domenica 9 ottobre 2016

Rima caput mundi - 09 ottobre 2016

Come diceva Tito Livio, Roma capitale del mondo conosciuto. Ed ecco allora un quartetto dedicato a quella Roma, con altri quattro libri della bolognese Danila. Dove i romanzi, con il loro respiro più ampio ci riescono a dare degli sguardi interessanti e storicamente (quasi) esatti, mentre i racconti fuggono via, senza lasciare segni particolari.
Danila Comastri Montanari “Parce sepulto” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,45 euro)
[A: 28/11/2014– I: 27/02/2016 – T: 29/02/2016] - &&&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 237; anno 1996]
Uno dei dati positivi della scrittura di Danila è la stretta consequenzialità dei tempi delle azioni. Non si salta di tempi (ed ovviamente di luoghi), almeno per ora. Dopo che nella storia precedente, con l’appendice, eravamo arrivati all’estate del 45 d.C., ecco che questa nuova avventura si colloca nel novembre dello stesso anno. Con la consueta appendice che si posiziona subito dopo, durante l’inverno. In questo quinto episodio, poi, si va precisando la natura libertina del nostro Publio Aurelio Stazio, sempre presente sin dall’inizio, ma che qui comincia ad assumere connotati più precisi, dove il magistrato e senatore romano non si perita di portare nell’alcova le donne che riesce a incuriosire per la sua intelligenza (sempre) e per le sue ricchezze (spesso). L’altro punto di forza è la ricostruzione di un aspetto della vita dell’antica Roma. Qui, Danila ci spiega e fa partecipi del sistema di apprendimento dell’epoca (non direi del sistema scolastico, che forse è maggiormente complesso). Chi voleva apprendere a leggere e scrivere (“e sa legger di greco e di latino” come diceva Carducci) aveva due grandi strade davanti, a seconda anche della ricchezza della famiglia. Prendere in casa dei precettori (i ricchi) o affidarsi a delle “scholae” dove liberti e schiavi s’industriavano ad insegnare le materie di base. Notiamo anche che, nelle prime classi soprattutto, non c’era preclusione anche ad ammettere le bambine. In quest’ambiente si va consumando un nuovo dramma. Nella scuola del retore Arriano c’è una grande confusione: il retore s’è indebitato con l’usuraio Elio Corvino, e per sdebitarsi gli ha dato in moglie una delle sue figlie gemelle. L’altra cerca di studiare, poi si fidanza con il rampante Ottavio, che non disdegna, per far carriera, le attenzioni da “amasio” di Arriano. Scalzando dal ruolo direttivo della scuola il mite Panezio. Arriano non era nuovo ad amori “juvenilis”, tanto da subire anni prima causa da un giovane della gente Elia originario di Numana (nome antico di Ancona). Giovane che sparisce, ma un suo fratello si installa nella coorte di Corvino. In tutto questo intreccio di amori, soldi e gelosie, la gemella promessa sposa viene trovata morta. Collasso naturale nelle terme? Delitto? Girano lettere minatorie, e Aurelio, sollecitato dall’amica Pomponia, non si può esimere dall’indagare. Spinto anche dall’avvenenza della giovane sposa di Corvino, nonché dal suo astio verso l’usuraio, e dalla ancor piacente ex-maestra delle due ragazze, la matematica Giunia Irenea (laude alle donne coi numeri). Tra l’altro Arriano si apprestava ad adottare Ottavio, non avendo figli maschi cui lasciare il patrimonio. Seguiamo Aurelio nella sua inchiesta e nelle sue scorribande, dove si imbatte più volte in uno dei culti molto in voga in Roma ai tempi, quelli di Cibele. Di cui fa una interessante e corretta analisi a pagina 133 (dove l’autrice contraddice la disamina storica fatta da Tito Livio nei suoi “Annales”). Tra corse in lettiga, lezioni al giovane e promettente Manlio, ed altre amenità di contorno, fin da subito noi ed Aurelio nutriamo dei dubbi su chi sia Lucilla e chi sia Camilla. Dubbi che neanche portandosela nel suo cubicolo (per fare indovinate cosa…) Aurelio fuga. Visto poi che si sta prodigando verso il sesso debole, ha anche una breve storia con Irenea (che però alla fine preferisce far sodalizio con il maestro di scuola). Dopo che ci imbattiamo anche in alcuni accenni sui riti funebri dell’epoca, finalmente i nodi si sciolgono, e, come in un