Questa volta, pur rimanendo nell’ambito delle
collane di Repubblica, ci dedichiamo ad alcune pubblicazioni del breve ciclo “Noir
Junior”. Dove cominciamo un po’ zoppicando, pur apprezzando il primo scritto di
quello che diventerà un mago di best-seller. Poi saliamo con alcuni autori
italiani dalla penna facile e dal bell’intreccio, nonché con il recupero di
quel detective Blomqvist della mamma di Pippi Calzelunghe.
Ken Follett “Il mistero degli studi Kellerman” Repubblica Noir Junior 2
euro 6,90
[A: 27/07/2015– I: 11/11/2015
– T: 13/11/2015] - &&+
[tit. or.: The Secret of Kellerman’s Studio; ling. or.: inglese; pagine: 120; anno 1976]
Prima
lettura di questa “veloce” collana di Repubblica dedicata ai gialli per un
pubblico adolescente (direi under 15). Lettura dedicata ad un grande della
letteratura mystery o d’azione, qui al suo secondo lavoro, pubblicato a 27
anni, e con lo pseudonimo di Martin Martinsen, non avendo avuto ancora modo di
“sfondare” verso il grande pubblico, cosa che succederà solo due anni dopo con
“La cruna dell’ago”. Considerata un’opera minore nella produzione di Follett,
ha tuttavia alcuni elementi della sua produzione futura che non sono male. Come
non lo è se letta con gli occhi del pubblico cui è diretta. Atteggiamento che
ho cercato di assumere nella lettura. Tuttavia, pur nella ricerca di elementi
positivi, il risultato trovo sia inferiore alle attese. La trama, come si
addice ad un “libro per ragazzi”, è molto lineare. Nei sobborghi occidentali di
Londra, a Hincley, vive Mich, ragazzo povero e collezionista di articoli di
giornali riguardanti una banda di ladri, che da qualche tempo, compie rapine in
tutto il paese. Mich abita con la madre in un palazzo da cui li vogliono
sfrattare. Casualmente incontra un ragazzo di nome Izzy, ragazzo
"ricco" con un padre che lavora nel campo dello spettacolo e
diventano amici per la pelle. Un giorno vogliono esplorare dei vecchi studi
cinematografici, nei quali aveva lavorato il padre di Izzy, gli studi
Kellerman. Durante la visita, i due ragazzi scoprono che gli studi sono il
luogo dove una banda di ladri nasconde la refurtiva che un furgone, ogni
venerdì sera, trasporta fuori città. Con l'aiuto dei ragazzi la polizia arresta
i ladri recuperando la refurtiva. Il dipartimento di Hincley assegna la
ricompensa ai due giovani. Gli studi vengono riaperti, dato che il capo della
banda li aveva chiusi dicendo che non erano più a norma di legge e aveva dato
lo sfratto a chi abitava nelle case intorno, compresa quella di Mich, per
costruire un albergo. Con l'arresto del boss, Mich e sua madre possono riavere
la loro casa e pagare tasse e debiti arretrati. Il padre di Izzy torna a lavorare
negli studi Kellerman. Seppur lineare, il libro mette in evidenza alcuni tratti
del Follett maturo, soprattutto la caratterizzazione dei personaggi di
contorno. In pochi tratti, oltre a Mich e Izzy, sono ben descritti almeno una
decina di comprimari. Sempre per il carattere adolescenziale del libro, non
possiamo che aspettarci il lieto fine, anche se questo avviene in maniera un
po’ affrettata, lasciando poco spazio ad una reale comprensione degli ultimi
avvenimenti, come ci si aspetterebbe per una “spy-story”. L'estate, l'amicizia,
i giri in bici, i problemi dei grandi, che sono di riflesso anche i problemi
dei ragazzi, la voglia di curiosare dove non si dovrebbe con quella sensazione
sottile di essere in procinto di scoprire qualcosa, per diventare di
conseguenza eroi. E tutto questo, in questo libro, è sommato al gradevole
"trucco" di non far comprendere ai protagonisti quello che subito è
chiaro a chi legge. Ho letto molto della successiva produzione di Follett, in
particolare quello che ritengo per me il suo miglior libro, “I pilastri della
terra”. Tuttavia anche in questa escursione giovanile apprezziamo il piglio
sicuro della sua scrittura, riuscendo ad imbastire, in poche pagine, una storia
accattivante, piena di quei particolari che apprezzavo nelle mie letture
giovanili, e che lasciano un gusto piacevole anche in questa lettura matura.
Vedremo che ne sarà degli altri libri della serie.
