Nel senso del gradimento, che in
due tomi, Adelphi accumula 8 libricini, mentre Einaudi solo 4. Sarà un caso?
Certo, non mi sorprende il giapponese, che è una letteratura in cui ancora non
riesco (mai? ancora?) ad entrare. Ma pensavo meglio della scrittura di Paul
Auster. Una gradita sorpresa è il francese Jean Echenoz che non conoscevo. Una
solida certezza (anche se non è che mi piace sempre ed ovunque) è William
Faulkner.
Yasunari Kawabata “Il paese delle nevi” Einaudi euro 10 (in realtà,
scontato a 8,50 euro)
[A: 05/08/2014– I: 26/03/2015 – T: 28/03/2015] - & e ½
[tit. or.: Yukiguni雪国; ling. or.: giapponese; pagine: 145;
anno 1947]
Continuo
a leggere qualche autore “non occidentale”, che bisogna sempre avere più frecce
ai propri archi. Tuttavia, a parte Banana, continuo a non entrare nella
mentalità della scrittura giapponese. Faticai e lasciai più volte Osamu Dazai.
Lessi e trovai palloso Yukio Mishima (e
ne scrissi male). Ora provo anche Kawabata. Ed il risultato è sempre lo stesso.
Forse con qualcosa in più, è vero, che Yasunari ha una sua bellezza di
scrittura formale, che prende nelle descrizioni, nell'ambientazione, nello
scorrere della storia. Ma tutto il resto mi rimane freddo, come questo paese
innevato, sperduto nel Nord del Giappone, dove si svolge questa labile storia.
E mi domando se non ci sia anche qualche elemento derivante dalla traduzione,
che inopinatamente l’editore confessa aver preso dalla traduzione inglese.
Mentre più tardi, nei Meridiani Mondadori, il traduttore della Yoshimoto ne fa
una nuova traduzione dall'originale, che forse potrebbe essere migliore. E che
sicuramente avrebbe evitato quella catastrofica nota in cui ci spiega come un
personaggio avrebbe voluto fare l’infermiera o l’assistente ai nidi infantili,
in quanto viene utilizzato il termine inglese equivalente “nurse”. Chissà il
termine originale qual era. Come nella migliore tradizione della scrittura
giapponese, il racconto è fatto di pochi elementi, e di molte sensazioni
(paesaggi e stati d’animo, in primo luogo). Il nucleo centrale è la passione
(amore?) tra un signore di Tokyo ed una geisha di provincia, che si dipana
nella cittadina termale di Yuzawa (sebbene il nome non compaia nel testo, ma
viene desunto dalle descrizioni). Le
sorgenti di Yuzawa sono frequentati da uomini che viaggiano soli ed hanno bisogno
di relax. Le geishe di Yuzawa non hanno l’esperienza e la preparazione di
quelle di Kyoto o di Tokyo, sono un gradino al di sotto, al limite tra lo
status di geisha e quello meno onorevole di donne a pagamento. È quindi
scontato che il legame fra il ricco cittadino, esperto di balletti occidentali
(su carta, non avendone mai visto uno) e la geisha Komako sia destinato al fallimento.
Il tentativo di Kawabata è proprio la contrapposizione tra Shimamura, attratto
dall'occidente, e la concezione tradizionale di bellezza, che incarna Komako.
Sul treno che lo riporta a Yuzawa, al nuovo appuntamento con Komako, il nostro
amante è anche attirato da una ragazza che si occupa di un malato, Yoko. Poco
succede, in fondo. Komako suona, Shimamura ascolta e pensa. Alla fine, ci sarà
una catastrofe, forse morirà Yoko. Di sicuro, Shimamura non tornerà più nel
paese delle nevi. Anche nella scrittura si nota la nipponicità della
confezione. Kawabata scrive il primo nucleo del romanzo come un breve racconto
nel 1935. Per poi ampliarlo, integrarlo, e riscriverlo come se fosse nuovo, per
farlo uscire come testo unico solo dodici anni più tardi. Questo per limare
ogni frase, ogni parola, ogni descrizione. Per arrivare a dare quello che lo
scrittore aveva in mente di rappresentare: uno scontro, lieve eppur profondo,
tra due concezioni del mondo, tra una visione modernista ed una tradizionale.
