Se la volta scorsa si parlava di
vini, ecco invece che oggi parliamo di verdure. Ed in particolare di un mix di
insalate, possibilmente accompagnate dall’unica cosa che, nel bere, ci si
abbina: l’acqua. Perché gli inglesi, o gli anglofoni, sono sempre un tantino
fuori le righe nel bere. Così come ci narra l’australiano in un bel girotondo
di ravanelli e sedani che parte da uno schiaffo. O come si torna a leggere dell’inglese
Coe, in uno dei meno riusciti (per me) libri. L’impareggiabile Wescott ci porta
un’insalata greca con tanta feta. E per finire, un libro di quelli che si
doveva leggere in gioventù, ma che fu stranamente saltato. Ora, pur un poco
datato, è comunque un punto interessante del vasto panorama letterario.
Christos Tsiolkas “Lo schiaffo” Beat s.p. (regalo collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013– I: 26/01/2014 – T: 30/01/2014] -
&&&
[tit. or.: The Slap; ling. or.: inglese; pagine: 535; anno 2008]
L’avrei
collocato vicino a Markaris, quando ne lessi il titolo e vedendolo uscire per i
tipi della Beat, una casa editrice associata di tascabili, che, in genere,
pubblica molti romanzi di genere. Poi lo prendo in mano (dopo un po’ di mesi è
vero) e scopro che l’autore è australiano, seppur d’origine greca. E che il
plot maggiore del poderoso volume, è proprio ambientato nella comunità greca emigrata
in Australia, ed in quel melting pot che ne risulta. Forse risulta strano per
chi ne legge. Me se siete stati a Melbourne (e spero che ci potrà ci andrà)
potrete capire meglio sia la mescolanza delle comunità (qui si parla di greci,
indiani e arabi, ma io ricordo anche gli italiani, a passeggio lungo lo Yarra
River) sia i difficili rapporti tra emigrati e locali (quando poi ci si rende
conto che per locali, si intendono solo emigrati di terza generazione, che di
aborigeni pochi ne rimangono). L’autore (non a caso sceneggiatore, che si sente
una mano teatrale nel muovere l’articolata vicenda) con un’inusuale tecnica,
riesce a farci fare un giro, lungo e articolato, in queste comunità.
Scoprendone vizi (tanti) e virtù (mica tante), problemi di rapporti, odi, ma
anche rispetto (in alcuni casi) ed altre qualità di un mondo giovane (che così
si sentono i nativi). Riprendendo l’idea di base di Rashomon, ma facendola
evolvere e mischiandola con Schnitzler, Tsiolkas non ci presenta la stessa
scena vista dagli occhi dei vari protagonisti. Ma ci racconta una storia, che si
spande per diversi mesi, utilizzando 8 personaggi in soggettiva. Che narrano
una parte delle vicende, ma che, ovviamente, tornano anche su avvenimenti
precedenti, dandocene la loro interpretazione. I personaggi principali di
questa sarabanda sono appunto Hector (il greco) con la moglie Aisha (indiana),
le due amiche di Aisha, Anouk (single) e Rosie (sposata con Gary, alcolista
perso), e poi Harry (il cugino di Hector), Manolis (il padre di Hector) ed
infine Connie (la studentessa che lavora con Aisha nello studio di veterinaria)
e Richie (il più grande amico di Connie, e gay). Nella storia quindi si
intrecciano relazioni e dipendenze. I greci sono dei gran puttanieri, ma Hector
dice fin da subito che sesso è una cosa e amore è un’altra; è “onesto” nei suoi
sbandamenti. Come invece non è onesto Harry che mantiene un’amante visto lo
scarso affetto per la moglie australiana. Le tre amiche, che si sono trasferite
da Perth nel nord dell’Australia, sino a Melbourne, sono molto legate, ma anche
molto problematiche, ed a volte, molto in conflitto. Anouk è single, ha una
storia con un attore più giovane di lei, e si tira un po’ fuori, quasi a far da
analista esterno. Rosie ha avuto infanzie problematiche, ha sposato un
inconcludente alcolista, e l’unica sua “gioia” è il figlio Hugo che all’inizio
del romanzo ha poco più di 3 anni. Rosie riversa su di lui tutte le sue
nevrosi, e cerca di educarlo secondo teorie libertarie, come solo in Australia
si può pensare di portare avanti. Tant’è che lo allatta ancora. E gli fa fare
quello che vuole. Hugo è quindi un capriccioso rompipalle, che alla festa di
Hector e dei suoi figli, fa delle scenate assurde, prendendo a calci Harry. Il
quale (certo sbagliando, ma lo avrei fatto anch’io) gli molla un sonoro
ceffone. Questo è lo schiaffo del titolo, quello che dà il là a tutte le
peggiori concatenazioni di vicende. Rosie decide di denunciare Harry per
maltrattamenti, Harry si vuole scusare, ma niente, si va in causa. Dove Harry,
forte dei suoi soldi, comunque ne esce indenne. Provocando una frattura tra
Rosie e Aisha, la quale è dilaniata tra il dar ragione all’amica (non si
prendono a schiaffi i bimbi) e la lealtà verso la famiglia. Dove Tsiolkas ci fa
piombare, nei riti e nei ricordi della patria lontana, nell’interludio in cui
diventa protagonista Manolis, il patriarca. Nel frattempo Aisha, in un seminario
a Bangkok, ha una fugace storia d’amore con un cino-canadese (tutti sangue
misti…). In una successiva vacanza a Bali con Hector questi le confessa di
averla tradita con una diciannovenne. Dilaniati e dilanianti, alla fine l’amore
e l’attrazione tra i due è più forte del resto. Torneranno uniti in patria.
