domenica 22 giugno 2014

Misticanza all'inglese - 22 giugno 2014

Se la volta scorsa si parlava di vini, ecco invece che oggi parliamo di verdure. Ed in particolare di un mix di insalate, possibilmente accompagnate dall’unica cosa che, nel bere, ci si abbina: l’acqua. Perché gli inglesi, o gli anglofoni, sono sempre un tantino fuori le righe nel bere. Così come ci narra l’australiano in un bel girotondo di ravanelli e sedani che parte da uno schiaffo. O come si torna a leggere dell’inglese Coe, in uno dei meno riusciti (per me) libri. L’impareggiabile Wescott ci porta un’insalata greca con tanta feta. E per finire, un libro di quelli che si doveva leggere in gioventù, ma che fu stranamente saltato. Ora, pur un poco datato, è comunque un punto interessante del vasto panorama letterario.
Christos Tsiolkas “Lo schiaffo” Beat s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 26/01/2014 – T: 30/01/2014] - &&&
[tit. or.: The Slap; ling. or.: inglese; pagine: 535; anno 2008]
L’avrei collocato vicino a Markaris, quando ne lessi il titolo e vedendolo uscire per i tipi della Beat, una casa editrice associata di tascabili, che, in genere, pubblica molti romanzi di genere. Poi lo prendo in mano (dopo un po’ di mesi è vero) e scopro che l’autore è australiano, seppur d’origine greca. E che il plot maggiore del poderoso volume, è proprio ambientato nella comunità greca emigrata in Australia, ed in quel melting pot che ne risulta. Forse risulta strano per chi ne legge. Me se siete stati a Melbourne (e spero che ci potrà ci andrà) potrete capire meglio sia la mescolanza delle comunità (qui si parla di greci, indiani e arabi, ma io ricordo anche gli italiani, a passeggio lungo lo Yarra River) sia i difficili rapporti tra emigrati e locali (quando poi ci si rende conto che per locali, si intendono solo emigrati di terza generazione, che di aborigeni pochi ne rimangono). L’autore (non a caso sceneggiatore, che si sente una mano teatrale nel muovere l’articolata vicenda) con un’inusuale tecnica, riesce a farci fare un giro, lungo e articolato, in queste comunità. Scoprendone vizi (tanti) e virtù (mica tante), problemi di rapporti, odi, ma anche rispetto (in alcuni casi) ed altre qualità di un mondo giovane (che così si sentono i nativi). Riprendendo l’idea di base di Rashomon, ma facendola evolvere e mischiandola con Schnitzler, Tsiolkas non ci presenta la stessa scena vista dagli occhi dei vari protagonisti. Ma ci racconta una storia, che si spande per diversi mesi, utilizzando 8 personaggi in soggettiva. Che narrano una parte delle vicende, ma che, ovviamente, tornano anche su avvenimenti precedenti, dandocene la loro interpretazione. I personaggi principali di questa sarabanda sono appunto Hector (il greco) con la moglie Aisha (indiana), le due amiche di Aisha, Anouk (single) e Rosie (sposata con Gary, alcolista perso), e poi Harry (il cugino di Hector), Manolis (il padre di Hector) ed infine Connie (la studentessa che lavora con Aisha nello studio di veterinaria) e Richie (il più grande amico di Connie, e gay). Nella storia quindi si intrecciano relazioni e dipendenze. I greci sono dei gran puttanieri, ma Hector dice fin da subito che sesso è una cosa e amore è un’altra; è “onesto” nei suoi sbandamenti. Come invece non è onesto Harry che mantiene un’amante visto lo scarso affetto per la moglie australiana. Le tre amiche, che si sono trasferite da Perth nel nord dell’Australia, sino a Melbourne, sono molto legate, ma anche molto problematiche, ed a volte, molto in conflitto. Anouk è single, ha una storia con un attore più giovane di lei, e si tira un po’ fuori, quasi a far da analista esterno. Rosie ha avuto infanzie problematiche, ha sposato un inconcludente alcolista, e l’unica sua “gioia” è il figlio Hugo che all’inizio del romanzo ha poco più di 3 anni. Rosie riversa su di lui tutte le sue nevrosi, e cerca di educarlo secondo teorie libertarie, come solo in Australia si può pensare di portare avanti. Tant’è che lo allatta ancora. E gli fa fare quello che vuole. Hugo è quindi un capriccioso rompipalle, che alla festa di Hector e dei suoi figli, fa delle scenate assurde, prendendo a calci Harry. Il quale (certo sbagliando, ma lo avrei fatto anch’io) gli