giallo di buona fattura, scopriamo tutti i come ed i perché. Quindi le avventure continuano nell’appendice (“Una perla per Publio Aurelio Stazio”) che come detto si svolge poco dopo il romanzo, con il nostro Aurelio che, per ritemprarsi delle conquiste femminili, va a riposarsi nella sua villa di Pithecusa (l’odierna isola di Ischia). Qui si imbatte nella strana storia di sei giovani (Melissa, Zena, Pilade, Attilio, Leucio e Cirno) che trovano una perla gigante, nascondendola proprio nelle rocce intorno alla villa di Aurelio. Dopo la morte di Leucio e Cirno, e la storia di Melissa, Aurelio imbastisce un grande banchetto dove invita anche Pilade (fuggito da Ischia poco dopo il ritrovamento), Attilio (prima in sollazzo con Melissa, ora attratto da Zena e dalla flotta del di lei padre) e Zena (che vuole Attilio per risollevare le sorti della flotta paterna, ormai alla bancarotta). In poche righe, utilizzando un sotterfugio sulla provenienza irpina di una certa droga, risolve il problema. Ed ovviamente si porta nel talamo la simpatica Melissa. Continuiamo a seguire gli scritti della storica Danila, sperando che continui ad illuminarci in vicende storiche romane. Come anche le citazioni, dove, seppur questo “lasciate stare i morti” non è calzantissimo, non posso che sottolineare la correttezza della citazione virgiliana che tutti riportano errata, mentre la nostra, giustamente, la iscrive come “audentes fortuna iuvat”. Anche se la trama generale dei suoi gialli non è proprio delle più avvincenti, continuo a seguirne gli scritti.
“Ho rinunciato a vivere in prima persona, per farlo attraverso i libri: così vedevo la realtà mediata dalla letteratura, e le passioni mi apparivano lontane e rassicuranti … non avvertivo emozioni, le leggevo” (89)
Danila Comastri Montanari “Spes ultima dea” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 28/11/2014 – I: 03/03/2016 – T: 06/03/2016] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 262; anno 1999]
Nuovo episodio delle storie romane di Danila, e nuovo plauso ai racconti che imbastisce la storica bolognese. Ribadisco anche qui la correttezza filologica delle sue ambientazioni ed il piacere di scoprire aspetti della vita della Roma antica. Non posso non di meno sottolineare che le parti investigative non sono sempre all’altezza, anche se in questo episodio la trama ha alcuni spunti da non sottovalutare. In questa storia, intanto, l’idea della scrittrice è di esplorare e farci vedere come si succedevano e quali erano i poteri in gioco nell’alternanza delle cariche. Ricordo inoltre, che le storie procedono linearmente, così che questa si sviluppa nel giugno del 46 d.C., dandoci anche modo di valutare con piacere il calendario romano come si sviluppa a poco meno di cento anni dalla riforma di Giulio Cesare. Ogni capitolo, qui ed in tutte le storie, prevede l’indicazione del giorno di svolgimento. Apprendiamo così che i romani facevano ruotare tutto intorno a tre “dies” particolari: le calende, le none e le idi. I giorni quindi venivano indicati come giorni mancanti a questi tre giorni (terzo giorno prima delle calende di giugno piuttosto che quarto giorno prima delle idi). Le calende erano il primo giorno del mese, le none il quinto o il settimo, le idi il tredicesimo o il quindicesimo (secondo la lunghezza del mese). Confrontando poi pagina 58 e pagina 62 apprezziamo la filologia della conta. C’è il terzo giorno prima delle calende di giugno, ed il giorno dopo è la vigilia delle calende. I romani contavano “giorni pieni”, per cui si conta il primo e l’ultimo giorno della stringa. Quindi non esisteva, nel computo un “secondo giorno prima di”. Secondo elemento, quella della vita pubblica. L’imperatore Claudio aveva ridato potere al Senato, e di conseguenza ai reggenti il potere civile e militare in sua vece, i consoli (sempre due per mitigarne le mire reciproche). Così vediamo, nelle more del racconto, come si faccia “lobby” per aver il titolo di console, come si debba ripagare chi favorisce l’elezione, ed altri nefasti atteggiamenti che ritroviamo, con immutata rapacità, anche ai giorni nostri. Fortuna vuole che il console sia in carica un solo