domenica 11 ottobre 2015

Se non ci fosse la Svizzera - 11 ottobre 2015

E già, se non ci fosse la Svizzera, quella italiana, che almeno sale sopra la sufficienza, sarebbe una settimana moscetta. Di scrittori italiani (e ben vengano). Di scrittori di genere (ed anche qui siamo sul plauso, almeno in generale). Ma di scrittori che, pur nella normale bravura della penna, non hanno slanci che altrove, loro o loro emuli, hanno. Così scivolano via Paolo Foschi e Valerio Varesi. Così non si erge in modo significativo la prima lettura di Gianni Farinetti. Rimane il ticinese Andrea Fazioli, che continua a rimanere su livelli di assoluta leggibilità.
Andrea Fazioli “Il giudice e la rondine” Guanda euro 8 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 01/11/2014– I: 09/04/2015 – T: 11/04/2015] - &&& +  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126; anno 2014]
Visto che recentemente la Svizzera è un po’ più vicina, torno di nuovo sull’unico scrittore svizzero di lingua italiana che conosco (e di cui si è letto praticamente di tutto). Siamo di nuovo con Andre Fazioli, nel fondovalle del fiume Ticino, aggirandoci per la cittadina di Giornico. ovviamente, seguendo le orme e le vicende di Elia Contini, il nostro investigatore poco comune, solitario, neanche tanto fortunato, ma con un suo fascino proprio dovuto a questi momenti di isolamento. Dove si pensa, si guarda la natura, e magari si ripensa a cosa succede intorno, sbrogliando le matasse intricate. Certo, non ho ancora capito il suo rapporto di tira e molla con la simpatica Francesca. In un romanzo si lasciano, in quello dopo si riavvicinano. Potrebbero assurgere a simboli di quel fenomeno di vita singolar-plurale di cui si parla molto sui giornali ultimamente (quelli che in Francia sono soprannominati “Célibataires à deux”, cioè stiamo insieme ognuno a casa sua). Invece continuano a prendersi e lasciarsi, come anche in questo ultimo direi racconto lungo, più che romanzo, uscito in questa sotto collana di Guanda che si chiama “Microcosmi”, di cui se ne riparlerà per l’altra lettura giallo-viaggiante di Biondillo. Ma non è sulla loro vicenda che ruota la storia, bensì intorno all’ex-giudice Mario Madocchi. Allontanato dalla professione per “sfruttamento della conoscenza di fatti confidenziali”, Madocchi si è lasciato alle spalle il passato, ha una nuova moglie e ha aperto un ristorante nella tranquilla provincia svizzera. Ed è proprio Alice, quella per cui ha buttato a mare tanti anni, che è preoccupata da strane telefonate e da altrettanto strani comportamenti del marito. Sospettando che questi abbia un’amante, ingaggia il nostro Elia nel suo ruolo principe di investigatore. E se da un lato Elia indaga, dall’altro Alice vuole sapere di più su Elia stesso, per sapere se fa bene a fidarsi di lui. Ne chiede informazioni quindi alla sua amica Francesca Besson. Per questo Elia e Francesca riprendono i contatti che si erano allentati. Elia è anche oscillante tra una possibile nascita di nuove intese verso la pur avvenente Alice, ed il ritorno di fiamma con la mai sopita alleanza verso Francesca. Nelle more del dibattito amoroso, che si svolge sempre nella mia testa piuttosto che sulle pagine di Fazioli, va avanti l’intrigo. Un mafioso di bassa tacca viene malmenato. Un probabile usuraio viene ucciso proprio nella villa dei Madocchi, mentre Elia ne controllava le mosse. Si instaura il solito teatrino di rimandi tra Contini ed il commissario De Marchi. Ma non se ne viene fuori. Il morto, Rota, aveva un messaggio minatorio in macchina dove viene trovato, lontano dalla villa del giudice. Questi ed Alice avevano preso un sonnifero il giorno del delitto. Contini gira, scava, pensa, cammina per i monti, cerca le sue amati volpi, costruisce barchette di carta che lascia andare nel ruscello dietro casa. Segue la pista di alcuni ciondoli a forma di quadrifoglio. Ed alla fine tira fuori la storia, ma non ha prove. Rota presta soldi e ricatta, il messaggio era da lui scritto per Madocchi, che non aveva preso il sonnifero e forse è stato lui a commettere il delitto. Certo non ci sono altre donne. Di questo convince Alice che probabilmente non lascerà l’anziano ex-giudice, anche se per un po’ è attratta da Elia. Ed Elia non denuncerà il giudice, non avendo prove. E continuerà ad avere questo strano rapporto di prendimi e lasciami con Francesca. Intanto, tornano le rondini nella primavera ticinese. Non è un grande giallo, ma ci sono belle atmosfere. Vorrei che Francesca tornasse da Elia, ma capisco che lo svizzero è un po’ difficile da frequentare. Una trama corta per un libro breve, difficile da raccontare che poco succede. E mentre ne leggo di questo Guanda che mi riporta tra le mie Alpi, sono qui che passeggio per le Ande. Casi della vita.