Mikaël Ollivier “Fratelli di sangue” Repubblica Noir Junior 8 euro 6,90
[A: 07/09/2015 – I:
24/04/2016 – T: 24/04/2016] - &&
[tit. or.: Frères
de Sang; ling. or.: francese; pagine: 124; anno 2003]
Seconda
lettura dei Noir Junior, e seconda delusione. Forse leggermente mitigata dalla
mia non conoscenza dell’autore. Per cui non mi aspettavo cose strabilianti. Ed
infatti non le ho avute. Infatti, nella prima lettura ho affrontato Ken
Follett, di cui conosco bene libri e scrittura. Per cui si poteva parlare del
libro, della sua resa e dello stile. Qui, invece, entriamo in pieno nello stile
di scrittura dedicato ad una giovane fascia d’età, senza nessun preconcetto su
come possa scrivere d’altro il francese Ollivier. Devo dire che, anche se sono
ben lontano da quella fascia di lettori, non mi è piaciuto l’approccio che
l’autore dà al romanzo (direi romanzo breve più che racconto). C’è da un lato
una sorta di accondiscendenza verso il giovane lettore: sei giovane, non sei
abituato a leggere, magari uso un linguaggio più semplice. Dall’altro, c’è
l’affrontare una problematica che tende “alla King”, cioè cerca effetti e vuole
costruire situazioni che non dico mettano paura, ma inquietino leggermente chi
affronta con leggerezza la lettura. Ad esempio, l’attacco dove il protagonista
(il libro è in soggettiva) dice che si sta rimettendo da una vicenda che lo ha
duramente provato, nel fisico e nel morale. Motivo per cui, il giovin lettore
per tutto il tempo sta sul chi vive, aspettando qualche possibile catastrofe.
Ma allo stesso tempo, il fatto che Martin ne parli, significa che, in qualche
modo, la situazione è stata risolta. Il nodo misterioso che si pone al centro
della storia è l’ingarbugliata trama che avvince la famiglia Lemeunier,
composta appunto da Martin, studente liceale, da Brice, suo fratello
diciannovenne iscritto ad una scuola di cinema, e dai loro genitori Pierre, neurochirurgo,
e Nadège, pubblicitaria. Durante una normale cena, irrompe la polizia che
arresta Brice, accusandolo di cinque delitti. Cinque persone che Brice aveva
incrociato nella sua vita. Cinque persone che, in qualche modo, gli avevano
fatto del male: una ragazza che lo aveva deriso in pubblico, un professore che
lo tartassava, una seconda ragazza di cui era innamorato e che lo ha lasciato
per un altro, quest’altro con cui lei se n’è andata, uno dei registi della
scuola di cinema che aveva parlato in termini molto negativi della prima prova
di regia di Brice. Ovviamente Brice dice di essere innocente. Ovviamente Martin
è dalla sua parte. Ovviamente tutti gli indizi sono contro il fratello, tanto
che anche i genitori vacillano. Ovviamente c’è un ispettore che indaga,
mantenendosi neutrale, ma seguendo da vicino cosa sta elucubrando Martin. A
questo punto il lettore smaliziato comincia a fare delle ipotesi: a) Brice è un
fine mentitore ed è lui l’assassino (questo pur plausibile scenario va contro
il discorso giovanile dell’amore fraterno); b) Martin è l’assassino geloso dei
successi del fratello (molto probabile, in linea con una tradizione orrorifera
da King alla Christie, poco consolatoria per il lettore); c) c’è un altro
fratello nascosto (soluzione trasversale che mette in salvo i fratelli ma
inguaia la famiglia). Tutte e tre le ipotesi poi sarebbero in linea con il
titolo del libro. Dato che uno dei corpi è stato sepolto in giardino, Martin si
persuade che ci deve essere un complice tra i giardinieri. Scopre ben presto
che uno dei quattro è introvabile. Senza dire nulla alla polizia scopre
l’esistenza della madre del giardiniere, rinchiusa in un ospedale psichiatrico.
E scopre altresì questo fantomatico Loïc, dropout allo sbando che vive in una
roulotte in un campo abbandonato. Perché, dimenticavo, siamo nella provincia
francese, e la casa di Martin è in un circondario tipo Olgiata, con controlli
di entrate e uscite. Il finale è convulso, noi siamo ancora combattuti tra
quali delle tre soluzioni sia possibile, anche se la comparsa di Loïc ci
indirizza verso uno dei più probabili scenari. Che, nonostante gli sforzi di
Martin, sarà l’ispettore a risolvere. Ma continua a non essere un libro
“junior”, che abbiamo: padre fedifrago e mentitore, amante del padre impazzita,
figlio naturale fuori di testa, figli legittimi traumatizzati e angosciati da
incubi per il resto della loro vita. E uno dei tre quanto meno all’ergastolo.
