domenica 8 marzo 2015

Otto marzo - 08 marzo 2015

Casualità vuole che, nella cabala delle mie trame, siano capitate oggi quattro interessanti scrittrici che scrivono di donne. Poiché sono contrario a celebrare la donna un solo giorno all’anno, termino qui la polemica, e mi dedico alla loro scrittura, tutta superiore alla media, con un divertente romanzo di Winifred Watson (che ho cercato di “trasportare” in film) ed uno duro di Alice Walker sulla condizione dei negro-americani (da rileggere anche oggi, per pensare ai continui morti neri in America). In realtà, mi aspettavo di più da Audrey Niffenegger ed i suoi “viaggi nel tempo”. Degno chiusura (per il tema e per il giorno), il libro di Susan Vreeland su di un’altra donna interessante, la pittrice Artemisia Gentileschi.
Winifred Watson “Un giorno di gloria per Miss Pettigrew” BEAT euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 02/04/2014– I: 29/08/2014 – T: 31/08/2014] - &&&&
[tit. or.: Miss Pettigrew Lives for a Day; ling. or.: inglese; pagine: 207; anno 1937]
Un piccolo gioiellino di quasi ottanta anni, poco noto (a me) così come lo era l’autrice. Ma che esemplifica in letteratura quello che al cinema in quegli anni veniva indicato come “il tocco di Lubitsch”. Un sottile mix di umorismo ed erotismo (anche se mai esplicito e mai volgare). Un romanzo che ci fa vivere con Miss Pettigrew le 24 ore fondamentali della sua vita, e che io mi svolgevo in testa appunto come un film in bianco e nero degli Anni Trenta. Ovviamente con Katherine Hepburn nel ruolo di Miss Pettigrew, che incontriamo la mattina alle 9, dimessa nel suo cappotto marrone, cercare un lavoro in una tipica agenzia di collocamento americana, e da questa mandata a casa di Miss Delysia LaFosse (nome d’arte tipico per una soubrette londinese dell’epoca). Qui comincia la commedia degli equivoci che ci segue per tutto il romanzo. Miss LaFosse (interpretata da Jeanette MacDonald, visto che deve anche cantare) è una finta svampita, che però non sa resistere al fascino maschile. Ed è sballottata tra tanti amori “da un giorno” (cose che scandalizza la nostra, che ben presto confessa anche di chiamarsi Ginevra). Ginevra riesce a buttar fuori casa con uno stratagemma l’inconcludente Phil, dato che sta arrivando chi mette i suoi soldi per mantenere la bella al suo tenore di vita. Ecco Nick (un ottimo Clark Gable), rude, ma di un fascino intenso, tanto che Delysia cade sempre ai suoi piedi a bocca aperta. Ginevra però si accorge del pericolo insito in lui, e riesce a posporre le sue attenzioni di almeno un giorno. Ginevra si muove con quel suo tocco di perbenismo ma anche con quel pizzico di follia che le viene dal contatto con un mondo che aveva visto solo al cinema o letto in qualche romanzo d’appendice. Ma la sua capacità camaleontica di appropriarsi di questi personaggi la fa comportare come se avesse sempre vissuto “nel bel mondo”. Facciamo quindi la conoscenza con Michael (un giovane Gary Cooper) indeciso fra la rudezza e la gentilezza. Michael ama Delysia, ma non ha il fascino di Nick. E la soubrette, ogni volta che vede Nick, cade in deliquio. Arriva anche Edythe Dubarry (particina disegnata apposta per Lucille Ball), l’estetista, che ha litigato con Tony (una caratterizzazione di David Niven)  e non sa come fare la pace. Ormai Ginevra viene presa nel vortice degli avvenimenti. Edythe le trasforma il volto, Delysia le presta un vestito di seta, e tutte si recano al Pavone in Rosso, il locale dove la soubrette canta. E dove si ritrovano tutti. Aiutata da qualche bicchiere di sherry, Ginevra impartisce una lezione di bon ton al malcapitato Tony, in uno scambio di battute “da film”, alla fine del quale lo riappacifica con Edythe. Al tavolo dei nostri gaudenti, si presenta anche il maturo Joe (Spencer Tracy al meglio), venditore di corsetti per donne, arricchitosi con le vendite, e che prova a spendere tra i fumi del lusso gli anni prima di un