Metà delle trame di oggi,
arrivano in fatti da un gradito ed inaspettato regalo dei miei due amici. Le
unisco ad altri due saggi, confezionando un pacchetto di trame che si eleva ben
al di sopra della media. Una lezione di civiltà di Pintor, un ricordo ed un
pensiero vagabondando per il Mugello. E poi un inusuale libro di cucina
caraibica ed una raccolta di interventi sul tema della tradizione, guidati
dallo storico Hobsbawm (e si sa che anche gli storici mi sono simpatici). Una bella
lettura, in attesa della Pasqua.
Luigi Pintor “Servabo” Bollati Boringhieri s.p. (regalo di Sara e
Giampaolo)
[A: 07/05/2014– I: 04/09/2014 – T: 05/09/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 91;
anno 1993]
Che
bella lettura! Che lezione di civiltà, e ovviamente non mi aspettavo di meno,
da una persona che ho comunque incrociato nella mia vita, e che mi è sempre
sembrata adatta a se stessa. Non so se le mie parole rendono quello che sentono
verso la figura di Pintor, ma, talvolta, più che la parola stessa, è il senso
che ne esce fuori, dal suono, dal modo di esistere lì, in quel momento. Come
questo titolo, che ci spiega l’autore vuol dire, principalmente, conserverò. Ma
vuole anche dire sarò utile. Utilizzando tutte le accezioni della parola
“servo”. E Pintor ci conserva, rendendosi utile a noi, la sua vita in brevi
pillole che ne percorrono i momenti che lui stesso ritiene per sé
significativi. E lo fa con quel tono di spigliato giornalismo che me lo rese
caro nelle letture dei primi anni del “Manifesto”. Come ripeteva, quello che
devi dire, lo puoi dire in 40 righe. E se non lo fai capire in 40 righe, forse
non è chiaro neanche a te che scrivi. Ed allora di poche righe in poche righe
(raramente i capitoli superano le tre o quattro paginette del formato in
sedicesimo dell’editore) in quei rapidi quattordici capitoli, scorrono le
memorie di questo “servitore” e delle sue vicende di vita. Dalla giovinezza
sarda all’adolescenza romana. Dalla lotta partigiana, intrapresa quasi come
fosse un gioco, al mestiere di giornalista, quasi che ci si dedicasse per non
saper fare altro. Attraversato dalla morte per lo scoppio di una mina del
fratello Giaime. Dal matrimonio alla paternità. Dall’impegno sociale sempre
presente alle turbe prima per i fatti d’Ungheria del ’56 poi per la primavera
di Praga del ’68. La rottura con il Partito e la nascita del Manifesto.
Ricominciare tutto di nuovo, diventando lui, che sempre si sente inadeguato, un
punto di riferimento dei giovani. E la voglia, “carico d’anni” ma non di
sventura, a voler baciare non la sua petrosa Itaca come Ulisse, ma questi
episodi della propria vita, per tenerli lì accanto, ora che la fine si fa ogni
giorno più vicina. Leggo e rileggo queste brevi righe. Ed ogni volta continua a
stupirmi la lucidità con cui Pintor diceva tutto, il piacevole e lo spiacevole.
Mi viene di ripercorrere quei momenti che per lui furono intensi, formanti, quelli
della lotta partigiana, dell’incoscienza dei 18 anni, dove, pur incoscienti, si
sente che si sta facendo qualcosa. Ed in quella Roma che lottava, clandestina
seppur palese, con tutte quelle coincidenze di vita, di leggerezza, di follia,
che ritornano nella mia memoria familiare, che ben si intreccia con i Pintor, i
Rodano, i Tatò, e via discorrendo. Mia zia che pedala per il viterbese portando
in canna di bicicletta partigiani alla macchia. Mio zio che esce fischiettando
da Regina Coeli mentre lo stavano arrestando e lui fa finta di essere lì per
caso. Mia madre cui casca la borsa con le armi mentre attraversa Ponte Sisto,
ma i militi non se ne accorgono. Ecco che mi è presa la mania del narrare in
poche righe, quasi a togliere un po’ di spazio all’autore, che altrimenti lodo
troppo. Ma come non pensare a lungo all’ultima frase che riporto sotto. A
questo fatto che i libri servano più a che li scrive che a chi li legge. Certo,
servono molto allo scrivente che vi riversa le sue gioie e le sue paure. Pur
tuttavia basta una persona che per qualche suo personale motivo trova un
giovamento anch’esso personale nel leggere queste righe. Ebbene, anche se io
autore non lo verrò mai a sapere, basta questo per giustificare la scrittura.
