Come diceva Tito Livio, Roma capitale del
mondo conosciuto. Ed ecco allora un quartetto dedicato a quella Roma, con altri
quattro libri della bolognese Danila. Dove i romanzi, con il loro respiro più
ampio ci riescono a dare degli sguardi interessanti e storicamente (quasi)
esatti, mentre i racconti fuggono via, senza lasciare segni particolari.
Danila Comastri Montanari “Parce sepulto” Mondadori euro 9,90 (in
realtà, scontato a 7,45 euro)
[A: 28/11/2014– I: 27/02/2016 – T: 29/02/2016] - &&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237;
anno 1996]
Uno
dei dati positivi della scrittura di Danila è la stretta consequenzialità dei
tempi delle azioni. Non si salta di tempi (ed ovviamente di luoghi), almeno per
ora. Dopo che nella storia precedente, con l’appendice, eravamo arrivati
all’estate del 45 d.C., ecco che questa nuova avventura si colloca nel novembre
dello stesso anno. Con la consueta appendice che si posiziona subito dopo,
durante l’inverno. In questo quinto episodio, poi, si va precisando la natura
libertina del nostro Publio Aurelio Stazio, sempre presente sin dall’inizio, ma
che qui comincia ad assumere connotati più precisi, dove il magistrato e
senatore romano non si perita di portare nell’alcova le donne che riesce a
incuriosire per la sua intelligenza (sempre) e per le sue ricchezze (spesso).
L’altro punto di forza è la ricostruzione di un aspetto della vita dell’antica
Roma. Qui, Danila ci spiega e fa partecipi del sistema di apprendimento
dell’epoca (non direi del sistema scolastico, che forse è maggiormente
complesso). Chi voleva apprendere a leggere e scrivere (“e sa legger di greco e
di latino” come diceva Carducci) aveva due grandi strade davanti, a seconda
anche della ricchezza della famiglia. Prendere in casa dei precettori (i
ricchi) o affidarsi a delle “scholae” dove liberti e schiavi s’industriavano ad
insegnare le materie di base. Notiamo anche che, nelle prime classi
soprattutto, non c’era preclusione anche ad ammettere le bambine. In
quest’ambiente si va consumando un nuovo dramma. Nella scuola del retore
Arriano c’è una grande confusione: il retore s’è indebitato con l’usuraio Elio
Corvino, e per sdebitarsi gli ha dato in moglie una delle sue figlie gemelle.
L’altra cerca di studiare, poi si fidanza con il rampante Ottavio, che non
disdegna, per far carriera, le attenzioni da “amasio” di Arriano. Scalzando dal
ruolo direttivo della scuola il mite Panezio. Arriano non era nuovo ad amori
“juvenilis”, tanto da subire anni prima causa da un giovane della gente Elia
originario di Numana (nome antico di Ancona). Giovane che sparisce, ma un suo
fratello si installa nella coorte di Corvino. In tutto questo intreccio di
amori, soldi e gelosie, la gemella promessa sposa viene trovata morta. Collasso
naturale nelle terme? Delitto? Girano lettere minatorie, e Aurelio, sollecitato
dall’amica Pomponia, non si può esimere dall’indagare. Spinto anche
dall’avvenenza della giovane sposa di Corvino, nonché dal suo astio verso
l’usuraio, e dalla ancor piacente ex-maestra delle due ragazze, la matematica
Giunia Irenea (laude alle donne coi numeri). Tra l’altro Arriano si apprestava
ad adottare Ottavio, non avendo figli maschi cui lasciare il patrimonio.
