domenica 16 ottobre 2016

Junior per un senior - 16 ottobre 2016

Questa volta, pur rimanendo nell’ambito delle collane di Repubblica, ci dedichiamo ad alcune pubblicazioni del breve ciclo “Noir Junior”. Dove cominciamo un po’ zoppicando, pur apprezzando il primo scritto di quello che diventerà un mago di best-seller. Poi saliamo con alcuni autori italiani dalla penna facile e dal bell’intreccio, nonché con il recupero di quel detective Blomqvist della mamma di Pippi Calzelunghe.
Ken Follett “Il mistero degli studi Kellerman” Repubblica Noir Junior 2 euro 6,90
[A: 27/07/2015– I: 11/11/2015 – T: 13/11/2015] - &&
[tit. or.: The Secret of Kellerman’s Studio; ling. or.: inglese; pagine: 120; anno 1976]
Prima lettura di questa “veloce” collana di Repubblica dedicata ai gialli per un pubblico adolescente (direi under 15). Lettura dedicata ad un grande della letteratura mystery o d’azione, qui al suo secondo lavoro, pubblicato a 27 anni, e con lo pseudonimo di Martin Martinsen, non avendo avuto ancora modo di “sfondare” verso il grande pubblico, cosa che succederà solo due anni dopo con “La cruna dell’ago”. Considerata un’opera minore nella produzione di Follett, ha tuttavia alcuni elementi della sua produzione futura che non sono male. Come non lo è se letta con gli occhi del pubblico cui è diretta. Atteggiamento che ho cercato di assumere nella lettura. Tuttavia, pur nella ricerca di elementi positivi, il risultato trovo sia inferiore alle attese. La trama, come si addice ad un “libro per ragazzi”, è molto lineare. Nei sobborghi occidentali di Londra, a Hincley, vive Mich, ragazzo povero e collezionista di articoli di giornali riguardanti una banda di ladri, che da qualche tempo, compie rapine in tutto il paese. Mich abita con la madre in un palazzo da cui li vogliono sfrattare. Casualmente incontra un ragazzo di nome Izzy, ragazzo "ricco" con un padre che lavora nel campo dello spettacolo e diventano amici per la pelle. Un giorno vogliono esplorare dei vecchi studi cinematografici, nei quali aveva lavorato il padre di Izzy, gli studi Kellerman. Durante la visita, i due ragazzi scoprono che gli studi sono il luogo dove una banda di ladri nasconde la refurtiva che un furgone, ogni venerdì sera, trasporta fuori città. Con l'aiuto dei ragazzi la polizia arresta i ladri recuperando la refurtiva. Il dipartimento di Hincley assegna la ricompensa ai due giovani. Gli studi vengono riaperti, dato che il capo della banda li aveva chiusi dicendo che non erano più a norma di legge e aveva dato lo sfratto a chi abitava nelle case intorno, compresa quella di Mich, per costruire un albergo. Con l'arresto del boss, Mich e sua madre possono riavere la loro casa e pagare tasse e debiti arretrati. Il padre di Izzy torna a lavorare negli studi Kellerman. Seppur lineare, il libro mette in evidenza alcuni tratti del Follett maturo, soprattutto la caratterizzazione dei personaggi di contorno. In pochi tratti, oltre a Mich e Izzy, sono ben descritti almeno una decina di comprimari. Sempre per il carattere adolescenziale del libro, non possiamo che aspettarci il lieto fine, anche se questo avviene in maniera un po’ affrettata, lasciando poco spazio ad una reale comprensione degli ultimi avvenimenti, come ci si aspetterebbe per una “spy-story”. L'estate, l'amicizia, i giri in bici, i problemi dei grandi, che sono di riflesso anche i problemi dei ragazzi, la voglia di curiosare dove non si dovrebbe con quella sensazione sottile di essere in procinto di scoprire qualcosa, per diventare di conseguenza eroi. E tutto questo, in questo libro, è sommato al gradevole "trucco" di non far comprendere ai protagonisti quello che subito è chiaro a chi legge. Ho letto molto della successiva produzione di Follett, in particolare quello che ritengo per me il suo miglior libro, “I pilastri della terra”. Tuttavia anche in questa escursione giovanile apprezziamo il piglio sicuro della sua scrittura, riuscendo ad imbastire, in poche pagine, una storia accattivante, piena di quei particolari che apprezzavo nelle mie letture giovanili, e che lasciano un gusto piacevole anche in questa lettura matura. Vedremo che ne sarà degli altri libri della serie.
