giovedì 1 ottobre 2015

Tante belle donne - 27 settembre 2015

Non so dal punto di vista estetico, ma di certo dal punto di vista narrativo. Con due assoluti capolavori: Alice Munro, che sempre più mi sta cara pur nella sua mania pro-racconti, e Siri Hustvedt, che sto imparando a conoscere ed amare. E con due prove interessanti per tutta una serie di motivi che andrò spiegando, anche se non raggiungono la pienezza delle mie corde: il romanzo pseudo-storico di Tracy Chevalier ed il romanzo pseudo-erotico di laura Esquivel. Comunque, ritengo una bella settimana al femminile.
Tracy Chevalier “La ragazza con l’orecchino di perla” Neri Pozza euro 9,90
[A: 16/02/2014– I: 27/03/2015 – T: 29/03/2015] - && e ¾  
[tit. or.: Girl with a Pearl Earring; ling. or.: inglese; pagine: 236; anno 1999]
Ho un rapporto ambivalente con il romanzo storico. Da un lato mi intriga la costruzione di un intreccio a partire da elementi storici veritieri (cosa che spesso poi mi porta ad approfondire gli elementi stessi con lunghe ricerche wikipediche). Dall’altro mi deprime se l’aspetto romanzesco prende il sopravvento intrecciando storie poco verosimili. La signora Tracy Chevalier mantiene un corretto equilibrio da questi due poli, con una prosa scorrevole (non a caso è anche Master in Scrittura Creativa), lasciando solo un po’ a desiderare sul fronte pittorico in senso stretto. Che qui, come penso si sappia, si parla di pittura olandese del 1600, e di uno dei maestri del colore, Johannes van der Meer, noto a noi con la sua firma Jan Vermeer. Intrecciando una trama diagonale, incentrata sulla figura della giovane Griet, forse presa a modella dal pittore per uno dei suoi quadri più noti (“La ragazza col turbante” nota anche, appunto, come “La ragazza con l’orecchino di perla”), con l’intento di portarci nella cittadina olandese di Delft nel 1664, e con l’atelier e la pittura del maestro olandese. L’autrice ha buon gioco nel parlare del pittore, che poco di lui si sa storicamente. Si lascia però irretire da alcune teorie (verosimili ma non provate) sulle modalità della sua pittura minuziosa, aderendo a quella che è nota come "tesi Hockney-Falco", dal nome dei due pittori che l’hanno elaborato, sull’utilizzo di strumenti para-fotografici per entrare nel dettaglio dei propri modelli (come l’utilizzo della camera oscura). Lo fa con troppa incuranza della delicatezza del dettaglio. E questo mi ha lasciato un po’ perplesso. Di certo gli effetti di luce di Vermeer sono sorprendenti, come anche l’effetto di “fuori fuoco” presenti in alcuni suoi quadri. A parte questa tiratina d’orecchi, lo scritto scorre in maniera piacevole, facendoci realmente calare, a parte forse con qualche mancanza nel finale, dentro le atmosfere complesse dell’Olanda dell’epoca. Ma torniamo alla storia narrata dalla sedicenne Griet, giovane dalle grandi capacità percettive dei colori (ereditate dal padre esimio piastrellista) che, essendo la famiglia in ristrettezze economiche, viene inviata, controvoglia, a fare da cameriera presso la potente famiglia Vermeer. Che si sa le cameriere hanno la dubbia reputazione di rubare e soprattutto di dormire con i loro padroni. In casa Vermeer, la nostra fa amicizia con l’altra servetta, Tanneke, ma entra presto in contrasto con Cornelia, la più piccola di casa. Mentre il giovane macellaio locale, Pieter, comincia a farle una corte discreta, il freddo pittore scopre l’occhio artistico di Griet e comincia a chiederle aiuto nel mescolare i colori e, a volte, da fare da modella sostituta in alcuni quadri. Suscitando un po’ di gelosia in Catharina, la moglie del pittore, ma essendo protetta sia da nonna Maria, che da alcuni amici del pittore stesso. Ma la ruvida bellezza di Griet non sfugge invece a Van Ruijven, il magnate di Vermeer, che vorrebbe un dipinto insieme alla ragazza. Sapendo che in altre occasioni ciò ha portato scandalo, Vermeer arriva ad un compromesso: dipingerà