Per ringraziare Luigi Pintor di questo piccolo gioiello di parole, che avevamo
lasciato più in alto sulla soglia dei momenti duri, ma che termina, così come
comincia, nel privato. Con il dolore, pudico eppure immenso, per la morte della
moglie. Con il dolore, mai sopito, mai vinto, della morte del fratello Giaime,
che pur tuttavia rimarrà stella del suo personale firmamento. Metro sul quale
misurare le proprie azioni. Testamento pesante, che, dal ’43 in poi, l’allora
diciottenne Luigi porterà sempre con sé. Ed io ora dico, fortunatamente. Sono
contento che sia esistito un “servitore” attento e discreto come Luigi. Una
persona eccezionalmente normale, capace di tante cose che ammiro, ed anche di
tanti errori. Perché umani siamo, non divini.
“Fu semplicemente una questione di
circostanze, alla fine è sempre una questione di circostanze.” (32)
“Non cesserò di pensare che i mondi sono due
ma imparerò che la linea divisoria non è segnata su nessun atlante e passa fin
dentro il cuore dell’uomo. Stare da una parte diventerà più complicato, ma più
necessario.” (66)
“Un libro serve a chi lo scrive, raramente a
chi lo legge, perciò le biblioteche sono piene di libri inutili.” (89)
Simona Baldanzi “Il Mugello è una trapunta di terra” Laterza euro 12
(in realtà, scontato 10,80 euro)
[A: 05/05/2014– I: 09/09/2014 – T: 11/09/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 150;
anno 2014]
Ancora
una buona e convincente prova della collana di Laterza, anche se il sottotitolo
del libro (“A piedi da Barbiana a Monte Sole”) pur accattivante non dice tutto
del libro. Anzi ne sottende una metà, mentre la seconda metà (che devo dire ha
un interesse ed una valenza pari alla prima) riguarda la triste e dolorosa
storia di una che era a suo tempo una fabbrica italiana di punta, la Emmelunga
di Barberino. Simona Baldanzi è una giovane scrittrice radicata nel territorio
intorno a Firenze, figlia di operai, attenta alle lavorazioni locali. In questo
libro, che come al solito si colloca tra il racconto, la geografia e la storia,
unisce con sapienza i tre elementi. Il racconto che dà il filo allo srotolare
dei ricordi durante la camminata montana di 120 chilometri è appunto la storia
di una fabbrica di mobili. Storia esemplare, simile a molte storie di fallimenti
e sconfitte del non maturo capitalismo italiano. Storia di una fabbrica che
utilizzava gli alberi dell’Appennino per i suoi mobili, che per prima aveva
anche utilizzato i venditori. E che non ha saputo gestire la crescita. Che vuol
dire avere un approccio industriale, gestire fornitori, montatori, ed altre
maestranze. Invece si delega senza controllo, facendo scelte assurde quanto
improbabili: colorare le fabbriche di blu e giallo per fare il verso ad Ikea,
poi acquistare i mobili in Cina, che costano meno ma che vogliono essere pagati
prima. Per finire con l’improvvida vendita di baracche e burattini niente di meno
che ad… Aiazzone! Così che nel 2010 non può far altro che dichiarare fallimento
e vendere tutto il vendibile. Che tristezza! Ma altrettanto interessante è il
secondo aspetto del racconto di Simona: la camminata ed i luoghi che si attraversano.
La camminata come fatica, come mezzo di stare: sono venti chilometri al giorno,
che si possono fare, ma non è proprio una passeggiata. Comunque si pensa,
mentre si cammina, e si sta con se stessi (almeno questo è quello che faccio
io). Per poi essere con gli altri quando ci si ferma, quando si arriva la sera.