Mikaël Ollivier “Fratelli di sangue” Repubblica Noir Junior 8 euro 6,90
[A: 07/09/2015 – I: 24/04/2016 – T: 24/04/2016] - &&
[tit. or.: Frères de Sang; ling. or.: francese; pagine: 124; anno 2003]
Seconda lettura dei Noir Junior, e seconda delusione. Forse leggermente mitigata dalla mia non conoscenza dell’autore. Per cui non mi aspettavo cose strabilianti. Ed infatti non le ho avute. Infatti, nella prima lettura ho affrontato Ken Follett, di cui conosco bene libri e scrittura. Per cui si poteva parlare del libro, della sua resa e dello stile. Qui, invece, entriamo in pieno nello stile di scrittura dedicato ad una giovane fascia d’età, senza nessun preconcetto su come possa scrivere d’altro il francese Ollivier. Devo dire che, anche se sono ben lontano da quella fascia di lettori, non mi è piaciuto l’approccio che l’autore dà al romanzo (direi romanzo breve più che racconto). C’è da un lato una sorta di accondiscendenza verso il giovane lettore: sei giovane, non sei abituato a leggere, magari uso un linguaggio più semplice. Dall’altro, c’è l’affrontare una problematica che tende “alla King”, cioè cerca effetti e vuole costruire situazioni che non dico mettano paura, ma inquietino leggermente chi affronta con leggerezza la lettura. Ad esempio, l’attacco dove il protagonista (il libro è in soggettiva) dice che si sta rimettendo da una vicenda che lo ha duramente provato, nel fisico e nel morale. Motivo per cui, il giovin lettore per tutto il tempo sta sul chi vive, aspettando qualche possibile catastrofe. Ma allo stesso tempo, il fatto che Martin ne parli, significa che, in qualche modo, la situazione è stata risolta. Il nodo misterioso che si pone al centro della storia è l’ingarbugliata trama che avvince la famiglia Lemeunier, composta appunto da Martin, studente liceale, da Brice, suo fratello diciannovenne iscritto ad una scuola di cinema, e dai loro genitori Pierre, neurochirurgo, e Nadège, pubblicitaria. Durante una normale cena, irrompe la polizia che arresta Brice, accusandolo di cinque delitti. Cinque persone che Brice aveva incrociato nella sua vita. Cinque persone che, in qualche modo, gli avevano fatto del male: una ragazza che lo aveva deriso in pubblico, un professore che lo tartassava, una seconda ragazza di cui era innamorato e che lo ha lasciato per un altro, quest’altro con cui lei se n’è andata, uno dei registi della scuola di cinema che aveva parlato in termini molto negativi della prima prova di regia di Brice. Ovviamente Brice dice di essere innocente. Ovviamente Martin è dalla sua parte. Ovviamente tutti gli indizi sono contro il fratello, tanto che anche i genitori vacillano. Ovviamente c’è un ispettore che indaga, mantenendosi neutrale, ma seguendo da vicino cosa sta elucubrando Martin. A questo punto il lettore smaliziato comincia a fare delle ipotesi: a) Brice è un fine mentitore ed è lui l’assassino (questo pur plausibile scenario va contro il discorso giovanile dell’amore fraterno); b) Martin è l’assassino geloso dei successi del fratello (molto probabile, in linea con una tradizione orrorifera da King alla Christie, poco consolatoria per il lettore); c) c’è un altro fratello nascosto (soluzione trasversale che mette in salvo i fratelli ma inguaia la famiglia). Tutte e tre le ipotesi poi sarebbero in linea con il titolo del libro. Dato che uno dei corpi è stato sepolto in giardino, Martin si persuade che ci deve essere un complice tra i giardinieri. Scopre ben presto che uno dei quattro è introvabile. Senza dire nulla alla polizia scopre l’esistenza della madre del giardiniere, rinchiusa in un ospedale psichiatrico. E scopre altresì questo fantomatico Loïc, dropout allo sbando che vive in una roulotte in un campo abbandonato. Perché, dimenticavo, siamo nella provincia francese, e la casa di Martin è in un circondario tipo Olgiata, con controlli di entrate e uscite. Il finale è convulso, noi siamo ancora combattuti tra quali delle tre soluzioni sia possibile, anche se la comparsa di Loïc ci indirizza verso uno dei più probabili scenari. Che, nonostante gli sforzi di Martin, sarà l’ispettore a risolvere. Ma continua a non essere un libro “junior”, che abbiamo: padre fedifrago e mentitore, amante del padre impazzita, figlio naturale fuori di testa, figli legittimi traumatizzati e angosciati da incubi per il resto della loro vita. E uno dei tre quanto meno all’ergastolo. Purtroppo una vicenda così intricata, non è sorretta da una scrittura adeguata, né per un pubblico adulto né per uno adolescente. Troppo semplicistica per gli uni, troppi inutilmente ansiogena per gli altri. Insomma, una collana che dopo le due prime letture non si presenta certo al meglio.