Non ci scordiamo poi che in questi 12 anni, poi, il Giappone stesso muta
profondamente la sua pelle, attraversando la pesante sconfitta della guerra, e
tutti i cambiamenti conseguenti. I sostenitori di questo tipo di scrittura
accusano chi non capisce la via giapponese alla lentezza di non saper entrare
in questo mondo, e di far meglio a leggere romanzi alla Dan Brown. Io ritengo
che ci sia un giusto mezzo tra l’azione e la stasi. Torno ad esempio a molti
scritti di Banana Yoshimoto, dove c’è poca azione, ma molte sensazioni passano
tra lo scritto ed il lettore. Qui, mi trovo in difficoltà. Ne leggo, seguo i
pochi avvenimenti. Ma non riesco ad entrare nel mondo di Kawabata. Ne capisco
forse un po’ con la testa, ma il cuore e lo stomaco rimangono distanti. E se
non vogliamo tornare a Banana, anche “Il fucile da caccia” di Yasushi Inoue,
pur nella sua lievità, mi comunicò molto di più.
“Fu colpito quando seppe che aveva annotato
accuratamente tutti i romanzi e i racconti letti dall'età di quindici o sedici
anni. … - Annotate anche le vostre critiche? – Non sarei mai capace di fare una
cosa del genere. Semplicemente prendo nota dell’autore e dei personaggi e dei
loro rapporti. … - Ma a che serve? – Proprio a niente.” (40)
Paul Auster “Mr. Vertigo” Einaudi euro 11 (in realtà, scontato a 8,25
euro)
[A: 16/02/2014– I: 30/03/2015 – T: 01/04/2015] - &&
e ½
[tit. or.: Mr. Vertigo; ling. or.: inglese; pagine: 281;
anno 1994]
Ogni
volta che prendo in mano un libro di Auster, anche se meno intensamente,
ripenso alle prime discussioni che ne ebbi con la mia amica Luana (quella di
John Fante, amici). Cui ora aggiungo le letture che ho fatto della di lui moglie,
Siri Hustvedt. Che alla fine mi danno un bel quadro di una vita familiare che
trasferisce sulla carta le proprie idee. Così se ne discute. Auster in questo
ventennale romanzo non ha la forza e l’oniricità della Trilogia di New York.
C’è una bella scrittura, inventiva quanto basta, la solita follia (tutta la
storia si basa su di un ragazzo che impara a lievitare). Ci sono due temi
fondamentali, che sarebbe bene non dimenticare mai: il razzismo e le modalità
educative. Il primo è un perno della dottrina di Auster: rispettare il diverso,
capirlo, conviverci. Il secondo, per me più nuovo, è la descrizione come una
grande forza di volontà possa trovare il modo di far penetrare vie educative in
persone diverse con culture diverse. Il romanzo è la storia della sua vita
raccontata dall'anziano Walt Rawley. Comincia da quando, orfano in St. Louis,
maltrattato dallo zio Slim, incontro uno strano personaggio: un profugo
ungherese, che si fa chiamare Maestro Yehudi, e che convince Walt che gli
insegnerà a volare. Tutta la prima parte si fonda sui modi educativi del
Maestro, che devono portare Walt a sentirsi “fuori dal sé”, per poter
apprendere a lievitare. Nel mondo del Maestro, sono poi presenti un ragazzo
etiope, Esopo, grande lettore, e l’angelo custode della casa, l’indiana Mamma
Sioux, nipote di Toro Seduto. Walt progredisce, ma prima di fare il salto finale
(siamo nell'America degli Anni Venti) il Ku Klux Klan brucia la casa, uccidendo
Esopo e l’indiana. Che se in un primo tempo erano anche per Walt “diversi”,
aveva imparato ad amarli. Walt ed il Maestro sono distrutti e si rifugiano per
qualche tempo da un’amica del Maestro, Mrs. Witherspoon. Si riprendono al fine,
anche perché Walt comincia a lievitare. Si organizzano spettacoli in tutta
l’America. Walt migliora sempre, ma, man mano che si avvicina alla pubertà, la
lievitazione gli provoca forti mal di testa. Decidono di smettere (hanno ormai