Seguiamo Aurelio nella sua inchiesta e nelle sue scorribande, dove si imbatte
più volte in uno dei culti molto in voga in Roma ai tempi, quelli di Cibele. Di
cui fa una interessante e corretta analisi a pagina 133 (dove l’autrice
contraddice la disamina storica fatta da Tito Livio nei suoi “Annales”). Tra
corse in lettiga, lezioni al giovane e promettente Manlio, ed altre amenità di
contorno, fin da subito noi ed Aurelio nutriamo dei dubbi su chi sia Lucilla e
chi sia Camilla. Dubbi che neanche portandosela nel suo cubicolo (per fare
indovinate cosa…) Aurelio fuga. Visto poi che si sta prodigando verso il sesso
debole, ha anche una breve storia con Irenea (che però alla fine preferisce far
sodalizio con il maestro di scuola). Dopo che ci imbattiamo anche in alcuni
accenni sui riti funebri dell’epoca, finalmente i nodi si sciolgono, e, come in
un giallo di buona fattura, scopriamo tutti i come ed i perché. Quindi le
avventure continuano nell’appendice (“Una perla per Publio Aurelio Stazio”) che
come detto si svolge poco dopo il romanzo, con il nostro Aurelio che, per ritemprarsi
delle conquiste femminili, va a riposarsi nella sua villa di Pithecusa
(l’odierna isola di Ischia). Qui si imbatte nella strana storia di sei giovani
(Melissa, Zena, Pilade, Attilio, Leucio e Cirno) che trovano una perla gigante,
nascondendola proprio nelle rocce intorno alla villa di Aurelio. Dopo la morte
di Leucio e Cirno, e la storia di Melissa, Aurelio imbastisce un grande
banchetto dove invita anche Pilade (fuggito da Ischia poco dopo il
ritrovamento), Attilio (prima in sollazzo con Melissa, ora attratto da Zena e
dalla flotta del di lei padre) e Zena (che vuole Attilio per risollevare le
sorti della flotta paterna, ormai alla bancarotta). In poche righe, utilizzando
un sotterfugio sulla provenienza irpina di una certa droga, risolve il
problema. Ed ovviamente si porta nel talamo la simpatica Melissa. Continuiamo a
seguire gli scritti della storica Danila, sperando che continui ad illuminarci
in vicende storiche romane. Come anche le citazioni, dove, seppur questo
“lasciate stare i morti” non è calzantissimo, non posso che sottolineare la
correttezza della citazione virgiliana che tutti riportano errata, mentre la
nostra, giustamente, la iscrive come “audentes fortuna iuvat”. Anche se la trama generale dei suoi
gialli non è proprio delle più avvincenti, continuo a seguirne gli scritti.
“Ho rinunciato a vivere in prima persona,
per farlo attraverso i libri: così vedevo la realtà mediata dalla letteratura,
e le passioni mi apparivano lontane e rassicuranti … non avvertivo emozioni, le
leggevo” (89)
Danila Comastri Montanari “Spes ultima dea” Mondadori euro 9,90 (in
realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 28/11/2014 – I: 03/03/2016 – T: 06/03/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 262;
anno 1999]
Nuovo episodio delle storie
romane di Danila, e nuovo plauso ai racconti che imbastisce la storica
bolognese. Ribadisco anche qui la correttezza filologica delle sue
ambientazioni ed il piacere di scoprire aspetti della vita della Roma antica.