Dove però non sanno che la diciannovenne di cui sopra è Connie, che però
capisce l’inutile storia con il greco e si mette, con sua somma felicità, con
Ali l’arabo. Non prima di aver confessato le sue scappatelle all’amico del
cuore. E finiamo con Richie, il suo rapporto nullo con il padre che lo ha
abbandonato da piccolo, il suo amore per la madre lesbica, il suo outing (ma
solo con Connie) di essere gay, il suo sbandamento quando vede Hector nudo
sotto la doccia, ed il tentativo di far crollare tutto. Ma quel mondo di
relazioni, di razzismi, di legami, è più forte del timido tentativo. Gli unici
a patirne saranno Rosie e la sua famiglia, che non potranno alla fine che
andarsene da Melbourne. Mentre tutti gli altri continueranno a vivere i loro
amori e le loro ipocrisie. Benché lungo si legge molto bene. Non avvince nella
storia in sé, ma illumina in alcuni di quei tratti che ho delineato prima. La
madre di Hector non chiama mai per nome la nuora, ma la chiama “l’indiana”. Per
uno schiaffo si monta addirittura un processo. E tanti altri piccoli tasselli
miranti alla composizione di un bel quadro. Non un capolavoro, ma un’interessante
vista della vita nel nuovo mondo (ed anche in molti vecchi, che i rapporti
interpersonali d’amore e d’amicizia, ovunque hanno modo di esprimersi).
“Solo gli imbecilli non hanno rimpianti.”
(360)
Jonathan Coe “I terribili segreti di Maxwell Sim” Feltrinelli euro 9,50
(in realtà, scontato a 7,12 euro)
[A: 03/08/2013– I: 03/02/2014
– T: 05/02/2014] - && e ½
[tit. or.: The Terrible Privacy of Maxwell Sim; ling. or.: inglese; pagine: 363; anno 2010]
Sempre
ambivalente il nostro amico Coe. Ne leggo dal primo folgorante “La famiglia
Winshaw”, ed ogni volta ne constato l’ondivagare. A volte perché non riesce a
trovare un centro. Qui perché c’è tutta la parte centrale del romanzo che è
pesante, inutile, ed ho veramente faticato a digerirla. Non per le vicende (terribili,
appunto) del nostro Max, ma per quel lungo rapporto tra Max ed il suo
navigatore satellitare dalla voce di donna. Una lunga, inutile, palla. Certo,
Coe voleva portarci all’esasperazione, facendoci sentire con mano come anche
Max si stesse sentendo (poi vedremo perché), ma l’ho trovata inutilmente
protratta nel tempo. Altro punto, che poteva essere gestito meglio, è l’andare
su e giù (ma solo in maniera accentuato nel finale) tra l’autore onnisciente e
il racconto in prima persona. Sembra quasi che Coe non sapesse come chiudere la
storia, e tira fuori il cilindro di se stesso (o un suo alter ego), che
scrivendo questa lunga metafora ha intrecciato realtà e finzione. Bah,
debolino. Peccato, che il romanzo in se sembrava essere più promettente, anche
se, credo, una lettura da parte di Coe del bellissimo “Il senso di una fine” di
Julian Barnes ne avrebbe asciugato i toni. Infatti, seguiamo un brano della
vita di Max Sim, incartandoci con lui in una serie di incontri, che svelano (a
lui ed a noi) alcune storie della sua vita. E Max si accorge che spesso quello
che pensava non è quello che era (vedi Barnes, appunto). Purtroppo, mentre
cerca di chiudere il cerchio, Coe interviene e chiude il libro. Questo non
glielo perdono molto. Ma torniamo a Max. ed ai suoi incontri. Vede una donna
con figlia in un ristorante di Sidney che gli danno un senso di serenità mai
provato prima (anche perché era andato in Australia per trovare il padre senza
riuscire a comunicare con lui in seguito all’abbandono da parte della moglie
con figlia). In aereo, muore il suo vicino di posto, posto che viene preso
dalla giovane Poppy, che gli dà modo di conoscere la strana professione di “facilitatore
di adulteri” (e questa conoscenza gli potrebbe servire con Allison, ma la
lascia cadere) e di presentargli il simpatico zio Clive. Uno zio che lo introduce