un bel gruzzolo) e Walt pensa di fare l’attore ad Hollywood. Sulla strada per
la California sono però assaliti dalla banda capeggiata dallo zio Slim, che li
deruba di tutto, lasciando il Maestro in fin di vita. In punto di morte il
Maestro confessa comunque di avere un cancro e che Walt, ormai se la deve
cavare da solo. Il ragazzo, distrutto, passa i seguenti tre anni a cercare suo
zio Slim, colpevole dell'incidente e della conseguente morte del Maestro per
vendicarsi e, trovandolo, lo uccide facendogli bere una coppa di latte
avvelenato. Contemporaneamente, il capo dello zio, un malvivente di nome Bingo
gli propone di prendere il posto dello zio. Così anche qui Walt fa carriera,
aprendo un locale dal nome Mr. Vertigo (per ricordare le vertigine della
lievitazione). Auster ci mostra sempre che con delle buone capacità di base, si
riesce sempre a sfondare, in America (il mito del self-made-man). Ma fino ad un
certo punto, che poi ci vuole anche intelligenza ed applicazione. Così Walt fa
spesso carriera, poi si arena. Come qui, nel suo locale, dove si intestardisce
dietro ad un giocatore di baseball in rovina, tanto che andrà fuori di testa,
verrà internato in un campo di lavoro (da dove salterà la guerra). Alla fine
della guerra stessa, lavorando presso un fornaio, incontra il suo grande amore,
Molly Fitzsimmons. Che sposa e con la quale vive per 23 anni, purtroppo senza
avere figli. Alla di lei morte, si da all'alcool. Salvato dai suoi amici anche
da questo abisso, si avvia verso i luoghi della sua infanzia, dove ritrova la
signora Witherspoon, che gestisce una catena di lavanderie. Ne diventa il
contabile, rimanendo lì a Wichita sino alla morte anche della sua ultima amica.
Dopo di che, si siede ad un tavolino e comincia a scrivere questa storia. Si vede
quindi che è una storia tra l’ingenuo ed il reale, tra il vero ed il falso,
attraverso cui si passa solo abbandonando un po’ i freni della razionalità. Ed
alla fine, anche se leggibile, non mi ha convinto fino in fondo, lasciandomi
perplesso sulle avventure di questi errabondi americani. Non è certo
spiacevole, ma non certo mi commuove come vorrebbe la quarta di copertina.
“I fatti nudi e crudi sarebbero andati
benissimo, ma sul momento non seppi resistere alla tentazione di esagerare …
ero un uomo di spettacolo, e non ebbi cuore di mandare a casa deluso un
pubblico tanto bendisposto.” (156)
“Io di lei mi innamorai perché mi fece sentire
a mio agio, perché riportò a galla la parte migliore di me … Era gentile, non
serbava rancore, mi sosteneva, e non cercò mai di trasformarmi in qualcuno che
non ero.” (268)
Jean Echenoz “Correre” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 8,50
euro)
[A: 05/08/2014– I: 12/04/2015 – T: 14/04/2015] - &&&&
e ½
[tit. or.: Courir; ling. or.: francese; pagine: 148;
anno 2008]
Una
vecchia segnalazione che mi portavo appresso dai tempi del supplemento dei
libri di Repubblica, che ne parlò all'uscita della prima copia del romanzo in
edizione non tascabile. E che io misi in un archivio dal significativo titolo
“Aspettando l’Economica”. Ora che ha non solo un prezzo accettabile, ma è anche
scontato, l’ho letto. E mi piaciuto molto. Non conoscevo l’autore, che scopro francese
tra i sessanta e i settanta anni di età, con una scrittura asciutta,
essenziale, ma che porta con sé tutto il carico di informazioni che ci deve
dare. E che ci da in questo non lungo libro che racconta la biografia,
ovviamente romanzata di un grande atleta, il moravo Zatopek. Echenoz aveva da
poco finito di scrivere la biografia degli ultimi anni di vita del musicista
