domenica 29 marzo 2015

Mario, Inés e altro - 29 marzo 2015

Metà delle trame di oggi, arrivano in fatti da un gradito ed inaspettato regalo dei miei due amici. Le unisco ad altri due saggi, confezionando un pacchetto di trame che si eleva ben al di sopra della media. Una lezione di civiltà di Pintor, un ricordo ed un pensiero vagabondando per il Mugello. E poi un inusuale libro di cucina caraibica ed una raccolta di interventi sul tema della tradizione, guidati dallo storico Hobsbawm (e si sa che anche gli storici mi sono simpatici). Una bella lettura, in attesa della Pasqua.
Luigi Pintor “Servabo” Bollati Boringhieri s.p. (regalo di Sara e Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 04/09/2014 – T: 05/09/2014] - &&&& e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 91; anno 1993]
Che bella lettura! Che lezione di civiltà, e ovviamente non mi aspettavo di meno, da una persona che ho comunque incrociato nella mia vita, e che mi è sempre sembrata adatta a se stessa. Non so se le mie parole rendono quello che sentono verso la figura di Pintor, ma, talvolta, più che la parola stessa, è il senso che ne esce fuori, dal suono, dal modo di esistere lì, in quel momento. Come questo titolo, che ci spiega l’autore vuol dire, principalmente, conserverò. Ma vuole anche dire sarò utile. Utilizzando tutte le accezioni della parola “servo”. E Pintor ci conserva, rendendosi utile a noi, la sua vita in brevi pillole che ne percorrono i momenti che lui stesso ritiene per sé significativi. E lo fa con quel tono di spigliato giornalismo che me lo rese caro nelle letture dei primi anni del “Manifesto”. Come ripeteva, quello che devi dire, lo puoi dire in 40 righe. E se non lo fai capire in 40 righe, forse non è chiaro neanche a te che scrivi. Ed allora di poche righe in poche righe (raramente i capitoli superano le tre o quattro paginette del formato in sedicesimo dell’editore) in quei rapidi quattordici capitoli, scorrono le memorie di questo “servitore” e delle sue vicende di vita. Dalla giovinezza sarda all’adolescenza romana. Dalla lotta partigiana, intrapresa quasi come fosse un gioco, al mestiere di giornalista, quasi che ci si dedicasse per non saper fare altro. Attraversato dalla morte per lo scoppio di una mina del fratello Giaime. Dal matrimonio alla paternità. Dall’impegno sociale sempre presente alle turbe prima per i fatti d’Ungheria del ’56 poi per la primavera di Praga del ’68. La rottura con il Partito e la nascita del Manifesto. Ricominciare tutto di nuovo, diventando lui, che sempre si sente inadeguato, un punto di riferimento dei giovani. E la voglia, “carico d’anni” ma non di sventura, a voler baciare non la sua petrosa Itaca come Ulisse, ma questi episodi della propria vita, per tenerli lì accanto, ora che la fine si fa ogni giorno più vicina. Leggo e rileggo queste brevi righe. Ed ogni volta continua a stupirmi la lucidità con cui Pintor diceva tutto, il piacevole e lo spiacevole. Mi viene di ripercorrere quei momenti che per lui furono intensi, formanti, quelli della lotta partigiana, dell’incoscienza dei 18 anni, dove, pur incoscienti, si sente che si sta facendo qualcosa. Ed in quella Roma che lottava, clandestina seppur palese, con tutte quelle coincidenze di vita, di leggerezza, di follia, che ritornano nella mia memoria familiare, che ben si intreccia con i Pintor, i Rodano, i Tatò, e via discorrendo. Mia zia che pedala per il viterbese portando in canna di bicicletta partigiani alla macchia. Mio zio che esce fischiettando da Regina Coeli mentre lo stavano arrestando e lui fa finta di essere lì per caso. Mia madre cui casca la borsa con le armi mentre attraversa Ponte Sisto, ma i militi non se ne accorgono. Ecco che mi è presa la mania del narrare in poche righe, quasi a togliere un po’ di spazio all’autore, che altrimenti