nella vita e nella morte di un grande illusore, il finto navigatore solitario
Donald Crowhurst. Questo meriterebbe un inciso: Donald partecipò alla grande
Golden Race intorno al globo, nel 1968, ma non avendo barca adatta né capacità,
girellò per l’Atlantico, fino a riprendere le barche dopo il capo Good Hope.
Sperava di passare inosservato, ma a quel punto era fintamente primo. Per questo,
va fuori di testa, si toglie la vita e lascia la barca alla deriva. Quello che
potrebbe succedere a Max, quando va alla deriva per le campagne scozzesi
cercando di vendere spazzolini da denti (idea ridicola). E Max era andato al
Nord perché, lasciato dalla moglie Caroline, era rimasto depresso per sei mesi,
si era licenziato, era stato incastrato del suo vecchio amico Trevor (ma non si
domanda come mai il vecchio amico lo cerchi solo quando ha bisogno di soldi?)
in questo giro di spazzolini, che lo aveva portato alla vecchia casa del padre,
a visitare la nuova casa della ex-moglie e della figlia, ad incontrare la
sorella del suo primo grande amico. Ma questo primo grande amico (come scopre
da un racconto scritto da Caroline e che furtivamente legge) lo abbandona
cinque anni prima quando Max (lui dice con cattiveria, Chris dice con astio)
spinge il figlio di questi in una buca di ortiche. E leggendo anche lì non
autorizzato uno scritto di Allison (la sorella di Chris) scopre che questa era
pronta a mettersi con lui, se lui non fosse stato così assurdamente preso da
altro (campeggio, Chris, il fuoco che non si accende) e non avesse scoperto che
il padre di Max le aveva fatto una foto “un po’ osé in succinto bikini accanto
al fratello, grondanti d’acqua dopo il bagno”. Ma le sorprese e gli incontri
non sono finiti, che nella vecchia casa del padre, scopre (altra violazione di
privacy) il diario del padre. E scopre che questi era sempre stato attratto
dall’amico Roger per cui aveva una passione quasi omosessuale. Roger con cui
avevano fatto grandi cose e grandi progetti (leggete quali, non posso scrivere
tutto, no?), e che si erano lasciati per essersi dati un ultimo appuntamento in
un pub, ed avendo aspettato tutta la notte ognuno nel giusto pub. Peccato che a
Londra fossero due i pub dal nome “Rising Sun”. Dalla delusione, il padre va a
scopare con l’amica di una notte, Barbara. Peccato che quella scopata porti
proprio alla nascita di Max. I due si sposano, e Roger vola via per il mondo.
Capisce forse Max, che il padre era più attratto da Chris che da Allison? E si
domanda perché di tutti questi incontri, lui ricordi quello con Clive piuttosto
che la fallimentare cena con Caroline? Coe è poi maestro nel casualmente
riannodare situazioni irriannodabili. Max vede al lavoro Poppy all’aeroporto di
Bangkok, e risentirà quella voce 250 pagine dopo, quando il marito di Allison
telefona per mentire su un ritardo (e lui lascerà cadere, anche se Allison
vorrebbe portarlo a letto). E poi c’è la madre di Max, che muore di cancro,
come di cancro muore la vera madre della figlia cinese adottata dalla donna del
ristorante delle prime pagine. Cancro da lei preso mentre lavorava ad una
fabbrica … si spazzolini da denti. Non ho parole. Se Coe avesse avuto coraggio
di rimanere su Max poteva essere un bel romanzo di crescita e di autocoscienza
di una persona sempre immersa in situazioni più grandi di lui, con persone più
intelligenti di lui, più furbe di lui. E con lui che poteva capire cosa sia il
suo se stesso. Ma Coe fugge di lato, e, ripeto, non glielo perdono. Come non
perdono il revisore che a pagina 283 per una scommessa sui cavalli lascia il
termine errato maringala invece del corretto
martingala. Dobbiamo migliorare tutti: io, Coe, i traduttori e gli
editori. Ci si riuscirà?