“Doveva accettare il fatto che a volte il vero cambiamento è restare dove si è.” (109)
Paolo Foschi “Vendetta ai Mondiali” E/O euro 14,50 (in realtà, scontato a 9,14 euro)
[A: 05/08/2014– I: 21/04/2015 – T: 24/04/2015] - && e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 186; anno 2014]
Mi domandavo, alla fine del precedente romanzo di Foschi, come avrebbe fatto a proseguire la serie, e soprattutto se la voleva proseguire. Infatti, vi ricordo, nel finale de “Il killer delle maratone”, il nostro commissario Igor Attila, ex-pugile, e responsabile della Sezione Crimini Sportivi della Polizia ha un tremendo incidente di moto. E noi lo avevamo lasciato in fin di vita, in ospedale, senza sapere se, appunto, ce l’avrebbe fatta. Non sappiamo i motivi del nostro autore, ma ha deciso di trovare il modo di portare avanti la serie. Lo fa, purtroppo, con qualche espediente che a me è piaciuto poco. Prima, dopo qualche tempo comatoso e mesi di cure, lo fa uscire con l’arto amputato, dove possiamo assistere ad uno scimmiottamento della vicenda Pistorius (ovviamente per la parte sportiva soltanto). Così Igor acquista un arto artificiale, prova di nuovo a correre, e poi si imbarca nell’impresa della hand-bike cercando di emulare lo sfortunato Alex Zanardi. In tutto ciò, richiamato in servizio dove deve risolvere due belle grane: le successive morti, alla vigilia dei Mondiali di calcio in Brasile, del capitano e del portiere della Nazionale, fatti saltare in aria con delle autobombe. Come se non bastasse, si imbarca in una vicenda simil-privata, dove, avendo rotto (e finalmente, che mi stava un po’ sugli zebedei) con Titta, si ritrova solo e comincia a ruotare verso Martyn, un atleta di colore che aveva chiesto il suo aiuto. Ovviamente, vi ricordate tutti che Igor, oltre ad essere ex-pugile è anche gay. Ma Martyn lo coinvolge perché vuole uscire da un pasticcio di droga che aveva combinato con degli atleti giamaicani. Igor, fuori di testa, non ci capisce nulla. Fortuna che il suo vice, la sempre più simpatica Chiara Merlo, usando l’analisi dei linguaggi corporei, smaschera il malcapitato Martyn. In tutto ciò, Igor mette invece le sue energie, la testa, e gli uomini della squadra sulle tracce delle autobombe. Dopo una serie di vicissitudini e scoperte (uso dei computer, segnali inviati da chissà dove, web-cam nascoste), arriva ad incriminare Bellini, un grande industriale, sponsor della Nazionale, che aveva fatto investire i soldi dei due calciatori nelle sue industrie portatrici di tumori. Così come i soldi dell’allenatore. Ma quando questi cercano di tirarsi fuori (anche se con i soldi erano riusciti a rientrare nel giro della Nazionale) saltano letteralmente in aria. Indagando però sull’industria di Bellini, scopre un nuovo sito internet molto particolare, e seguendone le tracce, arriva al bandolo finale della matassa. È il figlio di uno dei morti di tumore dipendente dell’industria inquinante, che, genio dell’informatica, ha escogitato il tutto. Anche perché pure lui ormai è ad uno stadio terminale della malattia. Ma una volta capito il come ed il perché (in una vicenda che, Nazionale a parte, ricalca motivi e schemi degli inquinamenti ambientali dell’Ilva ed altre aberrazioni analoghe), di fronte al dilemma su chi incriminare, il nostro paladino decide che il giovane ingegnere in fin di vita può morire in pace, e lascia andare in prigione il cattivo Bellini. E se tutto questo non fosse sufficiente a riempire le quasi