molla un sonoro ceffone. Questo è lo schiaffo del titolo, quello che dà il là a tutte le peggiori concatenazioni di vicende. Rosie decide di denunciare Harry per maltrattamenti, Harry si vuole scusare, ma niente, si va in causa. Dove Harry, forte dei suoi soldi, comunque ne esce indenne. Provocando una frattura tra Rosie e Aisha, la quale è dilaniata tra il dar ragione all’amica (non si prendono a schiaffi i bimbi) e la lealtà verso la famiglia. Dove Tsiolkas ci fa piombare, nei riti e nei ricordi della patria lontana, nell’interludio in cui diventa protagonista Manolis, il patriarca. Nel frattempo Aisha, in un seminario a Bangkok, ha una fugace storia d’amore con un cino-canadese (tutti sangue misti…). In una successiva vacanza a Bali con Hector questi le confessa di averla tradita con una diciannovenne. Dilaniati e dilanianti, alla fine l’amore e l’attrazione tra i due è più forte del resto. Torneranno uniti in patria. Dove però non sanno che la diciannovenne di cui sopra è Connie, che però capisce l’inutile storia con il greco e si mette, con sua somma felicità, con Ali l’arabo. Non prima di aver confessato le sue scappatelle all’amico del cuore. E finiamo con Richie, il suo rapporto nullo con il padre che lo ha abbandonato da piccolo, il suo amore per la madre lesbica, il suo outing (ma solo con Connie) di essere gay, il suo sbandamento quando vede Hector nudo sotto la doccia, ed il tentativo di far crollare tutto. Ma quel mondo di relazioni, di razzismi, di legami, è più forte del timido tentativo. Gli unici a patirne saranno Rosie e la sua famiglia, che non potranno alla fine che andarsene da Melbourne. Mentre tutti gli altri continueranno a vivere i loro amori e le loro ipocrisie. Benché lungo si legge molto bene. Non avvince nella storia in sé, ma illumina in alcuni di quei tratti che ho delineato prima. La madre di Hector non chiama mai per nome la nuora, ma la chiama “l’indiana”. Per uno schiaffo si monta addirittura un processo. E tanti altri piccoli tasselli miranti alla composizione di un bel quadro. Non un capolavoro, ma un’interessante vista della vita nel nuovo mondo (ed anche in molti vecchi, che i rapporti interpersonali d’amore e d’amicizia, ovunque hanno modo di esprimersi).
“Solo gli imbecilli non hanno rimpianti.” (360)
Jonathan Coe “I terribili segreti di Maxwell Sim” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,12 euro)
[A: 03/08/2013– I: 03/02/2014 – T: 05/02/2014] - && e ½
[tit. or.: The Terrible Privacy of Maxwell Sim; ling. or.: inglese; pagine: 363; anno 2010]
Sempre ambivalente il nostro amico Coe. Ne leggo dal primo folgorante “La famiglia Winshaw”, ed ogni volta ne constato l’ondivagare. A volte perché non riesce a trovare un centro. Qui perché c’è tutta la parte centrale del romanzo che è pesante, inutile, ed ho veramente faticato a digerirla. Non per le vicende (terribili, appunto) del nostro Max, ma per quel lungo rapporto tra Max ed il suo navigatore satellitare dalla voce di donna. Una lunga, inutile, palla. Certo, Coe voleva portarci all’esasperazione, facendoci sentire con mano come anche Max si stesse sentendo (poi vedremo perché), ma l’ho trovata inutilmente protratta nel tempo. Altro punto, che poteva essere gestito meglio, è l’andare su e giù (ma solo in maniera accentuato nel finale) tra l’autore onnisciente e il racconto in prima persona. Sembra quasi che Coe non sapesse come chiudere la storia, e tira fuori il cilindro di se stesso (o un suo alter ego), che scrivendo questa lunga metafora ha intrecciato realtà e finzione. Bah, debolino. Peccato, che il romanzo in se sembrava essere più promettente, anche se, credo, una lettura da parte di Coe del bellissimo “Il senso di una fine” di Julian Barnes ne avrebbe asciugato i toni. Infatti, seguiamo un brano della vita di Max Sim, incartandoci con lui in una serie di incontri, che svelano (a lui ed a noi) alcune storie della sua vita. E Max si accorge che spesso quello che pensava non è quello che era (vedi Barnes, appunto). Purtroppo, mentre cerca di chiudere il cerchio, Coe interviene e chiude il libro. Questo non glielo perdono molto. Ma torniamo a Max. ed ai suoi incontri. Vede una donna con figlia in un ristorante di Sidney che gli danno