Purtroppo una vicenda così intricata, non è sorretta da una scrittura adeguata,
né per un pubblico adulto né per uno adolescente. Troppo semplicistica per gli
uni, troppi inutilmente ansiogena per gli altri. Insomma, una collana che dopo
le due prime letture non si presenta certo al meglio.
Alessandro Gatti & Pierdomenico Baccalario “Non si uccide un grande
mago” Repubblica Noir Junior 9 euro 6,90
[A: 14/09/2015 – I: 28/04/2016 – T: 28/04/2016] - &&&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 154;
anno 2009]
Questa
terza lettura di Noir Junior comincia a risollevare le sorti della serie, e ne
sono contento: è migliore delle precedenti, più fresca, e, non guasta certo,
italiana. I due autori, quarantenni piemontesi, sono specializzati in
letteratura per ragazzi, avendo scritto un’ottantina di libri a testa, di cui
una ventina in collaborazione. Si nota la mano, la spigliatezza e l’allegria
che tali scritture devono portare con sé per essere ben accettati dal pubblico
giovanile. In particolare hanno scritto 7 romanzi per un ciclo denominato “I
gialli di vicolo Voltaire”, di cui questo è il secondo episodio. L’impianto
ricalca alla lontana “Il club dei Vedovi Neri” di asimoviana memoria, un
circolo di appassionati che si dedica alla risoluzione di misteri. Ovviamente,
nel tono giovanile della scrittura. L’ambientazione è parigina, appunto in rue
Voltaire, dove viveva il grande detective Gustave Darbon, che, morto, lascia la
sua casa agli appassionati del mistero. Casualmente, molti inquilini dello
stabile si appassionano ai misteri, accomunati dall’amore per il grande
scrittore King Ellerton. In primo piano i due “ragazzini”, i fratelli Gaillard,
Annette e Fabrice detto Fabò; e poi Lalou, sedicenne del Mali mago del
computer, Janvier, avvocato in pensione, Bardouchon junior, il giovane
fondatore del club, sua madre, fornitrice di pettegolezzi e meravigliose torte,
e Victor, il postino dall’oscuro passato. Durante questo secondo episodio, per
necessità di trama, viene cooptata anche Valentine, la madre dei due ragazzi.
Dato che, oltre che madre, è sposa di Jean-Paul, commissario di polizia. Ovvio
che se serve risolvere un mistero bisogna essere vicini alla fonte. Inoltre il
commissario ha un maldestro aiutante, Pasquiat, utile per reperire informazioni
altrimenti inarrivabili. Intanto, trovo ottima la descrizione ambientale, sia
di Parigi che dei movimenti del club per la città. Non sarà sempre reale, ma è
di sicuro quanto un giovane lettore si aspetta leggendo della città della Torre
Eiffel. Il mistero questa volta nasce dal tentativo di uccidere il più grande
mago vivente, il grande Offenbach. Tentativo avvenuto durante la riunione
annuale dei maghi all’Hotel Étoile. Un po’ alticcio, dopo aver litigato a lungo
con il suo rivale, il Sensazionale Renard, Offenbach esce in strada, dove viene
colpito alla testa da un grande vaso d’alabastro, lasciandolo in fin di vita. I
nostri appassionati giallisti di vicolo Voltaire sono subito presi dal mistero,
anche perché Lalou era un fanatico del mago, alcuni anni prima. I sette si attivano,
ma soprattutto Victor e Janvier. Anche perché Victor conosce il cuoco
dell’albergo, e tramite lui i nostri vengono a sapere della lite, della
scomparsa di un portafoglio, nonché della sparizione di un cameriere. Lalou
prova ricerche al computer, senza venirne fuori. Sarà ancora Victor, tramite il
cuoco, che porta Annette e Fabò alla scoperta della scomparsa anche di un
vecchio frac, appartenente al cameriere. Qui interviene Janvier, che, tramite i
suoi contatti nel mondo giudiziario, ricostruisce la storia del cameriere.
