domenica 15 marzo 2015

Marco vs. Carmine - 15 marzo 2015

Oggi mettiamo a confronto due autori italiani, di cui ho letto molto, e che, di conseguenza, potete capire che mi sono a cuore. Per diversi e variegati motivi. Carmine Abate è un calabrese (primo motivo) di cultura arbëreshë, cioè immigrati da secoli dall’Albania (secondo motivo) che mi prende spesso per i suoi lunghi excursus lungo il filo del tempo. Marco Malvaldi è della piana del Magra (primo motivo) ed ha inventato il BarLume e Massimo il finto detective, matematico mancato e vero “barrista” (secondo motivo). Qui si mantengono entrambi sopra la media, tuttavia Malvaldi fa un piccolo scatto in avanti, vincendo di un’incollatura con il suo telefono.
Carmine Abate “La collina del vento” Mondadori euro 13 (in realtà scontato a 9,75 euro)
[A: 03/08/2013– I: 06/08/2014 – T: 09/08/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 260; anno 2012]
Torno sempre con piacere alla lettura del vate di Carfizzi. Peccato non siamo nelle saghe degli arbëreshë, ma la penna di Abate vola per i monti ed i mari calabri. Qui siamo in un libro che ha anche avuto un successo editoriale notevole (Premio Campiello 2012), anche se, personalmente non lo trovo al top della produzione di Abate. È una storia di persone che lottano per la loro dignità, per mantenere l’equilibrio della natura che gli uomini cercano di stravolgere. Una storia contadina lunga molti anni, cui si intrecciano le Storie di un’Italia che si allungano per molti decenni. Ed anche se trattate come “note ai margini” (ma d’altra parte, per molta gente questo sono state), si attraversano le guerre mondiali ed il fascismo un po’ in sordina, mentre seguiamo la saga della famiglia Arcuri. Ma anche della collina del Rossarco, quella del titolo, di proprietà della famiglia e che cercherà di mantenerla nel corso degli anni, nonostante i molti tentativi di toglierla loro. La narrazione, che viene affidata a Rino, ultimo rappresentante degli Arcuri, procede su due piani temporali: uno passato, fatto di oscuri segreti, ed uno presente, in cui, al temine del romanzo, affiorerà ogni verità. E sebbene cominci come un “giallo” (l’uccisione di due giovani sotto gli occhi di Sofia, moglie di Alberto, il capostipite degli Arcuri), questo non è che un accidente che serve per dare qualche tocco di peperoncino (calabrese) alla narrazione. La visione dei due giovani ammazzati resterà impressa nella memoria di Arturo, uno dei figli di Sofia, che, temendo per la propria vita e per quella dei suoi piccoli, non racconterà a nessuno i fatti di cui è stata testimone, anzi, porterà per sempre nel suo cuore quel terribile segreto. Intanto, alla vigilia della prima guerra mondiale, Paolo Orsi, il celebre archeologo triestino, si reca sul Rossarco alla ricerca della mitica città greca di Krimisa. Inizia la campagna degli scavi che porta alla luce tesori di inestimabile valore, ma presto Paolo Orsi sarà costretto a sospendere gli scavi a causa della riesumazione dei corpi dei due giovani sconosciuti. Nel frattempo, nel corso della prima guerra mondiale, Alberto perde due dei suoi tre figli, gli rimane solo Arturo. Segue il periodo del fascismo, durante il quale aumentano la prepotenza e l’arroganza dei latifondisti locali, specie di don Lico, ricco proprietario terriero che, interessato alle ricchezze sepolte nel Rossarco, intende appropriarsi della collina degli Arcuri. Arturo si oppone a don Lico ed alle sue minacce, allora il regime lo punisce mandandolo al confino a Ventotene. In questa occasione, sia Arturo, al confino, sia Michelangelo, il figlio rimasto a casa con la mamma Lina, maturano una propria coscienza politica, decisiva negli anni della seconda guerra mondiale e della lotta contro il nazifascismo. Nello stesso tempo Michelangelo stringerà buoni rapporti con l’archeologo e da questi, per emulazione, sarà spinto a proseguire gli studi. Cosa che farà, e che costringerà a fare anche al figlio Rino. Ed insieme si opporranno anche all’ultimo scempio, quella di trasformare la collina in parco eolico, ma solo per fare in modo che qualche politico locale abbia il suo tornaconto. Ribadito quindi che Abate e la Calabria hanno un loro ben preciso posto nel mio cuore, non sono convinto che questo sia la migliore prova di Abate. Intanto, quell’andare su e giù per il tempo, forse funzionale alla storia, riesce difficile per la memoria. Lo sapete, io sono per i tempi dritti, e per le storie ordinate. Comunque rimangono due belle cose, alla fine del libro. L’amore per la terra e per la famiglia che sono il filo conduttore di tutto il libro (e di molto altro in Abate). E la potente figura storica dell’archeologo Paolo Orsi. Uno dei tanti, umili ma infaticabili uomini che hanno fatto grande il nome della nostra cultura e della nostra capacità di vivere con rispetto verso il proprio passato. Così si può guardare con fiducia al proprio futuro. Purtroppo, da molto tempo non se ne sente più parlare. Peccato!
