Da un quartetto di autori
inglesi, oggi passiamo ad una terzina di lingua tedesca, che come i miei amici
ben sanno, è quella a me più ostica delle lingue occidentali. Meno gli autori,
soprattutto il ri-emergente Zweig, che dopo anni di oblio sembra tornare sulla
cresta dell’onda con quel suo lucido pessimismo sulle sorti del mondo. Qui con
due racconti lunghi, entrambi dolorosi, entrambi scritti con una maestria ben
lontana dai pressapochismi attuali. Ma tutti i libri di oggi sono sopra media.
Anche il bel libro sui suoni e le incomprensioni. Anche, e come spesso accade,
nel libro che apre ogni volta le ferite del nazismo tedesco (e da quel bel film
che ne fu tratto).
Stefan Zweig “Viaggio nel passato” Ibis euro 8 (in realtà, scontato
6,15 euro)
[A: 06/12/2013 – I: 30/12/2013 – T: 31/12/2013] - &&&&
[tit. or.: Widerstand
der Wirklichkeit/Reise in die Vergangenheit; ling. or.: tedesco; pagine: 84; anno 1929/1975]
Due
titoli e due date per un romanzo breve dove la storia dei titoli è quasi più
lunga del romanzo stesso. In vita, nel 1929, Zweig ne pubblicò una versione
sintetica, con il titolo “Widerstand der Wirklichkeit” (Resistenza della
realtà). Poi nelle sue carte fu ritrovato l’originale, con il titolo cassato a
penna, e qui riproposto, di “Reise in die Vergangenheit” (Viaggio nel passato).
E solo negli anni Ottanta, alla pubblicazione delle opere complete dell’autore
austriaco il romanzo ha visto la luce per intero. Come molte delle cose di
Zweig, è fulminante nel cogliere l’essenza del problema. Purtroppo, sempre per
la sua grande capacità, è anche pervaso di quel grande senso di pessimismo che
accompagnò l’autore per tutta la sua vita. Non che non ne avesse ben donde,
ovvio. Ha visto disgregarsi il mondo austro-ungarico in seguito alle follie
della prima guerra mondiale (e cosa di meglio che leggerne ora ad esattamente
100 anni!). Ha visto crescere, episodio dopo episodio, un mondo in cui non si
riconosceva, un mondo ariano dove non solo in quanto ebreo, in quanto
raziocinante, si trovava a disagio. Tanto da fuggirne. Tanto da dolersene e
togliersi la vita. Qui, in questo romanzo, in forma di apologo, cerca di dare alcuni elementi di questa crisi (e
ben ci riesce). Seguiamo così le vicende di questo ragazzo, onesto lavoratore, che
si costruisce il proprio mondo con le capacità e la volontà. Viene da famiglia
poco agiata, ma la bravura nel trattamento degli affari, lo fanno emergere.
Fino a che un potente professore industriale lo prende a ben volere, e decide
di farne il proprio alter ego. Tanto da accoglierlo in casa, in qualità di
segretario particolare. Con piglio sicuro ed in poche frasi, Zweig ci fa notare
le difficoltà di quest’uomo onesto ma povero a rapportarsi nel mondo agiato
dell’alta borghesia. Fortunatamente, trova un’alleata nella moglie del magnate.
Che fa di tutto, e con successo, per farlo sentire a proprio agio. Il punto di
svolto l’abbiamo nel 1912, alla scoperta di una ricca miniera in Messico. Dove
verrà inviato Ludwig per sfruttare al meglio la miniera e fare la sua luminosa
carriera. Peccato che in quel mentre scopra di essere innamorato (ricambiato)
dalla moglie del suo luminare, anche se di dieci anni più anziana. Ma troppo sarebbe
il peccato, per cui anche se dolenti, i due “non consumano”. Ed anche da lontano
tuttavia, continuano a comunicare, a scrivere. Ludwig passa due anni d’inferno.