inevitabile declino fisico. Nel bel mezzo delle schermaglie, arriva anche Nick, e Delysia sta per cadere ai suoi piedi, come tutte le volte che lo vede. Fortunatamente, Ginevra sobilla Michael che lo prende a pugni. Momento epico: se Nick reagisce, Miss LaFosse sarà perduta e tornerà con lui. Ma Nick è un neo-ricco e non vuol perdere la faccia in un locale in cui è ben noto. Se ne va. A questo punto tutti si danno “alla macchia”. Tony ed Edythe spariscono subito, che il loro momento di gloria è passato. Anche Delysia e Michael se ne vanno, così che Ginevra si trova nel taxi con Joe. Dove finalmente riesce a confessare la sua giornata “misplaced”. In un film moderno, Ginevra tornerebbe nell’angolo da dove è partita. Ma siamo nelle commedie sofisticate, nel tripudio dei telefoni rosa. Joe riaccompagna Ginevra da Delysia. Qui la nostra trova i due piccioncini che tubano, confessa anche a loro la sua mistificazione, ma i nostri ormai le vogliono talmente bene che le propongono di diventare la governante della loro futura casa, ora che si sposeranno. Ginevra è già in Paradiso, ma forse salirà anche più in alto che Joe le sta per telefonare e … Sipario. Ovviamente il romanzo non fu trasportato sullo schermo, e le parti sono una mia invenzione (anche se plausibile, spero). Rimane la scrittura della Watson, fresca ed accattivante. Il suo prendere in giro il perbenismo londinese, inventando situazioni nuove ad ogni volgere di ora. Tanto che arriviamo alle 3 di notte senza accorgercene. Certo, molte situazioni sono datate e/o tendono a ripetersi. Penso che molto sia anche dovuto al fatto che in questo romanzo siano espressioni poi diventate celebri in altri film. Una specie di capostipite. Con la nostra scrittrice che, poco dopo, si sposa e smette di scrivere. Lasciandoci questo piccolo gioiello che mi ha consolato dei miei dolori epicondiliaci.
Alice Walker “Il colore viola” Sperling euro 9,50
[A: 01/02/2014 – I: 14/09/2014 – T: 16/09/2014] - &&&&
[tit. or.: The Color Purple; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1982]
Un bel libro, certamente non facile, e sicuramente ravvivato nei ricordi da chi (ma non io) ha visto il bel film che ne ha tratto Spielberg. Anche questo, come altri che leggo in questo periodo, vincitore di un Pulitzer, pur se un premio avuto or sono trenta anni. Ed anche questo, come il coevo della Morrison, ambientato nell’universo nero. E di non facile lettura, perché si configura come un romanzo epistolare. Seguiamo le vicende di Celie attraverso le sue lettere, prima a Dio, quando giovane e spaventata, non sa a chi rivolgere le sue parole e come affrontare una vita molto complicata. Poi alla sorella Nettie, da cui viene separata a forza. Finendo poi nelle risposte che la sorella invia e che non sappiamo se arrivano. Quindi mai una narrazione diretta, sempre una ricostruzione attraverso le parole dei protagonisti. Siamo nella prima metà del ventesimo secolo, nel più profondo Sud degli Stati Uniti, dove i neri si sposano solo per avere una persona che curi i numerosi figli che nascono dentro e fuori il matrimonio. Celie, abusata dal patrigno, vede sparire i suoi due figli. Poi, per salvare la sorella Nettie dagli stessi abusi, accetta di sposare l’anziano (ma non vecchio) Albert, e di fare la cameriera per tutti. Così Nettie riesce a fuggire lontano, tanto che se ne perderanno le tracce per buona parte del libro. Celie fa crescere i figli di Albert, aiuta Harpo, il maggiore, a sposare la ribelle Sofia. Poi tutto cambia con l’arrivo di Shug, una cantante (professione quanto mai peccaminosa) che è stata per anni l’amante di Albert. La ventata di una donna indipendente comincia a far maturare Celie (e lo vediamo dal tono delle lettere che cambia). C’è all’inizio diffidenza tra le due, poi comprensione, poi qualcosa in più, forse amore. E grazie all'aiuto di Shug, Celie trova le lettere che Nettie aveva continuato a spedirle, e che il marito le aveva