardi. Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna rimane legata alla sua storia, e prima di uscire dalla prigione, si impicca. Prima di lasciarci Michael esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia amante, devolvendo i denari di lei per un’associazione che si occupa di analfabeti. La seconda parte della storia, devo dire che è meglio resa nel film, dove lo scandire delle immagini, e delle letture di Michael, viene meglio in video che in scrittura. Quindi dire che tra libro e film c’è un sostanziale pareggio. Quello che esce più forte nel libro è forse la domanda (o le domande) sull’Olocausto. Quanti cittadini “normali” hanno fatto cose “anormali” in quegli anni? Esce forte quella banalità del male di cui parlava la Arendt nel suo bellissimo libro sul processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta Auden dal nostro scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci tormenta fino in fondo la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere sia prevalente sul bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i due? Merito di Schlink di porre queste domande, e di porle dall’interno della Germania. Un ottimo libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci riporta sempre lì, al conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la lettura (anche e soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace, insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto dovesse riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)
Stefan Zweig “Novella degli scacchi” Einaudi euro 8,50 (in realtà, scontato 6,38 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 03/04/2014 – T: 04/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Schachnovelle; ling. or.: tedesco; pagine: 79; anno 1942]
Come riempire un mondo in meno di 80 pagine! Continuo nel tempo la riscoperta di Zweig. Con questo che viene considerato uno dei migliori romanzi brevi. Che io trovo bello, ma ho letto cose di Zweig che mi hanno fatto lievitare di più. Certo, l’indubbia capacità dello scrittore austriaco riesce a costruire un meccanismo ad orologeria impeccabile. C’è una storia, una storia dentro una storia, una seconda che sembra convergere con la prima, ma che, autonomamente, darà il tocco ed il senso a tutto l’insieme. Viaggio per nave da New York a Buenos Aires, il narratore (di cui non sappiamo i motivi del viaggio) in partenza viene attratto da una strana figura che si aggira per la nave. Scopre che è il campione del mondo di scacchi. Vuole avvicinarlo incuriosito dalla sua storia personale. E trova il modo di scardinare le resistenze di Mirko, coinvolgendo un magnate americano che imbandisce un incontro di scacchi a pagamento. I nostri non possono che perdere, se non che, ad un certo punto, uno strano signore, che poi sapremmo austriaco, molto dimesso, dà loro una mano per portare la partita ad una patta. Mirko allora sfida l’austriaco. Il quale prima dell’incontro racconta al narratore la sua storia. Poi l’incontro, le difficoltà del campione, l’esaltazione del dilettante, la vittoria di questi. Dovrebbero fermarsi, ma Mirko chiede la rivincita, l’austriaco si concede, e comincia una seconda partita del tutto diversa, dove il campione ora pensa, ed il dilettante sembra entrare in trance agonistica, o in altri modi esaltati. Fino a che il nostro sbaglia mosse, ed è il narratore che lo riporta alla realtà, e lontano, per sempre, dalla scacchiera. Ma se questa è la storia, privata dei due contesti, sono le due storie che danno il senso alla vicenda. Prima veniamo a conoscenza di Mirko. Contadino boemo, praticamente analfabeta, impara gli scacchi dal curato del paese, e come lo stolto sapiente comincia a giocare sempre meglio. Ed a vincere sempre. Rimane però inculturato, non riesce a vedere gli scacchi se non con la scacchiera davanti. Ha bisogno del contatto con gli oggetti per poterli usare. E poiché, pur valente, sempre dalla povertà viene, fa sì la scala del potere scacchistico, ma poi gioca ovunque qualcuno gli offra dei soldi per farlo. Diventa, consapevolmente, un professionista del gioco. Magistrale, ma in un certo qual modo, meccanico esecutore di una strategia di gioco. Dall’altro lato, invece, più complessa è la storia dell’austriaco. Ricordo che la narrazione si svolge nei primi anni ’40. L’austriaco è un avvocato di uno studio legale che da sempre cura gli interessi della casa reale e del clero. In maniera discreta ed occulta. Sempre più nascosta poi, da quando Hitler prende il potere in Germania, ed apertamente fuorilegge dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938. Lo