E già, se non ci fosse la
Svizzera, quella italiana, che almeno sale sopra la sufficienza, sarebbe una
settimana moscetta. Di scrittori italiani (e ben vengano). Di scrittori di
genere (ed anche qui siamo sul plauso, almeno in generale). Ma di scrittori
che, pur nella normale bravura della penna, non hanno slanci che altrove, loro
o loro emuli, hanno. Così scivolano via Paolo Foschi e Valerio Varesi. Così non
si erge in modo significativo la prima lettura di Gianni Farinetti. Rimane il
ticinese Andrea Fazioli, che continua a rimanere su livelli di assoluta leggibilità.
Andrea Fazioli “Il giudice e la rondine” Guanda euro 8 (in realtà,
scontato a 6 euro)
[A: 01/11/2014– I: 09/04/2015 – T: 11/04/2015] - &&&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126;
anno 2014]
Visto
che recentemente la Svizzera è un po’ più vicina, torno di nuovo sull’unico
scrittore svizzero di lingua italiana che conosco (e di cui si è letto
praticamente di tutto). Siamo di nuovo con Andre Fazioli, nel fondovalle del
fiume Ticino, aggirandoci per la cittadina di Giornico. ovviamente, seguendo le
orme e le vicende di Elia Contini, il nostro investigatore poco comune,
solitario, neanche tanto fortunato, ma con un suo fascino proprio dovuto a
questi momenti di isolamento. Dove si pensa, si guarda la natura, e magari si
ripensa a cosa succede intorno, sbrogliando le matasse intricate. Certo, non ho
ancora capito il suo rapporto di tira e molla con la simpatica Francesca. In un
romanzo si lasciano, in quello dopo si riavvicinano. Potrebbero assurgere a
simboli di quel fenomeno di vita singolar-plurale di cui si parla molto sui
giornali ultimamente (quelli che in Francia sono soprannominati “Célibataires à
deux”, cioè stiamo insieme ognuno a casa sua). Invece continuano a prendersi e
lasciarsi, come anche in questo ultimo direi racconto lungo, più che romanzo,
uscito in questa sotto collana di Guanda che si chiama “Microcosmi”, di cui se
ne riparlerà per l’altra lettura giallo-viaggiante di Biondillo. Ma non è sulla
loro vicenda che ruota la storia, bensì intorno all’ex-giudice Mario Madocchi. Allontanato
dalla professione per “sfruttamento della conoscenza di fatti confidenziali”,
Madocchi si è lasciato alle spalle il passato, ha una nuova moglie e ha aperto
un ristorante nella tranquilla provincia svizzera. Ed è proprio Alice, quella
per cui ha buttato a mare tanti anni, che è preoccupata da strane telefonate e
da altrettanto strani comportamenti del marito. Sospettando che questi abbia
un’amante, ingaggia il nostro Elia nel suo ruolo principe di investigatore. E
se da un lato Elia indaga, dall’altro Alice vuole sapere di più su Elia stesso,
per sapere se fa bene a fidarsi di lui. Ne chiede informazioni quindi alla sua
amica Francesca Besson. Per questo Elia e Francesca riprendono i contatti che
si erano allentati. Elia è anche oscillante tra una possibile nascita di nuove
intese verso la pur avvenente Alice, ed il ritorno di fiamma con la mai sopita
alleanza verso Francesca. Nelle more del dibattito amoroso, che si svolge
sempre nella mia testa piuttosto che sulle pagine di Fazioli, va avanti
l’intrigo. Un mafioso di bassa tacca viene malmenato. Un probabile usuraio
viene ucciso proprio nella villa dei Madocchi, mentre Elia ne controllava le
mosse. Si instaura il solito teatrino di rimandi tra Contini ed il commissario
De Marchi. Ma non se ne viene fuori. Il morto, Rota, aveva un messaggio
minatorio in macchina dove viene trovato, lontano dalla villa del giudice.