anno, e non possa essere rieletto per almeno altri dieci. In questo scenario ben delineato, s‘intreccia la vicenda del libro, fornendoci anche alcuni ragguagli della gioventù del nostro Aurelio, quando giovane tribuno viene mandato da Seiano, il console che agiva in nome dell’imperatore Tiberio, nella selva teutonica, per portare ordini all’Undicesima Legione. Legione comandata da Quinto Valerio Cepione e da sua moglie Vera Claudina. Siamo nel 26 d.C. (anno in cui Tiberio inviò come prefetto in Giudea tal Ponzio Pilato), i germani sbaragliano il campo romano, dove Cepione è ucciso da una freccia, e Vera muore alla testa delle truppe. Si salva Aurelio, che torna a Roma a fare la vita che conosciamo da questi scritti. Saltiamo venti anni, ed arriviamo al mortale intreccio che si dipana nell’estate del 46. Dove viene ucciso Antonio, sodale di Aurelio tanto da vestirsi come lui ed essere ucciso, sembra, per questo. Ma Antonio ha una vita, seppur gaudente, incasinata. Ha un fratellastro, Tucullo, orafo e fortunato, una moglie, Balbina, che preferisce Tucullo a lui. Anche perché Antonio è impotente. Ma si adopera per ricattare a destra e a manca, sia con l’aiuto di Valeria, figlia del Cepione morto di cui sopra, sia con quello dell’etera Glafira. Il tutto complicato da Paolo Metronio (il console di cui sopra) che usa la moglie Citrulla per mettere in difficoltà sia Aurelio che Marco Valerio, fratello della Valeria di cui sopra, e dagli incendi che mettono in difficoltà i poveri dei quartieri degradati, costringendoli a lasciare le case e rifugiarsi oltre Tevere. Sia da Marco Valerio stesso che accusa Aurelio di aver sedotto la madre Vera venti anni prima. Un diabolico intreccio, dove si uniscono onori militari e poteri forti che tentano di stravolgere la vita della nostra città. Aurelio, sempre con l’aiuto del fido Castore, usando i pettegolezzi dell’amica Pomponia, ed il suo acume investigativo, riesce a risalire la china di un imbroglio durato appunto più di venti anni. Smaschera non solo i colpevoli, ma riesce a non infangare nomi illustri, elemento che l’imperatore Claudio terrà in conto. Investendo in finale di libro il nostro gaudente epicureo del titolo di console (seppur solo per un mese). Avendo già elencato tutti i lati positivi, chiudo qui, in attesa di nuove avventure.
“Odiava essere interrotto nei momenti di grande intimità, vale a dire quando era con una donna o con un libro.” (156)
Danila Comastri Montanari “Scelera” Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 8,40 euro)
[A: 13/07/2015 – I: 06/03/2016 – T: 09/03/2016] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244; anno 2000]
Dopo tanti plausi all’opera della scrittrice bolognese, eccoci al primo volume che non raggiunge livelli di sufficienza. Non che non abbia le solite caratteristiche di accuratezza, ma è spezzettato in quanto, come ci preannuncia il titolo latino, si parla di delitti (da “scelus, sceleris, …” della 3^ declinazione). Come avete capito, pur raccordati in unità di spazio e di luogo, abbiamo 3 racconti e mezzo, non un romanzo completo. Purtroppo, le ricostruzioni e le indagini di Aurelio, nel breve spazio di un racconto, non riescono ad avere quel respiro calmo e ponderato di un romanzo intero. L’unica nota veramente positiva è, al solito, il luogo (degno di quel mezzo libro in più), perché siamo nell’estate del 46, e quindi, come tutte le estati del nostro senatore, ci troviamo negli ozi di Baia. E spaziamo tra le ville di Baia, il caos di Pozzuoli, le bellezze di Capo Miseno, nonché le ostriche, allora abbondanti, del lago di Lucrino. Oltre alla “forma racconto”, altro punto invece che mi ha poco coinvolto è stato il mancato disvelare di altri momenti della vita romana. Qui abbiamo storie che si svolgono durante un banchetto e che mettono in luce alcuni aspetti della vita amorosa del tempo. Abbiamo storie che si svolgono alle terme, ed anche qui un po’ di sesso ed un po’ di corruzione. Storie che coinvolgono giovani, giovanette e soldi (motore di quasi tutte le storie del mondo). L’unico elemento per così dire nuovo, oltre alla ribadita multi-sessualità dell’epoca, è l’idea che una donna