occultato in tutti quegli anni. Scopre così che la sorella, seguendo le sue indicazioni, aveva raggiunto i missionari a cui erano stati affidati i suoi due figli, e con loro si era recata in Africa, per un programma di evangelizzazione ed assistenza nelle zone più arretrate di quel continente. Attraverso le lettere recupera il suo mondo, abbandona la scrittura con Dio, e si affida alla sorella, seguendo la crescita dei figli ed assistendo alla progressiva demolizione dell'ambiente e delle tradizioni tribali del luogo da parte della rapace civiltà occidentale. Intanto Sofia ha l’ardire di schiaffeggiare il sindaco, viene incarcerata, poi allontanata dai figli e dal marito. Celie, attraverso la forza che le ha dato Shug, tenta di affrontare tutto e tutti. E quando è messa alle corde, decide di andarsene a Memphis, con Shug, mettendo a frutto il suo talento, creando una piccola attività di sartoria. Sembra un bel momento, poi Shug irrequieta riparte e tornerà anni dopo, sposata con un ragazzo che ha un terzo dei suoi anni. Decidono tutti di tornare al paese natio, che il patrigno è morto lasciando una cospicua eredità a Celie. Anche Albert è cambiato, non picchia più Celie come faceva all’inizio, si cura dei figli e dei nipoti. Intanto Nettie cerca di tornare con i figli di Celie, ma nella traversata vengono affrontati da navi tedesche (siamo ormai in guerra) e se ne perdono le tracce. Il mondo sembra crollare, ma è proprio l’ex-marito che la sostiene nel piccolo e le da quella pur poco consistente serenità per andare avanti. Per far ricongiungere Harpo e Sofia. Per farsi avanti al ritorno di Shug, e finalmente dichiarare apertamente l’amore che da sempre provava, e di viverlo. E quando meno se lo aspetta, arriva Nettie con la sua nuova famiglia. Portando definitivamente la felicità nella casa in cui tanti anni prima, tutto era cominciato. Si sente molto che Alice Walker è un’attivista dei diritti delle donne, ma lo fa in un modo corretto verso tutti. Si sente molto, e ne viene una grande rabbia, il modo come i bianchi (che poco entrano direttamente sulla scena) tengono i neri sotto il tallone. Si sente molto la capacità che può avere una donna quando viene messa in grado di poter sfruttare al meglio le proprie capacità. Si sente molto la bravura di una scrittrice che ha ragione di esistere anche solo per aver scritto questo libro (probabilmente ne ha scritti molti altri, ma per ora questo mi è sufficiente).
“Siamo qui … per far domande. Per chiedere. E … facendo domande, interrogandosi sulle cose grosse, si impara molto sulle piccole, quasi per caso. … Più mi faccio domande … più amo la gente.” (307)
Audrey Niffenegger “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” Mondadori euro 10
[A: 04/01/2014– I: 25/09/2014 – T: 02/10/2014] - &&& 
[tit. or.: The Time Traveler’s Wife; ling. or.: inglese; pagine: 503; anno 2003]
Avevo delle aspettative strane basendomi sul titolo e sulle immagini che poteva evocare. Purtroppo tutte fallaci. Non che mi aspettassi un libro di fantascienza, ma l’idea di base del romanzo avrebbe dovuto trovare, da qualche parte, una sua soluzione e/o spiegazione. Invece rimane lì, per tutte e 500 le pagine, lasciandomi, alla fine, discretamente insoddisfatto. Non si saprà mai perché Henry, il protagonista, sia una PCD (Persona Cronologicamente Disturbata) e che quindi i suoi geni lo trasportano qua e là nel corso del tempo. Visto poi soggettivamente, in effetti, Henry sembra un essere immortale, perché, andando su e giù per gli anni, vive la sua vita un numero considerevole di volte. Tanto che, in alcuni momenti, è presente in un luogo con due età differenti (tipo “Ritorno al futuro”). E questo contrasta con l’assunto, che anche l’autrice fa, che non si posso alterare il tempo ed i fatti. Tanto che, quando viaggia nel tempo, Henry si ritrova sempre nudo, che portare vestiti in epoche diverse creerebbe alterazioni. Inoltre Henry non è