un senso di serenità mai provato prima (anche perché era andato in Australia per trovare il padre senza riuscire a comunicare con lui in seguito all’abbandono da parte della moglie con figlia). In aereo, muore il suo vicino di posto, posto che viene preso dalla giovane Poppy, che gli dà modo di conoscere la strana professione di “facilitatore di adulteri” (e questa conoscenza gli potrebbe servire con Allison, ma la lascia cadere) e di presentargli il simpatico zio Clive. Uno zio che lo introduce nella vita e nella morte di un grande illusore, il finto navigatore solitario Donald Crowhurst. Questo meriterebbe un inciso: Donald partecipò alla grande Golden Race intorno al globo, nel 1968, ma non avendo barca adatta né capacità, girellò per l’Atlantico, fino a riprendere le barche dopo il capo Good Hope. Sperava di passare inosservato, ma a quel punto era fintamente primo. Per questo, va fuori di testa, si toglie la vita e lascia la barca alla deriva. Quello che potrebbe succedere a Max, quando va alla deriva per le campagne scozzesi cercando di vendere spazzolini da denti (idea ridicola). E Max era andato al Nord perché, lasciato dalla moglie Caroline, era rimasto depresso per sei mesi, si era licenziato, era stato incastrato del suo vecchio amico Trevor (ma non si domanda come mai il vecchio amico lo cerchi solo quando ha bisogno di soldi?) in questo giro di spazzolini, che lo aveva portato alla vecchia casa del padre, a visitare la nuova casa della ex-moglie e della figlia, ad incontrare la sorella del suo primo grande amico. Ma questo primo grande amico (come scopre da un racconto scritto da Caroline e che furtivamente legge) lo abbandona cinque anni prima quando Max (lui dice con cattiveria, Chris dice con astio) spinge il figlio di questi in una buca di ortiche. E leggendo anche lì non autorizzato uno scritto di Allison (la sorella di Chris) scopre che questa era pronta a mettersi con lui, se lui non fosse stato così assurdamente preso da altro (campeggio, Chris, il fuoco che non si accende) e non avesse scoperto che il padre di Max le aveva fatto una foto “un po’ osé in succinto bikini accanto al fratello, grondanti d’acqua dopo il bagno”. Ma le sorprese e gli incontri non sono finiti, che nella vecchia casa del padre, scopre (altra violazione di privacy) il diario del padre. E scopre che questi era sempre stato attratto dall’amico Roger per cui aveva una passione quasi omosessuale. Roger con cui avevano fatto grandi cose e grandi progetti (leggete quali, non posso scrivere tutto, no?), e che si erano lasciati per essersi dati un ultimo appuntamento in un pub, ed avendo aspettato tutta la notte ognuno nel giusto pub. Peccato che a Londra fossero due i pub dal nome “Rising Sun”. Dalla delusione, il padre va a scopare con l’amica di una notte, Barbara. Peccato che quella scopata porti proprio alla nascita di Max. I due si sposano, e Roger vola via per il mondo. Capisce forse Max, che il padre era più attratto da Chris che da Allison? E si domanda perché di tutti questi incontri, lui ricordi quello con Clive piuttosto che la fallimentare cena con Caroline? Coe è poi maestro nel casualmente riannodare situazioni irriannodabili. Max vede al lavoro Poppy all’aeroporto di Bangkok, e risentirà quella voce 250 pagine dopo, quando il marito di Allison telefona per mentire su un ritardo (e lui lascerà cadere, anche se Allison vorrebbe portarlo a letto). E poi c’è la madre di Max, che muore di cancro, come di cancro muore la vera madre della figlia cinese adottata dalla donna del ristorante delle prime pagine. Cancro da lei preso mentre lavorava ad una fabbrica … si spazzolini da denti. Non ho parole. Se Coe avesse avuto coraggio di rimanere su Max poteva essere un bel romanzo di crescita e di autocoscienza di una persona sempre immersa in situazioni più grandi di lui, con persone più intelligenti di lui, più furbe di lui. E con lui che poteva capire cosa sia il suo se stesso. Ma Coe fugge di lato, e, ripeto, non glielo perdono. Come non perdono il revisore che a pagina 283 per una scommessa sui cavalli lascia il termine errato maringala invece del corretto  martingala. Dobbiamo migliorare tutti: io, Coe, i traduttori e gli editori. Ci si riuscirà?