possa iscriversi nel registro delle “lupae” per poter sfuggire ai controlli sulla propria vita (ricordo che “lupa” era sinonimo di donna che si vende per denaro, e che se una donna libera, di qualsiasi età, aveva un rapporto consenziente con una persona che non fosse il marito, lei era adultera ed il tipo passibile di un processo per stupro). Nella prima storia si parla di sesso, con tal Aulo ucciso ed evirato in una stanzetta del suo bel palazzo in Baia. Subito sospette sono la moglie, una lupa nonché suonatrice di strumenti musicali e la sua protettrice (della lupa, non del morto). Ovviamente, visto che ci sono di mezzi i soldi dell’eredità non possiamo dimenticare anche Sesto, il fratello di Aulo. Tuttavia, il capitoletto si intitola alle Parche, che si sa sono tre, una per la nascita, una per la vita ed una per la morte. Ruoli che ben si adattano alle tre signore di cui sopra. Aggravato dal fatto di aver scoperto un luogo segreto da dove vedere gli amplessi amorosi di Aulo. Era la moglie gelosa dell’amante? Era la tenutaria che essendo anche “tribas” (sinonimo di lesbica per i romani) era gelosa dell’amante di Aulo? Era l’amante a seguito di richieste poche ortodosse di Aulo? O, fuori dai giochi, il fratello Sesto per questioni di soldi e carriera? Nella seconda storia abbiamo un capopopolo ucciso alle terme sotto gli occhi del nostro Aurelio. Un tribuno cui i non aristocratici davano il loro appoggio, e che i sodali di Aurelio, senatori e pretori, non vedono di buon occhio. Soprattutto il latifondista Cassio Albo, afflitto tuttavia da un figlio soprannominato “porcellino”, e pensate un po’ perché. Certo con Aurelio capiamo meglio il meccanismo delle terme, soprattutto quelle nuove del delitto, dove, prime nella storia, veniva fornito un servizio di custodia dei beni per chi si andava, nudo, a fare saune ed altre attività. Aurelio si mette subito in contrasto con Cassio, ovvio mandante dell’omicidio, mettendolo da parte attraverso ricatti al suo porcellino. Ma chi è l’esecutore? Lavinia la guardarobiera? Stephanon il promesso di Lavinia, troppo indulgente verso gli amori mono-sex? Pullo liberto di Cassio, le cui sorelle erano ancora schiave? Fufidio il sodale del morto, stanco delle sue lotte “sindacali”? Il terzo è invece subito “scoperto” dall’infausta quarta di copertina, dove si parla di pedofilia. Ora, scompare la quattordicenne figlia dell’ammiraglio della flotta Lampronio. E già pensiamo di sapere come possa finire. Si ritrova il corpo di Faustina, una ragazza con tre dita del piede amputate. Poi si ritrova anche il corpo della scomparsa Lelia, con la stessa amputazione. La nostra Danila la mena di qua e di là, ma già pensiamo come possa finire la storia. O Lampronio, in un impeto di amori giovanili (e sappiamo che era dedito a fanciulle non ancora in fiore) va al di là del lecito con Faustina (o con Lelia), le uccide e Lelia (o Faustina) vede tutto e deve subire la stessa sorte. O c’è una vendetta che viene da lontano, qualche parente di una giovane con cui si trastullava Lampronio anni prima, mettendola incinta e facendola morire di parto (che aveva solo dodici anni). Il mezzo racconto è invece incentrato su un gioco matematico che avrebbe fatto sorridere il mio amico Ennio se glielo avessi proposto. L’anziano Perpenna muore ucciso da uno dei suoi nipoti, che il padre, per mancanza di fantasia, aveva chiamato Primo, Secondo, e così via sino all’ultimo nato Decimo. Perpenna, prima di morire lascia su una tavoletta i seguenti numeri:

VI
VIII
X
XX
IV
III
IV
V
?
VIII

Tutti pensano che la soluzione dell’enigma (che indica chiaramente l’assassino) sia “10”, ed accusano Decimo. Si vede facilmente che non lo è. Ed ho capito anch’io la soluzione, visto che siamo in ogni caso a Roma, dove ovviamente si parla latino. Capite bene, una serie di storie slegate, poco spazio per imbastire trame che si complichino durante lo svolgimento. Un po’ di indulgenza verso gli amori muliebri di Aurelio. Questa la sintesi estrema di un libro di passaggio, cioè poco riuscito. Ma si sa, chi scrive può avere dei passaggi a vuoto. Prima o poi ne parlerò, sull’onda di qualche libro che si legge ora.