Non posso non di meno sottolineare che le parti investigative non sono sempre
all’altezza, anche se in questo episodio la trama ha alcuni spunti da non
sottovalutare. In questa storia, intanto, l’idea della scrittrice è di
esplorare e farci vedere come si succedevano e quali erano i poteri in gioco
nell’alternanza delle cariche. Ricordo inoltre, che le storie procedono
linearmente, così che questa si sviluppa nel giugno del 46 d.C., dandoci anche
modo di valutare con piacere il calendario romano come si sviluppa a poco meno
di cento anni dalla riforma di Giulio Cesare. Ogni capitolo, qui ed in tutte le
storie, prevede l’indicazione del giorno di svolgimento. Apprendiamo così che i
romani facevano ruotare tutto intorno a tre “dies” particolari: le calende, le
none e le idi. I giorni quindi venivano indicati come giorni mancanti a questi
tre giorni (terzo giorno prima delle calende di giugno piuttosto che quarto
giorno prima delle idi). Le calende erano il primo giorno del mese, le none il
quinto o il settimo, le idi il tredicesimo o il quindicesimo (secondo la
lunghezza del mese). Confrontando poi pagina 58 e pagina 62 apprezziamo la filologia
della conta. C’è il terzo giorno prima delle calende di giugno, ed il giorno
dopo è la vigilia delle calende. I romani contavano “giorni pieni”, per cui si
conta il primo e l’ultimo giorno della stringa. Quindi non esisteva, nel
computo un “secondo giorno prima di”. Secondo elemento, quella della vita
pubblica. L’imperatore Claudio aveva ridato potere al Senato, e di conseguenza
ai reggenti il potere civile e militare in sua vece, i consoli (sempre due per
mitigarne le mire reciproche). Così vediamo, nelle more del racconto, come si
faccia “lobby” per aver il titolo di console, come si debba ripagare chi
favorisce l’elezione, ed altri nefasti atteggiamenti che ritroviamo, con
immutata rapacità, anche ai giorni nostri. Fortuna vuole che il console sia in
carica un solo anno, e non possa essere rieletto per almeno altri dieci. In
questo scenario ben delineato, s‘intreccia la vicenda del libro, fornendoci
anche alcuni ragguagli della gioventù del nostro Aurelio, quando giovane
tribuno viene mandato da Seiano, il console che agiva in nome dell’imperatore
Tiberio, nella selva teutonica, per portare ordini all’Undicesima Legione.
Legione comandata da Quinto Valerio Cepione e da sua moglie Vera Claudina.
Siamo nel 26 d.C. (anno in cui Tiberio inviò come prefetto in Giudea tal Ponzio
Pilato), i germani sbaragliano il campo romano, dove Cepione è ucciso da una
freccia, e Vera muore alla testa delle truppe. Si salva Aurelio, che torna a
Roma a fare la vita che conosciamo da questi scritti. Saltiamo venti anni, ed arriviamo
al mortale intreccio che si dipana nell’estate del 46. Dove viene ucciso
Antonio, sodale di Aurelio tanto da vestirsi come lui ed essere ucciso, sembra,
per questo. Ma Antonio ha una vita, seppur gaudente, incasinata. Ha un
fratellastro, Tucullo, orafo e fortunato, una moglie, Balbina, che preferisce
Tucullo a lui. Anche perché Antonio è impotente. Ma si adopera per ricattare a
destra e a manca, sia con l’aiuto di Valeria, figlia del Cepione morto di cui
sopra, sia con quello dell’etera Glafira. Il tutto complicato da Paolo Metronio
(il console di cui sopra) che usa la moglie Citrulla per mettere in difficoltà
sia Aurelio che Marco Valerio, fratello della Valeria di cui sopra, e dagli
incendi che mettono in difficoltà i poveri dei quartieri degradati,
costringendoli a lasciare le case e rifugiarsi oltre Tevere. Sia da Marco
Valerio stesso che accusa Aurelio di aver sedotto la madre Vera venti anni
prima. Un diabolico intreccio, dove si uniscono onori militari e poteri forti
che tentano di stravolgere la vita della nostra città. Aurelio, sempre con
l’aiuto del fido Castore, usando i pettegolezzi dell’amica Pomponia, ed il suo
acume investigativo, riesce a risalire la china di un imbroglio durato appunto
più di venti anni. Smaschera non solo i colpevoli, ma riesce a non infangare
nomi illustri, elemento che l’imperatore Claudio terrà in conto. Investendo in
finale di libro il nostro gaudente epicureo del titolo di console (seppur solo
per un mese). Avendo già elencato tutti i lati positivi, chiudo qui, in attesa
di nuove avventure.