Griet regalando il quadro a Van Ruijven. Nasce così il quadro che da il titolo al romanzo. Ma gli orecchini sono di Catharina, che, sobillata dalla perfida Cornelia, decide di cacciare Griet. Qui la narrazione fa un salto di dieci anni, arrivando alla morte di Vermeer (morto appunto nel 1675 a 43 anni). Griet è sposata con Pieter, hanno due bambini (uno dei quali somiglia stranamente al pittore, anche se non sappiamo cosa Griet e Jan abbiano combinato). Alla morte di Vermeer, comunque, Griet è convocata a casa dell’artista, e la moglie le consegna i famosi orecchini. Vermeer era rimasto affezionato, così ci fa credere l’autrice, alla modella dall’occhio artistico, anche se non l’aveva mai più avvicinata. La parte migliore ritengo sia il nucleo centrale, con le descrizioni di alcuni quadri dell’artista (Tanneke che posa per “La lattaia” o Van Ruijven e la serva sedotta in “Il bicchiere di vino”) e le possibili tecniche da lui utilizzate per rendere vivaci i colori, e ben rappresentare le figure umane (che in genere sono donne). Un po’ tirata per i capelli la parte finale con l’eredità degli orecchini, quasi a voler saldare un debito d’onore di cui si può intuire ma non si sa. Una scrittura ed una lettura discrete, solo poco al di sotto di un gradimento pieno. comunque al fine ringrazio le mie libropeute (che spero non mi facciate ogni volta ripetere chi siano), per avermi suggerito questo libro. E se ne riparlerà ancora nel momento della cura… 
Alice Munro “In fuga” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 16/02/2014– I: 01/04/2015 – T: 03/04/2015] - &&&&& 
[tit. or.: Runaway; ling. or.: inglese; pagine: 312; anno 2004]
Sapete, l’ho sempre detto, che i racconti non sono il mio forte, che mi accosto ad essi spesso con timore, e spesso ne esco con delusione. Eccezione, che ribadisco e sostengo, sono i frammenti di vita di Alice Munro. Che ho sempre sostenuto, ben prima che lo ottenesse, avesse una scrittura da Premio Nobel (come continuo a sostenere l’abbia un'altra mia grande passione, l’israeliano Amos Oz). Perché, in un certo senso, tutti i racconti della scrittrice canadese, l’insieme di tutte le sue raccolte, sembra andare a comporre un unico grande romanzo, fatto di frammenti che non sono altro che tutti i piccoli e grandi avvenimenti che costituiscono la nostra vita. Pieni di parole, è vero, ma non saturi. Perché sature sono le impressioni che quelle parole ci inviano. Ed anche perché, nei suoi racconti, spesso non c’è un finale, che ci può soddisfare, che ci lascia contenti od arrabbiati. Così come non esistono finali nella nostra vita soggettiva (saranno gli altri, forse, a darcelo quel finale). Ma la bellezza delle sue parole, sono nella capacità di descrivere il lasciarsi vivere dei suoi personaggi, quasi inconsapevoli del proprio essere, quasi inconsapevoli delle conseguenze delle azioni che compiono. Qui, come in tutti gli altri elementi di questa grande biblioteca che è la sua narrazione, risaltano poi, forse meglio che in altri punti, i motivi fondanti dei suoi scritti: il ruolo della donna nella società, i legami famigliari, il passaggio del testimone da madre in figlia, l’emancipazione dalle figure genitoriali, il modo di evolversi (e di esaurirsi) dei rapporti di coppia. Qui abbiamo otto racconti, con due particolarità uniche nei suoi scritti: tre racconti hanno la stessa protagonista, quasi a coglierne momenti diversi di una vita particolare, ed uno è diviso in cinque parti, quasi fossero racconti anche loro a sé stanti, ma legati, unificati dagli attori della narrazione. Non che gli altri non siano interessanti. Come quello del titolo “In fuga” (Runaway) descrizione di una donna intrappolata in un matrimonio poco felice. O “Passione” (Passion) dove una ragazza solitaria in una piccola città si fidanza con un ragazzo, per poi scappare nella notte con il di lui fratellastro (ci sono altri elementi in questa piccola