consapevole del suo potere genetico, cioè lo subisce, per cui, ogni tanto, senza che lui sappia perché né come (a parte accusare stati di stress emotivo ed altre concause) si trova da un'altra parte. La storia, vista nel suo scorrere lineare, ci presenta appunto questo Henry, figlio di due musicisti, cui muore la madre a 6 anni in un incidente d’auto. Il padre un po’ lo accudisce, un po’ delega la vicina, la simpatica coreana Kim. Henry cresce, trova lavoro come bibliotecario, ha un po’ di avventure con diverse donne, fino ad incontrare LA donna della sua vita, Clare. Che sposa, e con cui costruisce una vita dignitosa, almeno nel presente di Clare. Diventa amico dei suoi amici, Gomez e Charisse. Aiuta Clare nel suo lavoro di artista. Poi passano un lungo periodo nel cercare di avere una prole. Che arriverà ma solo dopo sei aborti. Nasce Alba, che eredita, ma questa volta in modo consapevole, il dono paterno. Poi, almeno nella cronologia di Clare, Henry morirà. Ci sono anche altri sviluppi sentimental-buonisti, come la redenzione del padre di Henry che, sprofondato nell’alcool, ne uscirà per insegnare il violino ad Alba. Come lo spacciatore Ben, malato non terminale di AIDS, che aiuterà Henry con droghe varie a tenere, talvolta, sotto controllo il suo ondivagare. Ed altri avvenimenti minori. Ma detto così, il romanzo non è che un modello americano alla Casati Modignani (senza togliere nulla a Sveva, che ha scritto anche cose leggibili seppur non eccelse). L’incasinamento, e talvolta la bellezza, del romanzo deriva da due modalità narrative usate dalla scrittrice. La prima è quella delle due voci. Tutto il libro è narrato a due voci da Henry e da Clare. Spesso narrandoci lo stesso avvenimento dalle due prospettive. Spesso facendo proseguire la storia da una voce all’altre. Ed in questo, devo dire, quando la scrittrice da voce a Clare si sentono meglio sofferenze e gioie. E forse non è un caso che nel titolo si parli di “moglie dell’uomo”. Mi piace di più quando parla Clare, che vive una strana vita, ma la vive sua. Non Henry, che, andando su e giù, si intorcina spesso. Si mette in situazioni imbarazzanti, soprattutto perché si ritrova sempre nudo da qualche parte. E facilmente la risolve quando trova dei vestiti. Non altrettanto quando si trova in un magazzino al gelo sottozero (e subirà forti danni) o quando verrà preso a fucilate comparendo improvvisamente in un prato (e non vi dirò né chi gli spara né le conseguenze di ciò). La seconda, che invece rende (o almeno ha reso a me) difficile la lettura, è il fatto che ogni capitolo, a volte anche ogni paragrafo, è preceduto dall’indicazione temporale di quando siamo (giorno, mese ed anno). E di quanti anni ha in quel momento Henry e di quanti ne ha Clare. Perché, e qui c’è il gioco magico iniziale che da spunto e vivacità a tutta la prima parte, Henry conosce Clare quando lei ha 6 anni e lui 30. E non si capisce come, ma il luogo dove si incontrano (il giardino di casa di Clare) sarà quello più visitato da Henry durante i suoi viaggi. Come se ci fosse un buco temporale che lo porta lì. Peccato che, mentre Clare cresce linearmente, Henry si presenta ogni volta con età diverse. Questo è il gioco, come detto, che poi si ripercuote per tutto il libro. Dove Henry incontra a volte persone che in qualche su e giù ha già incontrato. A volte non si ricorda lui, a volte la persona che gli sta di fronte. Ma è tutta un’immane fatica, capire chi sia Henry in quel momento, chi sia Clare, tanto che a volte dovevo tornare indietro per rileggere la data. Certo, l’assunto finale di un amore che vada al di là dello spazio e del tempo, e che lega per sempre i due, è piacevole. Ed anche sentimentalmente ben congeniato. Ci vuole però tutta la pazienza e l’amore di Clare per sopportare una vita siffatta. Quindi, onore al merito della scrittura. Onore ai buoni sentimenti. Peccato per un’opera che, nelle premesse, avrebbe potuto meritare di più.