Danila Comastri Montanari “Gallia est” Mondadori euro 9,90 (in realtà, scontato a 7,43 euro)
[A: 18/03/2015 – I: 03/04/2016 – T: 06/04/2016] - &&& 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 272; anno 2001]
Fortunatamente torniamo ad un romanzo completo e non a dei racconti, ed il tono sale subito. Certo non si allontana da una più che onorevole sufficienza, che, soprattutto verso la fine, c’è un po’ di confusione in tutti i sottofinali che la nostra scrittrice imbastisce. Ma la storia nel complesso regge. Come regge, molto bene, anzi è uno dei punti di forza, l’ambientazione. Siamo infatti di nuovo lontano da Roma. Ma non nei blandi rifugi campani, bensì nella nostra Provenza, all’epoca chiamata Gallia Narbonese. Non è quindi un caso che nel titolo si richiami l’inizio del “De Bello Gallico” di Cesare (“Gallia est omnis divisa in partes tres”). Tra l’altro la Gallia Narbonese, già romana ben prima di Cesare, era dai romani chiamata “Provincia Nostra” o semplicemente “Provincia” che ben presto diventerà, come si vede facilmente, “Provenza”. Unico punto di raccordo da tenere a mente con il precedente, è la sempre coerente successione temporale: dopo l’estate delle morti a Baia, ora siamo nell’autunno del 46. Periodo in cui l’imperatore Claudio si appresta a far entrare in Senato anche uomini provenienti dalle province. L’anno successivo infatti, ammetterà al Senato propri i Galli Comati (il nome deriva dai lunghi capelli che portavano appunto i Narbonesi). Ma Claudio vuole far passare la legge allargando la base di consenso, e quindi spedisce suoi emissari in Gallia. Uno di questi è proprio il nostro Aurelio. Che se da una parte dovrà trovare il modo di fare il politico, dall’altra, al solito, verrà invischiato in una vicenda di morti da sgarbugliare. Danila è abile nel tessere la sua trama da storica romana, senza commettere errori, non solo, ma trasportandoci e facendoci vivere la romanità lontana da Roma. In quei posti (a me cari per i pittori che vi vissero più di 1800 anni dopo, da Van Gogh a Cézanne, tanto per essere chiari) che risuonano con i loro nomi evocativi: Lugdunum, Arausio, Avenio, Nemasus, Glanum, Aquae Sextiae ed Arelate. Cioè, per chi non fosse avvezzo al latino, Lione, Orange, Avignone, Nimes, Saint-Rémy-de-Provence, Aix-en-Provence e Arles. Tra queste città, ma soprattutto ad Arelate, si svolge la storia, ed anche la Storia. Quella che vede i romani doc contrapporsi ai “nuovi ricchi”, con gli scontri tra Galli inurbati con la toga e Galli rispettosi delle tradizioni con le “bracae” (i calzoni, cioè, che lì l’inverno fa freddo), con le corse che vedevano gli aurighi delle diverse fazioni dannarsi per portare i ludi dalla propria parte politica, con gli amministratori che (ma che strano…) depredavano i poveri, arricchendosi alle spalle dello Stato. Un ultimo tocco di Storia, lo abbiamo anche con l’accenno di un giovane che parte per diventare segretario di un signore comasco, scrittore di grande avvenire. Il comasco non è altri che Plinio Cecilio Secondo, all’epoca ventiquattrenne, ma da noi conosciuto con il nome di Plinio il Vecchio. Con un piccolo dubbio, perché a me risulta che proprio nel 46, Plinio entra nell’esercito come ufficiale di cavalleria e partecipa alla conquista di una remota regione germanica al confine con l’attuale Belgio. Ma torniamo alla storia, quella minuta, dove vediamo morire, strangolato e poi bruciato, Irzio, uno dei capi dei conservatori ma in procinto di cambiare casacca per sostenere Claudio. Delitto politico o no? Irzio stava per divorziare da Elvia Valentina, figlia sciacquetta di Elio Valente, il più romano dei Galli. Tanto che era anche dedito ad usura e lenocinio, ed altre turpitudini. In contrasto con Artige, tanto