lodo troppo. Ma come non pensare a lungo all’ultima frase che riporto sotto. A questo fatto che i libri servano più a che li scrive che a chi li legge. Certo, servono molto allo scrivente che vi riversa le sue gioie e le sue paure. Pur tuttavia basta una persona che per qualche suo personale motivo trova un giovamento anch’esso personale nel leggere queste righe. Ebbene, anche se io autore non lo verrò mai a sapere, basta questo per giustificare la scrittura. Per ringraziare Luigi Pintor di questo piccolo gioiello di parole, che avevamo lasciato più in alto sulla soglia dei momenti duri, ma che termina, così come comincia, nel privato. Con il dolore, pudico eppure immenso, per la morte della moglie. Con il dolore, mai sopito, mai vinto, della morte del fratello Giaime, che pur tuttavia rimarrà stella del suo personale firmamento. Metro sul quale misurare le proprie azioni. Testamento pesante, che, dal ’43 in poi, l’allora diciottenne Luigi porterà sempre con sé. Ed io ora dico, fortunatamente. Sono contento che sia esistito un “servitore” attento e discreto come Luigi. Una persona eccezionalmente normale, capace di tante cose che ammiro, ed anche di tanti errori. Perché umani siamo, non divini.
“Fu semplicemente una questione di circostanze, alla fine è sempre una questione di circostanze.” (32)
“Non cesserò di pensare che i mondi sono due ma imparerò che la linea divisoria non è segnata su nessun atlante e passa fin dentro il cuore dell’uomo. Stare da una parte diventerà più complicato, ma più necessario.” (66)
“Un libro serve a chi lo scrive, raramente a chi lo legge, perciò le biblioteche sono piene di libri inutili.” (89)
Simona Baldanzi “Il Mugello è una trapunta di terra” Laterza euro 12 (in realtà, scontato 10,80 euro)
[A: 05/05/2014– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 150; anno 2014]
Ancora una buona e convincente prova della collana di Laterza, anche se il sottotitolo del libro (“A piedi da Barbiana a Monte Sole”) pur accattivante non dice tutto del libro. Anzi ne sottende una metà, mentre la seconda metà (che devo dire ha un interesse ed una valenza pari alla prima) riguarda la triste e dolorosa storia di una che era a suo tempo una fabbrica italiana di punta, la Emmelunga di Barberino. Simona Baldanzi è una giovane scrittrice radicata nel territorio intorno a Firenze, figlia di operai, attenta alle lavorazioni locali. In questo libro, che come al solito si colloca tra il racconto, la geografia e la storia, unisce con sapienza i tre elementi. Il racconto che dà il filo allo srotolare dei ricordi durante la camminata montana di 120 chilometri è appunto la storia di una fabbrica di mobili. Storia esemplare, simile a molte storie di fallimenti e sconfitte del non maturo capitalismo italiano. Storia di una fabbrica che utilizzava gli alberi dell’Appennino per i suoi mobili, che per prima aveva anche utilizzato i venditori. E che non ha saputo gestire la crescita. Che vuol dire avere un approccio industriale, gestire fornitori, montatori, ed altre maestranze. Invece si delega senza controllo, facendo scelte assurde quanto improbabili: colorare le fabbriche di blu e giallo per fare il verso ad Ikea, poi acquistare i mobili in Cina, che costano meno ma che vogliono essere pagati prima. Per finire con l’improvvida vendita di baracche e burattini niente di meno che ad… Aiazzone! Così che nel 2010 non può far altro che dichiarare fallimento e vendere tutto il vendibile. Che tristezza! Ma altrettanto interessante è il secondo aspetto del racconto di Simona: la camminata ed i luoghi che si attraversano. La camminata come fatica, come mezzo di stare: sono venti chilometri al giorno, che si possono fare, ma non è proprio una passeggiata. Comunque si pensa, mentre si cammina, e si sta con se stessi (almeno questo è quello che