“Quando vivi con una donna impari ogni giorno qualcosa.” (275)
“A Chicago ci sono così tanti esempi di ottima architettura che ogni tanto l’amministrazione comunale si sente spinta a distruggerne qualcuno per costruire edifici orrendi che ci aiutino ad apprezzare quelli belli.” (329)
Susan Vreeland “La passione di Artemisia” BEAT euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 02/04/2014– I: 04/10/2014 – T: 07/10/2014] - &&& e ½  
[tit. or.: The Passion of Artemisia; ling. or.: inglese; pagine: 326; anno 2002]
Per chi non ha avuto l’occasione, o forse la fortuna, di leggere il bello ed ormai introvabile libro di Anna Banti sulla grande pittrice e donna italiana, un buon libro che ha due meriti fondamentali. Ne ripercorre con passione, come sottolinea il titolo, le tappe principali della vita. E ci fa entrare nella genesi delle opere dei pittori dell’epoca, nel come e nel perché dipingono quello che dipingono, cosa vogliono (o sperano) di mostrare a noi miseri fruitori passivi delle loro opere. La scrittrice americana fa una buona opera di collage e di invenzione sulla vita e soprattutto sui pensieri di Artemisia Gentileschi, una delle prime donne pittrici (anche se non la sola) ma sicuramente la prima ad entrare nella ristretta cerchia dell’Accademia del Disegno di Firenze. Ed a cimentarsi con un personaggio scomodo, sia per la sua vita così come si è svolta, sia per il simbolo di rivolta cui assurge, giustamente anche se al solito forzosamente, di emancipazione femminile. Artemisia nasce a Roma nel 1593, e morirà a Napoli nel 1653. Figlia di un buon pittore dell’epoca, Orazio, e ben presto in grado di cimentarsi con il disegno, ha una svolta epocale, nella vita e nella carriera, con lo stupro su di lei perpetrato dall’assistente del padre Agostino e sul processo che dal padre fu intentato allo stupratore che non intendeva risarcire “il danno” attraverso un matrimonio riparatore. Questo episodio viene preso, giustamente, dalla Vreeland come inizio della storia della donna, per i motivi, per il processo, e per gli atteggiamenti che Artemisia dovrà subire, incolpevole. Artemisia ha 17 anni al momento dello stupro, e nel processo (come logico dato il tempo, ma dato il fatto che, allora come ora, la donna è sempre considerata un po’ puttana, e qui si aprirebbero cascate di discussioni, che comprendiamo e sottoscriviamo) non solo si cerca di farla passare come adescatrice, facendole subire anche torture per vedere se, sotto tortura, continua a sostenere le accuse. Ma il padre non la protegge minimamente. E quando Agostino restituisce i quadri rubati ad Orazio, questi lascia cadere le accuse. Per cui ad Artemisia viene riconosciuto il danno, ma il colpevole non viene condannato, ma solo esiliato da Roma. Questo aprirà, come è logico, un solco mai più colmabile con il padre. Che per riparare la “vende” in matrimonio ad un sodale fiorentino (che quindi la può portare lontano da Roma), ben sapendo che questi aveva bisogno della dote solo per continuare a mantenere le sue amanti. La prima consolazione della vita fiorentina è la nascita della figlia, Palmira. Poco del resto. Non l’amore del marito, che non solo continua la sua vita libertina, ma è geloso del successo della moglie. Che viene presa a benvolere da un nipote di Michelangelo, e sotto la sua spinta entrerà, come detto, in Accademia. E ad un certo punto comincerà la sua vita errabonda per la penisola. Con i suoi quadri e con la figlia. Prima, anche se questa parte è poco storicamente documentata, a Genova. Poi, dopo un nuovo litigio con il padre che si era rappacificato con lo stupratore, fugge a Venezia. E dopo un rapido passaggio a Roma, per salutare le sue “tate”, le suore di Trinità dei Monti, svolgerà l’ultima parte della vita a Napoli. Dove troverà un benefattore nel marchese Ruffo, e troverà un buon sposo per la figlia. Farà in tempo, in una parentesi di due anni, a salire a Londra, per assistere alle ultime ore del padre morente, cercando di capire le motivazioni delle azioni del genitore, cosa che non sembra sicuramente facile. Finirà la sua vita, come detto, nella città campana, dipingendo per la prima volta anche tele per delle chiese. Certo Artemisia è una personalità complessa, e la scrittrice ha i suoi momenti migliori quando ci fa partecipe dei motivi per cui decide di dipingere più e più volte la sua “Giuditta che uccide Oloferne”. E ad ogni dipinto, come cambia la prospettiva della pittrice (e di noi osservatori). Altri momenti ben resi sono le difficoltà di una donna all’epoca di affermare la propria sensibilità e la propria sessualità. Non sapremo mai, anche leggendo i resoconti del processo, come si svolsero i fatti dello stupro. Certo, e questo non lo dimenticheremo mai, deve essere stata una prova ben ardua da sostenere per una donna, dove anche il proprio padre non la difende a spada tratta. E vediamo anche bene come verrà trattata dai suoi contemporanei in seguito. Tuttavia, Artemisia, con la forza della propria arte, riesce ad uscire dal tunnel delle cattiverie. Ora di lei rimangono i suoi quadri. E sono mirabili. Ed è mirabile, anche se non un capolavoro, il libro della Vreeland. Grazie infine a Roberta della segnalazione, anche se con la mia lentezza ho impiegato più di qualche anno a soddisfarla.