Alessandro Gatti & Pierdomenico Baccalario “Non si uccide un grande mago” Repubblica Noir Junior 9 euro 6,90
[A: 14/09/2015 – I: 28/04/2016 – T: 28/04/2016] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 154; anno 2009]
Questa terza lettura di Noir Junior comincia a risollevare le sorti della serie, e ne sono contento: è migliore delle precedenti, più fresca, e, non guasta certo, italiana. I due autori, quarantenni piemontesi, sono specializzati in letteratura per ragazzi, avendo scritto un’ottantina di libri a testa, di cui una ventina in collaborazione. Si nota la mano, la spigliatezza e l’allegria che tali scritture devono portare con sé per essere ben accettati dal pubblico giovanile. In particolare hanno scritto 7 romanzi per un ciclo denominato “I gialli di vicolo Voltaire”, di cui questo è il secondo episodio. L’impianto ricalca alla lontana “Il club dei Vedovi Neri” di asimoviana memoria, un circolo di appassionati che si dedica alla risoluzione di misteri. Ovviamente, nel tono giovanile della scrittura. L’ambientazione è parigina, appunto in rue Voltaire, dove viveva il grande detective Gustave Darbon, che, morto, lascia la sua casa agli appassionati del mistero. Casualmente, molti inquilini dello stabile si appassionano ai misteri, accomunati dall’amore per il grande scrittore King Ellerton. In primo piano i due “ragazzini”, i fratelli Gaillard, Annette e Fabrice detto Fabò; e poi Lalou, sedicenne del Mali mago del computer, Janvier, avvocato in pensione, Bardouchon junior, il giovane fondatore del club, sua madre, fornitrice di pettegolezzi e meravigliose torte, e Victor, il postino dall’oscuro passato. Durante questo secondo episodio, per necessità di trama, viene cooptata anche Valentine, la madre dei due ragazzi. Dato che, oltre che madre, è sposa di Jean-Paul, commissario di polizia. Ovvio che se serve risolvere un mistero bisogna essere vicini alla fonte. Inoltre il commissario ha un maldestro aiutante, Pasquiat, utile per reperire informazioni altrimenti inarrivabili. Intanto, trovo ottima la descrizione ambientale, sia di Parigi che dei movimenti del club per la città. Non sarà sempre reale, ma è di sicuro quanto un giovane lettore si aspetta leggendo della città della Torre Eiffel. Il mistero questa volta nasce dal tentativo di uccidere il più grande mago vivente, il grande Offenbach. Tentativo avvenuto durante la riunione annuale dei maghi all’Hotel Étoile. Un po’ alticcio, dopo aver litigato a lungo con il suo rivale, il Sensazionale Renard, Offenbach esce in strada, dove viene colpito alla testa da un grande vaso d’alabastro, lasciandolo in fin di vita. I nostri appassionati giallisti di vicolo Voltaire sono subito presi dal mistero, anche perché Lalou era un fanatico del mago, alcuni anni prima. I sette si attivano, ma soprattutto Victor e Janvier. Anche perché Victor conosce il cuoco dell’albergo, e tramite lui i nostri vengono a sapere della lite, della scomparsa di un portafoglio, nonché della sparizione di un cameriere. Lalou prova ricerche al computer, senza venirne fuori. Sarà ancora Victor, tramite il cuoco, che porta Annette e Fabò alla scoperta della scomparsa anche di un vecchio frac, appartenente al cameriere. Qui interviene Janvier, che, tramite i suoi contatti nel mondo giudiziario, ricostruisce la storia del cameriere. Appena uscito dopo quindici anni di prigione per un furto in una gioielleria di cui si professa innocente, ma dove viene incastrato dalla testimonianza della dodicenne Isabelle. Annette e Fabò, complici i documenti sbadatamente lasciati in giro da Pasquiat, risalgono anche all’indirizzo dove l’ex-carcerato si recò quella sera. Vestito del frac, suo unico indumento in quanto mimo di strada, ed avendo solo quello o la divisa da cameriere. Lì i nostri incontrano una signora non ancora trentenne con ecchimosi sul viso. Pensano che sia Isabelle, ma questa dice che Valentine da alcuni anni si è trasferita in Australia, vendendo a lui e a suo marito la casa. Marito anch’esso nel frattempo scomparso. A questo punto la trama è ben svelata, il mistero abbondantemente risolto, salvo alcuni particolari che lascio ai miei curiosi lettori. Ritorno solo sull’allegria che sprizza dalle pagine: le torte della signora Bardouchon, le crêpes del Petit Canard (rigidamente al cioccolato), la simpatia di mamma Valentine (che porta i nostri allo spettacolo di Renard e poi all’ospedale da Offenbach), la tristezza del declino del mago per una delusione amorosa, la verve di Lalou per far tornare il sorriso al mago (ed a noi). Insomma, una confezione ben fatta, con quel tanto di mistero che si segue con piacere, con quei tocchi di vita reale che non guastano (delusioni amorose, false testimonianze, galeotti redenti). Forse carente solo nelle scoperte finali per la soluzione dell’enigma, ma è un peccato decisamente veniale.