gemma ma ve li lascio scoprire da soli, basta che non diventate troppo tristi). Complicata la situazione di “Rimetti a noi i nostri debiti” (Trespasses) con al centro una bimba che ha troppi genitori (veri o falsi) intorno a lei. Di una tristezza infinita trovo poi “Scherzi del destino” (Tricks) dove fraintendimenti e ritrosie fanno in modo che la solitaria Robin non riesca ad esternare il suo amore verso una persona per lei interessante. L’ultimo racconto “Poteri” (Power) è in qualche modo il più complesso, come detto diviso in cinque parti, che tracciano la parabola di vita di Nancy. Si inizia dai diari giovanili, dove Nancy descrive lo strano modo con cui si innamora di Wilf. Poi, si passa in terza persona, al matrimonio di Nancy, dove lei fa conoscere la sua amica Tessa ad Ollie il cugino di Wilf. Nella terza parte, molti anni dopo, Nancy visita un manicomio in America dove è ricoverata Tessa, ormai fuori di testa. Pochi anni dopo, dopo che Wilf muore per un ictus, Nancy incontra Ollie, che credeva morto e che gli narra la storia con Tessa dal suo punto di vista. Nella quinta, Nancy, attorniata dai figli anch’essi anziani, vive ormai in un suo mondo, in cui ritorna sempre alle storie di Tessa ed Ollie, sentendo che la vita sta lentamente scivolando via. E poi quello che mi ha maggiormente colpito, la trilogia di Juliet attraverso “Fatalità” (Chance), “Fra poco” (Soon) e “Silenzio” (Silence). Juliet, studentessa di lingue classiche, vive in una piccola città, con padre insegnante e madre bella e svagata, mentre sta decidendo come proseguire i suoi studi si innamora di Eric, un uomo sposato, che cambierà radicalmente la sua vita. Nel secondo brano è nata Penelope, figlia sua e di Eric. Anche qui c’è un viaggio in treno dove Juliet rivede tutti i suoi parametri. Che la madre non è svagata, ma malata ed accudita e protetta dal padre, che però si vergogna della nipote nata fuori dal matrimonio. Nell’ultimo, Juliet cambia di nuovo prospettiva. Si accorge che in fondo non ama veramente Eric. Che può e fa una bella carriera in televisione. E che da lei si allontanerà, senza motivi apparenti, la figlia Penelope. Con una chiusura memorabile: ”Continua a sperare di ricevere una parola da Penelope, ma senza perderci il sonno. Spera, come la gente di buon senso può sperare, in una felicità immeritata, un perdono spontaneo, roba così.” Certo, bisogna leggerla una roba così. Leggerla e rileggerla, ogni volta con occhi nuovi. Ogni volta con nuovi particolarità che saltano agli occhi. Sempre con quella sensazione che stiamo leggendo qualcosa che comunque ci riguarda. Imperdibile.
Laura Esquivel “Dolce come il cioccolato” Garzanti euro 9,90
[A: 05/08/2014 – I: 12/04/2015 – T: 20/04/2015] - && e ½   
[tit. or.: Como agua para chocolate; ling. or.: spagnolo; pagine: 179; anno 1989]
Finalmente leggo questo antico (nel senso di trentennale, ma che sono molti per una simile scrittura) libro, presente da anni nelle mie famose liste, sollecitatomi dalle mie amate-odiate libropatiche non che spinto sulla cresta dell’onda anche dalla collezione di libri legati alla cucina in uscita con il “Corriere della Sera”. Intanto, una bella tirata d’orecchi agli editor della Garzanti che stravolgono in “Dolce” uno sfogo della protagonista che ad un certo punto si sente ribollire “come l’acqua per il cioccolato”, che si dice essere di poco sapore, ma che, come Dario Bressanini insegna ed io riporto in calce, è l’occasione per una gustosissima mousse. Inoltre, non ho neanche visto il film che nel ’92 ne fece il messicano Arau, anch’esso di buon successo come il libro. Che uscì in Messico a puntate, ognuna delle quali con una ricetta, e solo così se ne può gustare il filo conduttore, che nel libro sembra perdersi. La storia è semplice e molto messicana. Abbiamo la bella Tita de la Garza, la minore delle figlie di Donna Elena, acida vedova messicana. Che fin da piccola vive in