“Odiava essere
interrotto nei momenti di grande intimità, vale a dire quando era con una donna
o con un libro.” (156)
Danila Comastri Montanari “Scelera” Mondadori euro 12 (in realtà,
scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015 – I: 06/03/2016 – T: 09/03/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244;
anno 2000]
Dopo tanti plausi all’opera della
scrittrice bolognese, eccoci al primo volume che non raggiunge livelli di
sufficienza. Non che non abbia le solite caratteristiche di accuratezza, ma è
spezzettato in quanto, come ci preannuncia il titolo latino, si parla di
delitti (da “scelus, sceleris, …” della 3^ declinazione). Come avete capito,
pur raccordati in unità di spazio e di luogo, abbiamo 3 racconti e mezzo, non
un romanzo completo. Purtroppo, le ricostruzioni e le indagini di Aurelio, nel
breve spazio di un racconto, non riescono ad avere quel respiro calmo e
ponderato di un romanzo intero. L’unica nota veramente positiva è, al solito,
il luogo (degno di quel mezzo libro in più), perché siamo nell’estate del 46, e
quindi, come tutte le estati del nostro senatore, ci troviamo negli ozi di
Baia. E spaziamo tra le ville di Baia, il caos di Pozzuoli, le bellezze di Capo
Miseno, nonché le ostriche, allora abbondanti, del lago di Lucrino. Oltre alla
“forma racconto”, altro punto invece che mi ha poco coinvolto è stato il
mancato disvelare di altri momenti della vita romana. Qui abbiamo storie che si
svolgono durante un banchetto e che mettono in luce alcuni aspetti della vita
amorosa del tempo. Abbiamo storie che si svolgono alle terme, ed anche qui un
po’ di sesso ed un po’ di corruzione. Storie che coinvolgono giovani,
giovanette e soldi (motore di quasi tutte le storie del mondo). L’unico
elemento per così dire nuovo, oltre alla ribadita multi-sessualità dell’epoca,
è l’idea che una donna possa iscriversi nel registro delle “lupae” per poter
sfuggire ai controlli sulla propria vita (ricordo che “lupa” era sinonimo di
donna che si vende per denaro, e che se una donna libera, di qualsiasi età,
aveva un rapporto consenziente con una persona che non fosse il marito, lei era
adultera ed il tipo passibile di un processo per stupro). Nella prima storia si
parla di sesso, con tal Aulo ucciso ed evirato in una stanzetta del suo bel
palazzo in Baia. Subito sospette sono la moglie, una lupa nonché suonatrice di
strumenti musicali e la sua protettrice (della lupa, non del morto).
Ovviamente, visto che ci sono di mezzi i soldi dell’eredità non possiamo
dimenticare anche Sesto, il fratello di Aulo. Tuttavia, il capitoletto si
intitola alle Parche, che si sa sono tre, una per la nascita, una per la vita
ed una per la morte. Ruoli che ben si adattano alle tre signore di cui sopra.
Aggravato dal fatto di aver scoperto un luogo segreto da dove vedere gli
amplessi amorosi di Aulo. Era la moglie gelosa dell’amante? Era la tenutaria
che essendo anche “tribas” (sinonimo di lesbica per i romani) era gelosa
dell’amante di Aulo? Era l’amante a seguito di richieste poche ortodosse di
Aulo? O, fuori dai giochi, il fratello Sesto per questioni di soldi e carriera?
Nella seconda storia abbiamo un capopopolo ucciso alle terme sotto gli occhi
del nostro Aurelio. Un tribuno cui i non aristocratici davano il loro appoggio,
e che i sodali di Aurelio, senatori e pretori, non vedono di buon occhio.
Soprattutto il latifondista Cassio Albo, afflitto tuttavia da un figlio
soprannominato “porcellino”, e pensate un po’ perché. Certo con Aurelio capiamo
meglio il meccanismo delle terme, soprattutto quelle nuove del delitto, dove,
prime nella storia, veniva fornito un servizio di custodia dei beni per chi si
andava, nudo, a fare saune ed altre attività. Aurelio si mette subito in
contrasto con Cassio, ovvio mandante dell’omicidio, mettendolo da parte
attraverso ricatti al suo porcellino. Ma chi è l’esecutore? Lavinia la
guardarobiera? Stephanon il promesso di Lavinia, troppo indulgente verso gli
amori mono-sex? Pullo liberto di Cassio, le cui sorelle erano ancora schiave?