Appena uscito dopo quindici anni di prigione per un furto in una gioielleria di
cui si professa innocente, ma dove viene incastrato dalla testimonianza della
dodicenne Isabelle. Annette e Fabò, complici i documenti sbadatamente lasciati
in giro da Pasquiat, risalgono anche all’indirizzo dove l’ex-carcerato si recò
quella sera. Vestito del frac, suo unico indumento in quanto mimo di strada, ed
avendo solo quello o la divisa da cameriere. Lì i nostri incontrano una signora
non ancora trentenne con ecchimosi sul viso. Pensano che sia Isabelle, ma
questa dice che Valentine da alcuni anni si è trasferita in Australia, vendendo
a lui e a suo marito la casa. Marito anch’esso nel frattempo scomparso. A
questo punto la trama è ben svelata, il mistero abbondantemente risolto, salvo
alcuni particolari che lascio ai miei curiosi lettori. Ritorno solo
sull’allegria che sprizza dalle pagine: le torte della signora Bardouchon, le
crêpes del Petit Canard (rigidamente al cioccolato), la simpatia di mamma
Valentine (che porta i nostri allo spettacolo di Renard e poi all’ospedale da
Offenbach), la tristezza del declino del mago per una delusione amorosa, la
verve di Lalou per far tornare il sorriso al mago (ed a noi). Insomma, una
confezione ben fatta, con quel tanto di mistero che si segue con piacere, con
quei tocchi di vita reale che non guastano (delusioni amorose, false
testimonianze, galeotti redenti). Forse carente solo nelle scoperte finali per
la soluzione dell’enigma, ma è un peccato decisamente veniale.
“Non ho il televisore e amo rilassarmi
leggendo un libro con la musica in sottofondo.” (88)
Astrid Lindgren “Kalle Blomqvist, il grande detective” Repubblica Noir
Junior 3
[A: 03/08/2015 – I: 01/05/2016 – T: 03/05/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: Mästerdetektiven
Blomqvist; ling. or.: svedese; pagine: 172; anno 1946]
Come ha detto ultimamente il
grande critico Harold Bloom, tutti gli scrittori degni di questo nome sono
morti. Ed eccoci qui, ad un nuovo capitolo del Noir Junior, ha onorare la
memoria di una grandissima scrittrice per i giovani. Certo, Astrid è meglio ed
universalmente nota per Pippi Calzelunghe (dall’originale Pippi Långstrump), ma
tanti sono i suoi contributi a questa parte di letteratura che, quanto meno,
può servire ad avvicinare giovani (e meno giovani) al grande mondo della parola
scritta. Tra le tante serie scritte dalla simpatica svedese (morta nel 2002 a
soli cinque anni dal festeggiamento del suo centenario), una, corta ma di molta
presa in Svezia ed all’estero, è questa dedicata al giovane Kalle Blomqvist,
alla sua passione per l’attività di detective, ed ai suoi giovani amici Anders
ed Eva-Lotta. Personaggio a me caro per motivi extra giovanile, quando ricordo
di aver scoperto l’omaggio che il compianto Stieg Larsson faceva alla Lindgren,
chiamando il personaggio centrale della sua trilogia Michael Blomqvist, per
pochi intimi Kalle (soprannome da lui sempre odiato), ed assonando Lizabeth
Salander con Lotta Lisander. Qui invece Kalle è il centro ed il fulcro della
storia. Un dodicenne curioso, innamorato delle grandi storie di investigazione,
che cerca misteri anche nella piccola cittadina di provincia dove vive, anche se
non è lontana da un qualche grande centro. Qui Kalle, oltre a sognare i grandi
misteri, come tutti i ragazzini della sua età, essendo per di più estate, si
inventa giochi con i suoi coetanei. In particolare con il figlio del calzolaio
Anders e la figlia del fornaio Eva-Lotta, costruisce la banda della Rosa
Bianca, in lotta con gli acerrimi nemici della Rosa Rossa (Sixten, Jan e
Benka). La tranquilla andatura estiva, tra giochi, lotte e ciambelline, viene
interrotta da due avvenimenti: l’arrivo di Einar, zio di Lotta, e la decisione
della Rosa Bianca di allestire un circo per passare il tempo. La parte
giovanile della scrittura si dedica abbastanza all’inventiva dei ragazzi, ma
ben presto siamo tutti risucchiati da Kalle. Primo perché tutti quanto vanno a
visitare la rocca della cittadina, dove entrano quando zio Einar apre la porta
con un grimaldello. Poi dai sospetti di Kalle (perché una persona per bene
possiede un grimaldello?), che nottetempo prende le impronte di Einar e le
invia alla polizia. Infine, per l’arrivo di due loschi figuri in città, che