Marco Malvaldi “Argento vivo” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)
[A: 08/10/2013– I: 20/09/2014 – T: 22/09/2014] - &&& e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272; anno 2013]
Torniamo a leggere dopo molto tempo uno scritto del nostro simpatico amico pisano. Purtroppo non ancora una nuova avventura del BarLume e dei suoi vecchietti. Una storia normalmente altra, che scorre con la consueta verve che Malvaldi mette in tutti i suoi scritti (anche in quella guida turistica di Pisa da me recensita tempo fa). Anche se qui c’è qualche ambizione in più (il messaggio, amici, c’è il messaggio) e qualche risultato in meno. La storia è la solita giravolta di caso e necessità di cui in genere sono piene le scritture di Malvaldi. Ci sono avvenimenti che si concatenano e casualità che si inseriscono apoditticamente. Il filo conduttore è quello dello scrittore Giacomo e del suo ultimo libro. Giacomo ormai da anni continua a scrivere la stessa storia di una persona con un chiodo fisso e la sua sconfitta, storia ormai bollita, ma si sa che gli editor non rischiano e quindi… ma questa è un’altra storia. Su questo filone si inserisce la vicenda di una banda di ladri eterogenea, composta da ladri veri e da Costantino, sbandato specialista in debellare sistemi di sicurezza (gustose le divagazioni su come rubare le automobili moderne dotate di telecomandi a distanza). Ladri che rubano una macchina e svaligiano la casa di Giacomo, trafugando il computer con l’unica copia dell’ultimo romanzo. L’automobile (color argento vivo, da cui il titolo) è di proprietà di Leonardo, lettore bulimico (che io comprendo a meraviglia) e sbadato dipendente di una piccola industria informatica. Dopo qualche peripezia, che vi tralascio, Leonardo viene in possesso del MAC di Giacomo e ne legge il libro. I ladri veri, intanto, tartassano Cosentino che ha perso il PC. C’è anche una simpatica agente di polizia, Corinna, di origine rumena che cerca i bandoli delle matasse. C’è il di cui sopra Leonardo che riesce a mettersi in contatto con lo scrittore, gli dice senza fronzoli tutto il male del libro ancora inedito. Così che Giacomo è costretto ad interrogarsi sulla scrittura e sul suo editor. Costantino, tentando di recuperare il PC per calmare i ladri, riesce invece a rubare il PC di Leonardo, facendolo licenziare. I ladri pensano che i due siano in combutta, per cui minacciano Leonardo. Costantino tenta un ricatto alla ditta di sicurezza del PC, ma viene sbeffeggiato e per vendetta, trafuga 20 computer e li regala ai ladri. Leonardo denuncia i ladri che Corinna bellamente arresta. Costantino si defila e non verrà coinvolto nella bagarre. Leonardo, senza lavoro, viene alla fine convinto da Giacomo ad accettare un nuovo lavoro: diventare il suo editor. Tutta questa è, più o meno, la storia, che detta così (ed arricchita dal sarcasmo toscano) potrebbe essere un romanzo in minore degno di poca nota. Quel che ne alza un po’ il mio personale gradimento sono gli intermezzi del libro di Giacomo. Di cui sentiamo parlare (per capirne gli errori) e poi ne vediamo dei frammenti. E comprendiamo altro. Perché il libro nel libro è la storia di un matematico (un punto a favore) che narra la sua vita (non vi dirò come e perché). Matematico ossessionato dalla musica e dalla ricerca, nel tempo libero dal lavoro di studioso, di un algoritmo per comprendere di chi sia una determinata musica. Qui esce fuori la natura scientifica di Malvaldi con una piccola trattazione (sopportabile) sui frattali. Con l’idea che si possa classificare uno spartito con un numero che ne denoti la dimensione frattale (mezzo punto in meno per la difficoltà). L’idea illuminante che Leonardo riesce ad introdurre nella testa di Giacomo è che questa ossessione debba essere completata da qualcosa d’altro. Si inserisce così una simpatica digressione trasversale sulla