Fufidio il sodale del morto, stanco delle sue lotte “sindacali”? Il terzo è
invece subito “scoperto” dall’infausta quarta di copertina, dove si parla di
pedofilia. Ora, scompare la quattordicenne figlia dell’ammiraglio della flotta
Lampronio. E già pensiamo di sapere come possa finire. Si ritrova il corpo di
Faustina, una ragazza con tre dita del piede amputate. Poi si ritrova anche il
corpo della scomparsa Lelia, con la stessa amputazione. La nostra Danila la
mena di qua e di là, ma già pensiamo come possa finire la storia. O Lampronio,
in un impeto di amori giovanili (e sappiamo che era dedito a fanciulle non
ancora in fiore) va al di là del lecito con Faustina (o con Lelia), le uccide e
Lelia (o Faustina) vede tutto e deve subire la stessa sorte. O c’è una vendetta
che viene da lontano, qualche parente di una giovane con cui si trastullava
Lampronio anni prima, mettendola incinta e facendola morire di parto (che aveva
solo dodici anni). Il mezzo racconto è invece incentrato su un gioco matematico
che avrebbe fatto sorridere il mio amico Ennio se glielo avessi proposto.
L’anziano Perpenna muore ucciso da uno dei suoi nipoti, che il padre, per
mancanza di fantasia, aveva chiamato Primo, Secondo, e così via sino all’ultimo
nato Decimo. Perpenna, prima di morire lascia su una tavoletta i seguenti numeri:
VI
|
VIII
|
X
|
XX
|
IV
|
III
|
IV
|
V
|
?
|
VIII
|
Tutti pensano che la soluzione
dell’enigma (che indica chiaramente l’assassino) sia “10”, ed accusano Decimo.
Si vede facilmente che non lo è. Ed ho capito anch’io la soluzione, visto che
siamo in ogni caso a Roma, dove ovviamente si parla latino. Capite bene, una
serie di storie slegate, poco spazio per imbastire trame che si complichino
durante lo svolgimento. Un po’ di indulgenza verso gli amori muliebri di
Aurelio. Questa la sintesi estrema di un libro di passaggio, cioè poco
riuscito. Ma si sa, chi scrive può avere dei passaggi a vuoto. Prima o poi ne
parlerò, sull’onda di qualche libro che si legge ora.
Danila Comastri Montanari “Gallia est” Mondadori euro 9,90 (in realtà,
scontato a 7,43 euro)
[A: 18/03/2015 – I: 03/04/2016 – T: 06/04/2016] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272;
anno 2001]
Fortunatamente torniamo ad un
romanzo completo e non a dei racconti, ed il tono sale subito. Certo non si
allontana da una più che onorevole sufficienza, che, soprattutto verso la fine,
c’è un po’ di confusione in tutti i sottofinali che la nostra scrittrice
imbastisce. Ma la storia nel complesso regge. Come regge, molto bene, anzi è
uno dei punti di forza, l’ambientazione. Siamo infatti di nuovo lontano da
Roma. Ma non nei blandi rifugi campani, bensì nella nostra Provenza, all’epoca
chiamata Gallia Narbonese. Non è quindi un caso che nel titolo si richiami
l’inizio del “De Bello Gallico” di Cesare (“Gallia est omnis divisa in partes
tres”). Tra l’altro la Gallia Narbonese, già romana ben prima di Cesare, era
dai romani chiamata “Provincia Nostra” o semplicemente “Provincia” che ben