Questi ed Alice avevano preso un sonnifero il giorno del delitto. Contini gira,
scava, pensa, cammina per i monti, cerca le sue amati volpi, costruisce
barchette di carta che lascia andare nel ruscello dietro casa. Segue la pista
di alcuni ciondoli a forma di quadrifoglio. Ed alla fine tira fuori la storia,
ma non ha prove. Rota presta soldi e ricatta, il messaggio era da lui scritto
per Madocchi, che non aveva preso il sonnifero e forse è stato lui a commettere
il delitto. Certo non ci sono altre donne. Di questo convince Alice che
probabilmente non lascerà l’anziano ex-giudice, anche se per un po’ è attratta
da Elia. Ed Elia non denuncerà il giudice, non avendo prove. E continuerà ad
avere questo strano rapporto di prendimi e lasciami con Francesca. Intanto,
tornano le rondini nella primavera ticinese. Non è un grande giallo, ma ci sono
belle atmosfere. Vorrei che Francesca tornasse da Elia, ma capisco che lo
svizzero è un po’ difficile da frequentare. Una trama corta per un libro breve,
difficile da raccontare che poco succede. E mentre ne leggo di questo Guanda
che mi riporta tra le mie Alpi, sono qui che passeggio per le Ande. Casi della
vita.
“Doveva accettare il fatto che a volte il
vero cambiamento è restare dove si è.” (109)
Paolo Foschi “Vendetta ai Mondiali” E/O euro 14,50 (in realtà, scontato
a 9,14 euro)
[A: 05/08/2014– I: 21/04/2015 – T: 24/04/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 186;
anno 2014]
Mi
domandavo, alla fine del precedente romanzo di Foschi, come avrebbe fatto a
proseguire la serie, e soprattutto se la voleva proseguire. Infatti, vi
ricordo, nel finale de “Il killer delle maratone”, il nostro commissario Igor
Attila, ex-pugile, e responsabile della Sezione Crimini Sportivi della Polizia
ha un tremendo incidente di moto. E noi lo avevamo lasciato in fin di vita, in
ospedale, senza sapere se, appunto, ce l’avrebbe fatta. Non sappiamo i motivi
del nostro autore, ma ha deciso di trovare il modo di portare avanti la serie.
Lo fa, purtroppo, con qualche espediente che a me è piaciuto poco. Prima, dopo
qualche tempo comatoso e mesi di cure, lo fa uscire con l’arto amputato, dove
possiamo assistere ad uno scimmiottamento della vicenda Pistorius (ovviamente
per la parte sportiva soltanto). Così Igor acquista un arto artificiale, prova
di nuovo a correre, e poi si imbarca nell’impresa della hand-bike cercando di
emulare lo sfortunato Alex Zanardi. In tutto ciò, richiamato in servizio dove
deve risolvere due belle grane: le successive morti, alla vigilia dei Mondiali
di calcio in Brasile, del capitano e del portiere della Nazionale, fatti
saltare in aria con delle autobombe. Come se non bastasse, si imbarca in una
vicenda simil-privata, dove, avendo rotto (e finalmente, che mi stava un po’
sugli zebedei) con Titta, si ritrova solo e comincia a ruotare verso Martyn, un
atleta di colore che aveva chiesto il suo aiuto. Ovviamente, vi ricordate tutti
che Igor, oltre ad essere ex-pugile è anche gay. Ma Martyn lo coinvolge perché
vuole uscire da un pasticcio di droga che aveva combinato con degli atleti
giamaicani. Igor, fuori di testa, non ci capisce nulla. Fortuna che il suo
vice, la sempre più simpatica Chiara Merlo, usando l’analisi dei linguaggi
corporei, smaschera il malcapitato Martyn. In tutto ciò, Igor mette invece le
sue energie, la testa, e gli uomini della squadra sulle tracce delle autobombe.
Dopo una serie di vicissitudini e scoperte (uso dei computer, segnali inviati
da chissà dove, web-cam nascoste), arriva ad incriminare Bellini, un grande
industriale, sponsor della Nazionale, che aveva fatto investire i soldi dei due
calciatori nelle sue industrie portatrici di tumori. Così come i soldi
dell’allenatore. Ma quando questi cercano di tirarsi fuori (anche se con i
soldi erano riusciti a rientrare nel giro della Nazionale) saltano
letteralmente in aria. Indagando però sull’industria di Bellini, scopre un
nuovo sito internet molto particolare, e seguendone le tracce, arriva al
bandolo finale della matassa. È il figlio di uno dei morti di tumore dipendente
dell’industria inquinante, che, genio dell’informatica, ha escogitato il tutto.