“È strano come crescano i figli… Quello che più ci aspetteremmo da loro, quello che più desidereremmo per loro … non li interessa minimamente.” (224)
Seconda domenica di marzo, ed eccovi anche un allegato un po’ triste dedicato alle persone tristi che vogliono intristirsi un po’ di più.
Mentre noi, al contrario, pur nella stanchezza del periodo pre-primaverile, nell’incertezza di prossimi viaggi non ancora avvenuti, o soltanto immaginati, non si è tristi. Magari un po’ affamati di cene e compagnie, che vennero, vengono e verranno.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2015
Ed ecco un altro mese dedicato alla depressione, questa volta però vengono indicati non romanzi per tirarsi su, ma letture per chi è molto triste.

DEPRESSIONE, I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CHI È MOLTO TRISTE

Guillermo Cabrera Infante   Tre tristi tigri
Javier Marias                        Un cuore così bianco
Gabriel Garcia Màrquez       La incredibile storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata
Carson McCullers                La ballata del caffè triste   
Arturo Pérez-Reverte           Capitano Alatriste
Francoise Sagan                   Bonjour tristesse    
José Saramago                      L'anno della morte di Ricardo Reis
Osvaldo Soriano                   Triste, solitario y final        
Edward St. Aubyn                I Melrose/Speranza 
Richard Yates                      Revolutionary Road 

Bugiardino

Questa volta sono pochi i libri già letti, di cui il primo, quello sulle “Tre tristi tigri” risale a tanto tempo fa che non ricordo altro che di averlo prestato al mio amico Luciano, e che anche a lui non piacque. C’è inoltre da segnalare un primato tra questi dieci, quello di Saramago, il cui libro sulla morte di Ricardo Reis fu il primo che non riuscii a terminare, e detiene il triste primato di essere il capostipite di una seppur corta serie di libri. E se il libro di Soriano aveva alcuni spunti di interesse, ora, riletto, lascia molto del suo fascino sul tavolo. Dove al contrario, Pérez-Reverte, pur nella sua semplicità, almeno lo trovo rilassante.
Osvaldo Soriano “Triste, solitario y final” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 22 luglio 2012]
Ricorrendo il trentennale della prima lettura del libro dell’argentino Soriano, ho voluto rileggerlo per vedere cosa cambiava, che nuove e diverse impressioni mi lasciava. Anche perché ne avevo una traccia labile nella memoria. Qualcosa di interessante, ma poi i ricordi finivano. Basiamoci allora su questa lettura. E devo dire che gli anni sono passati per tutti. Il testo è datato, la scrittura l’ho trovata stanca e poco coinvolgente. Una sarabanda nel mito americano, con l’idea di metterlo in crisi, di minarlo. Forse era così, ma ora non mi coinvolge affatto. La storia prende l’avvio con uno stanco Stan Laurel, che ormai vecchio e solo (essendo nel frattempo morto il suo sodale Oliver Hardy) si rivolge ad un detective per sapere come mai nessuno lo vuole più nei film. Ovviamente il detective è Philip Marlowe, di cui gustiamo il tratteggio che ne fa Soriano, saltabeccando tra i libri di Chandler. Già qui poteva esserci dell’interesse, dell’ironia. Ma lasciamo ben presto Stanlio, e ritroviamo Marlowe quindici anni dopo, che visitando la tomba del mingherlino, si imbatte in un giornalista argentino, tal Osvaldo Soriano, venuto in America per scrivere una storia sui due comici. Philip e Osvaldo si industriano per trovare notizie, e si imbattono nel mondo della celluloide americana. Si scontrano con una banda di gaglioffi capitanata da John Wayne. Hanno una brutta storia cercando di risolvere un problema di adulterio. Si intrufolano nella cerimonia degli Oscar, dove rapiscono Charlie Chaplin. Dove Soriano bacia una stralunata Jane Fonda. Dove si susseguono sparatorie ed inseguimenti. E bevute. E