“Sembra che io abbia perso un bel po’ di amici negli ultimi anni. Non è che abbia troncato con loro in modo drammatico, abbiamo solo deciso di non tenerci in contatto…. A mano a mano che invecchi… alcune amicizie ti sembrano sempre più ingiustificate. E un bel giorno ti chiedi: ‘A che servono?’. E allora interrompi i contatti.” (13)
“Non arrabbiarti troppo con chi pensa di conoscerti meglio di quanto tu conosci te stesso. Ha buone intenzioni.” (353)
Glenway Wescott “Appartamento ad Atene” Adelphi euro s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013 – I: 05/03/2014 – T: 08/03/2014] - &&&
[tit. or.: Apartement in Athens; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 1945]
Un’interessante lettura dovuta ad un trailer sbagliato ed un ricordo corretto. Il ricordo riguarda l’autore che rammentavo autore di un veloce libricino che mi era molto piaciuto “Il falco pellegrino”, le memorie di un anziano ripensante i suoi tormenti d’amore. E quando gradisco un autore, rimane il suo ricordo in fondo alla memoria. Il trailer sbagliato invece riguardava un film, quello tratto da questo libro, che ricordavo aver visto in qualche cinematografica occasione. Sbagliato che ne avevo tratto elementi ironici, che poi non sono stati verificati dal libro. Infatti, vedendo il libro, ed avendo queste memorie, lo comprai a scatola chiusa. Ma il libro è ben diverso dalle mie aspettative. Non è ironico, ma è allegramente triste. Per tutta la lettura aspettavo lo scatto dei momenti filmici, che non sono mai arrivati, avendo io confuso film diversi (ahi, quando la memoria comincia a far dei buchi…). Ciò nonostante, lo scrittore, pur misconosciuto in Italia, sa ben scrivere. Ed il libro è stato tutto sommato interessante. Specchio di momenti antichi e di dolori che mai sopiranno. Ambientato in Atene (come dice giustamente il titolo), narra le vicende di una famiglia greca costretta, obtorto collo, ad ospitare un gerarca nazista durante l’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale. Per sopravvivere al crollo economico e lavorativo, la famiglia Helianos è costretta ad ospitare il capitano Kalter, cosa che gli consente di avere viveri in più, nonostante la penuria guerresca. C’è Nikolas il padre che si vorrebbe gioviale, ma che sempre si deve contenere. C’è la madre, in perenne crisi di nervi, dovuta anche alla morte del figlio maggiore. E ci sono i due figli: il maschio spensierato e la femmina, leggermente ritardata. I quattro devono far fronte ai modi bruschi e molto militareschi del capitano. Che si allarga nella casa, relegandoli alla cucina e poco altro. Che li vessa in mille maniere, negando loro gli avanzi (che preferisce dare al cane di un suo commilitone), trattando male il figlio per raddrizzarne il carattere, ignorando la piccola Leda (e questa ne soffre). Il racconto procede con il procedere della guerra, con i piccoli micro – episodi giornalieri, che sprofondano sempre più gli Helianos nella cupezza, loro che sarebbero (almeno il padre) di indole comunicativa. Non solo il tempo avanza, ma anche le storie. Ed il capitano, verso la fine della guerra, comincia ad avere qualche tracollo. Sembra concedersi all’umanità. Comincia ad interagire con Nikolas, soprattutto a valle di due avvenimenti: la promozione del capitano (avvenimento subito palese) ed un dolore dello stesso che stenta a venire fuori (la morte prima della moglie per malattia, poi dei suoi due figli in guerra). All’apparenza tutto pare andare verso un’umanizzazione anche dell’occupante. Tanto che Nikolas si lascia sfuggire commenti non ortodossi sulla guerra, e sugli alleati dei tedeschi (in particolare Mussolini). Qui c’è il colpo di genio dello scrittore, la capacità di mostrare tutta la cattiveria dei cattivi (scusate la ridondanza). Il tenente Kalter denuncia Nikolas come sovversivo. E