Anche perché pure lui ormai è ad uno stadio terminale della malattia. Ma una
volta capito il come ed il perché (in una vicenda che, Nazionale a parte,
ricalca motivi e schemi degli inquinamenti ambientali dell’Ilva ed altre
aberrazioni analoghe), di fronte al dilemma su chi incriminare, il nostro
paladino decide che il giovane ingegnere in fin di vita può morire in pace, e lascia
andare in prigione il cattivo Bellini. E se tutto questo non fosse sufficiente
a riempire le quasi duecento pagine del libro, il nostro scrittore si inventa
un colpo di scena finale, e forse anche due. Perché un poliziotto che decide da
sé quale sia la giustizia non è politicamente corretto. Ed allora ecco che Igor
si sveglia, e si accorge che è stato tutto un sogno. Si, è stato male, ma la
gamba ce l’ha ancora. E purtroppo, c’è ancora Titta, che invece si sperava
fosse definitivamente scomparso. Il sogno consente di sorvolare su tutto il
racconto, che, appunto nel sogno, si può decidere di derogare alla giustizia.
Ovviamente, abbiamo l’altro colpo di scena. Che il romanzo finisce con una
telefonata del questore che avverte Igor che il centravanti della Nazionale è
saltato per aria con la sua macchina a causa di una autobomba. Su questo
circolo alla finto-Schnitzler si chiude il libro. Che ho trovato proprio sotto
media, per queste invenzioni poco credibile, e per gli accenni su esposti agli
atleti che subiscono menomazioni (mancavano soltanto il fuoco di Lauda e la
mano di Nannini). Che si riscattava solo eliminando Titta e facendo crescere il
peso di Chiara. Insomma, caro Foschi, potevi “inventare” qualcosa di meno
strampalato, e ti avrei seguito con maggior gusto. Ora penso che dovremmo
aspettare anche il quinto volume della serie. Speriamo bene.
“Magari avesse avuto una vita divertente
come quella del commissario Montalbano o movimentata come quella dell’ispettore
Harry Hole. No, lui non era stato così fortunato: lo sceneggiatore della sua
vita gli aveva riservato solo delusioni, amarezze e rimpianti.” (133)
“Quando la battaglia è persa, è più
coraggioso chi si arrende di chi continua a combattere solo per orgoglio.”
(170)
Valerio Varesi “È solo l’inizio, commissario Soneri” Pickwick euro 9,90
(in realtà, scontato a 8,41 euro)
[A: 12/03/2014 – I: 29/04/2015 – T: 30/04/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 276;
anno 2010]
Siamo
alla decima inchiesta ormai del commissario Soneri, ed abbiamo ben appreso il
modo di scrivere del buon Varesi. Scrittura intrigante, piena di riferimenti,
ma anche intrisa dell’anima de “La Repubblica” giornale di cui non a caso fa
parte il nostro nella redazione bolognese. Dove si cerca sempre una qualche
equidistanza, almeno nel grosso della scuderia (abbiamo sempre cavalli che
dirazzano, come l’interessante scrittura di Colaprico). Il meglio Varesi lo da
pur sempre nell’ambientazione. Parma, sempre e comunque, le trattorie della
bassa, con gli anolini in brodo, la trippa con tanto parmigiano, del buon
rosso. E ultimamente anche un su e giù con La Spezia, che sta poco di là
dell’Appennino, quasi uno sfogo a mare per i sentimenti padani. Come al solito
d’inverno a Parma piove, e sotto la pioggia escono fuori due morti: un
impiccato ed un accoltellato. Che sembrano non aver nulla in comune, ma che noi
si sospetta che qualcosa ci sia. L’impiccato è un rumeno, Giorgio Oliescu,
emigrato a La Spezia, lavoratore probo, ma non integrato, che per passioni
strane si lega agli ultras calcistici della squadra locale. Ultras molto
facinorosi, ed abbastanza sodali con elementi estremisti di destra. Con fatica,
al solito, e saltando da una storia all’altra, si arriva a delineare la figura
di Giorgio. Emarginato, sia al lavoro che poi dagli ultras, a parte l’amico
Filippo. Che perde il lavoro, che perde il permesso di soggiorno, ed allora
decide il gesto estremo. Fin qui tutto bene (anche no, magari). Ma perché a
Parma? Soneri intanto è ben più preso dall’altra morte, che sicuramente è un
omicidio. E non di una persona qualunque, ma di Elmo Boselli, leader del
Sessantotto parmense, a suo tempo dotato di una grande lingua e di un grande
fascino verso le donne. Allora si indaga negli ambienti che sono colati via
negli anni da quel Sessantotto. Soneri trova reduci di tutte le risme per
entrare nella personalità di Boselli. Parla con il vecchio collega in pensione,
fascista duro e puro, che rimpiange i tempi delle manganellate ai cortei. Parla
con chi ha rinnegato quegli ideali, dicendo che erano solo cazzate da studenti
universitari fuori dalla realtà. Parla con chi non si è mai tirato indietro, un
irriducibile vetero-comunista che per evitare compromessi si fa eremita tra i
monti. Qui esce fuori tutto il “leggero” della finta trama impegnata di Varesi.
