domenica 30 ottobre 2016

Anche i gialli viaggiano - 30 ottobre 2013

Dall’Inghilterra a Hong Kong, passando per l’Egitto (e notiamo che comunque sono tutti paesi toccati dall’anglicizzazione) anche i nostri scrittori “gialli” viaggiano. Certo non ha bisogno di presentazioni l’esimia Rowling, che, dopo i successi potteriani, si dedica (con piacevolezza almeno all’inizio) ad una nuova storia seriale poliziottesca. Meno noti, ma interessanti per l’ambientazione, l’egiziano Mourad (che tuttavia non convince) ed il cinese Ho Kei (più interessante, anche se quel cognome sembra “quasi” inventato).
J.K. Rowling (Robert Galbraith) “Il richiamo del cuculo” Repubblica MondoNoir 1 euro 7,90
[A: 07/07/2014– I: 05/02/2016 – T: 10/02/2016] - &&& e ½   
[tit. or.: The Cuckoo’s Calling; ling. or.: inglese; pagine: 523; anno 2013]
Dopo i planetari successi della saga di Harry Potter, la scrittrice britannica (ma residente ad Edimburgo in Scozia) J.K. Rowling decide di dedicarsi ad altri progetti. Impiega cinque anni per scrollarsi di dosso il fortunato maghetto. E dopo un romanzo di fiction, decide di provare anche il genere thriller. Al fine di non inquinare giudizi e vendite, questa volta usa un nuovo pseudonimo, marcatamente maschile, Robert Galbraith (usando il nome di un giudice scozzese del 1500). L’ho letto con interesse, senza pensare agli scritti famosi della Rowling. Ed è stata una lettura piacevole, forse leggermente inquinata dalla eccessiva lunghezza dello scritto. L’autrice è presa dal trip delle parole, e spesso allunga, a volte divaga, regalandoci incisi e parentesi non sempre consoni alla trama. O forse sì, ma che io avrei tagliato per rendere il libro più agile nella lettura. Capisco anche la mania degli autori, quando sono di fronte ad un nuovo personaggio, di volercene regalare una descrizione completa. Ricordo invece che il primo libro di Harry Potter, oltre ad essere gradevole, aveva una veloce caratterizzazione dei personaggi, essendo la Rowling consapevole che parte del suo pubblico avrebbe gradito poco una lunga disamina del perché e del percome di Albus Silente o Minerva McGranitt o Severus Piton. Ma torniamo a questo di libro. Dove s’introduce il personaggio centrale, che si capisce sarà al centro anche di altre storie. Cormoran (come cormorano senza la T finale in inglese) Strike, investigatore privato, reduce dall’Afghanistan dove ha avuto un piede amputato in un’azione di guerra, per cui usa una protesi ben nascosta, con alcuni problemi relazionali sia con la ragazza con la quale si lascia sin dall’inizio, sia con la sua storia personale (è figlio illegittimo di un rockstar e di una “groupie”). Anche nell’esercito bazzica intorno ai servizi ed alle “intelligence”. Ora, da civile, continua, anche se con poco successo. Entra presto nella trama anche una simpatica per ora temporanea segretaria. Certo, un investigatore di nome Cormoran non può che avere un uccello come segretaria. Ecco quindi delinearsi il secondo personaggio della saga, l’efficiente Robin (pettirosso). E non pensiamo a Batman! La storia in cui si trova immerso Cormoran, nasce dalla morte della modella Lula, caduta dal suo attico miliardario: omicidio o suicidio? La polizia, non avendo particolari indizi, chiude il caso sulla seconda ipotesi. Mentre John, il fratellastro di Lula, non convinto, ingaggia il nostro per la ricerca della verità. Il motivo per cui viene coinvolto Cormoran è la sua frequentazione giovanile con Charlie, altro fratellastro di John, fino alla morte di questi, caduto in bicicletta da una scogliera. Abbiamo così una famiglia ben allargata: Alec, padre putativo, è morto da un po’, Lady Yvette è affetta da un cancro terminale, Tony, lo zio è uno dei maggiori avvocati di un grande studio legale, dove lavora il nipote John. Studio tenuto dal grande Cyprian, sposato con Ursula, la cui sorella Tansy è la moglie del produttore Bestigui. Non solo, è anche l’unica che, abitando al piano di sotto di Lula, sostiene che sia stata gettata dal balcone. Con