presto diventerà, come si vede facilmente, “Provenza”. Unico punto di raccordo
da tenere a mente con il precedente, è la sempre coerente successione
temporale: dopo l’estate delle morti a Baia, ora siamo nell’autunno del 46. Periodo
in cui l’imperatore Claudio si appresta a far entrare in Senato anche uomini
provenienti dalle province. L’anno successivo infatti, ammetterà al Senato
propri i Galli Comati (il nome deriva dai lunghi capelli che portavano appunto
i Narbonesi). Ma Claudio vuole far passare la legge allargando la base di
consenso, e quindi spedisce suoi emissari in Gallia. Uno di questi è proprio il
nostro Aurelio. Che se da una parte dovrà trovare il modo di fare il politico,
dall’altra, al solito, verrà invischiato in una vicenda di morti da
sgarbugliare. Danila è abile nel tessere la sua trama da storica romana, senza
commettere errori, non solo, ma trasportandoci e facendoci vivere la romanità
lontana da Roma. In quei posti (a me cari per i pittori che vi vissero più di
1800 anni dopo, da Van Gogh a Cézanne, tanto per essere chiari) che risuonano
con i loro nomi evocativi: Lugdunum, Arausio, Avenio, Nemasus, Glanum, Aquae
Sextiae ed Arelate. Cioè, per chi non fosse avvezzo al latino, Lione, Orange,
Avignone, Nimes, Saint-Rémy-de-Provence, Aix-en-Provence e Arles. Tra queste
città, ma soprattutto ad Arelate, si svolge la storia, ed anche la Storia.
Quella che vede i romani doc contrapporsi ai “nuovi ricchi”, con gli scontri
tra Galli inurbati con la toga e Galli rispettosi delle tradizioni con le
“bracae” (i calzoni, cioè, che lì l’inverno fa freddo), con le corse che
vedevano gli aurighi delle diverse fazioni dannarsi per portare i ludi dalla
propria parte politica, con gli amministratori che (ma che strano…) depredavano
i poveri, arricchendosi alle spalle dello Stato. Un ultimo tocco di Storia, lo
abbiamo anche con l’accenno di un giovane che parte per diventare segretario di
un signore comasco, scrittore di grande avvenire. Il comasco non è altri che
Plinio Cecilio Secondo, all’epoca ventiquattrenne, ma da noi conosciuto con il
nome di Plinio il Vecchio. Con un piccolo dubbio, perché a me risulta che
proprio nel 46, Plinio entra nell’esercito come ufficiale di cavalleria e
partecipa alla conquista di una remota regione germanica al confine con
l’attuale Belgio. Ma torniamo alla storia, quella minuta, dove vediamo morire,
strangolato e poi bruciato, Irzio, uno dei capi dei conservatori ma in procinto
di cambiare casacca per sostenere Claudio. Delitto politico o no? Irzio stava
per divorziare da Elvia Valentina, figlia sciacquetta di Elio Valente, il più
romano dei Galli. Tanto che era anche dedito ad usura e lenocinio, ed altre
turpitudini. In contrasto con Artige, tanto che del delitto ne viene accusato
il figlio di questi, Romolo. Ed è proprio dallo scontro delle due famiglie, i
Valente e gli Artige, che si ciba il romanzo. Condito dal peperoncino sia degli
incontri amorosi di Aurelio che dalle furberie del suo segretario Castore.