duecento pagine del libro, il nostro scrittore si inventa un colpo di scena finale, e forse anche due. Perché un poliziotto che decide da sé quale sia la giustizia non è politicamente corretto. Ed allora ecco che Igor si sveglia, e si accorge che è stato tutto un sogno. Si, è stato male, ma la gamba ce l’ha ancora. E purtroppo, c’è ancora Titta, che invece si sperava fosse definitivamente scomparso. Il sogno consente di sorvolare su tutto il racconto, che, appunto nel sogno, si può decidere di derogare alla giustizia. Ovviamente, abbiamo l’altro colpo di scena. Che il romanzo finisce con una telefonata del questore che avverte Igor che il centravanti della Nazionale è saltato per aria con la sua macchina a causa di una autobomba. Su questo circolo alla finto-Schnitzler si chiude il libro. Che ho trovato proprio sotto media, per queste invenzioni poco credibile, e per gli accenni su esposti agli atleti che subiscono menomazioni (mancavano soltanto il fuoco di Lauda e la mano di Nannini). Che si riscattava solo eliminando Titta e facendo crescere il peso di Chiara. Insomma, caro Foschi, potevi “inventare” qualcosa di meno strampalato, e ti avrei seguito con maggior gusto. Ora penso che dovremmo aspettare anche il quinto volume della serie. Speriamo bene.
“Magari avesse avuto una vita divertente come quella del commissario Montalbano o movimentata come quella dell’ispettore Harry Hole. No, lui non era stato così fortunato: lo sceneggiatore della sua vita gli aveva riservato solo delusioni, amarezze e rimpianti.” (133)
“Quando la battaglia è persa, è più coraggioso chi si arrende di chi continua a combattere solo per orgoglio.” (170)
Valerio Varesi “È solo l’inizio, commissario Soneri” Pickwick euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,41 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 29/04/2015 – T: 30/04/2015] - && e ½     
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 276; anno 2010]
Siamo alla decima inchiesta ormai del commissario Soneri, ed abbiamo ben appreso il modo di scrivere del buon Varesi. Scrittura intrigante, piena di riferimenti, ma anche intrisa dell’anima de “La Repubblica” giornale di cui non a caso fa parte il nostro nella redazione bolognese. Dove si cerca sempre una qualche equidistanza, almeno nel grosso della scuderia (abbiamo sempre cavalli che dirazzano, come l’interessante scrittura di Colaprico). Il meglio Varesi lo da pur sempre nell’ambientazione. Parma, sempre e comunque, le trattorie della bassa, con gli anolini in brodo, la trippa con tanto parmigiano, del buon rosso. E ultimamente anche un su e giù con La Spezia, che sta poco di là dell’Appennino, quasi uno sfogo a mare per i sentimenti padani. Come al solito d’inverno a Parma piove, e sotto la pioggia escono fuori due morti: un impiccato ed un accoltellato. Che sembrano non aver nulla in comune, ma che noi si sospetta che qualcosa ci sia. L’impiccato è un rumeno, Giorgio Oliescu, emigrato a La Spezia, lavoratore probo, ma non integrato, che per passioni strane si lega agli ultras calcistici della squadra locale. Ultras molto facinorosi, ed abbastanza sodali con elementi estremisti di destra. Con fatica, al solito, e saltando da una storia all’altra, si arriva a delineare la figura di Giorgio. Emarginato, sia al lavoro che poi dagli ultras, a parte l’amico Filippo. Che perde il lavoro, che perde il permesso di soggiorno, ed allora decide il gesto estremo. Fin qui tutto bene (anche no, magari). Ma perché