Quando sta per chiudere la miniera e tornare, ecco il disastro: scoppia la
guerra, e non si può varcare l’Oceano. Ludwig è costretto in Messico. E le
notizie da casa sono sempre più rarefatte, sino a cessare. Il nostro allora
decide di farsi una vita colà. Si sposa. Ha dei figli. La miniera prospera, e
lui diventa l’agiato benestante cui aspirava diventare. Per lavoro solo dopo
nove anni dalla partenza torna in Germania. E, inopinatamente, decide di
incontrarla di nuovo, lei ormai vedova. Alla vista la passione rinasce
immutata. Vorrebbe tornare indietro. Vuole passare una notte con lei (ah, potenza
della carne). Prima del ritorno in Messico, fanno una fuga, lei obtorto collo,
che si rende conto dei mutati contorni della vita. Lui no, accecato dal
desiderio della carne. Ma in quella squallida pensione di Heidelberg non
potranno consumare, ritrovandosi “come due spettri che cercano il passato”. E
su queste dolenti note, il romanzo termina. Immaginiamo, più che sappiamo, il
ritorno di lei mesta a Berlino, e quello di lui, in Messico, verso la sua vita
e la sua famiglia. Ma non si toglieranno più quella patina di tristezza. Per
quello che poteva essere e non è stato. E che tuttavia, tra me ragiono, su chi
sia la colpa maggiore. Ne ha chi non ha lottato? Se Ludwig fosse rimasto saldo
nel suo amore, avrebbe forse vinto guerre e disfatte. Se avesse deciso, una
volta cambiata vita, di voltar pagina definitivamente, avrebbe evitato altre
disfatte, morali ma dolorose quante altre mai. Zweig, nel suo pessimismo,
ritiene inevitabile la disfatta. Io, nel mio ottimismo, ritengo si possano
smorzare i dolori di una sconfitta. Certo, quel che rimane, sono alcune pagine
potenti e mirabili, in cui l’autore ci fa immergere in questo mondo di cento
anni antico. Ed ancora ne fa emergere la vivezza. Come se neanche un giorno
fosse passato.
“Non appartiene alla natura umana vivere
soltanto di ricordi.” (50)
Bernhard Schlink “A voce alta” Garzanti euro 9,90
[A: 04/01/2014– I: 15/03/2014 – T: 18/03/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: Der Vorleser; ling. or.: tedesco; pagine: 180;
anno 1995]
Ultimamente,
nella mia fornita biblioteca, stanno entrando alcuni libri da cui sono stati
tratti film (più o meno) famosi. Ho sempre pensato che queste due forme
espressive siano disgiunte, e da giudicare nella loro specificità. Ciò
nonostante, quando capitano punti di intersezione è anche interessante annotare
come, queste due espressioni, muovano diverse sensazioni, a fronte di una materia
omologa. Tutto questo panegirico per introdurre il bel libro di Schlink, e
ricordarne l’interessante film che ne fu tratto nel 2008, dal titolo “The
reader” con Ralph Fiennes e Kate Winslet. E se nel film esce fuori
prepotentemente la figura di Winslet – Hanna, tanto che prenderà l’Oscar, il
libro tutto in diversa soggettiva, ne fa si uscire la problematica, ma anche i
problemi generali dei tedeschi verso l’Olocausto. Comunque cominciamo con la
solita tirata d’orecchi agli editor italiani che l’hanno ribattezzato “A voce
alta”, dopo che in tutto il mondo il libro è intitolato come nell’originale
tedesco, “Il lettore”. Perché si legge a voce alta? Ma non è la voce, il punto.
È proprio l’azione di leggere. Venendo al libro, ha una sua struttura
tripartita molto ben scandita. La prima parte è l’innamoramento e poi la storia
d’amore tra Michael e Hanna. Lui sedici anni, lei qualche cosa in più di
trenta. Lui va scuola, si sente male, lei lo aiuta. Comincia così prima una
frequentazione. Poi sempre qualcosa in più. Fino ad una bella storia d’amore.