che del delitto ne viene accusato il figlio di questi, Romolo. Ed è proprio dallo scontro delle due famiglie, i Valente e gli Artige, che si ciba il romanzo. Condito dal peperoncino sia degli incontri amorosi di Aurelio che dalle furberie del suo segretario Castore. Aurelio si fa irretire da Varinia, nuora di Artige, ma anche da Valentina, che usa le sue doti femminili anche per coprire il debole fratello Lucio. Castore non si perita poi di travestirsi da druido per seminare un po’ di panico tra le varie fazioni, ma anche per fare collette tutte a suo beneficio. Non è un caso che l’imperatore, sempre l’anno seguente, metterà al bando anche la casta dei Druidi. Vi lascio la voglia di scoprire tutti gli intrighi che insorgono: Romolo che fugge a Glanum dalla bella Artemisia, che si fa arrestare da Aurelio, che mentre si trova in prigione vengono uccisi, strangolati, e poi sottomessi ai supplizi druidici dell’acqua e dell’impiccagione, sia Scauro, un agricoltore che forse sa qualcosa, sia lo stesso Valente. Aurelio troverà il bandolo della matassa ricorrendo ad uno stratagemma quando si accorge che nella famiglia di Artige, sia la moglie Eufemia sia lo stesso Romolo, sono affetti da un difetto della vista. Sono daltonici, anche se Dalton battezzerà questo difetto solo nel 1794. Fatto sta che hanno difficoltà con il verde (difetto ora chiamato “deuteranopia”) tanto che il capostipite di lato materno era un druido di nome Voconzio Occhiogrigio. Ma tanti sono gli intrecci nel finale. Si scopre che Irzio, una quarantina di anni prima, aveva avuto una figlia fuori dal matrimonio, che Eufemia vuole più bene a Romolo che alla sua stessa vita, che Lucio è un po’ effeminato, che il barbiere di Aurelio è un po’ gay, e tanti altri intrecci, che mi hanno fatto dire appunto all’inizio, che ci si perde un po’ in tutti questi finali. Resta il piacere di una piccola immersione nel mondo romano, piacevole appunto, anche perché, sempre, ben documentata. E voi sapete quanto io sia pignolo!
“Anche le menzogne più sfacciate, se ripetute centinaia di volte da chi ha i mezzi per farsi sentire, si trasformano fatalmente in verità nelle orecchie poco avvedute. Così, gli inquisitori finiscono per diventare inquisiti e gli innocenti colpevoli…” (195)
Siamo alla seconda domenica del mese, quindi, come ormai sapete, vi trovate tra capo e collo anche un bell’allegato, dedicato alla fatica di alzarsi il lunedì mattina, ed all’aiuto che ci può dare in questo sforzo inane … Virginia Woolf.
Ed intanto continuiamo a progredire in questo ottobre pieno di feste, compleanni, impegni e pensamenti, in attesa di ricapitolare i fili dei nostri discorsi. Quindi leggendo e girando, camminando e sudando, vi saluto.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OTTOBRE 2016
Un augurio di benessere a tutti i miei amici che, lavorando ahi loro, hanno sempre problemi a carburare il lunedì mattina. Seguiamo i consigli delle nostre amiche, ma ricordate, tutto dipende da voi, e non dai fiori che non comprerete.

LUNEDÌ MATTINA, MALESSERE DEL

Virginia Woolf     “La signora Dalloway”
Se pensare al lunedì mattina vi fa sentire condannati, se quando vi svegliate avete il peso di una montagna che preme sul petto, tiratevi su con la prima pagina (o anche le prime due, o tre, se poi non riuscite a smettere) de “La signora Dalloway”. Con questo capolavoro, infatti, Virginia Woolf inventò un nuovo modo di scrivere per catturare i pensieri in continuo mutamento e la vitalità che scorre nelle vene di una donna mentre vive, momento per momento, una giornata di giugno nella Londra che ama, dopo la fine della guerra. Si tratta, in realtà, non di un lunedì ma di un mercoledì, e la signora Dalloway sta organizzando una festa per la sera.