mentre questi è in carcere, interrogato dalla Gestapo, il tenente, sempre più cupo, decide di porre fine alla sua esistenza, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Ma non è questa la perfidia di Kalter. È la lettera in cui, rivolto al suo sodale Sertz (quello del cane) denuncia la famiglia Helianos come esecutrice della morte. Fortuna che Sertz è meno “tedesco” di quanto sembri, e che, nonostante la frequentazione, avesse capito quanto odioso potesse essere Kalter. Fa quindi in modo che gli Helianos siano scagionati dalla morte di Kalter. Ma non può far nulla per Nikolas, che da giorni, per la testimonianza di Kalter stesso, è stato già giustiziato. Nel tracollo di tutto quanto, la madre esce dalle sue crisi di nervi, e pur fragile comprende la necessità, comunque, di contrastare gli invasori. E prenderà contatto con la resistenza, affinché il piccolo Alex possa fare la sua parte. La bellezza dello scritto è in questa sequenzialità che porta tutto all’estremo. Tutto che ci aspettiamo fare un salto verso il buono, ma che (tremendo ma vero) non sarà così. E Wescott lo rende con un procedere lento ma costante verso il baratro. Aspettavo l’ironia (come dicevo sopra). Ho trovato solo una grande tragedia. Da non dimenticare. Mai.
“In momenti come quello capiva che non avrebbe potuto vivere senza di lei. Era la sua cara mente femminile … a fargli conservare la ragione.” (76)
“La bellezza non è soltanto sentimento, è matematica e psicologia.” (140)
“Io sono stato infantile per tutta la vita, e a volte mi sembra che tutti gli uomini e le donne di buon cuore che ci siano al mondo siano bambini, e che solo i malvagi abbiano una mente adulta; e allora mi sento disperato.” (216)
Tom Robbins “Natura morta con Picchio” Baldini Castaldi Dellai euro 8,90
[A: 04/01/2014 – I: 25/03/2014 – T: 30/03/2014] - &&&&
[tit. or.: Still Life with Woodpecker; ling. or.: inglese; pagine: 262; anno 1980]
Ecco un altro autore di cui avevo sentito parlare abbastanza qua e là durante anni di convivenza con la letteratura, ma che, per una ragione o l’altra, non mi ero mai deciso ad affrontare. A parte i panegirici che si trovano un po’ ovunque su di lui (autore di culto, autore esimio, fuoco di fila di trovate intelligenti ed esilaranti) e la sua sbandierata amicizia e vicinanza con Timothy Leary, elementi appunto che mi avevano frenato, dopo la lettura devo dire che è moderatamente interessante, sicuramente capace nell’uso della scrittura, con quelle capacità descrittive che, probabilmente, gli derivano anche dagli inizi come critico, sia di arte che di musica. Altrettanto sicuramente, per chi lo conosce, è però anche un emulo di Kurt Vonnegut jr che, personalmente, trovo però più incisivo. C’è la stessa capacità di entrare ed uscire dalla pagina, di parlare a ruota libera un po’ di tutto, di mettere molta carne a fuoco. Troppa forse. E forse con qualche inconcludenza in più. Kurt arrivava sempre al punto, Tom spara a raffica, colpendo un po’ qua ed un po’ là, ma lasciando alla fine il dubbio su quale fossero i suoi “veri” bersagli. O se ci fossero veri bersagli, e non sia tutto frutto di una lunga serata con Tim. A cominciare dal titolo, dove Picchio è maiuscolo non per banalità tipografiche, ma in quanto soprannome di uno dei due personaggi al centro della storia: Pupo “Bernard” Wrangler detto Picchio. L’altro personaggio è, fortunatamente, una donna, la principessa Leigh-Cheri. E c’è anche una storia, all’interno del lungo narrare di Tom verso il lettore di cose altre. La principessa vive in esilio a Seatlle insieme ai genitori, essendo eredi e spodestati di un’oscura monarchia europea (i Furstenberg-Barcalona). Ventenne vive di sogni e di ambizioni ecologiche, per cui non appena ne ha notizia parte per un convegno ambientalista mondiale che si deve tenere alle Hawaii. Lì