Quasi che volesse fare (anche lui?) un piccolo pamphlet utilizzando il noir per
ripercorrere anni che sarà sempre difficile ripercorrere, in qualsiasi modo si
cerchi di farlo. Grandi ideali, anni di piombo, e chi più ne ha più ne metta.
Intanto si scopre che Boselli all’epoca aveva un suo grande amore, la Motti. E
con lei, come molti, al tramonto delle grandi lotte, pensa di “salvarsi” con
una fuga in India. Ma la Motti, dura e pura, ci starebbe per sempre. Boselli
no. E se ne ritorna, e comincia a vivacchiare. Una casetta in Liguria ereditata
dal padre, affittata (forse) ma non si sa a chi. Qualche amore. Piccoli
commerci. Ora quasi stabile nella precarietà di chi si è piegato, ma non tanto.
Solo che Boselli è malato, e vuole chiudere qualche conto aperto. Soprattutto
perché con la Motti un figlio lo aveva fatto. Anche se poi lei si sposa con il
più mite Cassinari, mai dicendo la verità al figlio. Boselli lo cerca , lo
trova, gli dice la (sua) verità. E chi è questo ragazzo se non il Filippo amico
del rumeno Giorgio. Anche lui negli ultras spezzini, anche lui di destra.
Sconvolto ed arrabbiato verso questo padre tardivo, organizza un piccolo ricatto
insieme a Giorgio e per questo vengono a Parma. Ma Giorgio sa che dovrà
lasciare l’Italia, e per questo si uccide. E Filippo, quando rivede Elmo e ne
sente l’egoismo duro e puro, perde il lume della ragione e lo uccide. Quindi,
niente piste politiche dietro i morti, ma solo miserie umane. Sfortunatamente intrise
dallo scrittore Varesi in questo marasma di considerazioni che risultano molto
superficiali. Non è vero, come dice Soneri, che noi “siamo qui a raccogliere i
cocci”. Altro potremmo e dovremmo fare. Purtroppo qui non ci si è riusciti. Ed
alla fine il libro, pur nella scorrevolezza della scrittura di Varesi, non può
raggiungere la piena sufficienza. Anche perché, come ha scritto qualcuno più
capaci di me, il nostro buon Soneri ha una sola corda interpretativa, quasi
fosse il Raul Bova degli inizi. Raul imitava un ramo d’albero senza
espressione. Soneri è sempre incazzato, con solo qualche sfumatura: un po’
incazzato, molto incazzato, incazzato che non mi parlate se no mordo. E neanche
la sua compagna avvocato riesce a smuoverlo da questo stato. Forse solo gli
anolini di cui sopra. E speriamo che altre prove migliori esano dall’arco di
Varesi. Un piccolo inciso sull’India di cui sopra, unico momento in cui ho
avuto un po’ di tremore nella memoria, ripensando al mio amico Wolf, il tedesco
con cui studiavo a Parigi, e a quel suo passaggio a Roma, nel ’73, quando mi
disse “Addio, parto per l’India”. E non l’ho più sentito.