sembrano dare la caccia propria ad Einar. Kalle non si confida con la Rosa
Bianca e comincia a seguire di nascosto Einar. Gli ruba anche il grimaldello, e
quando legge sul giornale locale di un furto di gioielli, si persuade che Einar
è coinvolto. Allora, con Anders e Lotta rivolta tutta la rocca, fino a trovare
i gioielli famosi ed a portarli in salvo nella loro tana. Vorrebbero andare
alla polizia, ma l’agente loro amico è fuori. Sfortunatamente rimandano, ma
sono travolti dagli avvenimenti. I loschi figuri scovano Einar, i nostri
assistono allo scambio di accuse tra i tre, e capiscono che sono tutti
coinvolti. I cattivi sequestrano Einar, ma non trovano i gioielli
(fortunatamente spostati da Kalle). Ma quando Kalle ed i suoi liberano Einar, i
tre cattivi si fanno dire il nuovo nascondiglio, ed a loro volta rinchiudono i
nostri nella rocca. Ci si avvia al convulso finale, sempre giocato sul filo
della suspense di buona fattura (per non allarmare i piccoli). Kalle trova un
secondo passaggio per uscire dalla rocca, i nostri vengono allora ritrovati dai
poliziotti, messi sulle loro tracce da quelle impronte inviate da Kalle, e
tutti insieme inscenano una grande cora in auto per rincorrere i banditi in
fuga. Ovviamente saranno presi, ovviamente i ragazzi faranno una bella figura,
ovviamente su tutti, gli allori andranno al Grande Maestro degli Investigatori,
il nostro Kalle. Per essere uno scritto che ha ben settanta anni si porta bene,
non ha sbavature, si legge gradevolmente. Pieno anche di piccoli consigli ai
giovani, magari ingenui oggi, ma che sarebbero sempre ben accetti se fossero
seguiti. Tipo “l’onestà viene sempre ripagata” o “non si guadagna niente a
contravvenire alla legge”. Frasi che stamperei a caratteri cubitali sulla
fronte del 95% delle persone pubbliche presenti in Italia. E non pensate che
queste di Astrid siano parole gettate al vento. Il protestantesimo scandinavo,
unito ad un sano buonsenso, per anni ha fatto rigare dritto una società, che
poteva avere mille magagne di diverso tipo, ma che ho sempre visto e conosciuto
per il rispetto reciproco presente in ogni azione. Tanto che a volte ce n’è
forse troppo, rasentando una sorta di isolazionismo o individualismo, ai limiti
dell’autismo conviviale. Fatto sta che prenderei questo romanzo breve e lo
porterei ad esempio ed analisi per una scrittura divertente, non banale, a
volte anche utile.
Irene Adler (Alessandro Gatti) “Il trio della dama nera” Repubblica
Noir Junior 5 euro 6,90
[A: 14/09/2015 – I: 30/05/2016 – T: 01/06/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 204;
anno 2011]
Alessandro
Gatti è molto attivo nel campo dell’editoria giovanile, come ho già detto.
Parallelamente ai “Gialli di Vicolo Voltaire” ha sviluppato questa serie, detta
del trio, o dei tre amici. Utilizzando come pseudonimo il nome di Irene Adler,
la bella del racconto di Conan Doyle “Uno scandalo in Boemia”. Dove, per i non
aficionados del detective di Baker Street, si scopre che è l’unica donna ad
aver battuto il nostro Holmes. Data la sua forte presenza, Irene scatenò una
ridda di episodi apocrifi, il migliore dei quali è nella biografia fantastica
di Holmes scritta da William Baring-Gould, ove si narra che i due ad un certo
punto diventano amanti, e dalla loro unione sarebbe nato un figlio, che,
crescendo, avrebbe seguito le orme paterne con il nome di … Nero Wolfe.
Stupendo. Qui, Gatti invece si inventa una possibile conoscenza giovanile tra
Irene e Sherlock, che, per accidenti del caso, si incontrano in quel di
Saint-Malo dove sono in vacanza. E dove si unisce a loro per completare il trio
un giovane francese, di poco più grande (un paio d’anni, forse), tale Arsène
Lupin. Gatti ha prodotto ben 14 libri di questa serie che viene etichettata
dalla casa editrice Piemme presso cui sono usciti come “Sherlock, Lupin e io”
visto appunto che viene adottato il punto di vista di Irene come autrice dello
scritto. È un racconto “juvenilistico”, e ben da leggere per giovani e
giovanette under 15, tuttavia, plauso all’autore, non indulge in (troppi)
errori storici, ed è filologicamente corretto nell’impostazione dei due
personaggi maggiori. Irene, nel libro di Doyle, si dice essere nata nel 1858.