Decide di andare lei stessa a comprare i fiori. Fate attenzione, scansafatiche del lunedì. Anche voi potreste assumervi la responsabilità di fare qualcosa - qualcosa di piacevole, qualcosa di sensuale - che normalmente lascereste a qualcun altro. Questo pensiero vi aiuterà a scendere dal letto. Mentre finite la colazione, godetevi l’esuberanza della signora Dalloway - Clarissa - e i suoi pensieri cristallini («Che allodola! Che tuffo!») e seguite la lunga e tortuosa riflessione che segue, curvandosi nel tempo, raccogliendo suoni e rumori: «Perché così le era sempre sembrato quando, facendo cigolare i cardini, come adesso, aveva spalancato la porta-finestra per lanciarsi all’aria aperta, a Bourton». Che frase! Non udite anche voi quel cigolio, non sentite le porte che cedono alla vostra spinta, non gustate quell’aria fresca e pulita?
Dopo, accogliete dentro di voi attraverso gli occhi e la mente l’amore e il desiderio per la vita di Clarissa. Immaginatevi nel suo corpo ben proporzionato, simile a quello di un uccello, leggero, elastico, dal portamento eretto mentre, ferma sul ciglio del marciapiede, si prepara ad attraversare la strada. Notate il «silenzio particolare», la «pausa indescrivibile» che fa ogni cosa prima dei rintocchi del Big Ben. Siate consapevoli, come lei, della presenza della morte - del fatto che tutte queste persone che vanno di qua e di là un giorno saranno solo ossa e polvere - e portate con voi questa consapevolezza durante la giornata. Lasciate che vi aiuti a sfruttarlo al meglio, il vostro lunedì.
Poi (facendo attenzione, prima, a guardare a destra e a sinistra - non vogliamo che sia l’ultimo dei vostri lunedì e a questo punto, speriamo, non lo vorrete nemmeno voi) attraversate. E … perché no? Andate a comprare dei fiori.

Bugiardino

Non ho mai amato particolarmente la signora Woolf né il suo gruppo di intellettuali londinesi. Comunque ebbi tempo (se guardate bene ben 7 anni fa) di leggerne in lingua, e devo dire che l’inglese rotondo, forbito, che ti accarezza parola dopo parola, è una bella sensazione di lettura. Purtroppo non confortata dal risultato testuale che, come leggerete qui sotto, non mi ha particolarmente coinvolto.
Virginia Woolf “La signora Dalloway in Bond Street e altre storie” Repubblica Short Stories euro 4,50
[trama pubblicata il 1 marzo 2009]
Che dire? Si sa che nella scrittura della Woolf in pratica non succede niente. Così è in “Miss Dalloway in Bond Street” e “The Lady in the Looking-glass”, forse un po’ meno in “The Duchess and the Jeweler”. Si sta lì a seguire i pensieri avanzare sulla carta, a vedere le frasi formarsi con la casualità del pensiero. Quanto lavoro dietro a ciò, quanta bravura. Ma poi, poi mi rimane poco. La passeggiata della signora Dalloway, con i pensieri tra la da poco finita guerra, i passanti, il vigile, la commessa. Il gioielliere che cerca (trova?) il modo per far fare uno scatto di qualità alla sua vita (ma se per lui la qualità è il denaro, quale sarà lo scatto agognato?). Forse solo quelle lettere sul canterano, che aspettano il ritorno della vecchia signora che le leggerà, e che la casa spera siano racconti di viaggio, ma forse son solo conti e fatture. Tristi fotografie di un mondo triste. Apprezzo fino all’ultima riga il suo inglese, e l’ho letto e riletto perché scorre, significa, si sente vivo. Ma non c’è la cupa angoscia di “Una gita al faro” o di altre prove dove la lunghezza non serviva per allungare il brodo (ah ah) ma per arrivare a quella misura di equilibrio, per far uscire dalla pagina il sentimento, così come traspare dalle cose e dai pensieri, senza l’intervento diretto dell’autore deus ex-machina. Insomma, qui ritorna il mio dilemma sulla difficoltà (assolutamente personale) di star dietro alla dimensione racconto. Ed al mio ritorno, appena si può, alla lettura almeno del romanzo breve, se non al tomo indigeribile. Interlocutorio.

Conclusioni

Non sono così propenso ad indicare Virginia come rimedio ad una letargia latente. Il mio consiglio, più che di lettura, è di vita. Basta avere, il lunedì mattina, una signora Elisabetta che viene a rivoltarvi casa, ed una palestra vicina che accoglie le vostre fatiche. Vedrete come cambia la settimana (e forse la vita?).

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