“Sembra che io abbia perso un bel po’ di
amici negli ultimi anni. Non è che abbia troncato con loro in modo drammatico,
abbiamo solo deciso di non tenerci in contatto…. A mano a mano che invecchi…
alcune amicizie ti sembrano sempre più ingiustificate. E un bel giorno ti
chiedi: ‘A che servono?’. E allora interrompi i contatti.” (13)
“Non arrabbiarti troppo con chi pensa di
conoscerti meglio di quanto tu conosci te stesso. Ha buone intenzioni.” (353)
Glenway Wescott “Appartamento ad Atene” Adelphi euro s.p. (regalo
collettivo Almaviva)
[A: 07/05/2013 – I:
05/03/2014 – T: 08/03/2014] - &&&
[tit. or.: Apartement in Athens; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 1945]
Un’interessante
lettura dovuta ad un trailer sbagliato ed un ricordo corretto. Il ricordo
riguarda l’autore che rammentavo autore di un veloce libricino che mi era molto
piaciuto “Il falco pellegrino”, le memorie di un anziano ripensante i suoi
tormenti d’amore. E quando gradisco un autore, rimane il suo ricordo in fondo
alla memoria. Il trailer sbagliato invece riguardava un film, quello tratto da
questo libro, che ricordavo aver visto in qualche cinematografica occasione.
Sbagliato che ne avevo tratto elementi ironici, che poi non sono stati
verificati dal libro. Infatti, vedendo il libro, ed avendo queste memorie, lo
comprai a scatola chiusa. Ma il libro è ben diverso dalle mie aspettative. Non
è ironico, ma è allegramente triste. Per tutta la lettura aspettavo lo scatto
dei momenti filmici, che non sono mai arrivati, avendo io confuso film diversi
(ahi, quando la memoria comincia a far dei buchi…). Ciò nonostante, lo
scrittore, pur misconosciuto in Italia, sa ben scrivere. Ed il libro è stato
tutto sommato interessante. Specchio di momenti antichi e di dolori che mai
sopiranno. Ambientato in Atene (come dice giustamente il titolo), narra le
vicende di una famiglia greca costretta, obtorto collo, ad ospitare un gerarca
nazista durante l’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale. Per
sopravvivere al crollo economico e lavorativo, la famiglia Helianos è costretta
ad ospitare il capitano Kalter, cosa che gli consente di avere viveri in più,
nonostante la penuria guerresca. C’è Nikolas il padre che si vorrebbe gioviale,
ma che sempre si deve contenere. C’è la madre, in perenne crisi di nervi,
dovuta anche alla morte del figlio maggiore. E ci sono i due figli: il maschio
spensierato e la femmina, leggermente ritardata. I quattro devono far fronte ai
modi bruschi e molto militareschi del capitano. Che si allarga nella casa,
relegandoli alla cucina e poco altro. Che li vessa in mille maniere, negando
loro gli avanzi (che preferisce dare al cane di un suo commilitone), trattando
male il figlio per raddrizzarne il carattere, ignorando la piccola Leda (e
questa ne soffre). Il racconto procede con il procedere della guerra, con i
piccoli micro – episodi giornalieri, che sprofondano sempre più gli Helianos
nella cupezza, loro che sarebbero (almeno il padre) di indole comunicativa. Non
solo il tempo avanza, ma anche le storie. Ed il capitano, verso la fine della
guerra, comincia ad avere qualche tracollo. Sembra concedersi all’umanità.