Camminare è parlare con il proprio corpo, ma anche vagare con la testa verso il
proprio modo di essere. Questo fanno gli intrepidi camminatori del Mugello. E
quanto sono belle e comunitarie le sere che si passano a curare i muscoli
doloranti, a bere vino schietto, a parlare di tutto e di niente. A me poi,
soprattutto i primi momenti geografici, mi han riportato indietro in tempi
neanche troppo lontani, ma così densi di ricordi. Che dire di Barbiana, che fu
una grande emozione la prima volta che ci sono andato, ed ogni volta che ci
sono tornato. E non era solo lo spirito, la presenza enorme di Don Milani, ma
anche l’eco delle parole di mio padre, di tutto quello che veniva detto negli
anni, e che solo nella piena maturità ho compreso e fatto mio. E poi la salita
verso Vicchio. La Madonna del Sasso. Simona parla dei luoghi, io ripenso alle
mie gite da Calenzano verso l’interno. Ci parla di sassi che erano case e che
ora sono ricordi. Ci parla di chiese. Ci parla di natura, di campagna. Di
incontri e di sedute ai tavoli di osterie campagnole. Io ripenso alla stagione
del BarBerinese un bar stupendo, pieno di ragazzi vogliosi di fare, sulla
strada verso il Lago di Bilancino. E ricordo anche il lago, e qualche
pomeriggio speso sulla sua riva a guardare anatre e godere di sole e compagnia.
Il finale del libro è dedicato al Monte Sole, punto d’arrivo anche della
camminata. E qui Simona Baldanzi ci dà anche un altro saggio di mescolanze tra
geografia e storia, soprattutto storia dimenticata o mal riportata. Perché il
Monte Sole è poco sopra Marzabotto, ed è stata teatro di altrettante
carneficine. Ricordandole, l’autrice ci riporta anche al cimitero tedesco che
si incontra per via. Quanti morti, quanti eccidi, quante storie, anche, per le
valli e per i massi. Quanto potrebbe ancora (e dovrebbe) ricordare l’Appennino.
Perché come diceva un saggio greco, le guerre finiscono solo per chi ci muore.
Noi le continuiamo a sentire, nella pelle coloro che c’erano, nei luoghi, noi
che non c’eravamo, ma sappiamo. Ed è in finale un bell’inno alla terra questo
che esce fuori dalla giovane scrittrice mugellese. La terra per camminare e
ricordare. Ricordare le sconfitte, sia delle guerre che degli operai, ricordare
gli alberi tagliati, ma anche i massi portati via, i buchi fatti alla terra
stessa per congiungere Firenze e Bologna. Siamo arrivati al Monte Sole, ed è
con il suo calore si ripensa alla strada percorsa. Io torno subito all’inizio,
che non mi sarei mai mosso da Barbiana. Ma io non sono lo scrittore.
“C’è una cosa che ho imparato … si mangia
tutto, perlomeno si assaggia tutto, poi ci si scusa se si rifiuta
qualcosa. … Se c’è qualcuno che lo
mangia, ha dignità di essere considerato cibo. Dare onore al cibo, a tutti i
tipi di cibo, vuol dire avere il primo rispetto per gli esseri umani, la prima
vera battaglia culturale contro la miseria e anche contro il razzismo.” (95)
Melani Le Bris “La cucina della filibusta” Elèuthera s.p. (regalo di
Mario e Inés per il loro viaggio)
[A: 26/09/2014– I: 09/10/2014 – T: 14/10/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: La Cuisine des
Filibustiers; ling. or.: francese; pagine: 223; anno 2002]
Un regalo che si è rivelato
gradito e stimolante, da parte dei carissimi Mario e Inés, che avevo aiutato a
programmare e prenotare il loro mega viaggio in Perù e Galapagos. Anche perché
non è facile regalarmi libri. Loro hanno trovato questa (ed altra che vedremo
in futuro) chicca. Un libro di cucina. Direte voi, ma che si legge, un libro di
cucina? A parte che è piacevole (almeno per me) leggere di ricette, anche se
poi delego ad altri più in grado di me la loro realizzazione. Ma in realtà
questo è un libro tripartito e mescolato. Cioè, diviso in tre filoni, che sono
sapientemente mescolati dall’autrice. Da un lato si segue la genesi e
l’evolversi della pirateria nei mari caraibici, anche dietro l’esempio del
super citato libro del padre di Melani, Michel. Il secondo filone è l’utilizzo
del cibo da parte di questi “signori”, quale cibo utilizzano, come lo utilizzano,
e, soprattutto, come lo fanno viaggiare per tutti i mari. In ultimo, c’è la
ricetta vera e propria, magari con qualche particolarità e qualche spigolatura.