Certo, è soprattutto Michael che è preso da Hanna. Ma è ben descritto il loro
prendersi e litigare (meglio che nel film). Il tempo passa, Michael cresce, ed
Hanna d un certo punto sparisce. Prima però, c’è tutto il tempo che il nostro ragazzo
passerà a leggere libri ad alta voce alla sua bella. Stacco sulla seconda
parte. Il ragazzo cresce, fa legge all’Università. E per un seminario partecipa
da uditore ad un processo. Che coinvolge Hanna ed altre donne accusate di
essere aguzzine di un lager durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui esce fuori
la capacità giuridica dell’autore, anche lui avvocato, che ci fa partecipi del
processo. Ma tutto dalla prospettiva di Michael che si interroga: perché Hanna
fece quello che fece nel lager? Perché non si difende dalle accuse, molto
labili, che le vengono mosse? Durante un insight sulla sua vicenda, il nostro
capisce: Hanna non sa leggere. E questa “vergogna” è più forte della volontà di
essere assolta. Michael, pur nolente, capisce e rispetta questa espiazione. Ed
Hanna viene condannata all’ergastolo. Nella terza parte, vediamo il nostro
cresciuto, poi sposato, divorziato, sempre problematico con le donne. Al fine
l’unico legame che gli resta è proprio con Hanna. E comincia ad inviarle
cassette con le sue letture. Fino alla grazia che dopo 18 anni riceve
l’ergastolana. Michael finalmente la va a trovare. Scambi di sguardi.
Possibilità di amicizia in tarda età. Ma Hanna rimane legata alla sua storia, e
prima di uscire dalla prigione, si impicca. Prima di lasciarci Michael
esaudisce l’ultimo desiderio della sua vecchia amante, devolvendo i denari di
lei per un’associazione che si occupa di analfabeti. La seconda parte della
storia, devo dire che è meglio resa nel film, dove lo scandire delle immagini,
e delle letture di Michael, viene meglio in video che in scrittura. Quindi dire
che tra libro e film c’è un sostanziale pareggio. Quello che esce più forte nel
libro è forse la domanda (o le domande) sull’Olocausto. Quanti cittadini
“normali” hanno fatto cose “anormali” in quegli anni? Esce forte quella
banalità del male di cui parlava la Arendt nel suo bellissimo libro sul
processo ad Eichmann (ma perché viene citato il poeta Auden dal nostro
scrittore? C’è forse qualche poesia che mi sfugge?). E ci tormenta fino in fondo
la domanda su quanto la vergogna di non saper leggere sia prevalente sul
bisogno di espiazione di Hanna. Dov’è nasce il confine tra i due? Merito di
Schlink di porre queste domande, e di porle dall’interno della Germania. Un
ottimo libro, che narrando altro ci pone queste domande e ci riporta sempre lì,
al conflitto tra obbedienza e follia. Consiglio a tutti la lettura (anche e
soprattutto chi non ha visto il film).
“Quand’ero ragazzo, io mi sentivo sempre o troppo
sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace, insignificante e
indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto dovesse riuscirmi.
Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi difficoltà. Ma il minimo
insuccesso bastava per convincermi della mia indegnità.” (57)
“Siccome la verità di ciò che si dice, è ciò
che si fa, si può anche fare a meno di dire.” (143)
Stefan Zweig “Novella degli scacchi” Einaudi euro 8,50 (in realtà,
scontato 6,38 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 03/04/2014 – T: 04/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Schachnovelle; ling. or.: tedesco; pagine: 79;
anno 1942]
Come
riempire un mondo in meno di 80 pagine! Continuo nel tempo la riscoperta di
Zweig. Con questo che viene considerato uno dei migliori romanzi brevi. Che io
trovo bello, ma ho letto cose di Zweig che mi hanno fatto lievitare di più.
Certo, l’indubbia capacità dello scrittore austriaco riesce a costruire un
meccanismo ad orologeria impeccabile. C’è una storia, una storia dentro una
storia, una seconda che sembra convergere con la prima, ma che, autonomamente,
darà il tocco ed il senso a tutto l’insieme. Viaggio per nave da New York a
Buenos Aires, il narratore (di cui non sappiamo i motivi del viaggio) in
partenza viene attratto da una strana figura che si aggira per la nave. Scopre
che è il campione del mondo di scacchi. Vuole avvicinarlo incuriosito dalla sua
storia personale. E trova il modo di scardinare le resistenze di Mirko,
coinvolgendo un magnate americano che imbandisce un incontro di scacchi a
pagamento. I nostri non possono che perdere, se non che, ad un certo punto, uno
strano signore, che poi sapremmo austriaco, molto dimesso, dà loro una mano per
portare la partita ad una patta. Mirko allora sfida l’austriaco. Il quale prima
dell’incontro racconta al narratore la sua storia. Poi l’incontro, le
difficoltà del campione, l’esaltazione del dilettante, la vittoria di questi.