“Non ho il televisore e amo rilassarmi leggendo un libro con la musica in sottofondo.” (88)
Astrid Lindgren “Kalle Blomqvist, il grande detective” Repubblica Noir Junior 3
[A: 03/08/2015 – I: 01/05/2016 – T: 03/05/2016] - &&& e ½    
[tit. or.: Mästerdetektiven Blomqvist; ling. or.: svedese; pagine: 172; anno 1946]
Come ha detto ultimamente il grande critico Harold Bloom, tutti gli scrittori degni di questo nome sono morti. Ed eccoci qui, ad un nuovo capitolo del Noir Junior, ha onorare la memoria di una grandissima scrittrice per i giovani. Certo, Astrid è meglio ed universalmente nota per Pippi Calzelunghe (dall’originale Pippi Långstrump), ma tanti sono i suoi contributi a questa parte di letteratura che, quanto meno, può servire ad avvicinare giovani (e meno giovani) al grande mondo della parola scritta. Tra le tante serie scritte dalla simpatica svedese (morta nel 2002 a soli cinque anni dal festeggiamento del suo centenario), una, corta ma di molta presa in Svezia ed all’estero, è questa dedicata al giovane Kalle Blomqvist, alla sua passione per l’attività di detective, ed ai suoi giovani amici Anders ed Eva-Lotta. Personaggio a me caro per motivi extra giovanile, quando ricordo di aver scoperto l’omaggio che il compianto Stieg Larsson faceva alla Lindgren, chiamando il personaggio centrale della sua trilogia Michael Blomqvist, per pochi intimi Kalle (soprannome da lui sempre odiato), ed assonando Lizabeth Salander con Lotta Lisander. Qui invece Kalle è il centro ed il fulcro della storia. Un dodicenne curioso, innamorato delle grandi storie di investigazione, che cerca misteri anche nella piccola cittadina di provincia dove vive, anche se non è lontana da un qualche grande centro. Qui Kalle, oltre a sognare i grandi misteri, come tutti i ragazzini della sua età, essendo per di più estate, si inventa giochi con i suoi coetanei. In particolare con il figlio del calzolaio Anders e la figlia del fornaio Eva-Lotta, costruisce la banda della Rosa Bianca, in lotta con gli acerrimi nemici della Rosa Rossa (Sixten, Jan e Benka). La tranquilla andatura estiva, tra giochi, lotte e ciambelline, viene interrotta da due avvenimenti: l’arrivo di Einar, zio di Lotta, e la decisione della Rosa Bianca di allestire un circo per passare il tempo. La parte giovanile della scrittura si dedica abbastanza all’inventiva dei ragazzi, ma ben presto siamo tutti risucchiati da Kalle. Primo perché tutti quanto vanno a visitare la rocca della cittadina, dove entrano quando zio Einar apre la porta con un grimaldello. Poi dai sospetti di Kalle (perché una persona per bene possiede un grimaldello?), che nottetempo prende le impronte di Einar e le invia alla polizia. Infine, per l’arrivo di due loschi figuri in città, che sembrano dare la caccia propria ad Einar. Kalle non si confida con la Rosa Bianca e comincia a seguire di nascosto Einar. Gli ruba anche il grimaldello, e quando legge sul giornale locale di un furto di gioielli, si persuade che Einar è coinvolto. Allora, con Anders e Lotta rivolta tutta la rocca, fino a trovare i gioielli famosi ed a portarli in salvo nella loro tana. Vorrebbero andare alla polizia, ma l’agente loro amico è fuori. Sfortunatamente rimandano, ma sono travolti dagli avvenimenti. I loschi figuri scovano Einar, i nostri assistono allo scambio di accuse tra i tre, e capiscono che sono tutti coinvolti. I cattivi sequestrano Einar, ma non trovano i gioielli (fortunatamente spostati da Kalle). Ma quando Kalle ed i suoi liberano Einar, i tre cattivi si fanno dire il nuovo nascondiglio, ed a loro volta rinchiudono i nostri nella rocca. Ci si avvia al convulso finale, sempre giocato sul filo della suspense di buona fattura (per non allarmare i piccoli). Kalle trova un secondo passaggio per uscire dalla rocca, i nostri vengono allora ritrovati dai poliziotti, messi sulle loro tracce da quelle impronte inviate da Kalle, e tutti insieme inscenano una grande cora in auto per rincorrere i banditi in fuga. Ovviamente saranno presi, ovviamente i ragazzi faranno una bella figura, ovviamente su tutti, gli allori andranno al Grande Maestro degli Investigatori, il nostro Kalle. Per essere uno scritto che ha ben settanta anni si porta bene, non ha sbavature, si legge gradevolmente. Pieno anche di piccoli consigli ai giovani, magari ingenui oggi, ma che sarebbero sempre ben accetti se fossero seguiti. Tipo “l’onestà viene sempre ripagata” o “non si guadagna niente a contravvenire alla legge”. Frasi che stamperei a caratteri cubitali sulla fronte del 95% delle persone pubbliche presenti in Italia. E non pensate che queste di Astrid siano parole gettate al vento. Il protestantesimo scandinavo, unito ad un sano buonsenso, per anni ha fatto rigare dritto una società, che poteva avere mille magagne di diverso tipo, ma che ho sempre visto e conosciuto per il rispetto reciproco presente in ogni azione. Tanto che a volte ce n’è forse troppo, rasentando una sorta di isolazionismo o individualismo, ai limiti dell’autismo conviviale. Fatto sta che prenderei questo romanzo breve e lo porterei ad esempio ed analisi per una scrittura divertente, non banale, a volte anche utile.