Qui, si presenta come dodicenne, e l’azione si svolge nel 1870, con Sherlock un
po’ più grande (anche se, dovrebbe aver ben 4 anni più di Irene). Meno accurata
l’introduzione di Lupin, che, secondo Leblanc dovrebbe avere i natali sono nel
... 1874, differenza di età ribadita da Maurice Leblanc nel racconto “A.L.
contro Herlock Sholmes”, dove un trentenne Arsène incontra un quasi sessantenne
Sherlock. Ma questa licenza poetica gliela concediamo. Come concediamo ad
Irene, e ad Alessandro Gatti con lei, alcuni giudizi avventati su disparati
elementi pseudo-storici, come il biasimo per la “scadente letteratura” di
Robert Louis Stevenson (che tuttavia scrisse il suo primo romanzo solo nel
1883). Certo l’intreccio non è dei più lineari, anche se ci regala qualche
piccolo momento di interesse. C’è un morto che compare sulla spiaggia di Saint-Malo
dove i nostri tre si trovano casualmente. Ci sono gli approcci di amicizia, e
le già marcate scontrosità di Sherlock. Le entrate ed uscite di scena di
Arsène, con i suoi travestimenti. Compare anche un furto di una bella collana
ad un’aristocratica signora in vacanza. I nostri tre mini-detective cominciano
allora ad indagare, a girare di notte (nonostante la giovane età), a farsi
cerchie di amicizie tra le persone perbene (direttori di albergo, ufficiali
postali, irreprensibili ispettori di polizia). Arrivando ben presto sulle
tracce di un misterioso personaggio che pare cambiare frequentemente di nome e
d’aspetto, ma non di (cattive) frequentazioni. Sarà sempre Irene a tirare le
file (anche se le intuizioni saranno di Sherlock, e le scoperte di Lupin). Il
misterioso personaggio era ricattato da una banda di farabutti capeggiata da un
italianissimo Salvatore, e coperta da alcuni funzionari di polizia di dubbia
rispettabilità. Tramite una lettera perduta nell’ufficio postale, si scopre la
vera identità del personaggio. Una piccola tacca del crimine, dedito
soprattutto al raggiro di belle signore, magari mature. Cui faceva subire
piccoli furti, per ripianare i suoi debiti al gioco. Per sua sfortuna, effettua
lo stesso trucchetto in quel di Saint-Malo a tre amiche, che, confrontatesi,
scoprono le sue malefatte. Lo affrontano, quando lui ha già riciclato la
refurtiva per ripagare Salvatore, e lui incidentalmente muore. Sherlock lo
capisce dal maldestro tentativo di sbarazzarsi del cadavere in mare senza tener
conto delle maree, e dal fatto che le tre giocavano con sua madre a … bridge
(anche qui con una piccola imprecisione, che il bridge a quattro comincia ad
essere giocato solo nel 1873). Ma le loro indagini permettono al buon ispettore
di sgominare la banda di italiani e di eliminare i poliziotti corrotti. Non
sappiamo, Irene non ce lo vuole dire, che fine faranno le tre signore coinvolte
nell’incidente. Sappiamo solo che in questo primo volume vengono poste le basi
della loro futura amicizia. Con quella bella frase finale, che vale a memento
loro, dei giovani, ed anche di noi “diversamente giovani”, “sapevamo ormai
tutto degli avvenimenti di cui eravamo stati testimoni; ma avevamo anche la
certezza di non sapere ancora niente di noi”. Insomma, un’utile lettura
giovanile, una divertente e rilassante lettura adulta.
Finalmente
dopo ben 5 mesi, riusciamo a pubblicare almeno tre trame in questo complesso
mese di ottobre. E come i miei vecchi lettori, la terza trama porta con sé i
nuovi allegati, non quelli per curare, ma quelli per essere felici. Dato però
che siamo alle prime trame di felicità, ci troviamo ancora invischiati nelle
terapie d’amore, con una piccola disamina di uno dei primi libri di Elena
Ferrante (che io continuo a non voler sapere chi sia).
Spezziamo
intanto una lancia in favore del vostro senior, che, come ho letto in una bella
t-shirt in un negozio del centro, “Io non invecchio, divento vintage”. Quindi
vintage con l’anima junior per apprezzare libri giovanili. Per festeggiare in
settimana un nuovo compleanno della mia signora madre. Per aspettare, senza
ansia, nuovi viaggi.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
OTTOBRE 2016
Fin da maggio vi avevo avvertito che, per essere felici, la
nostra simpatica Giulia Fiore affrontava, e ben a lungo, tutti possibili “mal
d’amore”, e le loro rispettive terapie.