necessità del silenzio. E sull’importanza (nella musica come nella vita) di considerare non solo quanto si emette (il rumore, la musica, la parola) ma anche quanto si tace (il silenzio tra un punto e l’altro). Silenzio che riuscirà a completare la descrizione di un qualcosa. Come tutti penso possano capire, io sono me stesso, io mi rappresento, per quanto dico, ma anche per quanto e per come taccio. Ecco il messaggio, e l’altro punticino in più per il nostro simpatico scrittore. Infine l’ultimo quarto di libro in più è solo un vezzo personale, dovuto al fatto che c’è un avvenimento a pagina 264 che accade il 7 di maggio dell’anno 2013, giorno di un compleanno indimenticabile. Il mio, ovviamente. Spero comunque che Malvaldi possa tornare, e presto, a farci rivivere le sue avventure nella pineta versiliana insieme ai suoi personaggi da me più amati.
“[Leonardo tiene un blog di recensione e] con tutta evidenza, sapeva il fatto suo. A parte il fatto che compariva una nuova recensione ogni tre - quattro giorni, spia del fatto che evidentemente il tipo si asciugava un paio di libri alla settimana, gli articoli rivelavano una cultura da uomo rinascimentale, con una evidente passione per la matematica e l’informatica.” (195)
Marco Malvaldi “Il telefono senza fili” Sellerio euro 13 (in realtà, scontato a 7,80 euro)
[A: 07/10/2014– I: 08/10/2014 – T: 10/10/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 192; anno 2014]
Questa, visto che ogni regola ha la sua eccezione, è l’eccezione al quadrato (e non potrebbe essere di meno, se il protagonista oltre ad essere un barrista, è soprattutto un matematico). Perché una volta visto in libreria un nuovo Malvaldi con al centro il BarLume (e chi mi legge sa quanto sia legato a questa serie) è stato subito acquistato. E nel tragitto in autobus verso casa si è iniziato a leggere, per passare il tempo. Beh, non l’ho praticamente lasciato sino alla fine. Non è che sia un capolavoro nascosto che bisogna svelare. No, è che a me diverte, mi piace l’umorismo che Malvaldi mette in queste pagine (meglio delle opere senza Massimo il barrista), ed anche se la trama non è travolgente, non ho potuto fare a meno di “divorarlo”. Come detto, nei libri della compagnia dei vecchietti del BarLume la trama è un di cui, a volte neanche tanto importante. Serve soltanto a far muovere i personaggi. E siccome in genere si parla di morti e di indagini, serve anche a tenere un po’ sveglio il lettore (se ce ne fosse bisogno….). Qui, gli strali del nostro amico pisano si scagliano contro uno dei vezzi più diffusi nella nostra maldestra Italia. Il pettegolezzo, la notizia che vola di bocca in bocca, gonfiandosi ad ogni passaggio e riuscendo a provocare cataclismi orrendi. Appunto come il telefono senza fili della nostra gioventù (ora, il telefono senza fili è diventato un cellulare, e non entro nel merito) dove si cominciava bisbigliando una parola, per arrivare ad un finale scoppiettante, in genere per mettere alla berlina qualcuno di noi che, in quel momento, aveva qualche “cotta”. Nella nostra Pineta, “o boatos”, come dicono in portoghese, sono generati dalla vicenda della coppia Vanessa e Gianfranco. Finti divorziati, gestori di un agriturismo con problemi mica male. Vanessa compra una quantità improbabile di carne, poi scompare dopo una lite con il marito. Ovviamente i nostri ottuagenari gridano subito all’assassinio. Unendosi al coro, anche un altrettanto improbabile mago televisivo dice e non dice di sapere qualcosa della vicenda. Gianfranco lo affronta ed il mago inopinatamente muore. Non c’è modo di fermare la valanga, ed il sanguigno finto divorziato finisce in cella. Intanto, la moglie del mago lo denuncia come impostare (lo stesso giorno della morte). Praticamente, il mago, dal nome fantasioso di Atlante il Luccicante, con un po’ di parlantina, riusciva a mettere una app dentro i cellulari