Detto che questo terzo filone lo lascio a chi voglia cimentarsi con le ricette,
e ribadito che l’unico stimolo reale che mi ha dato, qui ed ora, è la voglia di
andare nei paesi caraibici, per provare, localmente, quello di cui qui si è
narrato, passo alle altre due parti, che mi hanno incuriosito e, come detto,
stimolato. Partendo sempre dalla premessa, che faccio non qui, ma ogni volta
che viaggio e mi trovo in un posto diverso dall’usuale. Capire la gente è
comprendere quello che mangiano, come lo mangiano e, possibilmente, mangiarlo
insieme a loro. È un modo non solo di entrare in comunione con l’altro, ma
anche di capire, sulla propria pelle, le sensazioni della vita quotidiana in
posti che non saranno poi oggetto della nostra vita giorno per giorno. Per
questo ho mangiato scorpioni fritti in Cina, vermi degli alberi in Namibia e
porcellini d’India in Perù. Qui, nei Caraibi, poi c’è una componente
fondamentale che mi fa amare questa cucina: l’uso, sapiente ma potente, del
peperoncino e delle salse piccanti. Sono curioso di vedere se troverò mai,
quando vi andrò, una salsa più potente della “tricolor” messicana (base di
pomodoro, cipolla e peperoncino verde). Ma la brava Melani non solo ci fa
vedere la nascita del cibo nelle isole caraibiche. Ma anche la sua diffusione:
da Europa verso America e da America verso altre parti del mondo. Vediamo canna
da zucchero e noci di cocco viaggiare sulle navi di Colombo (e non solo) e diventare
un elemento di base ed insostituibile della vita locale (tanto che soprattutto
la canna ha trovato un suo habitat talmente proficuo che sembra essere quasi
nata lì, per produrre, tra l’altro, una delle cose migliori che conosco: il
rum; ed ho anche capito, finalmente, la differenza tra il rum normale e il rum
agricole, ma non ve la dico). Ma anche i percorsi inversi, per cui alla fine
troviamo pietanze e ricette caraibiche che, con opportuni adattamenti, sono vive
e vegete in Madagascar piuttosto che nell’isola di Réunion (ed un saluto ad
Elena anche se si è trasferita). E non ci si meraviglia poi che saranno i
pirati quelli che riusciranno a sopravvivere meglio, utilizzando la cultura
locale per adattarsi. I colonizzatori, i tronfi signori spagnoli ed inglesi
andavano laggiù volendo riprodurre la vita vissuta in patria, riuscendo il più
delle volte quasi a morire di fame, non volendo usare il cibo autoctono. Che
invece, dal peperoncino alle verdure, dai pesci alla frutta, è ottimo ed
abbondante (a saperlo ben utilizzare). Infine c’è il filo conduttore dei
pirati. E della loro diversità: abbiamo, prima dei pirati veri e propri, bucanieri
e filibustieri. I primi erano i pirati dell'entroterra mentre i secondi erano i
pirati del Mar dei Caraibi. I primi, vivendo lontano dal mare, derivano il loro
nome dal francese “Boucanier” e indicava cacciatori di frodo che affumicavano
la carne su una graticola di legno. Loro erano gli affumicatori (boucanes) ed
utilizzavano un metodo che localmente si chiama barbicoa, e che ha originato il
moderno barbecue. I secondi venivano chiamati “freebooters”, cioè
"saccheggiatori", nome composto da "free" cioè libero e
"booty" che significa "bottino", cioè «colui che fa liberamente
bottino». E nel libro ne passano tanti, da quelli più noti come Jean David Nau,
meglio noto con il soprannome di François l'Olonese, famoso per la sua
crudeltà, o Sir Henry Morgan (che in realtà era gallese e si chiamava Hari
Morgan) che all'apice della carriera fu addirittura nominato governatore della
Giamaica. A quelli meno di grido ma capaci di gesta memorabili: William Dampier