cucina, e ne capisce e carpisce i segreti più intimi. Di lei si innamora il bel Pedro, amore ostacolato da Donna Elena, in quanto ancora non maritate le figlie maggiori, Rosaura e Gertrudis. Messo alle corde da Donna Elena, pur di rimanere vicino a Tita, Pedro decide di sposare Rosaura. Da quel momento, Tita riverserà il suo amore nella cucina, producendo manicaretti elaborati e con effetti sorprendenti. Tanto che in uno particolarmente pieno di affetto si trasfigura Gertrudis, che scappa nuda nella prateria insieme ad un rivoluzionario messicano. Noi però rimaniamo nel ménage familiare, con la madre tiranna, Pedro e Rosaura che fanno un figlio che però muore giovane. Pedro è sempre lì, tra l’essere vicino e fare il tontolone, che una qualsiasi donna normale (non Tita, purtroppo) l’avrebbe mandato a ramengo molto presto. Poi muore Donna Elvira, Tita esce allo scoperto e Rosaura si fa prendere da crisi di nervi ed altre strampalitudini. Ritorna anche Gertrudis alla testa di manipoli rivoluzionari (in fondo siamo nel Messico dell’epoca di Pancho Villa) che cerca di svegliare Tita. Che forse sembra avere un sussulto di indipendenza quando anche Rosaura ci lascia, insalutata salma. Ma l’ombra di Donna Elena aleggia sulla casa, e dopo un’unica notte d’amore (in fondo abbiamo aspettato quasi 150 pagine che succedesse “o’ miracolo”), ecco un’altra catastrofe. Senza nessun preavviso si accendono fuochi strani e Pedro e Tita bruciano insieme al loro amore. La storia è durata tanti anni, ci sono stati intermezzi, c’è stato l’amore di John per Tita, che molto le insegnò ma che non le tolse Pedro dal cuore, ci sono stati figli (che non sono morti), c’è la bella nipote Esperanza che sposerà Alex, il figlio di John. E c’è questa storia, narrata dalla figlia dei due. La storia di un grande amore, ma soprattutto di tanti belle. Dalle focaccine di Natale alla torta Chabla, dalle quaglie ai petali di rosa ai peperoni in salsa di noci. Ma seppur queste sono belle (e ne consiglio la lettura a chi sa di cucina), il resto del libro, con quel “realismo magico” latino-americano che mi lascia assai freddo, quelle situazioni inspiegabili, e soprattutto l’indecisione di tutti i protagonisti ad essere sul serio protagonisti e non vittime della vita che passa, non mi ha fatto amare in particolar modo questo libro. Con tutte le metafore che poi il libro porta con sé, sia a livello sentimenti che della rappresentazione della realtà messicana. Sui primi, c’è una correlazione quasi ingenua (le cipolle che sono cagione di lagrime, i petali di rosa che risvegliano passioni, ed altre similitudini di piccolo livello). Sull’altra, per rappresentare il grande affresco del Messico dei primi anni del XX secolo (pieno di oppressi, oppressori, rivoluzioni) si fa un semplice traslato con i personaggi: Tita e Pedro sono gli oppressi, Donna Elena e Rosaura gli oppressori, Gertrudis la rivoluzione). Ma è molto datato come scrittura e come descrizione delle atmosfere. Insomma, mi aspettavo di più da come se ne parlava negli anni del suo maggior successo.
“La verità vera è che la verità non esiste, dipende dal punto di vista di ognuno.” (141)
Ricetta del cioccolato con acqua presa dal blog di Dario Bressanini:
“Sono partito da 100 g di fondente 70%. Ho sciolto il cioccolato in un pentolino antiaderente di buon spessore su fuoco bassissimo. Mescolate il cioccolato con una spatola per facilitare la fusione. Fuso il cioccolato si deve aggiungere l'acqua. Ho versato nel pentolino i 115 grammi di acqua, tutta in una volta. Ora mescolate bene, a fuoco spento, sino a quando il cioccolato è completamente emulsionato. Quando il cioccolato è ben emulsionato versate la miscela in una bacinella raffreddata esternamente con del ghiaccio. Un paio di minuti di frusta elettrica (o a mano se preferite) e il risultato è cioccolato puro, ma con la consistenza di una mousse. Una vera delizia per chi ama il fondente.”