Irene Adler (Alessandro Gatti) “Il trio della dama nera” Repubblica Noir Junior 5 euro 6,90
[A: 14/09/2015 – I: 30/05/2016 – T: 01/06/2016] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 204; anno 2011]
Alessandro Gatti è molto attivo nel campo dell’editoria giovanile, come ho già detto. Parallelamente ai “Gialli di Vicolo Voltaire” ha sviluppato questa serie, detta del trio, o dei tre amici. Utilizzando come pseudonimo il nome di Irene Adler, la bella del racconto di Conan Doyle “Uno scandalo in Boemia”. Dove, per i non aficionados del detective di Baker Street, si scopre che è l’unica donna ad aver battuto il nostro Holmes. Data la sua forte presenza, Irene scatenò una ridda di episodi apocrifi, il migliore dei quali è nella biografia fantastica di Holmes scritta da William Baring-Gould, ove si narra che i due ad un certo punto diventano amanti, e dalla loro unione sarebbe nato un figlio, che, crescendo, avrebbe seguito le orme paterne con il nome di … Nero Wolfe. Stupendo. Qui, Gatti invece si inventa una possibile conoscenza giovanile tra Irene e Sherlock, che, per accidenti del caso, si incontrano in quel di Saint-Malo dove sono in vacanza. E dove si unisce a loro per completare il trio un giovane francese, di poco più grande (un paio d’anni, forse), tale Arsène Lupin. Gatti ha prodotto ben 14 libri di questa serie che viene etichettata dalla casa editrice Piemme presso cui sono usciti come “Sherlock, Lupin e io” visto appunto che viene adottato il punto di vista di Irene come autrice dello scritto. È un racconto “juvenilistico”, e ben da leggere per giovani e giovanette under 15, tuttavia, plauso all’autore, non indulge in (troppi) errori storici, ed è filologicamente corretto nell’impostazione dei due personaggi maggiori. Irene, nel libro di Doyle, si dice essere nata nel 1858. Qui, si presenta come dodicenne, e l’azione si svolge nel 1870, con Sherlock un po’ più grande (anche se, dovrebbe aver ben 4 anni più di Irene). Meno accurata l’introduzione di Lupin, che, secondo Leblanc dovrebbe avere i natali sono nel ... 1874, differenza di età ribadita da Maurice Leblanc nel racconto “A.L. contro Herlock Sholmes”, dove un trentenne Arsène incontra un quasi sessantenne Sherlock. Ma questa licenza poetica gliela concediamo. Come concediamo ad Irene, e ad Alessandro Gatti con lei, alcuni giudizi avventati su disparati elementi pseudo-storici, come il biasimo per la “scadente letteratura” di Robert Louis Stevenson (che tuttavia scrisse il suo primo romanzo solo nel 1883). Certo l’intreccio non è dei più lineari, anche se ci regala qualche piccolo momento di interesse. C’è un morto che compare sulla spiaggia di Saint-Malo dove i nostri tre si trovano casualmente. Ci sono gli approcci di amicizia, e le già marcate scontrosità di Sherlock. Le entrate ed uscite di scena di Arsène, con i suoi travestimenti. Compare anche un furto di una bella collana ad un’aristocratica signora in vacanza. I nostri tre mini-detective cominciano allora ad indagare, a girare di notte (nonostante la giovane età), a farsi cerchie di amicizie tra le persone perbene (direttori di albergo, ufficiali postali, irreprensibili ispettori di polizia). Arrivando ben presto sulle tracce di un misterioso personaggio che pare cambiare frequentemente di nome e d’aspetto, ma non di (cattive) frequentazioni. Sarà sempre Irene a tirare le file (anche se le intuizioni saranno di Sherlock, e le scoperte di Lupin). Il misterioso personaggio era ricattato da una banda di farabutti capeggiata da un italianissimo Salvatore, e coperta da alcuni funzionari di polizia di dubbia rispettabilità. Tramite una lettera perduta nell’ufficio postale, si scopre la vera identità del personaggio. Una piccola tacca del crimine, dedito soprattutto al raggiro di belle signore, magari mature. Cui faceva subire piccoli furti, per ripianare i suoi debiti al gioco. Per sua sfortuna, effettua lo stesso trucchetto in quel di Saint-Malo a tre amiche, che, confrontatesi, scoprono le sue malefatte. Lo affrontano, quando lui ha già riciclato la refurtiva per ripagare Salvatore, e lui incidentalmente muore. Sherlock lo capisce dal maldestro tentativo di sbarazzarsi del cadavere in mare senza tener conto delle maree, e dal fatto che le tre giocavano con sua madre a … bridge (anche qui con una piccola imprecisione, che il bridge a quattro comincia ad essere giocato solo nel 1873). Ma le loro indagini permettono al buon ispettore di sgominare la banda di italiani e di eliminare i poliziotti corrotti. Non sappiamo, Irene non ce lo vuole dire, che fine faranno le tre signore coinvolte nell’incidente. Sappiamo solo che in questo primo volume vengono poste le basi della loro futura amicizia. Con quella bella frase finale, che vale a memento loro, dei giovani, ed anche di noi “diversamente giovani”, “sapevamo ormai tutto degli avvenimenti di cui eravamo stati testimoni; ma avevamo anche la certezza di non sapere ancora niente di noi”. Insomma, un’utile lettura giovanile, una divertente e rilassante lettura adulta.