Ravel, e stava cercando un soggetto nuovo. Confluenze di casualità lo portano
alla scoperta di Zatopek (ed a far uscire il libro in concomitanza con l’inizio
delle Olimpiadi di Pechino). Si parlava di romanzata, nella biografia, che
ovviamente ci sono passi in cui Echenoz non può che usare la fantasia per
raccordare gli avvenimenti. Per questo, non chiama il grande atleta con il suo nome
vero, il ceco Emil, ma lo francesizza in Émile. Il giovane Zatopek lavora nella
fabbrica di scarpe Bata, quando i tedeschi invadono la Moravia. La fabbrica
organizza corse a piedi per pubblicizzare le scarpe. E, con i tedeschi
occupanti, si organizza una sfida tra cechi e militari. Comincia così la
carriera di corridore del nostro, un po’ malvolentieri, anche se comincia a
vincere le prime corse sui 1500 e sui 3000 metri. Con uno stile poco ortodosso
ma efficace. Il 24enne Zatopek, alla fine della guerra, viene inquadrato
nell'esercito. E da lì inizia la sua carriera di corridore d’eccellenza. Prima
nazionale, poi partecipa nel ’46 alla prima corsa europea, il Campionato
d’Europa, dove arriva 5° nei 5000. Vince, e la sua carriera avanza. Diventa
luogotenente e non ha più rivali in patria. Nei campionati nazionali incontra
la giavellottista Dana, che diverrà sua moglie. Da qui la parte più esaltante
della sua vita e della sua carriera. Siamo appunto alla fine del ’46, e da
allora, per 10 anni, sarà il re incontrastato delle corse di fondo su pista e
su strada. Vince l’oro ai 10000 e l’argento ai 5000 a Londra. Stabilisce i record
mondiali su tutte le distanze dai 1500 ai 30 Km. Nel 1952, alle Olimpiadi di
Helsinki realizza un record ineguagliato: vince l’oro nei 5000, nei 10000 e
nella maratona. È un simbolo per il suo paese, ed è utilizzato dai russi come
bandiera e propaganda. Ma non è un diplomatico, si lascia scappare frasi poco
ortodosse, ed a poco a poco gli vengono negati i visti per gareggiare all'estero.
E la sua corsa disordinata e selvaggia si scontra con l’astro nascente russo, Volodymyr
Kuts. Zatopek sbuffava e respirava male, durante la corsa, tanto che veniva chiamato
“La locomotiva umana”. Kuts era il metronomo: divideva la corsa in tanti micro-pezzi
e li percorreva tutti alla stessa velocità. Dopo che a Melbourne non ottiene
nessuna medaglia (quelle in pista le vince Kuts; la maratona il suo rivale di
sempre, che aveva sempre battuto, il francese Alain Mimoun) decide di ritirarsi
e di fare l’allenatore. La parte sportiva, data la mia passione per numeri ed
altro, è quella che mi ha avvinto di più. Ma non si poteva lasciare Zatopek
così, senza l’ultima e forse più significativa parte della vita, personale e
politica. Ormai è un alto grado dell’esercito, e nel ’68 parla a favore della
Primavera di Praga. Motivo per cui, al ritorno dei sovietici, viene destituito,
radiato, mandato a lavorare nelle miniere d’uranio fuori Praga. Certo questa
parte è controversa, ma credo non sia tutta “romanzo”. Echenoz, in ogni caso,
ce la fa vivere con passione. Il rapporto sempre d’amore con la moglie Dana. Il
ritorno dopo 6 anni a Praga a fare lo spazzino. La rivolta dei cittadini che lo
riconoscevano. Fino a relegarlo nel posto di archivista al Centro Sportivo
Ceco. Dove terminerà la sua vita, a 78 anni nel 2000. Un libro che mi ha
emozionato. Per la parte sportiva, che conoscevo, ma che ripercorro sempre con
piacere. Per la parte pubblica e privata, che non conoscevo, che fa venir fuori
a tutto tondo un eroe del nostro tempo. Forse non il più fulgido, ma
sicuramente una persona, nel suo piccolo, coerente ed amante del proprio paese.