studio legale del nostro viene incarcerato, ma non in un lager, bensì nel famigerato Hotel Metropol, che si doveva loro estorcere i segreti dei beni da loro governati. Il nostro viene relegato in una stanza di nullo arredo, dove aspetta che, di tanto in tanto, lo si interroghi (si rivive quasi una riedizione del processo di Kafka). Prima di impazzire, il nostro trova un manuale con 150 partite di scacchi, descritte in notazione algebrica (è un modo di individuare i pezzi e la loro posizione sulla scacchiera). Comincia a studiare di nascosto, impara a memoria le partite, se le rigioca in testa, non avendo scacchi né scacchiere. Questo lo corazza contro le angherie degli interrogatori. Poi esaurisce tutto il libro, e comincia ad inventarsi partite. Qui scatta il meccanismo che lo porterà quasi alla follia. Non potendo giocare con altri, scinde quasi il suo essere in un Io bianco ed un Io nero che, schizofrenicamente, fanno le parti dei due avversari. Una parte di sé lotta contro l’altra. Questo non potrà che portarlo ad andare fuori di testa. Ricoverato all’ospedale, il medico lo riconosce, e lo aiuta ad ottenere il permesso d’espatrio. Ora trovandosi lì sulla nave, nella partita di Mirko contro il magnate riconosce una delle 150 partite del libro (un classico per gli scacchisti, la partita Alekhine – Bogoljubov del 1922 con la presenza successiva di tre regine da parte di Alekhine). Ma quando comincia la sua partita con Mirko, riprende latente la febbre che lo aveva portato fuori di testa. E se nella prima partita si controlla e vince, nella seconda Mirko, accorgendosi della progressiva perdita di lucidità dell’austriaco, rallenta coscientemente il gioco. Il nostro avvocato allora, parte per la sua tangente, giocando altre partite nella sua testa, ed appunto non può che sbagliare perché, tornato alla realtà non riconosce la scacchiera reale. Perché è diversa da quella che aveva in testa. E non può che sbagliare. Fermarsi. E consentire al narratore di portarlo fuori scena. Come direbbe Neruda, è tutta una metafora. La partita a scacchi, che sempre è una metafora del combattimento. L’intelligenza che si deve avere per poter padroneggiare lo sviluppo dell’azione dei pezzi. Poi c’è lo stolto sapiente, che sa d’istinto dove muovere, ma deve vederlo. È concreto, rozzo ed essenziale. Ha un’intelligenza forte, ma settoriale. E Zweig non concepisce (e noi con lui) un’intelligenza che non sia ad ampio spettro. Dall’altra parte l’intellettuale, che, per l’appunto, colto e pieno di tante nozioni, parte verso una sua immagine della storia (della vita, della scacchiera), e non si accorge di cosa succede nella realtà. Anche perché apprende gli scacchi (la vita) da solo, senza relazionarsi con l’esterno. E Zweig che era stato un intellettuale a tutto tondo, grande letterato e grande viaggiatore, non può che sentire i limiti di questo isolamento intellettuale. Il pessimismo di Zweig non potrà quindi che portare l’intellettuale a ritirarsi, a farsi da parte, non avendo mezzi per contrastare la rozza bravura di Mirko. Due mesi dopo la stesura del romanzo, Zweig, austriaco in esilio volontario in Argentina, non trovando sbocco alla sempre crescente avanzata delle forze del male (siamo nel 1942, nel pieno dell’ondata montante del nazismo durante la guerra), si toglie la vita.
“Non è forse facilissimo considerarsi un grand’uomo se non si nutre nemmeno il sospetto che siano esistiti i Rembrandt, i Beethoven, i Dante, i Napoleone?” (12)
Robert Schneider “Le voci del mondo” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 10/04/2014 – T: 12/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Schlafes Bruder; ling. or.: tedesco; pagine: 181; anno 1992]
Flavio Cuniberto fa una bella e condivisibile post-fazione a questo ormai ventennale libro, e probabilmente anche una buona traduzione (mi fido, che non so il tedesco). Non so se però sia colpa sua o dei soliti, malefici pensatori di marketing librario, quel titolo che, al solito, travisa un po’ il senso originale. Sebbene sia un libro pieno di voci (e ci torneremo), quella parentela con il sonno a ben altro si ispira. Penso (nella mia ignoranza germanofona) ai versi di uno dei capitoli finali (“Vieni, morte, sorella del sonno”) che credo “Tod” sia maschile e quindi ha senso tradurre con “sorella” il “Bruder(à fratello)” originale. Perché, alla fine, con ironia, con tristezza, con rimpianto, è la morte che pervade tutto il libro. Non sempre angosciosa, in alcuni casi liberatoria. Pur tuttavia, ricostruendo le vicende che si svolgono nella cittadina austriaca di Eschberg, lo scrittore Schneider fa