Finalmente dopo ben 5 mesi, riusciamo a pubblicare almeno tre trame in questo complesso mese di ottobre. E come i miei vecchi lettori, la terza trama porta con sé i nuovi allegati, non quelli per curare, ma quelli per essere felici. Dato però che siamo alle prime trame di felicità, ci troviamo ancora invischiati nelle terapie d’amore, con una piccola disamina di uno dei primi libri di Elena Ferrante (che io continuo a non voler sapere chi sia).
Spezziamo intanto una lancia in favore del vostro senior, che, come ho letto in una bella t-shirt in un negozio del centro, “Io non invecchio, divento vintage”. Quindi vintage con l’anima junior per apprezzare libri giovanili. Per festeggiare in settimana un nuovo compleanno della mia signora madre. Per aspettare, senza ansia, nuovi viaggi. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

OTTOBRE 2016
Fin da maggio vi avevo avvertito che, per essere felici, la nostra simpatica Giulia Fiore affrontava, e ben a lungo, tutti possibili “mal d’amore”, e le loro rispettive terapie.

TERAPIE D’AMORE (III)

I GIORNI DELL'ABBANDONO di ELENA FERRANTE (2002)

Pillole di trama       
Olga è una donna appagata: è sposata, ha due figli, un lavoro e anche un cane. Ma quando suo marito, di punto in bianco e senza alcun preavviso, la lascia dopo averle confessato che sta vivendo un «improvviso vuoto di senso», il suo mondo va in frantumi. Lei stessa va in frantumi, anche perché scopre che il «vuoto» del marito è più pieno di quanto lui abbia confessato, dato che è stato già abbondantemente riempito da una ragazza. Per Olga inizia un doloroso percorso che dall’autodistruzione la porterà alla ricostruzione di un io più forte.
Supposta-saggezza
Gli uomini, soprattutto dopo una certa età, diventano imprevedibili e sorprendenti. Ma non nel senso che improvvisamente si presentano con mazzi di fiori, propongono weekend romantici o prendono spontaneamente l’iniziativa di lavare i piatti, almeno per una sera. Generalmente la sorpresa imprevedibile si rivela l’inaspettato annuncio di essere in crisi e di avere bisogno di una “pausa di riflessione”. Ora, quando si dice di aver bisogno di una pausa di riflessione, tutti, uomini e donne, in realtà hanno già riflettuto e preso una decisione. Solo che nel caso degli uomini, il novantanove per cento delle volte vuol dire che hanno un’amante con cui sono riusciti a colmare con piena soddisfazione «quell’improvviso vuoto di senso» proclamato dal marito di Olga. Il primo istinto sarebbe quello di rispondere che il vuoto ce lo hanno nel cervello e che la pausa di riflessione non gli servirebbe a niente perché non hanno l’equipaggiamento per riflettere. La lettura de “I giorni dell’abbandono” consente di seguire un percorso diverso, meno istintivo e più costruttivo. Si tratta di una sorta di discesa negli inferi della psiche della protagonista che, tra i fantasmi di un passato sepolto e i lampi di una quotidianità che sembra improvvisamente estranea, mette in moto un processo di autoconsapevolezza lento, doloroso ma indispensabile. Così, dopo una fase iniziale in cui si lascia andare all’autocommiserazione (comprensibile) della propria condizione, esacerbata e rancorosa verso il mondo intero, incurante di se stessa e intenzionata a sbattere in faccia a tutti il suo dolore per farsi compatire (come il ruolo della moglie abbandonata richiede), Olga comincia a srotolare quel gomitolo di rabbia che le si è annodato intorno al cuore e, ritrovando il bandolo della matassa, riesce a dare un nuovo e più compiuto significato alla sua vita, scoprendo che quella vissuta e considerata piena era solo “riempita” da una serenità di facciata che nascondeva silenziose voragini. Dopo ogni fine ci può essere sempre un nuovo inizio, dice la Ferrante, soprattutto se la fine è un abbandono che a rigor di logica, dovrebbe implicare un “ritrovarsi”. Basta provare a camminare con «il passo tranquillo di chi crede di sapere dove andare e perché».