Aurelio si fa irretire da Varinia, nuora di Artige, ma anche da Valentina, che
usa le sue doti femminili anche per coprire il debole fratello Lucio. Castore
non si perita poi di travestirsi da druido per seminare un po’ di panico tra le
varie fazioni, ma anche per fare collette tutte a suo beneficio. Non è un caso
che l’imperatore, sempre l’anno seguente, metterà al bando anche la casta dei
Druidi. Vi lascio la voglia di scoprire tutti gli intrighi che insorgono:
Romolo che fugge a Glanum dalla bella Artemisia, che si fa arrestare da
Aurelio, che mentre si trova in prigione vengono uccisi, strangolati, e poi
sottomessi ai supplizi druidici dell’acqua e dell’impiccagione, sia Scauro, un
agricoltore che forse sa qualcosa, sia lo stesso Valente. Aurelio troverà il
bandolo della matassa ricorrendo ad uno stratagemma quando si accorge che nella
famiglia di Artige, sia la moglie Eufemia sia lo stesso Romolo, sono affetti da
un difetto della vista. Sono daltonici, anche se Dalton battezzerà questo
difetto solo nel 1794. Fatto sta che hanno difficoltà con il verde (difetto ora
chiamato “deuteranopia”) tanto che il capostipite di lato materno era un druido
di nome Voconzio Occhiogrigio. Ma tanti sono gli intrecci nel finale. Si scopre
che Irzio, una quarantina di anni prima, aveva avuto una figlia fuori dal matrimonio,
che Eufemia vuole più bene a Romolo che alla sua stessa vita, che Lucio è un
po’ effeminato, che il barbiere di Aurelio è un po’ gay, e tanti altri
intrecci, che mi hanno fatto dire appunto all’inizio, che ci si perde un po’ in
tutti questi finali. Resta il piacere di una piccola immersione nel mondo
romano, piacevole appunto, anche perché, sempre, ben documentata. E voi sapete
quanto io sia pignolo!
“Anche le menzogne più sfacciate, se ripetute centinaia di volte da chi
ha i mezzi per farsi sentire, si trasformano fatalmente in verità nelle
orecchie poco avvedute. Così, gli inquisitori finiscono per diventare inquisiti
e gli innocenti colpevoli…” (195)
Siamo
alla seconda domenica del mese, quindi, come ormai sapete, vi trovate tra capo
e collo anche un bell’allegato, dedicato alla fatica di alzarsi il lunedì
mattina, ed all’aiuto che ci può dare in questo sforzo inane … Virginia Woolf.
Ed
intanto continuiamo a progredire in questo ottobre pieno di feste, compleanni,
impegni e pensamenti, in attesa di ricapitolare i fili dei nostri discorsi. Quindi
leggendo e girando, camminando e sudando, vi saluto.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OTTOBRE 2016
Un augurio di benessere a tutti i
miei amici che, lavorando ahi loro, hanno sempre problemi a carburare il lunedì
mattina. Seguiamo i consigli delle nostre amiche, ma ricordate, tutto dipende
da voi, e non dai fiori che non comprerete.
LUNEDÌ MATTINA, MALESSERE DEL
Virginia Woolf “La signora Dalloway”
Se pensare al
lunedì mattina vi fa sentire condannati, se quando vi svegliate avete il peso
di una montagna che preme sul petto, tiratevi su con la prima pagina (o anche
le prime due, o tre, se poi non riuscite a smettere) de “La signora Dalloway”.
Con questo capolavoro, infatti, Virginia Woolf inventò un nuovo modo di
scrivere per catturare i pensieri in continuo mutamento e la vitalità che
scorre nelle vene di una donna mentre vive, momento per momento, una giornata
di giugno nella Londra che ama, dopo la fine della guerra. Si tratta, in
realtà, non di un lunedì ma di un mercoledì, e la signora Dalloway sta organizzando
una festa per la sera.
Decide di
andare lei stessa a comprare i fiori. Fate attenzione, scansafatiche del
lunedì. Anche voi potreste assumervi la responsabilità di fare qualcosa -
qualcosa di piacevole, qualcosa di sensuale - che normalmente lascereste a
qualcun altro. Questo pensiero vi aiuterà a scendere dal letto. Mentre finite
la colazione, godetevi l’esuberanza della signora Dalloway - Clarissa - e i
suoi pensieri cristallini («Che allodola! Che tuffo!») e seguite la lunga e
tortuosa riflessione che segue, curvandosi nel tempo, raccogliendo suoni e
rumori: «Perché così le era sempre sembrato quando, facendo cigolare i cardini,
come adesso, aveva spalancato la porta-finestra per lanciarsi all’aria aperta,
a Bourton». Che frase! Non udite anche voi quel cigolio, non sentite le porte
che cedono alla vostra spinta, non gustate quell’aria fresca e pulita?