faccio io). Per poi essere con gli altri quando ci si ferma, quando si arriva la sera. Camminare è parlare con il proprio corpo, ma anche vagare con la testa verso il proprio modo di essere. Questo fanno gli intrepidi camminatori del Mugello. E quanto sono belle e comunitarie le sere che si passano a curare i muscoli doloranti, a bere vino schietto, a parlare di tutto e di niente. A me poi, soprattutto i primi momenti geografici, mi han riportato indietro in tempi neanche troppo lontani, ma così densi di ricordi. Che dire di Barbiana, che fu una grande emozione la prima volta che ci sono andato, ed ogni volta che ci sono tornato. E non era solo lo spirito, la presenza enorme di Don Milani, ma anche l’eco delle parole di mio padre, di tutto quello che veniva detto negli anni, e che solo nella piena maturità ho compreso e fatto mio. E poi la salita verso Vicchio. La Madonna del Sasso. Simona parla dei luoghi, io ripenso alle mie gite da Calenzano verso l’interno. Ci parla di sassi che erano case e che ora sono ricordi. Ci parla di chiese. Ci parla di natura, di campagna. Di incontri e di sedute ai tavoli di osterie campagnole. Io ripenso alla stagione del BarBerinese un bar stupendo, pieno di ragazzi vogliosi di fare, sulla strada verso il Lago di Bilancino. E ricordo anche il lago, e qualche pomeriggio speso sulla sua riva a guardare anatre e godere di sole e compagnia. Il finale del libro è dedicato al Monte Sole, punto d’arrivo anche della camminata. E qui Simona Baldanzi ci dà anche un altro saggio di mescolanze tra geografia e storia, soprattutto storia dimenticata o mal riportata. Perché il Monte Sole è poco sopra Marzabotto, ed è stata teatro di altrettante carneficine. Ricordandole, l’autrice ci riporta anche al cimitero tedesco che si incontra per via. Quanti morti, quanti eccidi, quante storie, anche, per le valli e per i massi. Quanto potrebbe ancora (e dovrebbe) ricordare l’Appennino. Perché come diceva un saggio greco, le guerre finiscono solo per chi ci muore. Noi le continuiamo a sentire, nella pelle coloro che c’erano, nei luoghi, noi che non c’eravamo, ma sappiamo. Ed è in finale un bell’inno alla terra questo che esce fuori dalla giovane scrittrice mugellese. La terra per camminare e ricordare. Ricordare le sconfitte, sia delle guerre che degli operai, ricordare gli alberi tagliati, ma anche i massi portati via, i buchi fatti alla terra stessa per congiungere Firenze e Bologna. Siamo arrivati al Monte Sole, ed è con il suo calore si ripensa alla strada percorsa. Io torno subito all’inizio, che non mi sarei mai mosso da Barbiana. Ma io non sono lo scrittore.
“C’è una cosa che ho imparato … si mangia tutto, perlomeno si assaggia tutto, poi ci si scusa se si rifiuta qualcosa.  … Se c’è qualcuno che lo mangia, ha dignità di essere considerato cibo. Dare onore al cibo, a tutti i tipi di cibo, vuol dire avere il primo rispetto per gli esseri umani, la prima vera battaglia culturale contro la miseria e anche contro il razzismo.” (95)
Melani Le Bris “La cucina della filibusta” Elèuthera s.p. (regalo di Mario e Inés per il loro viaggio)
[A: 26/09/2014– I: 09/10/2014 – T: 14/10/2014] - &&& e ½
[tit. or.: La Cuisine des Filibustiers; ling. or.: francese; pagine: 223; anno 2002]