Dovrebbero fermarsi, ma Mirko chiede la rivincita, l’austriaco si concede, e
comincia una seconda partita del tutto diversa, dove il campione ora pensa, ed
il dilettante sembra entrare in trance agonistica, o in altri modi esaltati.
Fino a che il nostro sbaglia mosse, ed è il narratore che lo riporta alla
realtà, e lontano, per sempre, dalla scacchiera. Ma se questa è la storia,
privata dei due contesti, sono le due storie che danno il senso alla vicenda.
Prima veniamo a conoscenza di Mirko. Contadino boemo, praticamente analfabeta,
impara gli scacchi dal curato del paese, e come lo stolto sapiente comincia a
giocare sempre meglio. Ed a vincere sempre. Rimane però inculturato, non riesce
a vedere gli scacchi se non con la scacchiera davanti. Ha bisogno del contatto
con gli oggetti per poterli usare. E poiché, pur valente, sempre dalla povertà
viene, fa sì la scala del potere scacchistico, ma poi gioca ovunque qualcuno
gli offra dei soldi per farlo. Diventa, consapevolmente, un professionista del
gioco. Magistrale, ma in un certo qual modo, meccanico esecutore di una
strategia di gioco. Dall’altro lato, invece, più complessa è la storia dell’austriaco.
Ricordo che la narrazione si svolge nei primi anni ’40. L’austriaco è un
avvocato di uno studio legale che da sempre cura gli interessi della casa reale
e del clero. In maniera discreta ed occulta. Sempre più nascosta poi, da quando
Hitler prende il potere in Germania, ed apertamente fuorilegge dopo
l’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938. Lo studio legale del nostro
viene incarcerato, ma non in un lager, bensì nel famigerato Hotel Metropol, che
si doveva loro estorcere i segreti dei beni da loro governati. Il nostro viene
relegato in una stanza di nullo arredo, dove aspetta che, di tanto in tanto, lo
si interroghi (si rivive quasi una riedizione del processo di Kafka). Prima di
impazzire, il nostro trova un manuale con 150 partite di scacchi, descritte in
notazione algebrica (è un modo di individuare i pezzi e la loro posizione sulla
scacchiera). Comincia a studiare di nascosto, impara a memoria le partite, se
le rigioca in testa, non avendo scacchi né scacchiere. Questo lo corazza contro
le angherie degli interrogatori. Poi esaurisce tutto il libro, e comincia ad
inventarsi partite. Qui scatta il meccanismo che lo porterà quasi alla follia.
Non potendo giocare con altri, scinde quasi il suo essere in un Io bianco ed un
Io nero che, schizofrenicamente, fanno le parti dei due avversari. Una parte di
sé lotta contro l’altra. Questo non potrà che portarlo ad andare fuori di
testa. Ricoverato all’ospedale, il medico lo riconosce, e lo aiuta ad ottenere
il permesso d’espatrio. Ora trovandosi lì sulla nave, nella partita di Mirko
contro il magnate riconosce una delle 150 partite del libro (un classico per
gli scacchisti, la partita Alekhine – Bogoljubov del 1922 con la presenza
successiva di tre regine da parte di Alekhine). Ma quando comincia la sua
partita con Mirko, riprende latente la febbre che lo aveva portato fuori di
testa. E se nella prima partita si controlla e vince, nella seconda Mirko,
accorgendosi della progressiva perdita di lucidità dell’austriaco, rallenta
coscientemente il gioco. Il nostro avvocato allora, parte per la sua tangente,
giocando altre partite nella sua testa, ed appunto non può che sbagliare perché,
tornato alla realtà non riconosce la scacchiera reale. Perché è diversa da
quella che aveva in testa. E non può che sbagliare. Fermarsi. E consentire al
narratore di portarlo fuori scena. Come direbbe Neruda, è tutta una metafora.