(preso a prestito dall’abate Prévost per il suo “avventuriero errante” e che in
realtà ci fornisce una mappa idro-geologica del territorio caraibico tuttora
valida), Thomas Gage, Lionel Wafer fino a Jean Lafitte (che diventò il tipico
“corsaro” nel racconto di Byron). Per finire con personaggi che magari non
erano direttamente pirati, ma che vi si accompagnarono per lunghi tratti, e che
spiccano per le loro peculiarità: padre Jean-Baptiste Labat (che ci fornisce il
maggior numero di ricette nel suo memorabile “Viaggio alle Antille”) o Alexandre
Olivier Exquemelin o Oexmelin (il chirurgo della filibusta, ma anche scrittore
che ci ha lasciato uno dei primi resoconti sui pirati caribici, ma soprattutto
nato ad Honfleur, di cui conservo sempre un ricordo incancellabile). Tanto che
viene la voglia di leggere di più e meglio su questo fenomeno sviluppatosi
dalla fine del 1500 alla metà del 1700. Questa però sarà forse oggetto di altri
libri ed altre riflessioni. Rimaniamo con Melani, con il suo interessante libro,
e con un sentito ringraziamento ai donatori.
“Chi ha assaggiato il fuoco delle salse al peperoncino, ben presto non
potrà più farne a meno.” (20)
“La radice del recao … sprigiona un aroma inebriante … che ricorda un
poco quello di cimice schiacciata.” (32) [il recao si chiama anche cilantro, da
non confondersi però con il coriandolo; il suo nome scientifico, poi, è
“Eryngium foetidum”, e non dico altro]
Eric J. Hobsbawm (a cura di) “L’invenzione della tradizione” Einaudi s.p.
(regalo di Mario e Inés per il loro viaggio)
[A: 26/09/2014– I: 15/10/2014
– T: 11/11/2014] - &&&&
[tit. or.: The Invention of Tradition; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 1983]
Un
interessante, seppur datato, saggio che, sull’onda delle idee di fondo che
hanno da sempre spinto il suo curatore, si avventura nella non difficile
operazione di smontare quelle che noi chiamiamo “tradizioni”. Spesso sono
operazioni recenti (e non a caso quasi tutte nate a ridosso del “secolo breve”
come ci ricorda in altri scritti Hobsbawm). Spesso sono addirittura inventate
di sana pianta, perché funzionali ad un momento storico, ad un’impresa
commerciale, ad una situazione politica e sociale. Per come nasce (frutto di
ricerche sponsorizzate dalla rivista inglese “Past and Present”) il libro è
anche maggiormente focalizzato sulle tradizioni anglo-sassoni, anche se, come
brevemente illustra lo storico nelle conclusioni finali, è stato proprio
l’Impero Britannico a fungere da volano per molte delle tradizioni attuali, che
appunto partono dall’isola, o nell’isola hanno avuto un modello di riferimento.
Sono quattro i passi fondamentali che questo saggio ci fa ripercorrere, per poi
coagularsi nelle conclusioni dello storico che ne danno una visione d’insieme
ed un tentativo di spiegazione coerente (oltre che uno stimolo ad approfondirne
i vari aspetti). I quattro punti sono: la nascita delle tradizioni scozzesi, la
costruzione simbolica del passato gallese, la monarchia britannica di fronte
all’India, le invenzioni delle tradizioni nell’Africa Coloniale. Se volessimo
fare un paragone con il presente, soprattutto le prime due “storie” ci fanno
venire in mente il tentativo (ahi quanto ridicolo) della Lega di Bossi di
“inventare” una tradizione padana utilizzando simboli e manifestazioni tanto
anacronistiche quanto decontestualizzate. Così fu per la Scozia, dove i famosi
“tartan” vennero introdotti a seguito di una spinta industriale, ed a valle di
una costruzione fantasiosa (ma che fece presa) quella dei “canti di Ossian” di
Macpherson. In realtà, gli Scozzesi, nelle alte terre, usavano pantaloni e non gonnellini.