a Parma? Soneri intanto è ben più preso dall’altra morte, che sicuramente è un omicidio. E non di una persona qualunque, ma di Elmo Boselli, leader del Sessantotto parmense, a suo tempo dotato di una grande lingua e di un grande fascino verso le donne. Allora si indaga negli ambienti che sono colati via negli anni da quel Sessantotto. Soneri trova reduci di tutte le risme per entrare nella personalità di Boselli. Parla con il vecchio collega in pensione, fascista duro e puro, che rimpiange i tempi delle manganellate ai cortei. Parla con chi ha rinnegato quegli ideali, dicendo che erano solo cazzate da studenti universitari fuori dalla realtà. Parla con chi non si è mai tirato indietro, un irriducibile vetero-comunista che per evitare compromessi si fa eremita tra i monti. Qui esce fuori tutto il “leggero” della finta trama impegnata di Varesi. Quasi che volesse fare (anche lui?) un piccolo pamphlet utilizzando il noir per ripercorrere anni che sarà sempre difficile ripercorrere, in qualsiasi modo si cerchi di farlo. Grandi ideali, anni di piombo, e chi più ne ha più ne metta. Intanto si scopre che Boselli all’epoca aveva un suo grande amore, la Motti. E con lei, come molti, al tramonto delle grandi lotte, pensa di “salvarsi” con una fuga in India. Ma la Motti, dura e pura, ci starebbe per sempre. Boselli no. E se ne ritorna, e comincia a vivacchiare. Una casetta in Liguria ereditata dal padre, affittata (forse) ma non si sa a chi. Qualche amore. Piccoli commerci. Ora quasi stabile nella precarietà di chi si è piegato, ma non tanto. Solo che Boselli è malato, e vuole chiudere qualche conto aperto. Soprattutto perché con la Motti un figlio lo aveva fatto. Anche se poi lei si sposa con il più mite Cassinari, mai dicendo la verità al figlio. Boselli lo cerca , lo trova, gli dice la (sua) verità. E chi è questo ragazzo se non il Filippo amico del rumeno Giorgio. Anche lui negli ultras spezzini, anche lui di destra. Sconvolto ed arrabbiato verso questo padre tardivo, organizza un piccolo ricatto insieme a Giorgio e per questo vengono a Parma. Ma Giorgio sa che dovrà lasciare l’Italia, e per questo si uccide. E Filippo, quando rivede Elmo e ne sente l’egoismo duro e puro, perde il lume della ragione e lo uccide. Quindi, niente piste politiche dietro i morti, ma solo miserie umane. Sfortunatamente intrise dallo scrittore Varesi in questo marasma di considerazioni che risultano molto superficiali. Non è vero, come dice Soneri, che noi “siamo qui a raccogliere i cocci”. Altro potremmo e dovremmo fare. Purtroppo qui non ci si è riusciti. Ed alla fine il libro, pur nella scorrevolezza della scrittura di Varesi, non può raggiungere la piena sufficienza. Anche perché, come ha scritto qualcuno più capaci di me, il nostro buon Soneri ha una sola corda interpretativa, quasi fosse il Raul Bova degli inizi. Raul imitava un ramo d’albero senza espressione. Soneri è sempre incazzato, con solo qualche sfumatura: un po’ incazzato, molto incazzato, incazzato che non mi parlate se no mordo. E neanche la sua compagna avvocato riesce a smuoverlo da questo stato. Forse solo gli anolini di cui sopra. E speriamo che altre prove migliori esano dall’arco di Varesi. Un piccolo inciso sull’India di cui sopra, unico momento in cui ho avuto un po’ di tremore nella memoria, ripensando al mio amico Wolf, il tedesco con cui studiavo a Parigi, e a quel suo passaggio a Roma, nel ’73, quando mi disse “Addio, parto per l’India”. E non l’ho più sentito.