delle sue clienti, per poi effettuare i suoi trucchi di magia (e magari qualche ricatto di contorno). Nella fattispecie, aveva captato che Vanessa e Gianfranco stavano facendo qualcosa di losco. Peccato che il motore di tutta la vicenda fosse la moglie del mago, che, scoperto il fatto che Atlante era anche fedifrago, escogita un modo (e non ve lo spiego se no che gusto c’è) per poterlo eliminare senza destare i sospetti su di lei. Ricompare quindi Vanessa, per tirar fuori il suo Gianfranco di galera, e per far ciò deve confessare il tentativo di frode che stavano cercando di fare, sfruttando delle leggi italiane che io manco sospettavo, ma che il nostro Malvaldi ci sciorina con la sua solita grande classe. Tutta questa è trama, il resto è … goduria. Il BarLume con l’astio per i cappuccini pomeridiani, ma dove Massimo sta cedendo alle richieste del nuovo commissario, la bella e simpatica Alice. Lo stesso Bar, con le tresche tra Tiziana ed il suo ex-marito. Il nome locale di aperitivi e ristorante, messo su da Aldo e Massimo, il Bocacito. I nostri quattro impegnati in una carambola a biliardo, o in una briscola. E soprattutto, impegnati ad aiutare il commissario Alice sia a risolvere il caso, sia, e molto importante per loro, a metterla sulle piste di Massimo, che magari si accorge che esistono anche donne intelligenti e frequentabili. Il tutto condito da interventi e digressioni, che non entrano nulla nella trama, ma che, come detto, fanno il sugo della storia. Come la storia dei ciclisti dilettanti e dei loro doping. Come le storie delle etichette sbagliate dei quadri. Come la possibile storia tra Massimo e Alice, ma come sicuramente la storia della vicina di casa di Massimo. Ed altre amenità, che vi lascio scoprire. Prima di finire un appunto “matematico” o a Malvaldi o alla Sellerio o a tutti e due. I capitoli sono numerati progressivamente (tipo due, tre, eccetera). Se il capitolo 6 è chiaramente riconducibile al suo titolo “trentasei diviso sei”, il capitolo 9 è indicato con l’equazione “X2-19+90=0” (pag. 141). La cui soluzione tuttavia non è 9, ma un improbabile 711/2. Forse la corretta equazione doveva essere probabilmente X2-9+90=0. Comunque, viva i vecchietti, via il BarLume, e viva Malvaldi quando ne scrive.
“Ogni cosa ti può far ridere o piangere, dipende se ti riguarda o meno.” (106)
Carmine Abate “Il ballo tondo” Mondadori euro 9,50 (in realtà scontato a 8,08 euro)
[A: 08/10/2013– I: 14/10/2014 – T: 16/19/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 218; anno 1991-2005]
Chiarisco subito il mistero della doppia data di pubblicazione. Questo è stato il primo romanzo scritto da Abate, che più di dieci anni dopo la prima scrittura, in vista dell’uscita presso Mondadori, lo riprende, sfoltendo qualche parte, andando verso una narrazione più veloce, ed anche più convincente. L’impianto però è quello originale, e giustamente. Che qui si parla per la prima volta della saga degli arbëreshë, gli albanesi d’Italia, fuggiti dalla terra natia nel xv secolo, dopo la morte di Giorgio Castriota Skanderbeg, l’eroe nazionale della difesa contro i turchi. Essendo lo stesso Abate nato nell’enclave calabra, ed in particolare a Carfizzi (Karfici in arbëreshë), ed usando questo ed altri scritti, di cui ho già parlato, per parlare della vita e delle gesta di questo popolo che vive chiuso all’interno di un mondo altrettanto serrato. Il motivo conduttore che parte da qui è la tradizione locale, come il ballo del titolo, quello che si balla nelle occasioni ufficiali, ed in particolare per fidanzamenti e matrimoni. La narrazione segue poi le gesta, da adolescente a giovinetto, di Costantino e della sua famiglia. Illustrandone, al meglio, i “topoi” caratterizzanti della vita locale durante direi gli anni ’60 (anche se non viene detto esplicitamente, ma trasversalmente si ricostruisce con l’unico accenno fuori