Non a caso, benché potesse rifugiarsi in Svezia dopo il ’68, decide comunque di
rimanere nel proprio paese, nel bene e nel male. Un piccolo libro da leggere, e
da meditare. Soprattutto per quella passione civile che dovrebbe essere comune
a tutti. E non credo lo sia.
William Faulkner “Mentre morivo” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a
9 euro)
[A: 20/05/2014– I:
29/05/2015 – T: 03/06/2015] - &&& e ½
[tit. or.: As I Lay Dying; ling. or.: inglese; pagine: 231; anno 1930]
Certo
non è mai facile avvicinarsi ad un mostro (o maestro) della scrittura e
disquisirne come fosse un qualsiasi scrittore che si avvicina alla carta
stampata. Molto contesto viene fuori e difficilmente si riesce a separarlo dal
testo. Semplice è quando il testo è talmente bello e ben riuscito che non si
risparmiano lodi ed iperboli. Meno quando, pur con una sua intrinseca bellezza,
soggettivamente contiene punti non chiari o non graditi. Come è per l’appunto
questo magistrale scritto del grande premio Nobel delle pianure americane. Che
è un bel libro. Ma (forse anche a causa delle difficoltà di traduzione) non
immediatamente fruibile. L’ho dovuto prendere per mano, rigirare pian pianino,
per arrivarne a capo. Perché scritto in capitoli soggettivi dei diversi
personaggi. Con una bravura enorme a calarsi nelle modalità espressive di
ognuno. Perché si capisce da alcuni passaggi come sia difficile rendere le
diverse tonalità del verbo essere con cui si esprimono i personaggi principali,
come l’intraducibile pezzo che riporto in calce pronunciato da Darl, quello un
po’ ritardato. La trama, invero, sarebbe di una semplicità disarmante. Abbiamo
la famiglia Bundren, tutta stretta intorno alla madre Addie, che sta morendo e
che muore. C’è Anse, il marito, che pur di non chiedere qualcosa in prestito
(per non sentirsi obbligato), fa scelte rovinose per la famiglia quando si
tratta di seppellire la moglie morta. Ma forse, lo fa per avere i soldi per
farsi una dentiera, e prendersi una nuova donna in casa, una volta morta Addie.
E ci sono i figli. Cash, il maggiore, che è cascato da un’impalcatura e si è
storpiato. È il falegname di casa, costruisce la bara per la madre, ma sarà
ancora sfortunato durante il viaggio (si rompe di nuovo la gamba, e non viene
curato, così che zoppicherà per sempre). Darl è il secondo, quello ritardato,
che tuttavia ha intuizioni geniali, proprio per la pazzia di fondo che lo
contraddistingue. Cercherà di “resuscitare” l’animo della madre. Cercherà di
fermare la reale pazzia del padre di andarla a seppellire a Jefferson, cercando
di bruciare bare e carri. E per questo verrà poi rinchiuso in un manicomio.
Jewel è il terzo, che vediamo essere da subito diverso, più intransigente, più
determinato. Scopriremo, nel corso del libro, che Addie lo ha avuto non da Anse
ma dal pastore della Chiesa. E probabilmente Jewel alla fine se ne andrà.
Quarta arriva l’unica femmina, Dewey Dell, diciassettenne “in calore”, che ha
nella pancia il figlio di un vicino, che vorrebbe abortire ma non sa come fare,
ora la mamma morta. E non lo farà. Infine, l’ultimo, il piccolo Vardeman,
quello che guarda tutto con i suoi occhi innocenti. Quello che non capisce, e
che per tutto il libro sogna un trenino rosso per Natale. Insomma, Addie la
madre muore, ma comincia a piovere, le strade sono allagate, i ponti crollati.