Posologia
Particolarmente consigliato alle donne mature (ma in forma preventiva anche alle giovani lettrici), “I giorni dell’abbandono” è un integratore a base di collagene indicato per ricostruire i tessuti connettivi frantumati dalla fine di un matrimonio. Il collagene è la colla del corpo, ciò che ne tiene insieme i tessuti e che, contribuendo alla rigenerazione di cartilagini e legamenti, garantisce resistenza ed elasticità. Dal momento che la naturale produzione di questa proteina diminuisce con l’avanzare degli anni, eventi traumatici come una rottura sentimentale in età matura possono rendere necessaria un’integrazione per ricostruire tessuti e ridare vigore alle articolazioni (perché rialzarsi dopo una caduta o un crollo è faticoso sempre, ma superata una certa età notoriamente le ginocchia cominciano a scricchiolare). Il difficile cammino di Olga aiuta a rincollare con pazienza i pezzi di quel vaso rotto che è la propria vita, magari scoprendo che superati i giorni dell’abbandono, si è trasformata da un vasetto di Ikea carino, pratico ma uguale a milioni di altri, in un prezioso, unico e raffinato Gallé (tra i meriti del collagene c’è anche quello di ringiovanire la pelle ovvero nascondere le crepe del vaso e le rughe del viso).
“I giorni dell’abbandono” è anche un’ottima fonte di vitamina D, benefica per il cervello e il cuore ma fondamentale soprattutto per mantenere le ossa in salute. Rafforzando il principio attivo che, dopo un primo momento di lecito abbandono alla disperazione, bisogna superare frustrazione, delusione e rancore il romanzo provoca un irrobustimento delle ossa utile a sopportare meglio il peso della consapevolezza che liberarsi dal dolore è impossibile, perché continua a restare silenzioso in un angolo del nostro cuore in compagnia dell’amore perduto, perché la coppia è un miscuglio complicato e schiumoso e “sebbene la relazione si sfrangi e poi cessi, essa continua ad agire per vie segrete, non muore, non vuole morire».
La sincerità a tratti crudele, lo stile possente e la forza espressiva di Elena Ferrante possono rendere la cura piuttosto forte ed emotivamente intensa. Nella maggioranza dei casi, però, è stato riscontrato il recupero di un inaspettato vigore utile per affrontare la vita che è «un sussulto di gioia, una fitta di dolore, un piacere intenso, vene che pulsano sotto la pelle, non c’è nient’altro di vero da raccontare».
Effetti collaterali
Il lettore deve essere pronto a lasciarsi coinvolgere dalle inquietudini, dalle ansie e dalle paure di Olga, per elaborare tutto insieme a lei. Il processo può essere faticoso all’inizio ma una volta intrapreso sarà difficile interromperlo.
La presenza di lacrime e rabbia provocate dal tradimento e dall’abbandono potrebbe essere male assorbita dall’organismo. In questo caso si consiglia di rimediare con un trattamento più leggero: “Affari di cuore” di Nora Ephron. Se, come dice Tolstoj nel celebre incipit di Anna Karenina «Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», è altrettanto vero che ogni scrittore racconta l’infelicità a modo suo. Elena Ferrante lo fa con toni drammatici e viscerali, Nora Ephron sceglie quelli comici e divertiti. Sta al lettore stabilire l’approccio terapeutico più consono al suo stato d’animo.
Consigli
Se la cura a base di Elena Ferrante si rivela efficace, suggerisco di continuare con gli altri due romanzi che compongono l’ideale trilogia Cronache del mal d’amore: “L'amore molesto” e “La figlia oscura”, particolarmente indicati nel trattamento dei rapporti complessi tra madri e figlie. Nella sezione dedicata alle cure intensive, trovate la corposa quadrilogia de “L’amica geniale”.
Terapia cinematografica sostitutiva
Non è facile portare sullo schermo la potenza verbale di Elena Ferrante e il groviglio di sentimenti che animano i personaggi dei suoi romanzi. Il film di Roberto Faenza è aiutato dall’interpretazione sofferta di Margherita Buy e dalla bravura Luca Zingaretti, che è riuscito a evitare la trappola del “marito cattivo” che avrebbe svilito la complessità del rapporto di coppia.

Commenti

Poiché degli altri libri citati nello scritto o non ne ho letti, o fanno aperte di prossimi scritti, mi dedico a questo che è il motivo conduttore della puntata. Un libro che, come dico più avanti, mi ha preso nella lettura, pur lasciando qualche perplessità.