Comincia ad interagire con Nikolas, soprattutto a valle di due avvenimenti: la
promozione del capitano (avvenimento subito palese) ed un dolore dello stesso
che stenta a venire fuori (la morte prima della moglie per malattia, poi dei
suoi due figli in guerra). All’apparenza tutto pare andare verso
un’umanizzazione anche dell’occupante. Tanto che Nikolas si lascia sfuggire
commenti non ortodossi sulla guerra, e sugli alleati dei tedeschi (in
particolare Mussolini). Qui c’è il colpo di genio dello scrittore, la capacità
di mostrare tutta la cattiveria dei cattivi (scusate la ridondanza). Il tenente
Kalter denuncia Nikolas come sovversivo. E mentre questi è in carcere,
interrogato dalla Gestapo, il tenente, sempre più cupo, decide di porre fine
alla sua esistenza, sparandosi un colpo di pistola alla tempia. Ma non è questa
la perfidia di Kalter. È la lettera in cui, rivolto al suo sodale Sertz (quello
del cane) denuncia la famiglia Helianos come esecutrice della morte. Fortuna
che Sertz è meno “tedesco” di quanto sembri, e che, nonostante la
frequentazione, avesse capito quanto odioso potesse essere Kalter. Fa quindi in
modo che gli Helianos siano scagionati dalla morte di Kalter. Ma non può far
nulla per Nikolas, che da giorni, per la testimonianza di Kalter stesso, è
stato già giustiziato. Nel tracollo di tutto quanto, la madre esce dalle sue
crisi di nervi, e pur fragile comprende la necessità, comunque, di contrastare
gli invasori. E prenderà contatto con la resistenza, affinché il piccolo Alex
possa fare la sua parte. La bellezza dello scritto è in questa sequenzialità
che porta tutto all’estremo. Tutto che ci aspettiamo fare un salto verso il
buono, ma che (tremendo ma vero) non sarà così. E Wescott lo rende con un
procedere lento ma costante verso il baratro. Aspettavo l’ironia (come dicevo
sopra). Ho trovato solo una grande tragedia. Da non dimenticare. Mai.
“In momenti come quello capiva che non
avrebbe potuto vivere senza di lei. Era la sua cara mente femminile … a fargli
conservare la ragione.” (76)
“La bellezza non è soltanto sentimento, è
matematica e psicologia.” (140)
“Io sono stato infantile per tutta la vita,
e a volte mi sembra che tutti gli uomini e le donne di buon cuore che ci siano
al mondo siano bambini, e che solo i malvagi abbiano una mente adulta; e allora
mi sento disperato.” (216)
Tom Robbins “Natura morta con Picchio” Baldini Castaldi Dellai euro
8,90
[A: 04/01/2014 – I: 25/03/2014
– T: 30/03/2014] - &&&&
[tit. or.: Still Life with Woodpecker; ling. or.: inglese; pagine: 262; anno 1980]
Ecco
un altro autore di cui avevo sentito parlare abbastanza qua e là durante anni
di convivenza con la letteratura, ma che, per una ragione o l’altra, non mi ero
mai deciso ad affrontare. A parte i panegirici che si trovano un po’ ovunque su
di lui (autore di culto, autore esimio, fuoco di fila di trovate intelligenti
ed esilaranti) e la sua sbandierata amicizia e vicinanza con Timothy Leary, elementi
appunto che mi avevano frenato, dopo la lettura devo dire che è moderatamente
interessante, sicuramente capace nell’uso della scrittura, con quelle capacità
descrittive che, probabilmente, gli derivano anche dagli inizi come critico,
sia di arte che di musica. Altrettanto sicuramente, per chi lo conosce, è però
anche un emulo di Kurt Vonnegut jr che, personalmente, trovo però più incisivo.
C’è la stessa capacità di entrare ed uscire dalla pagina, di parlare a ruota
libera un po’ di tutto, di mettere molta carne a fuoco. Troppa forse. E forse
con qualche inconcludenza in più. Kurt arrivava sempre al punto, Tom spara a
raffica, colpendo un po’ qua ed un po’ là, ma lasciando alla fine il dubbio su
quale fossero i suoi “veri” bersagli. O se ci fossero veri bersagli, e non sia
tutto frutto di una lunga serata con Tim. A cominciare dal titolo, dove Picchio
è maiuscolo non per banalità tipografiche, ma in quanto soprannome di uno dei
due personaggi al centro della storia: Pupo “Bernard” Wrangler detto Picchio.