incappa nel Picchio, un fuorilegge dinamitardo con il vizio di far saltare in aria quello che poco gli aggrada. Come gli ecologi da strapazzo. Tra uno scoppio e l’altro, tra i due scoppia la scintilla della passione, e poi dell’amore. Fuggendo dall’isola (Picchio è ricercato dopo un ennesimo scoppio) tornano a Seattle. Leigh-Cheri cerca di introdurlo nella sua famiglia, ma l’anarchico Picchio difficilmente riesce a seguire delle regole (un fuorilegge è sempre fuori della legge). anche se cerca di farlo per amore della bella. La frustrazione dell’insuccesso lo portano ad abbassare la guardia ed a farsi arrestare. La parte centrale vede l’amore di Leigh-Cheri concretizzarsi nell’auto-isolamento per stare vicino idealmente al suo amato. Ma dopo 20 mesi di passioni solitarie, l’idea della pubblicità ed ostentazione dell’amore turbano Picchio che sembra mollare l’amata. Che per la frustrazione decide di cedere alle lusinghe dello sceicco A’ben. E per regalo di nozze chiede la costruzione di una nuova piramide. Altri 20 mesi passano e si ultima la costruzione. Intanto, i ribelli hanno rovesciato il governo fantoccio della Barcalona, e messo sul trono Giulietta, la governante nonché sorellastra di Leigh-Cheri. La quale chiede in cambio la liberazione di Picchio. Sorvolando alcuni passaggi, i due si ritrovano il giorno prima delle nozze di lei dentro la piramide con tanta dinamite, tanto champagne e tanta torta nuziale. Lo sceicco cornificato (ma chi cornifica chi?) li vuole morti. Loro, anche a duro prezzo, si salveranno. Vivranno felici e contenti? Questo lo scoprirete se leggete il testo. Ma questo testo è solo il contesto del vero testo di Robbins, che, tra una riga e l’altra se la prende: con i falsi ambientalisti, con Ralph Nader e le sue farneticazioni, con la CIA ed i servizi segreti, con gli arabi presupponenti, con la sinistra radical chic (rappresentata dall’avvocato Nina e da un bel duello verbale tra lei e la principessa), con chi crede nel sovrannaturale, con chi vede segni ovunque. L’idea di base, poi, che fa da motivo conduttore al libro, ed alle agnizioni che arrivano a poco a poco, è la piramide sul pacchetto delle sigarette Camel. E sul fatto che i protagonisti sono entrambi rossi di capello. Tra una lotta immaginata che vede scontrarsi extra-terrrestri di pelo rosso e di pelo biondo, con conseguente nascita delle civiltà Maya, Olmeche, Tolteche e via discorrendo. Ed un parallelo tra la piramide sul biglietto di un dollaro e quella sul pacchetto delle Camel. E sulla nascita delle piramidi stesse, sui loro perché, sul loro essere sempre rivolte ai quattro punti cardinali. Insomma, capite anche voi, da ogni spunto Robbins parte ed imbastisce storie. Anche intriganti. Come tutto il panegirico finale, dove la metafora viene tutta basata sulla parola CHOICE. Scelta, che è l’unica azione degna di essere attuata. Insomma, una bella galoppata, un torrente di parole, a volte, purtroppo, un po’ datate. A volte, come detto sopra, senza una mira precisa, un po’ alla colpirne cento per educarne uno. Ma intrigante, e moderatamente divertente. Capisco inoltre la fatica del traduttore, dove appunto ogni tanto si deve mettere qualche parola in originale, che altrimenti si perdono giochi e nessi. Pur tuttavia, un po’di attenzione in più non avrebbe guastato, quando a pagina 165 si lascia l’inglese Plato invece di usare l’universalmente noto Platone. Ripeto, preferisco Vonnegut, ma Robbins ha qualche freccia al suo arco.
“Il mio amore per te non ha secondi fini. Ti amo gratis.” (128)
Bella questa frase di Robbins, che sottoscrivo in pieno. Aspettando le vacanze anglofone (che non si sbloccano, purtroppo), o altre mete che non si profilano all’orizzonte, affrontiamo con piglio deciso una bella e calda settimana. 

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