Gianni Farinetti “Un delitto fatto in casa” Marsilio euro 12,50
[A: 14/03/2014– I: 04/05/2015 – T: 06/05/2015] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 423; anno 1996]
L’amica Margherita me ne aveva parlato, allorché di un viaggio, e me n’era rimasta vaghezza. Anche per quel nome che pur rimandando ad Eataly, non di Eataly è parente. Almeno credo, perché Gianni è di Bra, ed Oscar di Alba. E poi Gianni è del 1953, e non dico altro. Secondo elemento, è appunto la piemontesità dell’autore e della storia. Che pur ormai ventennale, solo ora riesco a far entrare nelle mie letture. E comunque non sfugge, non può sfuggire il confronto con l’altro grande romanzo della Torino bene, il capolavoro giallo – ironico di Fruttero e Lucentini “La donna della domenica”. Per togliere subito le castagne dal fuoco, dico che sono due prodotti diversi, pur venendo dalla stessa terra. E Farinetti perde alla grande. Un po’ perché la storia è meno solida, un po’ perché è molto annacquata nelle oltre 400 pagine (d’altra parte pare che Marsilio pubblichi romanzi gialli solo oltre questa soglia), con rimandi, giravolte ed altri trucchi letterari che dopo un po’ sono discretamente stufanti. C’è forse qualcuno che sia riuscito a sopravvivere alle sei (6) pagine introduttive che elencano nomi, personaggi, rapporti, nonché modi di dire piemontesi? L’altra trovatella di scrittura è quel rivolgersi al lettore come se lui, Farinetti, e tu, lettore, foste seduti davanti allo spettacolo, e lui te ne spiegasse modi ed attività. Ti dice, attento a questo, di questo te ne parlo dopo, guarda che quello ha fatto, ha detto. Troppo furbetto per i miei gusti. Che poi la trama, ridotta all’essenziale, poteva anche essere divertente. Tutto ruota intorno alla famiglia Guarienti, costruttori ed imprenditori ben in vista nella Torino bene, guidata con pugno duo dal capo-famiglia Cesare. Abbiamo la moglie, Anna Remondelli di Lauriano (che già si vede nobile nel titolo, che rimanda, malamente, ad Anna Carla Dosio, che voi sapete chi fosse), una che tiene molto alla forma, e che non permetterà al marito di lasciarla, anche se Cesare gli piazza l’amante nel castello accanto. Ci sono i due figli: il gay Sebastiano, con una lunga e tormentata storia con il bel Duccio, dove si prendono e si lasciano, ma non lasciano il nuovo acquisto di Seb, il buon pastore maremmano Dromos (forse il più simpatico del lotto) e la mal maritata Silvia, il cui marito fotografo fortunatamente ritorna in Francia con la prima moglie, e lei può iniziare una nuova storia con il simpatico Alberto (in questo anche spinta dalla di lui undicenne figlioletta Mariolina). C’è Adriana la concubina ufficiale di Cesare, vedova di Gioacchino, fratello di Cesare, scomparso nel crollo di una diga in Africa, e il di lei figlio Edoardo, numero due della ditta di famiglia, ma con poco propensione agli affari onesti. E c’è Adelaide Testa Simonis, la prima ad essere introdotta sulla scena con quell’incipit molto F&L (“Dato che non le restano più di diciannove ore di vita prima di essere assassinata…”), amante del gioco, per cui decide di vivere sulla Costa Azzurra. È lei la prima morta, cui casualmente assiste Duccio, che si trova casualmente a Nizza, per dei problemi idraulici, e perché ha litigato con Seb. Da questo punto si dipana tutta la storia, entrano ed escono i personaggi. I Guarienti organizzano anche un grande ricevimento per Natale, con tanto di orchestra condotta dal loro amico e grande direttore John Southworth. Ed in concomitanza del Natale, muore anche Cesare. Sembrano tutti incidenti, che Adelaide cade dal balcone e Cesare ha uno scontro con la macchina. Ma… ma non è così. Seb è sospettoso, e tra un litigio e l’altro con Duccio, ed una passeggiata con Dromos, ripercorrendo tutte le strutture genealogiche familiari, scopre che anche Adelaide era stata un’amante del padre, con tanto di nascita di un figlio della colpa. Insomma, un guazzabuglio di personaggi, un saltabeccare da una scena all’altra, sempre con un ironico sorriso sulle labbra. Mi ricorda, in noir, la scrittura di Gaetano Cappelli. E neanche quella mi piaceva molto. Fortunatamente, l’ultima parte del romanzo si libera un po’ di queste meta-finzioni narrative. Ci si aspetta il colpo di scena finale. Che arriva e da parte inaspettata. D’altra parte, o si ha una mente enciclopedia, altrimenti era difficile seguire le vicende e le storie di tutti. Ma questo, almeno, è un punto a favore dell’autore e del romanzo. Vedremo se ne capiteranno altri. Per ora, no.
Sebbene sia la seconda settimana del mese, una serie i congiunture positive (lavoro, compleanno e una sempre più concreta possibilità di patire a Novembre per l’India) mi hanno impedito di elaborare la cura mensile, che rimandiamo alla prossima settimana. Ora godiamoci quello che c’è, appunto. Lavoro, compleanno e viaggio. 

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