Un regalo che si è rivelato gradito e stimolante, da parte dei carissimi Mario e Inés, che avevo aiutato a programmare e prenotare il loro mega viaggio in Perù e Galapagos. Anche perché non è facile regalarmi libri. Loro hanno trovato questa (ed altra che vedremo in futuro) chicca. Un libro di cucina. Direte voi, ma che si legge, un libro di cucina? A parte che è piacevole (almeno per me) leggere di ricette, anche se poi delego ad altri più in grado di me la loro realizzazione. Ma in realtà questo è un libro tripartito e mescolato. Cioè, diviso in tre filoni, che sono sapientemente mescolati dall’autrice. Da un lato si segue la genesi e l’evolversi della pirateria nei mari caraibici, anche dietro l’esempio del super citato libro del padre di Melani, Michel. Il secondo filone è l’utilizzo del cibo da parte di questi “signori”, quale cibo utilizzano, come lo utilizzano, e, soprattutto, come lo fanno viaggiare per tutti i mari. In ultimo, c’è la ricetta vera e propria, magari con qualche particolarità e qualche spigolatura. Detto che questo terzo filone lo lascio a chi voglia cimentarsi con le ricette, e ribadito che l’unico stimolo reale che mi ha dato, qui ed ora, è la voglia di andare nei paesi caraibici, per provare, localmente, quello di cui qui si è narrato, passo alle altre due parti, che mi hanno incuriosito e, come detto, stimolato. Partendo sempre dalla premessa, che faccio non qui, ma ogni volta che viaggio e mi trovo in un posto diverso dall’usuale. Capire la gente è comprendere quello che mangiano, come lo mangiano e, possibilmente, mangiarlo insieme a loro. È un modo non solo di entrare in comunione con l’altro, ma anche di capire, sulla propria pelle, le sensazioni della vita quotidiana in posti che non saranno poi oggetto della nostra vita giorno per giorno. Per questo ho mangiato scorpioni fritti in Cina, vermi degli alberi in Namibia e porcellini d’India in Perù. Qui, nei Caraibi, poi c’è una componente fondamentale che mi fa amare questa cucina: l’uso, sapiente ma potente, del peperoncino e delle salse piccanti. Sono curioso di vedere se troverò mai, quando vi andrò, una salsa più potente della “tricolor” messicana (base di pomodoro, cipolla e peperoncino verde). Ma la brava Melani non solo ci fa vedere la nascita del cibo nelle isole caraibiche. Ma anche la sua diffusione: da Europa verso America e da America verso altre parti del mondo. Vediamo canna da zucchero e noci di cocco viaggiare sulle navi di Colombo (e non solo) e diventare un elemento di base ed insostituibile della vita locale (tanto che soprattutto la canna ha trovato un suo habitat talmente proficuo che sembra essere quasi nata lì, per produrre, tra l’altro, una delle cose migliori che conosco: il rum; ed ho anche capito, finalmente, la differenza tra il rum normale e il rum agricole, ma non ve la dico). Ma anche i percorsi inversi, per cui alla fine troviamo pietanze e ricette caraibiche che, con opportuni adattamenti, sono vive e vegete in Madagascar piuttosto che nell’isola di Réunion (ed un saluto ad Elena anche se si è trasferita). E non ci si meraviglia poi che saranno i pirati quelli che riusciranno a sopravvivere meglio, utilizzando la cultura locale per adattarsi. I colonizzatori, i tronfi signori spagnoli ed inglesi andavano laggiù volendo riprodurre la vita vissuta in patria, riuscendo il più delle volte quasi a morire di fame, non volendo usare il cibo autoctono. Che invece, dal peperoncino alle verdure, dai pesci alla frutta, è ottimo ed abbondante (a saperlo ben utilizzare). Infine c’è il filo conduttore dei pirati. E della loro diversità: abbiamo, prima dei pirati veri e propri, bucanieri e filibustieri. I primi erano i pirati dell'entroterra mentre i secondi erano i pirati del Mar dei Caraibi. I primi, vivendo lontano dal mare, derivano il loro nome dal francese “Boucanier” e indicava cacciatori di frodo che affumicavano la carne su una graticola di legno. Loro erano gli affumicatori (boucanes) ed utilizzavano un metodo che localmente si chiama barbicoa, e che ha originato il moderno barbecue. I secondi venivano chiamati “freebooters”, cioè "saccheggiatori", nome composto da "free" cioè libero e "booty" che significa "bottino", cioè «colui che fa liberamente bottino». E nel libro ne passano tanti, da quelli più noti come Jean David Nau, meglio noto con il soprannome di François l'Olonese, famoso per la