L’altro personaggio è, fortunatamente, una donna, la principessa Leigh-Cheri. E
c’è anche una storia, all’interno del lungo narrare di Tom verso il lettore di
cose altre. La principessa vive in esilio a Seatlle insieme ai genitori,
essendo eredi e spodestati di un’oscura monarchia europea (i
Furstenberg-Barcalona). Ventenne vive di sogni e di ambizioni ecologiche, per
cui non appena ne ha notizia parte per un convegno ambientalista mondiale che
si deve tenere alle Hawaii. Lì incappa nel Picchio, un fuorilegge dinamitardo
con il vizio di far saltare in aria quello che poco gli aggrada. Come gli
ecologi da strapazzo. Tra uno scoppio e l’altro, tra i due scoppia la scintilla
della passione, e poi dell’amore. Fuggendo dall’isola (Picchio è ricercato dopo
un ennesimo scoppio) tornano a Seattle. Leigh-Cheri cerca di introdurlo nella
sua famiglia, ma l’anarchico Picchio difficilmente riesce a seguire delle
regole (un fuorilegge è sempre fuori della legge). anche se cerca di farlo per
amore della bella. La frustrazione dell’insuccesso lo portano ad abbassare la
guardia ed a farsi arrestare. La parte centrale vede l’amore di Leigh-Cheri
concretizzarsi nell’auto-isolamento per stare vicino idealmente al suo amato.
Ma dopo 20 mesi di passioni solitarie, l’idea della pubblicità ed ostentazione
dell’amore turbano Picchio che sembra mollare l’amata. Che per la frustrazione
decide di cedere alle lusinghe dello sceicco A’ben. E per regalo di nozze
chiede la costruzione di una nuova piramide. Altri 20 mesi passano e si ultima
la costruzione. Intanto, i ribelli hanno rovesciato il governo fantoccio della
Barcalona, e messo sul trono Giulietta, la governante nonché sorellastra di
Leigh-Cheri. La quale chiede in cambio la liberazione di Picchio. Sorvolando
alcuni passaggi, i due si ritrovano il giorno prima delle nozze di lei dentro
la piramide con tanta dinamite, tanto champagne e tanta torta nuziale. Lo
sceicco cornificato (ma chi cornifica chi?) li vuole morti. Loro, anche a duro
prezzo, si salveranno. Vivranno felici e contenti? Questo lo scoprirete se
leggete il testo. Ma questo testo è solo il contesto del vero testo di Robbins,
che, tra una riga e l’altra se la prende: con i falsi ambientalisti, con Ralph
Nader e le sue farneticazioni, con la CIA ed i servizi segreti, con gli arabi
presupponenti, con la sinistra radical chic (rappresentata dall’avvocato Nina e
da un bel duello verbale tra lei e la principessa), con chi crede nel
sovrannaturale, con chi vede segni ovunque. L’idea di base, poi, che fa da
motivo conduttore al libro, ed alle agnizioni che arrivano a poco a poco, è la
piramide sul pacchetto delle sigarette Camel. E sul fatto che i protagonisti
sono entrambi rossi di capello. Tra una lotta immaginata che vede scontrarsi
extra-terrrestri di pelo rosso e di pelo biondo, con conseguente nascita delle
civiltà Maya, Olmeche, Tolteche e via discorrendo. Ed un parallelo tra la
piramide sul biglietto di un dollaro e quella sul pacchetto delle Camel. E
sulla nascita delle piramidi stesse, sui loro perché, sul loro essere sempre
rivolte ai quattro punti cardinali. Insomma, capite anche voi, da ogni spunto
Robbins parte ed imbastisce storie. Anche intriganti. Come tutto il panegirico
finale, dove la metafora viene tutta basata sulla parola CHOICE. Scelta, che è
l’unica azione degna di essere attuata. Insomma, una bella galoppata, un
torrente di parole, a volte, purtroppo, un po’ datate. A volte, come detto
sopra, senza una mira precisa, un po’ alla colpirne cento per educarne uno. Ma
intrigante, e moderatamente divertente. Capisco inoltre la fatica del
traduttore, dove appunto ogni tanto si deve mettere qualche parola in
originale, che altrimenti si perdono giochi e nessi. Pur tuttavia, un po’di
attenzione in più non avrebbe guastato, quando a pagina 165 si lascia l’inglese
Plato invece di usare l’universalmente noto Platone. Ripeto, preferisco
Vonnegut, ma Robbins ha qualche freccia al suo arco.
“Il mio amore per te non ha secondi fini. Ti
amo gratis.” (128)
Bella
questa frase di Robbins, che sottoscrivo in pieno. Aspettando le vacanze
anglofone (che non si sbloccano, purtroppo), o altre mete che non si profilano
all’orizzonte, affrontiamo con piglio deciso una bella e calda settimana.
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