Gianni Farinetti “Un delitto fatto in casa” Marsilio euro 12,50
[A: 14/03/2014– I: 04/05/2015 – T: 06/05/2015] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 423;
anno 1996]
L’amica
Margherita me ne aveva parlato, allorché di un viaggio, e me n’era rimasta
vaghezza. Anche per quel nome che pur rimandando ad Eataly, non di Eataly è
parente. Almeno credo, perché Gianni è di Bra, ed Oscar di Alba. E poi Gianni è
del 1953, e non dico altro. Secondo elemento, è appunto la piemontesità dell’autore
e della storia. Che pur ormai ventennale, solo ora riesco a far entrare nelle
mie letture. E comunque non sfugge, non può sfuggire il confronto con l’altro
grande romanzo della Torino bene, il capolavoro giallo – ironico di Fruttero e
Lucentini “La donna della domenica”. Per togliere subito le castagne dal fuoco,
dico che sono due prodotti diversi, pur venendo dalla stessa terra. E Farinetti
perde alla grande. Un po’ perché la storia è meno solida, un po’ perché è molto
annacquata nelle oltre 400 pagine (d’altra parte pare che Marsilio pubblichi
romanzi gialli solo oltre questa soglia), con rimandi, giravolte ed altri
trucchi letterari che dopo un po’ sono discretamente stufanti. C’è forse
qualcuno che sia riuscito a sopravvivere alle sei (6) pagine introduttive che
elencano nomi, personaggi, rapporti, nonché modi di dire piemontesi? L’altra
trovatella di scrittura è quel rivolgersi al lettore come se lui, Farinetti, e
tu, lettore, foste seduti davanti allo spettacolo, e lui te ne spiegasse modi
ed attività. Ti dice, attento a questo, di questo te ne parlo dopo, guarda che
quello ha fatto, ha detto. Troppo furbetto per i miei gusti. Che poi la trama,
ridotta all’essenziale, poteva anche essere divertente. Tutto ruota intorno
alla famiglia Guarienti, costruttori ed imprenditori ben in vista nella Torino
bene, guidata con pugno duo dal capo-famiglia Cesare. Abbiamo la moglie, Anna
Remondelli di Lauriano (che già si vede nobile nel titolo, che rimanda,
malamente, ad Anna Carla Dosio, che voi sapete chi fosse), una che tiene molto
alla forma, e che non permetterà al marito di lasciarla, anche se Cesare gli
piazza l’amante nel castello accanto. Ci sono i due figli: il gay Sebastiano,
con una lunga e tormentata storia con il bel Duccio, dove si prendono e si
lasciano, ma non lasciano il nuovo acquisto di Seb, il buon pastore maremmano
Dromos (forse il più simpatico del lotto) e la mal maritata Silvia, il cui
marito fotografo fortunatamente ritorna in Francia con la prima moglie, e lei
può iniziare una nuova storia con il simpatico Alberto (in questo anche spinta
dalla di lui undicenne figlioletta Mariolina). C’è Adriana la concubina
ufficiale di Cesare, vedova di Gioacchino, fratello di Cesare, scomparso nel
crollo di una diga in Africa, e il di lei figlio Edoardo, numero due della
ditta di famiglia, ma con poco propensione agli affari onesti. E c’è Adelaide
Testa Simonis, la prima ad essere introdotta sulla scena con quell’incipit
molto F&L (“Dato che non le restano più di diciannove ore di vita prima di
essere assassinata…”), amante del gioco, per cui decide di vivere sulla Costa
Azzurra. È lei la prima morta, cui casualmente assiste Duccio, che si trova
casualmente a Nizza, per dei problemi idraulici, e perché ha litigato con Seb.
Da questo punto si dipana tutta la storia, entrano ed escono i personaggi. I
Guarienti organizzano anche un grande ricevimento per Natale, con tanto di
orchestra condotta dal loro amico e grande direttore John Southworth. Ed in
concomitanza del Natale, muore anche Cesare. Sembrano tutti incidenti, che
Adelaide cade dal balcone e Cesare ha uno scontro con la macchina. Ma… ma non è
così. Seb è sospettoso, e tra un litigio e l’altro con Duccio, ed una
passeggiata con Dromos, ripercorrendo tutte le strutture genealogiche
familiari, scopre che anche Adelaide era stata un’amante del padre, con tanto
di nascita di un figlio della colpa. Insomma, un guazzabuglio di personaggi, un
saltabeccare da una scena all’altra, sempre con un ironico sorriso sulle
labbra. Mi ricorda, in noir, la scrittura di Gaetano Cappelli. E neanche quella
mi piaceva molto. Fortunatamente, l’ultima parte del romanzo si libera un po’
di queste meta-finzioni narrative. Ci si aspetta il colpo di scena finale. Che
arriva e da parte inaspettata. D’altra parte, o si ha una mente enciclopedia,
altrimenti era difficile seguire le vicende e le storie di tutti. Ma questo,
almeno, è un punto a favore dell’autore e del romanzo. Vedremo se ne
capiteranno altri. Per ora, no.
Sebbene sia
la seconda settimana del mese, una serie i congiunture positive (lavoro, compleanno
e una sempre più concreta possibilità di patire a Novembre per l’India) mi
hanno impedito di elaborare la cura mensile, che rimandiamo alla prossima
settimana. Ora godiamoci quello che c’è, appunto. Lavoro, compleanno e viaggio.
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