sua crudeltà, o Sir Henry Morgan (che in realtà era gallese e si chiamava Hari Morgan) che all'apice della carriera fu addirittura nominato governatore della Giamaica. A quelli meno di grido ma capaci di gesta memorabili: William Dampier (preso a prestito dall’abate Prévost per il suo “avventuriero errante” e che in realtà ci fornisce una mappa idro-geologica del territorio caraibico tuttora valida), Thomas Gage, Lionel Wafer fino a Jean Lafitte (che diventò il tipico “corsaro” nel racconto di Byron). Per finire con personaggi che magari non erano direttamente pirati, ma che vi si accompagnarono per lunghi tratti, e che spiccano per le loro peculiarità: padre Jean-Baptiste Labat (che ci fornisce il maggior numero di ricette nel suo memorabile “Viaggio alle Antille”) o Alexandre Olivier Exquemelin o Oexmelin (il chirurgo della filibusta, ma anche scrittore che ci ha lasciato uno dei primi resoconti sui pirati caribici, ma soprattutto nato ad Honfleur, di cui conservo sempre un ricordo incancellabile). Tanto che viene la voglia di leggere di più e meglio su questo fenomeno sviluppatosi dalla fine del 1500 alla metà del 1700. Questa però sarà forse oggetto di altri libri ed altre riflessioni. Rimaniamo con Melani, con il suo interessante libro, e con un sentito ringraziamento ai donatori.
“Chi ha assaggiato il fuoco delle salse al peperoncino, ben presto non potrà più farne a meno.” (20)
“La radice del recao … sprigiona un aroma inebriante … che ricorda un poco quello di cimice schiacciata.” (32) [il recao si chiama anche cilantro, da non confondersi però con il coriandolo; il suo nome scientifico, poi, è “Eryngium foetidum”, e non dico altro]
Eric J. Hobsbawm (a cura di) “L’invenzione della tradizione” Einaudi s.p. (regalo di Mario e Inés per il loro viaggio)
[A: 26/09/2014– I: 15/10/2014 – T: 11/11/2014] - &&&&
[tit. or.: The Invention of Tradition; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1983]
Un interessante, seppur datato, saggio che, sull’onda delle idee di fondo che hanno da sempre spinto il suo curatore, si avventura nella non difficile operazione di smontare quelle che noi chiamiamo “tradizioni”. Spesso sono operazioni recenti (e non a caso quasi tutte nate a ridosso del “secolo breve” come ci ricorda in altri scritti Hobsbawm). Spesso sono addirittura inventate di sana pianta, perché funzionali ad un momento storico, ad un’impresa commerciale, ad una situazione politica e sociale. Per come nasce (frutto di ricerche sponsorizzate dalla rivista inglese “Past and Present”) il libro è anche maggiormente focalizzato sulle tradizioni anglo-sassoni, anche se, come brevemente illustra lo storico nelle conclusioni finali, è stato proprio l’Impero Britannico a fungere da volano per molte delle tradizioni attuali, che appunto partono dall’isola, o nell’isola hanno avuto un modello di riferimento. Sono quattro i passi fondamentali che questo saggio ci fa ripercorrere, per poi coagularsi nelle conclusioni dello storico che ne danno una visione d’insieme ed un tentativo di spiegazione coerente (oltre che uno stimolo ad approfondirne i vari aspetti). I quattro punti sono: la nascita delle tradizioni scozzesi, la costruzione simbolica del passato gallese, la monarchia britannica di fronte all’India, le invenzioni delle tradizioni nell’Africa Coloniale. Se volessimo fare un paragone con il presente, soprattutto le prime due “storie” ci fanno venire in mente il tentativo (ahi quanto ridicolo) della Lega di Bossi di “inventare” una tradizione padana utilizzando simboli e manifestazioni tanto anacronistiche quanto decontestualizzate. Così fu per la Scozia, dove i famosi “tartan” vennero introdotti a seguito di una spinta industriale, ed a valle di una costruzione fantasiosa (ma che fece presa) quella dei “canti di Ossian” di Macpherson. In