una specie di resoconto dei lutti e delle morti. Cominciando dalla fine, dall’ultimo incendio che devasta e finalmente distrugge senza speranza la cittadina ed il suo ultimo abitante. Un Adler, che, come sanno i montanari, in quelle sperdute lande, nell’altro versante delle Alpi, ci si mescolava molto, ed in Eschberg, in pratica, c’erano due famiglie: gli Adler e i Lamparter. Schneider segue le vicende del paesino, dalla nascita alla morte di un genio irrivelato, Johannes Elias Adler. Questa è la parte di tristezza che alla fine non può non lasciarci il libro: Elias era un genio della musica e dei suoni. Per una sua capacità sapeva imitarne di ogni specie. Aveva un orecchio globale (un “terzo orecchio” come diceva il jazzista Berendt), e riproponeva i suoni come erano. Con la voce, imitando tutti gli abitanti del villaggio, ma anche gli animali. Con ultrasuoni, con cui (forse) parlava agli animali stessi. Con l’organo, attraverso la cui musica (quando riuscì a suonarlo) costruiva cattedrali di luci e silenzi, degni e superiori a tutti i maestri (passati, presenti e futuri). Ma come dice l’autore, nessun buon samaritano passò mai di là, e Johannes non fu mai preso e fatto sbocciare. Qualcuno si ricorda delle sue costruzioni armoniose, ma quel che ci rimane è una lapide sulla tomba, con i suoi 22 anni di vita. E con i tormenti che l’hanno costellata. Nascita laboriosa, poi comprensione dei suoni, cambiamento degli occhi dal verde al giallo, ostracismo del paese. Ma capacità, appunto, di sentire tutto. Strano rapporto, fin dal battesimo, con il cugino Peter. Ed il loro intreccio pervade tutto il romanzo. Elias viene ostracizzato per gli strani poteri che ha (occhi, suoni, empatia che non riscuote simpatia, voce strana per un bambino). E solo Peter, sebbene da lontano, gli fa compagnia. Elias a cinque anni, sentendo il battito di un cuore nascente, si innamora perdutamente di Elsabeth. E cercherà per tutta la vita di conquistarla, di dichiararle il suo amore. Ma i montanari son di poche parole, e la musica non riesce a far breccia nei cuori. Peter invece ama quasi omosessualmente (ma solo nella sua fantasia) il cugino. E soprattutto, ha un senso di odio per il paese, per il padre che gli spezza il braccio. Tanto che sarà lui a dar origine al Primo Incendio del paese. Dove Elias salverà la piccola Elsabeth. Dove il padre di Elias ucciderà l’innocente carbonaio (ma solo Elias lo vedrà e non lo perdonerà mai). Dove Elias, ancora, sa che è colpa di Peter, ma non lo tradirà. Come in un racconto di campagna, descrivendo la vita austera dei monti, ed ogni tanto perdendosi (con molta felicità di noi lettori) in qualche rigagnolo laterale, la storia va avanti. Elias per caso diventa organista. Elias si accompagna ad Elsabeth. Elias continua a suonare senza che i rozzi paesani capiscano. Peter lo coinvolge in suoi strani giochi tra l’erotico e l’ironico. Crescono, invecchiano. Elias a 20 anni ne dimostra 40. Ma ha un suo momento di gloria suonando l’organo nella città principale. Questo non gli darà la serenità. Anzi, capirà fino in fondo l’inutilità della sua vita. Avrà una lotta tremenda tra il sé e la religione. Perderà completamente il lume della ragione, ipotizzando che l’amore totale deve essere sempre presente, giorno e notte. E deciderà di andare verso sorella morte uccidendosi attraverso la tortura del non dormire. La vita andrà avanti, Peter diventerà più buono. Elsabeth si sposerà ed avrà tanti figli. Ma non è questo il nucleo della storia. Schneider ci vuole portare verso la comprensione che ci sono (ci possono essere) migliaia di geni che vivono ovunque. Milioni di cose e di persone che meriterebbero attenzione. Ma nulla è bello, nulla è importante, se non lo si svela, se non se ne toglie il manto oscuro, e lo si condivide, tutti. Questo a me rimane, più che la musica ed altro. La necessità, la voglia, il bisogno di aver un rapporto con l’altro. Solo così anche il nostro piccolo apporto alla vita di tutti avrà un senso.
“È meglio conoscere la verità che nutrirsi di illusioni!” (114)
“Quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto solo perché non fu loro concessa una vita più serena, un più giusto equilibrio di pena e felicità.” (167)
Come sapete, continua a ballare la possibilità di viaggiare. Tramontò la Tunisia, ora tramontano anche i parchi americani. Si spera nell’Africa australe, ma non c’è molta gente che mi voglia seguire in queste imprese sotto l’equatore. Peccato. Intanto si rivolgano i pensieri verso chi sta meno bene di noi. Con tutti gli abbracci del caso

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