E sappiamo bene come Macpherson scrisse (inventandola di sana pianta) una
“falsa” traduzione dei canti di Ossian, mescolando frammenti, favole, ed invenzioni
di sana pianta. Ma data la mancanza di diffusione delle informazioni (certo nel
Settecento non c’erano giornali o televisioni) il passaparola fece diventare
plausibile tutta la falsa costruzione di queste tradizioni. Analogamente per i
gallesi, dove, nel tentativo di riscattare una sottomissione atavica, si fece
finta di poter far risalire gli attuali abitanti locali ai druidi
dell’antichità, inventando lingue, tradizioni, araldiche, ed altri luoghi
finti, per compiacere un’aristocrazia locale che cercava una sua libertà
d’azione verso la monarchia centrale inglese. Ma sia Scozia che Galles misero in
piedi questo castello di invenzioni nel Settecento, per poi consolidarlo
nell’Ottocento. E senza alcun reale collegamento con quanto fu, bene o male, vissuto
nella reale antichità di queste popolazioni. Ovviamente i nostri storici del
libro (e si tornerà sul ruolo dello storico) non risparmiano neanche la
monarchia inglese, dimostrando, con dovizia di particolari, che la cosiddetta
“regalità inglese” è di fatto un tentativo che nasce nella seconda metà del
regno della Regina Vittoria, e si consolida solo nel secolo scorso. C’è una
specie di convergenza tra l’espansione dell’Impero e la necessità di “mostrare
i reali”. In effetti, il punto di svolta si ha con la grande manifestazione
della sottomissione indiana del 1877. Da quel punto in poi, ogni manifestazione
regale diventa occasione di rinsaldare la coesione nazionale utilizzando
simbolismi assolutamente privi di “tradizione” (gli stessi francobolli commemorativi
saranno realmente usati solo con Elisabetta II). Parlando di Imperi, gli
storici passano in rassegna tutta la panoplia di invenzioni (a volte veramente
ridicole e decontestualizzate) che l’Ottocento mise in piedi come specchietti
per le allodole in Africa. Senza farci poi mancare quelle ancora più recenti
(tipici esempi la Marianna francese o lo zio Sam americano) che servivano
appunto a rinsaldare sentimenti altrimenti molto laschi. Non è mio compito (non
sono né storico né antropologo) andare oltre questi leggeri cenni di un
processo che, in ogni caso, va smascherato e di cui se ne devono comprendere le
finalità dell’invenzione. Ritorniamo quindi all’importanza (che ovviamente
Hobsbawm stesso sottolinea) del ruolo dello storico. Questi, con la sua opera, partecipa,
anche inconsapevolmente, a disegnare il retroterra cui l'invenzione della
tradizione potrà attingere e fare riferimento. Deve quindi avere consapevolezza
del fatto che, indipendentemente dalla sua volontà e dagli obiettivi che si
prefigge, i suoi risultati finiranno per poter essere usati anche in modo
politico e strumentale nella sfera pubblica della vita quotidiana. Per finire,
quindi, un libro di non facile lettura (ho impiegato un mese a digerirlo), ma
che ho letto con gusto per le scoperte che facevo e per la gentilezza di chi me
ne ha fatto omaggio.
“Il controllo … della Repubblica era in mano
agli uomini del centro camuffati da estrema sinistra … gente proverbiale per
essere come il ravanello, rossi di fuori e bianchi di dentro, e sempre rivolti
dalla parte dove soffia il vento.” (260) [lo storico non sta parlando
dell’Italia attuale ma della Francia intorno al 1875… ma non mi sembra cambi
molto!]
Non lasciatevi sfuggire questa
ultima perla di Hosbwbawm. Per oggi, un segno di pace a tutti in questa
domenica che prelude una Pasqua ancora di riposo e di preparazioni. Niente
viaggi immediati per me, spero qualcosa per tutti i miei amici. Ad ognuno un
segno di pace (che se ne ha bisogno).
Nessun commento:
Posta un commento