contesto, con le canzoni dei Ricchi e Poveri). C’è il nonno paterno, emigrato in America, e mai più tornato. C’è il nonno materno, nani Lissandro, custode di alcune tradizioni, intagliatore di legno e unico rifugio delle turbe di Costantino. C’è il padre, che andò a cercare suo padre in America, senza trovarlo, per poi emigrare in Germania come molti all’epoca. La prima vicenda lo farà chiamare sempre “Mericano”, la seconda gli porterà dei frutti: un marito trentino, seppur attempato, per la figlia maggiore, e i soldi per comprare fondi da ristrutturare per quando, finiti i lavori oltre cortina, si ritirerà in paese per la vecchiaia. C’è la madre, angelo del focolare, sempre presente, ma anche con tutta la discrezione della sua generazione. Dolce, cuciniera, ma, quando serve, dura e sostegno ai problemi familiari. Oltre la sorella sposa in trentino, c’è la seconda che ha un lungo e tormentato fidanzamento con Carmelo, il maestro del paese. Maestro che però non è autoctono, e proprio come tutti gli immigrati, l’unico che si infervora delle tradizioni, dei canti, dei balli. Tormentato che quando sembra volino verso le nozze, Carmelo decide di andare ad insegnare in Somalia. Dove farà i soldi, come si dice al paese, e svilupperà la sua voglia di aiutare i meno fortunati. E nella scena finale, finalmente, avrà modo di far ballare il ballo tondo a tutto il paese, sposare Lucrezia e portarla in Africa. E ad attraversare tutto il decennio c’è Costantino. Bambino decenne che scopre il mare con il nani. Che scopre il cantore Luca ed il suo strumento albanese, la “lahuta” (in italiano “gusla”, con un’unica corda, una cassa di risonanza, ed un archetto per suonarla, strumento tipico dei Balcani). Che, in giro per i monti col nani, sostiene di aver visto un’aquila a due teste. L’aquila bicipite, presente nello stemma albanese, e che la leggenda vuole aver indicato la strada ai profughi fuggiti dall’Albania invasa dai turchi e rifugiatisi in Calabria. E che nella seconda parte del romanzo ha una bella storia di innamoramento con Isabella la Romana. Così chiamata che, benché calabrese, vive a Roma e torna a paese solo per l’estate. Delicata storiella di avvicinamenti e litigi, di prendere e lasciare. Storia nella storia, che questa di Costantino ripercorre poi una storia tradizionale albanese, quella, guarda caso, di Costantino il piccolo che s’innamora di una ragazza “bianca come la ricotta”. Tuttavia la bellezza e la sostenibilità del romanzo sta nella riproposizione delle atmosfere locali, nel confronto tra lingua e dialetto, nelle mentalità di chi usa l’uno o l’altro, nella descrizione degli emigrati, nelle tradizioni più forti della ragione, nel rimpianto dei costumi che si perdono, e nella volontà opposta di superarli e di “integrarsi”. Con le scene campestri che però non cadono mai nel rimpianto bucolico. C’è sempre un sottofondo di “basso dolente”, come una musica non allegra che accompagna tutta la storia. Ma sempre musica, che anche quando non è allegra, da forza. Quando muore il rapsodo. Quando morirà (ne siamo sicuri) anche il nani. Quando nella fiera si sente il richiamo del “Mago di Rossano che legge il destino nella mano” (vero Rosa?). Anche quando (spero) Costantino raggiungerà Isabella a Roma per andare all’Università. Al solito, nella narrazione di Abate, alti e bassi, con un piacere fino di lettura che mi spinge a tenerlo fra i buoni esempi d letteratura italiana moderna. E con la spinta poi ad approfondire i miti di cui tratta.
“Perché questo è il destino dei figli … capire i padri, che non riescono mai a ricambiare, o non ne hanno il tempo, la voglia.” (132)
Notizie al contorno: se avete voglia, passate in via della Vite 100 a Roma dove c’è una nuova buona gelateria. Noi intanto si aspetta passi il freddo e si guarda se nasce qualche nuovo viaggio.

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