Ma Anse vuole portarla a Jefferson, e si parte. Loro sul carro, e Jewel a
cavallo, quello che si è comprato con i suoi risparmi. Il guado del fiume non
riesce, i muli muoiono, a stento salvano la bara, ma Cash si rompe la gamba di
nuovo. Per prendere altri muli, Anse vende il cavallo di Jewel, suscitando un
rancore insanabile. E finalmente a Jefferson, seppelliscono Addie, rinchiudono
Darl, Anse prende una nuova moglie, Dewey Dell vende il suo corpo per aver
soldi per l’aborto, senza riuscirci, Cash viene curato ma non guarisce. E
Vardeman guarda tutto e tutti, pensando sempre al treno. Ma quello che risalta
non è tanto e solo il narrato, che alla fine vien fuori quasi ad essere un
racconto biblico, con tutti i suoi archetipi classici (il pesce che pesca
Vardeman, il cavallo di Jewel, l’inondazione-diluvio, il rogo che purifica,
Darl come capro espiatorio), né il tessuto dei rancori che covano tra i diversi
membri della famiglia e che le difficoltà del viaggio fanno esplodere. Quello
che risalta è quel “flusso di coscienza” collettivo della narrazione. Joyce ne
aveva fatto un esempio eponimo nel suo Ulysses. Qui Faulkner lo moltiplica per
enne, facendolo uscire da ogni personaggio, dove alla fine la narrazione
risulta non direttamente, ma quasi da un contrappunto polifonico, come una
grande sinfonia. Ma se in questo maestro è lo scrittore, io lettore ne sono a
volte travolto, forse “annientato”. Anche se, alla fine, il dipinto di un
tipico vissuto del profondo sud americano esce fuori, e con forza. Bello per la
testa, un po’ duro e difficile per il cuore e la pancia.
“E dato che il sonno è non-è e la pioggia e
il vento sono erano, non è. Eppure il carro è, perché quando il carro sarà era,
Addir Bundren non sarà. E Jewel è, così Addie Bundren deve
essere.” [And since sleep is is-not and rain and wind are was, it is not. Yet
the wagon is because when the wagon is was, Addie Bundren will not be. And
Jewel is, so Addie Bundren must be.] (74)
“Fu allora che capii che le parole non
servono a nulla; che le parole non corrispondono mai a quello che tentano di
dire.” (154)
Prima
domenica di ottobre, ed eccoci qui con la solita lista relativa la mese di
luglio. Quattordici libri, letti con la dovuta calma di un mese altrettanto
calmo. Illuminati da tre diverse buone prove: il giallo italiano di Paolo
Roversi, il romanzo di Sylvia Plath ed il saggio (magistrale) sul riordino
della giapponese Kondo. In fondo, l’inutile libro del maliano Konaté, e quando
ne leggerete capirete perché.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Marie Kondo
|
Il magico potere del riordino
|
Vallardi
|
s.p.
|
4
|
2
|
Andrea Camilleri
|
Inseguendo un’ombra
|
Sellerio
|
14
|
2
|
3
|
A.M. Homes
|
The Safety of Objects
|
Perennial
|
13,50
|
2
|
4
|
Sylvia Plath
|
La campana di vetro
|
Mondadori
|
9,50
|
4
|
5
|
Georges Simenon
|
I Maigret – 2
|
Adelphi
|
s.p.
|
3
|
6
|
Diana Lama
|
La sirena sotto le alghe
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
3
|
7
|
Paolo Roversi
|
L’ira funesta
|
Corriere della Sera
|
6,90
|
4
|
8
|
Eva Cantarella
|
Itaca
|
Feltrinelli
|
s.p.
|
3
|
9
|
Rosa Cerrato
|
La maman di Via del Campo
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
3
|
10
|
Moussa Konaté
|
L’impronta della volpe
|
Repubblica MondoNoir
|
7,90
|
1
|
11
|
Evelyn Waugh
|
Una manciata di polvere
|
Bompiani
|
9,50
|
2
|
12
|
Agata Christie
|
Delitto in cielo
|
Corriere della Sera
|
6,90
|
3
|
13
|
Anne Perry
|
I dannati del Tamigi
|
Mondadori
|
4,90
|
3
|
14
|
Marco Bettini
|
Polvere rossa
|
Sole 24 ore Noir
|
6,90
|
3
|
Nonostante sforzi e tentativi di
spiegazioni con i capitani avventurosi, niente si profila al nostro travagliato
orizzonte. E capita forse anche qualcosa d’altro per una settimana intensa che
si pensava dedicare a cose più amene. Ma è tempo di castagne e gli animi si
rallegrano.
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