Dopo,
accogliete dentro di voi attraverso gli occhi e la mente l’amore e il desiderio
per la vita di Clarissa. Immaginatevi nel suo corpo ben proporzionato, simile a
quello di un uccello, leggero, elastico, dal portamento eretto mentre, ferma
sul ciglio del marciapiede, si prepara ad attraversare la strada. Notate il
«silenzio particolare», la «pausa indescrivibile» che fa ogni cosa prima dei
rintocchi del Big Ben. Siate consapevoli, come lei, della presenza della morte
- del fatto che tutte queste persone che vanno di qua e di là un giorno saranno
solo ossa e polvere - e portate con voi questa consapevolezza durante la
giornata. Lasciate che vi aiuti a sfruttarlo al meglio, il vostro lunedì.
Poi (facendo
attenzione, prima, a guardare a destra e a sinistra - non vogliamo che sia
l’ultimo dei vostri lunedì e a questo punto, speriamo, non lo vorrete nemmeno
voi) attraversate. E … perché no? Andate a comprare dei fiori.
Bugiardino
Non
ho mai amato particolarmente la signora Woolf né il suo gruppo di intellettuali
londinesi. Comunque ebbi tempo (se guardate bene ben 7 anni fa) di leggerne in
lingua, e devo dire che l’inglese rotondo, forbito, che ti accarezza parola
dopo parola, è una bella sensazione di lettura. Purtroppo non confortata dal
risultato testuale che, come leggerete qui sotto, non mi ha particolarmente
coinvolto.
Virginia Woolf “La
signora Dalloway in Bond Street e altre storie” Repubblica Short Stories euro
4,50
[trama pubblicata il 1 marzo 2009]
Che
dire? Si sa che nella scrittura della Woolf in pratica non succede niente. Così
è in “Miss Dalloway in Bond Street” e “The Lady in the Looking-glass”, forse un
po’ meno in “The Duchess and the Jeweler”. Si sta lì a seguire i pensieri
avanzare sulla carta, a vedere le frasi formarsi con la casualità del pensiero.
Quanto lavoro dietro a ciò, quanta bravura. Ma poi, poi mi rimane poco. La
passeggiata della signora Dalloway, con i pensieri tra la da poco finita
guerra, i passanti, il vigile, la commessa. Il gioielliere che cerca (trova?)
il modo per far fare uno scatto di qualità alla sua vita (ma se per lui la
qualità è il denaro, quale sarà lo scatto agognato?). Forse solo quelle lettere
sul canterano, che aspettano il ritorno della vecchia signora che le leggerà, e
che la casa spera siano racconti di viaggio, ma forse son solo conti e fatture.
Tristi fotografie di un mondo triste. Apprezzo fino all’ultima riga il suo
inglese, e l’ho letto e riletto perché scorre, significa, si sente vivo. Ma non
c’è la cupa angoscia di “Una gita al faro” o di altre prove dove la lunghezza
non serviva per allungare il brodo (ah ah) ma per arrivare a quella misura di
equilibrio, per far uscire dalla pagina il sentimento, così come traspare dalle
cose e dai pensieri, senza l’intervento diretto dell’autore deus ex-machina.
Insomma, qui ritorna il mio dilemma sulla difficoltà (assolutamente personale)
di star dietro alla dimensione racconto. Ed al mio ritorno, appena si può, alla
lettura almeno del romanzo breve, se non al tomo indigeribile. Interlocutorio.
Conclusioni
Non sono così propenso ad
indicare Virginia come rimedio ad una letargia latente. Il mio consiglio, più
che di lettura, è di vita. Basta avere, il lunedì mattina, una signora
Elisabetta che viene a rivoltarvi casa, ed una palestra vicina che accoglie le
vostre fatiche. Vedrete come cambia la settimana (e forse la vita?).
Nessun commento:
Posta un commento