realtà, gli Scozzesi, nelle alte terre, usavano pantaloni e non gonnellini. E sappiamo bene come Macpherson scrisse (inventandola di sana pianta) una “falsa” traduzione dei canti di Ossian, mescolando frammenti, favole, ed invenzioni di sana pianta. Ma data la mancanza di diffusione delle informazioni (certo nel Settecento non c’erano giornali o televisioni) il passaparola fece diventare plausibile tutta la falsa costruzione di queste tradizioni. Analogamente per i gallesi, dove, nel tentativo di riscattare una sottomissione atavica, si fece finta di poter far risalire gli attuali abitanti locali ai druidi dell’antichità, inventando lingue, tradizioni, araldiche, ed altri luoghi finti, per compiacere un’aristocrazia locale che cercava una sua libertà d’azione verso la monarchia centrale inglese. Ma sia Scozia che Galles misero in piedi questo castello di invenzioni nel Settecento, per poi consolidarlo nell’Ottocento. E senza alcun reale collegamento con quanto fu, bene o male, vissuto nella reale antichità di queste popolazioni. Ovviamente i nostri storici del libro (e si tornerà sul ruolo dello storico) non risparmiano neanche la monarchia inglese, dimostrando, con dovizia di particolari, che la cosiddetta “regalità inglese” è di fatto un tentativo che nasce nella seconda metà del regno della Regina Vittoria, e si consolida solo nel secolo scorso. C’è una specie di convergenza tra l’espansione dell’Impero e la necessità di “mostrare i reali”. In effetti, il punto di svolta si ha con la grande manifestazione della sottomissione indiana del 1877. Da quel punto in poi, ogni manifestazione regale diventa occasione di rinsaldare la coesione nazionale utilizzando simbolismi assolutamente privi di “tradizione” (gli stessi francobolli commemorativi saranno realmente usati solo con Elisabetta II). Parlando di Imperi, gli storici passano in rassegna tutta la panoplia di invenzioni (a volte veramente ridicole e decontestualizzate) che l’Ottocento mise in piedi come specchietti per le allodole in Africa. Senza farci poi mancare quelle ancora più recenti (tipici esempi la Marianna francese o lo zio Sam americano) che servivano appunto a rinsaldare sentimenti altrimenti molto laschi. Non è mio compito (non sono né storico né antropologo) andare oltre questi leggeri cenni di un processo che, in ogni caso, va smascherato e di cui se ne devono comprendere le finalità dell’invenzione. Ritorniamo quindi all’importanza (che ovviamente Hobsbawm stesso sottolinea) del ruolo dello storico. Questi, con la sua opera, partecipa, anche inconsapevolmente, a disegnare il retroterra cui l'invenzione della tradizione potrà attingere e fare riferimento. Deve quindi avere consapevolezza del fatto che, indipendentemente dalla sua volontà e dagli obiettivi che si prefigge, i suoi risultati finiranno per poter essere usati anche in modo politico e strumentale nella sfera pubblica della vita quotidiana. Per finire, quindi, un libro di non facile lettura (ho impiegato un mese a digerirlo), ma che ho letto con gusto per le scoperte che facevo e per la gentilezza di chi me ne ha fatto omaggio.
“Il controllo … della Repubblica era in mano agli uomini del centro camuffati da estrema sinistra … gente proverbiale per essere come il ravanello, rossi di fuori e bianchi di dentro, e sempre rivolti dalla parte dove soffia il vento.” (260) [lo storico non sta parlando dell’Italia attuale ma della Francia intorno al 1875… ma non mi sembra cambi molto!]
Non lasciatevi sfuggire questa ultima perla di Hosbwbawm. Per oggi, un segno di pace a tutti in questa domenica che prelude una Pasqua ancora di riposo e di preparazioni. Niente viaggi immediati per me, spero qualcosa per tutti i miei amici. Ad ognuno un segno di pace (che se ne ha bisogno).

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