Siri Hustvedt “Quello che ho amato” Einaudi euro 12,50 (in realtà, scontato a 9,38 euro)
[A: 16/02/2014– I: 03/05/2015 – T: 05/05/2015] - &&&&& 
[tit. or.: What I Loved; ling. or.: inglese; pagine: 361; anno 2003]
È il secondo libro di questa mia scoperta tardiva della scrittrice Siri Hustvedt. Che mi fa ribadire quanto ne pensavo dopo il primo. Una bellissima scrittura, una trama che ha volte mi ha reso triste come triste può essere a volte la vita. Che a tratti quasi mi respinge, ma che non puoi fare a meno di portare avanti fino alla fine. Il libro racconta le vicende e le tragedie (e gli enigmi) che coinvolgono il narratore, il suo grande amico e le loro famiglie. L’azione comincia nel 1975 a New York, dove Leo Hertzberg, storico dell'arte e professore universitario, trova casualmente un ritratto di donna con addosso solo una maglietta e sul cui corpo nudo un artista ha dipinto un’ombra. Leo, affascinato dall'opera e attratto da quella figura femminile, compra la tela e decide di incontrare l'autore, Bill Wechsler, un giovane pittore emergente. Bill è sposata con Lucille, poetessa dalle opere ermetiche. Leo invece con Erica, una accademica in  lettere. Leo, con le sue recensioni, porta Bill alla ribalta. E procederemo per tutto il libro a vederne le evoluzioni artistiche. Sempre belle sono le descrizioni che Siri mette in bocca Leo per descrivere le diverse fasi delle opere di Bill. Le due coppie vanno a vivere nello stesso condominio, si frequentano ed hanno due figli nello stesso periodo, Matthew e Mark. Mentre esplora le vicende pubbliche e domestiche delle due coppie, la nostra autrice comincia a mettere delle “zeppe” nella loro vita. La prima è la modella del quadro, Violet, giovane, irruenta, che entra nella vita di Bill. E che porta alla sua separazione con Lucille. La seconda si apre con un pugno allo stomaco dal quale ho fatto fatica a riprendermi. Matthew, il figlio di Leo ed Erica, muore improvvisamente. E dalla perdita, Erica non si riprende, si allontana sempre più da Leo, immergendosi nella vita accademica. Non divorziano, ma diventano nel tempo quasi due estranei, passando dal ruolo di amanti a quello di amici che si vedono ogni tanto. Leo invece tenta di rimpiazzare il figlio morto con Mark, il figlio di Bill. Ma ben presto ci rendiamo conto (e Leo con noi) che Mark ha dei seri problemi. Mente, rubicchia, si droga. Lucille scompare dalla scena, e Violet non riesce ad essere una madre di riferimento per Mark. Il tutto non fa che aggravare le condizioni di salute di Bill, che muore per un infarto nello studio. Violet si dedica allora al culto del marito morto, in questo aiutata da Leo. Ed insieme cercano anche di tirar fuori dalle peste Mark, che si è infognato in un giro pseudo-artistico, di un autore stravagante ed un po’ folle. Che forse ha anche commesso un omicidio. Le tinte si fanno sempre più scure. Leo, ormai solo e senza Erica, comincia a pensare sempre di più a Violet, ed a quel primo quadro. Tanto che ad un certo punto confessa alla donna la sua passione. Violet gli dice che può averla per una notte, ma che poi lei se ne andrà. Leo allora rifiuta, e torna, solo, nel suo appartamento, e ripensa a tutta la sua vita (come direbbe Ornella Vanoni, “bilancio che non ho quadrato mai”). La capacità di Siti è quella di inserire tutto ciò nel progredire temporale della scena artistica newyorchese. In fondo, alla fine, siamo al 30 agosto 2000 quando il libro finisce, con Leo, vecchio e solitario, in attesa dell’amico Laszlo che viene per leggere qualcosa, visto che i suoi occhi sono ormai deboli. E belle sono le descrizioni dei vernissage, delle gelosie. Di tutte quelle piccole cose che fanno la vita di chi vive di arte, e che a noi, spesso, lasciano indifferenti per la loro esiguità. Ma sono presenti anche i professori universitari, i poeti ermetici, i performer. Insomma c’è molto al fuoco. Ed anche se non raggiunge le alte punte della mia prima lettura (vi ricordo “L’estate senza uomini”), è un libro che mi ha fatto riflettere, ed identificare con alcuni tratti di Leo. Belle pagine, cara scrittrice. Se ne leggerà ancora, spero.
“Per questo è difficile vedere le cose. Niente è come appare. Sono le sensazioni, le idee, a modellare ciò che abbiamo di fronte.” (11)
“Siamo il prodotto della gioia e della sofferenza dei nostri genitori.” (31)
“Io mi sento in colpa perché mi piaceva la sua pazzia. … Avevo vent'anni, ero un idiota. ‘Io ho cinquantacinque anni, pensai, e sono ancora un idiota.” (99)
“I ricordi di un uomo maturo sono diversi da quelli di un giovane. Ciò che sembra essenziale a quarant'anni può perdere significato a settanta.” (120)
“Il concetto di utilizzo non ha niente a che fare con l’arte. L’arte è per sua natura inutile.” (294)
Di ritorno da EXPO 2015, che mi ha lasciato molto freddo. Non è che non mi sia piaciuta in assoluto, ma mi aspettavo altro. Meglio Mantova, anche se il ginocchio matto di Alessandra ha costretto ad un week-end diverso dai programmi. Non mancheremo di rifarci, pensando sempre a questa bella Italia di provincia che andrebbe vista da molti, e che molti non hanno visto.

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