tristi serate giocando a scacchi e consolandosi con il gatto di Marlowe. Ma tutto senza un vero perché. Sembra una brutta copia di un hard boiled americano, dove incontriamo tanti personaggi noti. Dove Soriano l’autore prende in giro (o cerca di farlo) sia i tic dello star system americano, sia la mania argentina di guardare al Nord America come fonte di soluzione di tutti i problemi. Ma se vediamo le date, ci accorgiamo che da poco c’è stato il golpe in Cile. Ed in poco tempo, anche l’Argentina sarà travagliata da colpi di stato militari ed altre nefandezze (basta rileggersi qualche pagina delle Irregolari di Carlotto per ricordarsene). Tanto che Soriano stesso sarà costretto a fuggire e riparare per almeno quindici anni in Europa. Tornato, finalmente vede premiati i suoi sforzi di scrittore. Premi, riconoscimenti. Magistrali scritti di calcio, la sua grande passione. Per poi morire a soli 54 anni di cancro ai polmoni. Certo, questo scritto triste e solitario è anch’esso un paradigma di Soriano, della sua visione del mondo (e del suo amore per i gatti). Ma non ha più la freschezza di trent’anni fa. Ne esce una storia stanca, piena di allusioni (e forse illusioni), che si legge e si apprezza legata imprescindibilmente con la vita di Soriano stesso. Non è un caso che vi si ponga dentro la storia. Ed in una parte di azione in prima persona, mentre il libro veniva scritto nei sei mesi di mobbing che il suo giornale gli imponeva. Gli veniva pagato lo stipendio, ma non veniva pubblicata una riga dei suoi articoli in quanto era considerato troppo di sinistra. Leggendo il romanzo in controluce con Soriano stesso e le sue illusioni, se ne rivalutano aspetti e risvolti. Capacità stilistiche di parodiare gli americani. Tristezza per essere lasciato lì, solitario anche lui. E senza una spalla su cui innescare le sarabande comiche di Stanlio e Ollio. E quindi, pur con tutta la benevolenza di testa che gli tributo, mi lascia un po’ deluso. Mi consola solo aver scoperto che nel mondo spagnolo la coppia comica era chiamata “El Gordo y el Flaco”. Muy hermoso!
Arturo Pérez-Reverte “Capitano Alatriste” Il Saggiatore s.p. (regalo)
[trama del 27 febbraio 2015]
Mi è sempre sembrato di piacevole lettura, questo strano spagnolo a metà tra scrittore e giornalista (che spesso, per campare, soprattutto ai tempi di Franco, era meglio scrivere sui giornali, come faceva “el mi amigo” Manuel). E mi piacque a suo tempo il primo che ne lessi (“Il club Dumas”, naturalmente) che mi rimase nell’orecchio di leggere altro. Vennero così il primo da lui scritto (che riuscii a leggere in originale, e fu facile e divertente), ed altro. Scoprendo tra l’altro che Arturo non è che la versione spagnola di Jean Reno, un attore che amo. Mi restava di iniziare, prima o poi, la saga del Capitano Alatriste (cui l’autore, nel corso degli ultimi venti anni ha dedicato ben sette libri). Ed eccoci allora qui, dopo la lettura veloce di un libro che scorre gradevole senza tanti intoppi. Certo un libro non eccelso, senza particolari elementi avvincenti nella trama. Eppur tuttavia con qualche spunto qua e là da tenere in considerazione: le descrizioni della vita quotidiana durante quello che per gli spagnoli è chiamato “El Siglo de Oro”, la presenza, tra i personaggi al contorno, di alcuni elementi storici (e che rimarranno nel corso degli altri libri) come Francisco de Quevedo ed il marchese di Guadalmedina, altri che, altrettanto storici, sono presenti solo in questo, come i due inglesi che citiamo sotto o un pittore, tal Diego da Silva y Velázquez. Torniamo allora alla trama. Il capitano Diego Alatriste y Tenorio è un reduce da mille campagne militari, e tira avanti alla buona, usando quello che meglio sa: la sua arte militare e le sue doti di spadaccino. Certo, in tempi di magra, magari assoldato per qualche “aggiustatina”. La storia delle