TERAPIE D’AMORE (III)
I GIORNI DELL'ABBANDONO di ELENA FERRANTE (2002)
Pillole
di trama
Olga è una donna appagata: è sposata, ha due figli, un
lavoro e anche un cane. Ma quando suo marito, di punto in bianco e senza alcun
preavviso, la lascia dopo averle confessato che sta vivendo un «improvviso
vuoto di senso», il suo mondo va in frantumi. Lei stessa va in frantumi, anche
perché scopre che il «vuoto» del marito è più pieno di quanto lui abbia
confessato, dato che è stato già abbondantemente riempito da una ragazza. Per
Olga inizia un doloroso percorso che dall’autodistruzione la porterà alla
ricostruzione di un io più forte.
Supposta-saggezza
Gli uomini, soprattutto dopo una certa età, diventano
imprevedibili e sorprendenti. Ma non nel senso che improvvisamente si
presentano con mazzi di fiori, propongono weekend romantici o prendono
spontaneamente l’iniziativa di lavare i piatti, almeno per una sera.
Generalmente la sorpresa imprevedibile si rivela l’inaspettato annuncio di essere
in crisi e di avere bisogno di una “pausa di riflessione”. Ora, quando si dice
di aver bisogno di una pausa di riflessione, tutti, uomini e donne, in realtà
hanno già riflettuto e preso una decisione. Solo che nel caso degli uomini, il
novantanove per cento delle volte vuol dire che hanno un’amante con cui sono
riusciti a colmare con piena soddisfazione «quell’improvviso vuoto di senso»
proclamato dal marito di Olga. Il primo istinto sarebbe quello di rispondere
che il vuoto ce lo hanno nel cervello e che la pausa di riflessione non gli
servirebbe a niente perché non hanno l’equipaggiamento per riflettere. La
lettura de “I giorni dell’abbandono” consente di seguire un percorso diverso,
meno istintivo e più costruttivo. Si tratta di una sorta di discesa negli
inferi della psiche della protagonista che, tra i fantasmi di un passato
sepolto e i lampi di una quotidianità che sembra improvvisamente estranea,
mette in moto un processo di autoconsapevolezza lento, doloroso ma
indispensabile. Così, dopo una fase iniziale in cui si lascia andare
all’autocommiserazione (comprensibile) della propria condizione, esacerbata e
rancorosa verso il mondo intero, incurante di se stessa e intenzionata a
sbattere in faccia a tutti il suo dolore per farsi compatire (come il ruolo
della moglie abbandonata richiede), Olga comincia a srotolare quel gomitolo di
rabbia che le si è annodato intorno al cuore e, ritrovando il bandolo della
matassa, riesce a dare un nuovo e più compiuto significato alla sua vita,
scoprendo che quella vissuta e considerata piena era solo “riempita” da una
serenità di facciata che nascondeva silenziose voragini. Dopo ogni fine ci può
essere sempre un nuovo inizio, dice la Ferrante, soprattutto se la fine è un
abbandono che a rigor di logica, dovrebbe implicare un “ritrovarsi”. Basta
provare a camminare con «il passo tranquillo di chi crede di sapere dove andare
e perché».
Posologia
Particolarmente consigliato alle donne mature (ma in forma
preventiva anche alle giovani lettrici), “I giorni dell’abbandono” è un
integratore a base di collagene indicato per ricostruire i tessuti connettivi
frantumati dalla fine di un matrimonio. Il collagene è la colla del corpo, ciò
che ne tiene insieme i tessuti e che, contribuendo alla rigenerazione di
cartilagini e legamenti, garantisce resistenza ed elasticità. Dal momento che
la naturale produzione di questa proteina diminuisce con l’avanzare degli anni,
eventi traumatici come una rottura sentimentale in età matura possono rendere
necessaria un’integrazione per ricostruire tessuti e ridare vigore alle
articolazioni (perché rialzarsi dopo una caduta o un crollo è faticoso sempre,
ma superata una certa età notoriamente le ginocchia cominciano a
scricchiolare). Il difficile cammino di Olga aiuta a rincollare con pazienza i pezzi
di quel vaso rotto che è la propria vita, magari scoprendo che superati i
giorni dell’abbandono, si è trasformata da un vasetto di Ikea carino, pratico
ma uguale a milioni di altri, in un prezioso, unico e raffinato Gallé (tra i
meriti del collagene c’è anche quello di ringiovanire la pelle ovvero
nascondere le crepe del vaso e le rughe del viso).