La partita a scacchi, che sempre è una metafora del combattimento.
L’intelligenza che si deve avere per poter padroneggiare lo sviluppo dell’azione
dei pezzi. Poi c’è lo stolto sapiente, che sa d’istinto dove muovere, ma deve
vederlo. È concreto, rozzo ed essenziale. Ha un’intelligenza forte, ma
settoriale. E Zweig non concepisce (e noi con lui) un’intelligenza che non sia
ad ampio spettro. Dall’altra parte l’intellettuale, che, per l’appunto, colto e
pieno di tante nozioni, parte verso una sua immagine della storia (della vita,
della scacchiera), e non si accorge di cosa succede nella realtà. Anche perché
apprende gli scacchi (la vita) da solo, senza relazionarsi con l’esterno. E
Zweig che era stato un intellettuale a tutto tondo, grande letterato e grande
viaggiatore, non può che sentire i limiti di questo isolamento intellettuale.
Il pessimismo di Zweig non potrà quindi che portare l’intellettuale a
ritirarsi, a farsi da parte, non avendo mezzi per contrastare la rozza bravura
di Mirko. Due mesi dopo la stesura del romanzo, Zweig, austriaco in esilio
volontario in Argentina, non trovando sbocco alla sempre crescente avanzata
delle forze del male (siamo nel 1942, nel pieno dell’ondata montante del
nazismo durante la guerra), si toglie la vita.
“Non è forse facilissimo considerarsi un
grand’uomo se non si nutre nemmeno il sospetto che siano esistiti i Rembrandt,
i Beethoven, i Dante, i Napoleone?” (12)
Robert Schneider “Le voci del mondo” Einaudi euro 10 (in realtà,
scontato 7,50 euro)
[A: 01/02/2014 – I: 10/04/2014 – T: 12/04/2014] - &&&&
[tit. or.: Schlafes Bruder; ling. or.: tedesco; pagine: 181;
anno 1992]
Flavio
Cuniberto fa una bella e condivisibile post-fazione a questo ormai ventennale
libro, e probabilmente anche una buona traduzione (mi fido, che non so il
tedesco). Non so se però sia colpa sua o dei soliti, malefici pensatori di
marketing librario, quel titolo che, al solito, travisa un po’ il senso
originale. Sebbene sia un libro pieno di voci (e ci torneremo), quella
parentela con il sonno a ben altro si ispira. Penso (nella mia ignoranza
germanofona) ai versi di uno dei capitoli finali (“Vieni, morte, sorella del
sonno”) che credo “Tod” sia maschile e quindi ha senso tradurre con “sorella”
il “Bruder(à
fratello)” originale. Perché, alla fine, con ironia, con tristezza, con
rimpianto, è la morte che pervade tutto il libro. Non sempre angosciosa, in
alcuni casi liberatoria. Pur tuttavia, ricostruendo le vicende che si svolgono
nella cittadina austriaca di Eschberg, lo scrittore Schneider fa una specie di
resoconto dei lutti e delle morti. Cominciando dalla fine, dall’ultimo incendio
che devasta e finalmente distrugge senza speranza la cittadina ed il suo ultimo
abitante. Un Adler, che, come sanno i montanari, in quelle sperdute lande,
nell’altro versante delle Alpi, ci si mescolava molto, ed in Eschberg, in
pratica, c’erano due famiglie: gli Adler e i Lamparter. Schneider segue le
vicende del paesino, dalla nascita alla morte di un genio irrivelato, Johannes
Elias Adler. Questa è la parte di tristezza che alla fine non può non lasciarci
il libro: Elias era un genio della musica e dei suoni. Per una sua capacità
sapeva imitarne di ogni specie. Aveva un orecchio globale (un “terzo orecchio”
come diceva il jazzista Berendt), e riproponeva i suoni come erano. Con la
voce, imitando tutti gli abitanti del villaggio, ma anche gli animali. Con
ultrasuoni, con cui (forse) parlava agli animali stessi. Con l’organo,
attraverso la cui musica (quando riuscì a suonarlo) costruiva cattedrali di
luci e silenzi, degni e superiori a tutti i maestri (passati, presenti e futuri).