sue gesta ci viene narrata dal giovane Iñigo, un basco figlio di un compagno d’armi di Diego. Alatriste viene assoldato da altolocate figure incappucciate per “malmenare” due inglesi che stanno arrivando a Madrid. Ma questi ordini vengono stravolti dal capo dell’Inquisizione, e da quello che doveva essere il suo aiutante sul campo, l’italiano Gualtiero. Gli inglesi vanno uccisi. Durante l’assalto, però, Diego si accorge che c’è qualcosa di strano, e decide di opporsi al massacro. Ben gliene incoglie, da un lato, che i due non sono altro che Carlo principe di Galles e il duca di Buckingham. Che, da lui salvati, avranno modo di ripagarlo. Male dall’altro, ovvio, che con questa alzata di testa si inimica i suoi mandanti, sia il cattivo frate Emilio Boccanegra sia il meno cattivo, ma potente, duca di Olivares. Da questo attacco si dipana un po’ della storia picaresca: il potere cerca di far fuori con tutti i mezzi il nostro capitano, che, altrettanto con tutti i mezzi a sua disposizione, cerca di mantenersi in vita. Il tutto, come detto, inserito nel momento e nell’epoca storica, anche ben documentata e di piacevole inserimento nel contesto. Che in realtà, è vero che il principe di Galles si recò a Madrid per cercare di sbloccare la situazione di un suo possibile matrimonio con l’Infanta di Spagna. E che il duca di Olivares, in pratica reggente del giovane re Filippo, si opponeva al matrimonio, in quanto ritenuti eretici gli anglicani inglesi. Nella realtà, poi, dopo alcuni mesi di traccheggio, il principe inglese tornerà in patria senza la moglie spagnola, ma, dopo poco, sposerà l’erede al trono di Francia, instaurando alleanze che saranno deleterie per il futuro della Spagna stessa. Ma qui entriamo nella storia, invece di rimanere nel romanzo. Iñigo ci narra alcune vicende in cui Diego Alatriste sta per soccombere, ma da dove poi si salva, attraverso insperati aiuti dell’ultimo momento. Come quello dei due inglesi durante la rappresentazione della commedia “El Arenal de Sevilla” di Lope de Vega (che è una commedia reale, di cui ho trovato anche il testo nella Biblioteca Spagnola online). Alla fine ci sarà un redde rationem tra Alatriste ed il duca di Olivares, dove il nostro, negando di aver riconosciuto alcuno dei mandanti incappucciati, e forte delle raccomandazioni del principe Carlo, avrà salva la vita, nonché un piccolo appannaggio mensile (sempre utile per i mercenari squattrinati). La prima avventura di chiude così con i nostri protetti da una parte della nobiltà, ma rimasti sotto le mira di fra’ Boccanegra e del cattivo Gualtiero. Nelle more, inoltre, il giovane Iñigo fa in tempo ad invaghirsi di una ragazzina della buona società, che, come tutte le relazioni squilibrate, secondo lo stesso Iñigo, non porterà nulla di buona. Vedremo, se avremo voglia di leggere altro. anche se, rispetto a romanzetti e scritturine, la penna di Pérez-Reverte non mi dispiace. Un ultima chicca: per caratterizzare il nostro capitano, l’autore si rifà ad un cavaliere, semi-nascosto da un cavallo, presente nel grande quadro “La resa di Breda” dipinto da Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (tanto per non farci mancare altri stimoli ai nostri bistrattati neuroni).

Conclusioni


Non so, ma credo che le autrici si siano fatte fuorviare dalla tristezza presente nel titolo di molte delle storie suggerite a chi è molto triste (buongiorno tristezza, tre tristi tigri, triste solitario y final, capitano Alatriste, la ballata del caffè triste). Poiché non credo molto nell’omeopatia un po’ raccogliticcia (diverso il caso di quella seria e meditata), mi sembra che si dovesse affrontare la cura per chi è molto triste con qualcosa, non dico di comico, ma quanto meno di ironicamente stimolante. Mi sa questo mese i miei malati di libri rimarranno malati.

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