“I giorni dell’abbandono” è anche un’ottima fonte di
vitamina D, benefica per il cervello e il cuore ma fondamentale soprattutto per
mantenere le ossa in salute. Rafforzando il principio attivo che, dopo un primo
momento di lecito abbandono alla disperazione, bisogna superare frustrazione,
delusione e rancore il romanzo provoca un irrobustimento delle ossa utile a
sopportare meglio il peso della consapevolezza che liberarsi dal dolore è
impossibile, perché continua a restare silenzioso in un angolo del nostro cuore
in compagnia dell’amore perduto, perché la coppia è un miscuglio complicato e
schiumoso e “sebbene la relazione si sfrangi e poi cessi, essa continua ad
agire per vie segrete, non muore, non vuole morire».
La sincerità a tratti crudele, lo stile possente e la forza
espressiva di Elena Ferrante possono rendere la cura piuttosto forte ed
emotivamente intensa. Nella maggioranza dei casi, però, è stato riscontrato il
recupero di un inaspettato vigore utile per affrontare la vita che è «un
sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano
sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare».
Effetti
collaterali
Il lettore deve essere pronto a lasciarsi coinvolgere dalle
inquietudini, dalle ansie e dalle paure di Olga, per elaborare tutto insieme a
lei. Il processo può essere faticoso all’inizio ma una volta intrapreso sarà
difficile interromperlo.
La presenza di lacrime e rabbia provocate dal tradimento e
dall’abbandono potrebbe essere male assorbita dall’organismo. In questo caso si
consiglia di rimediare con un trattamento più leggero: “Affari di cuore” di
Nora Ephron. Se, come dice Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina «Tutte
le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo
suo», è altrettanto vero che ogni scrittore racconta l’infelicità a modo suo.
Elena Ferrante lo fa con toni drammatici e viscerali, Nora Ephron sceglie
quelli comici e divertiti. Sta al lettore stabilire l’approccio terapeutico più
consono al suo stato d’animo.
Consigli
Se la cura a base di Elena Ferrante si rivela efficace,
suggerisco di continuare con gli altri due romanzi che compongono l’ideale
trilogia Cronache del mal d’amore: “L'amore molesto” e “La figlia oscura”,
particolarmente indicati nel trattamento dei rapporti complessi tra madri e
figlie. Nella sezione dedicata alle cure intensive, trovate la corposa
quadrilogia de “L’amica geniale”.
Terapia
cinematografica sostitutiva
Non è facile portare sullo schermo la potenza verbale di
Elena Ferrante e il groviglio di sentimenti che animano i personaggi dei suoi
romanzi. Il film di Roberto Faenza è aiutato dall’interpretazione sofferta di
Margherita Buy e dalla bravura Luca Zingaretti, che è riuscito a evitare la
trappola del “marito cattivo” che avrebbe svilito la complessità del rapporto
di coppia.
Commenti
Poiché degli altri libri citati nello scritto o non ne ho
letti, o fanno aperte di prossimi scritti, mi dedico a questo che è il motivo
conduttore della puntata. Un libro che, come dico più avanti, mi ha preso nella
lettura, pur lasciando qualche perplessità.
Elena Ferrante “I
giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[pubblicato il 29 novembre 2015]
È il
secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha
lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere,
di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia ogni tanto non riesco
ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente,
mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento
analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa
nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a
leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e
pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche
personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la
pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta
durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8
anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto,
abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di
Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui
non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a
farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente
di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce
i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella
cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a
gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto
da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla,
dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina
di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina).
Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di
potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo
anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda
di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso
non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia,
laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità, ma
quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa, e
Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con
Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di
febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite
idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta
non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e
Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla
dalle finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato
giorni prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso).
Come chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la
Tachipirina per il malato? Come chiamare anche il povero Carrano, per essere
aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio
Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore.
Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si
salva il povero Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno
parzialmente) i figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie”
materne. Un po’ perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a
frequentare il padre. Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche
quello è un onere. E come tutte le persone che scelgono le vie più facili,
anche se meno intelligenti, comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece,
alleggerita da questi pesi di cui si era auto caricata, ricomincia a vedere la
luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più
distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto,
e comincia a frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto.
Ripeto, la scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non
riesco ad entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista
maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga
verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita
verso la “normalità”. Comunque un forte libro sulla fine dell’amore tra due
persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille
è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la
scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei
bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno
rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)
Finalino
Ribadisco il sentimento di gradevolezza che dona la
scrittura di Grazia Fiore, che, mantenendosi leggero, ci fornisce spunti di
riflessione e di divertimento. Anche se, come in questo caso, l’argomento è
bello pesante. Ma la Ferrante mi sembra una persona all’altezza di affrontarlo.
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