Elena Ferrante “I giorni dell’abbandono” E/O euro 9,50
[pubblicato il 29 novembre 2015]
È il secondo libro della misteriosa Ferrante che leggo, e devo dire che mi ha lasciato un misto di attrazione e di distacco. Indubbie l’abilità di scrivere, di presentare situazioni anche molto complicate. Tuttavia ogni tanto non riesco ad entrare nella sua scrittura “al femminile”, cosa che invece, generalmente, mi riesce con altre scrittrici. Ad esempio, mi viene in mente, su argomento analogo, il libro di Siri Hustvedt “L’estate senza uomini”. C’è invece qualcosa nella Ferrante che ad un certo punto mi blocca. Non che non si riesca a leggerne, ma che frena l’empatia che generalmente si scatena tra lettore e pagina scritta (non che ci si debba immedesimare per forza in qualche personaggio, ma leggendo nasce, quasi sempre, un moto di benevolenza per la pagina scritta). Ora qui, l’argomento è duro, e trattato con altrettanta durezza. Una coppia, sposata da, credo, 15 anni, con due bambini, Gianni di 8 anni e Ilaria di 5, si sfascia, per colpa di lui. Che, ad un certo punto, abbandona Olga e famiglia. Assistiamo allora per ¾ del libro alla discesa di Olga nelle peggiori paure e verso momenti che girano intorno a baratri da cui non ci si risolleva più. L’autrice riesce, con questa sua scrittura forte, a farci sentire il dolore e la pazzia che si vanno annidando nel corpo e nella mente di Olga. E ad ogni pagina c’è un passo in più verso l’inferno. Olga non capisce i motivi di Mario, non trova (o non è capace di trovare) alleati o sodali nella cerchia delle sue amicizie. È estate, e riesce sempre con più difficoltà a gestire i figli. E quasi per nulla a gestire il cane Otto, che era stato voluto da Mario, ma che ora rimane a lei. E fa azioni spaventosamente avventate. Urla, dice parole oscene. Scopre che Mario sta con una ragazzotta di una quindicina di anni più giovane (mentre loro erano coetanei, avviati verso la quarantina). Questa è la scoperta che rischia di farla andare fuori di testa. Pensa di potersi rivalere sul mite vicino di casa, il violoncellista Carrano. Fallendo anche lì, ma con concorso di colpa. Si scorda il mangiare sul fuoco. Si scorda di andare a prendere i figli. Cambia la serratura alla porta di casa, e spesso non si ricorda come si apra. Fino al momento culmine, del libro e della pazzia, laddove tutto può andare verso il tragico o risalire non dico alla normalità, ma quanto meno a livelli di accettabili compromessi. Ci sono formiche in casa, e Olga spruzza l’insetticida. Poi vaga in pensieri dedicati alla sua vita con Mario, senza concludere gran che. Contemporaneamente, Gianni ha un attacco di febbre e vomito, Ilaria lo “cura” con monete fresche sulla fronte (le solite idee pazze dei bimbi), Olga vorrebbe uscire ma la chiave si blocca e la porta non si apre. Panico! E poi Otto si sente anche lui male, anche lui vomita, e Olga trova l’insetticida mangiato dal povero cane. Ancora più panico, si urla dalle finestre, il telefono non funziona (il cellulare perché scaraventato giorni prima contro il muro, il fisso, non avendolo pagato, è stato sospeso). Come chiamare il veterinario? Come chiamare un medico? Come comperare la Tachipirina per il malato? Come chiamare anche il povero Carrano, per essere aiutate? Parlo al femminile che le uniche persone ancora vigili sono proprio Olga ed Ilaria. Quando si arriva a questo punto, o ci si salva o si muore. Fortunatamente, ma un po’ casualmente nella scrittura, Olga si salva. Non si salva il povero Otto, che muore avvelenato dall’insetticida. Si salvano (almeno parzialmente) i figli: di sicuro dalla febbre, ed in parte dalle “pazzie” materne. Un po’ perché ricominciano le scuole, un po’ perché cominciano a frequentare il padre. Che all’inizio sembra contento, poi capisce che anche quello è un onere. E come tutte le persone che scelgono le vie più facili, anche se meno intelligenti, comincia a manifestare segni di indolenza. Olga, invece, alleggerita da questi pesi di cui si era auto caricata, ricomincia a vedere la luce. Accetta il suo ruolo di “abbandonata”, non pensa più al suicidio, e più distesa con i figli, si dispiace (ma in fondo è sollevata) della morte di Otto, e comincia a frequentare, con molta leggerezza il musicista del piano di sotto. Ripeto, la scrittura della Ferrante, in molti punti, quasi mi respinge, non riesco ad entrarci bene. Al solito, penso sia il problema di punti di vista maschili-femminili, dove non è facile scambiarsi la testa. Non capendo la fuga verso il fondo della pazzia, mi risulta altrettanto semplicistica la risalita verso la “normalità”. Comunque un forte libro sulla fine dell’amore tra due persone supposte mature. Dove, e non è un caso, chi fa la figura dell’imbecille è il maschio che si perde dietro a giovani gonnelle. E sono d’accordo con la scrittrice. Quindi, donne, leggetene e discutiamone.
“[Quanto della natura di Mario] covava nei bambini. Quanto di lui sarei stata costretta per sempre ad amare senza nemmeno rendermene conto, solo per via del fatto che amavo loro?” (184)

Finalino

Ribadisco il sentimento di gradevolezza che dona la scrittura di Grazia Fiore, che, mantenendosi leggero, ci fornisce spunti di riflessione e di divertimento. Anche se, come in questo caso, l’argomento è bello pesante. Ma la Ferrante mi sembra una persona all’altezza di affrontarlo. 

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