Ma come dice l’autore, nessun buon samaritano passò mai di là, e Johannes non
fu mai preso e fatto sbocciare. Qualcuno si ricorda delle sue costruzioni
armoniose, ma quel che ci rimane è una lapide sulla tomba, con i suoi 22 anni
di vita. E con i tormenti che l’hanno costellata. Nascita laboriosa, poi comprensione
dei suoni, cambiamento degli occhi dal verde al giallo, ostracismo del paese.
Ma capacità, appunto, di sentire tutto. Strano rapporto, fin dal battesimo, con
il cugino Peter. Ed il loro intreccio pervade tutto il romanzo. Elias viene
ostracizzato per gli strani poteri che ha (occhi, suoni, empatia che non
riscuote simpatia, voce strana per un bambino). E solo Peter, sebbene da
lontano, gli fa compagnia. Elias a cinque anni, sentendo il battito di un cuore
nascente, si innamora perdutamente di Elsabeth. E cercherà per tutta la vita di
conquistarla, di dichiararle il suo amore. Ma i montanari son di poche parole,
e la musica non riesce a far breccia nei cuori. Peter invece ama quasi
omosessualmente (ma solo nella sua fantasia) il cugino. E soprattutto, ha un
senso di odio per il paese, per il padre che gli spezza il braccio. Tanto che
sarà lui a dar origine al Primo Incendio del paese. Dove Elias salverà la
piccola Elsabeth. Dove il padre di Elias ucciderà l’innocente carbonaio (ma
solo Elias lo vedrà e non lo perdonerà mai). Dove Elias, ancora, sa che è colpa
di Peter, ma non lo tradirà. Come in un racconto di campagna, descrivendo la
vita austera dei monti, ed ogni tanto perdendosi (con molta felicità di noi
lettori) in qualche rigagnolo laterale, la storia va avanti. Elias per caso
diventa organista. Elias si accompagna ad Elsabeth. Elias continua a suonare
senza che i rozzi paesani capiscano. Peter lo coinvolge in suoi strani giochi
tra l’erotico e l’ironico. Crescono, invecchiano. Elias a 20 anni ne dimostra
40. Ma ha un suo momento di gloria suonando l’organo nella città principale.
Questo non gli darà la serenità. Anzi, capirà fino in fondo l’inutilità della
sua vita. Avrà una lotta tremenda tra il sé e la religione. Perderà completamente
il lume della ragione, ipotizzando che l’amore totale deve essere sempre
presente, giorno e notte. E deciderà di andare verso sorella morte uccidendosi
attraverso la tortura del non dormire. La vita andrà avanti, Peter diventerà
più buono. Elsabeth si sposerà ed avrà tanti figli. Ma non è questo il nucleo
della storia. Schneider ci vuole portare verso la comprensione che ci sono (ci
possono essere) migliaia di geni che vivono ovunque. Milioni di cose e di
persone che meriterebbero attenzione. Ma nulla è bello, nulla è importante, se
non lo si svela, se non se ne toglie il manto oscuro, e lo si condivide, tutti.
Questo a me rimane, più che la musica ed altro. La necessità, la voglia, il
bisogno di aver un rapporto con l’altro. Solo così anche il nostro piccolo
apporto alla vita di tutti avrà un senso.
“È meglio conoscere la verità che nutrirsi
di illusioni!” (114)
“Quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto
solo perché non fu loro concessa una vita più serena, un più giusto equilibrio
di pena e felicità.” (167)
Come
sapete, continua a ballare la possibilità di viaggiare. Tramontò la Tunisia,
ora tramontano anche i parchi americani. Si spera nell’Africa australe, ma non
c’è molta gente che mi voglia seguire in queste imprese sotto l’equatore.
Peccato. Intanto si rivolgano i pensieri verso chi sta meno bene di noi. Con
tutti gli abbracci del caso
Nessun commento:
Posta un commento