questa grande famiglia, entriamo nel mondo glamour della moda e del cinema. C’è il fidanzato di Lula, il drogatello Evan. C’è un rapper americano che c’entra e non c’entra. C’è Ciara, l’amica di Lula e modella anche lei. C’è lo stilista omosessuale Guy Somé. C’è Alison, fidanzata di John e segretaria di Tony. Insomma, un bel parterre de roi. Dove, pagina dopo pagina, incominciamo a ricostruire la vita di Lula, sempre in difficoltà essendo meticcia in un ambiente di bianchi, ma salvata dalla sua fulgida bellezza. Anche lei con problemi di droga, e con la disperata ricerca delle sue origini, un modo per trovare appiglio in una realtà che macina i suoi eroi. Lentamente, ovvio date le oltre 500 pagine del libro, scopriamo nessi e connessi. Cormoran con abili mosse scopre che Tansy aveva detto la verità, scagionando il possibile Bestigui come colpevole. Che ben presto si restringe a pochi elementi: lo zio Tony, dal comportamento ambiguo, il fidanzato Evan, che va in giro con una maschera di lupo sulla faccia, e lo stesso John, dagli improbabili alibi durante gli avvenimenti mortiferi. Ad un’attenta lettura, il meccanismo giallo si svela, ma io non lo dico. Come non rivelo se, alla fine, la segretaria temporanea Robin rimarrà o meno con il nostro. La fine ha anche un discreto colpo di scena, che fa salire le quotazioni investigative di Cormoran, preludendo ad un futuro teso verso investigazioni più remunerative. Come detto una buona lettura, una buona scrittura, ed una buona resa di questo secondo (in lettura) libro della serie “Giro del Mondo in Nero” edito da Repubblica che, per ora, si mantiene su standard migliori delle altre serie dello stesso editore.
Ahmed Mourad “Polvere di diamante” Repubblica MondoNoir 12 euro 7,90
[A: 22/09/2014– I: 28/03/2016 – T: 30/03/2016] - &&---
[tit. or.: Tourab al-mass; ling. or.: arabo; pagine: 350; anno 2009]
Veramente sono rimasto un tantino deluso da questo nuovo (per me) scrittore arabo. Tra l’altro giovane (è un under 40) e nasce come fotografo, anche se di regime (era l’addetto stampa di Mubarak per le foto). Da una decina di anni scrive, ed anche se non ho letto altro di lui, non sono convinto della sua scrittura (dando per scontato che la traduzione di Barbara Teresi sia ottima e fedele). Infatti, mi sembra che abbia interpretato al contrario l’aforisma di Antoine de Saint-Exupéry ("La perfezione non si ottiene quando non c'è più nulla da aggiungere, bensì quando non c'è più nulla da togliere"). Mourad aggiunge tanto, per confezionare un libro che avrebbe bisogno invece di essere più snello. È un esempio forse del più ritrito stile arabo, che parla, comincia da lontano, ingarbuglia, e ci fa arrivare stanchi alla meta. Non apporta molto tutta la prima parte, sia sulla morte del nonno sia sulla vita del padre di Taha, il personaggio centrale del romanzo. Se ne poteva fare un ricordo quando, dopo la morte del padre, Taha scava nei suoi ricordi. Perché il centro della storia, ed il suo svolgimento, è altresì lineare: Taha scopre che il padre è una specie di vendicatore dei torti che utilizza la polvere di diamante per uccidere le persone che lui ritiene si discostino dalla retta via. È anche paralizzato, vive su di una sedia a rotelle, e dalla sua finestra scruta il mondo intorno. Da lì probabilmente vede qualcosa che non doveva, per questo un sicario prezzolato lo uccide, riducendo anche Taha in fin di vita. Il giovane si riprende, trova i diari del padre, ripercorre la vita di piccole vendette, e scopre il nascondiglio della famigerata polvere. Con la quale, un po’ semplicisticamente, uccide il sicario di cui sopra. Peccato che venga scoperto da Walid, un corrotto funzionario di polizia, che costringe Taha ad uccidere l’omosessuale Hany, convincendolo che sia il mandante della morte del padre. Quando però Taha scopre che, nel periodo incriminato, Hany non era in Egitto, troverà anche il modo di scovare il vero colpevole e di ucciderlo con lo stesso mezzo. Il tutto contornato dai problemi personali di Taha, diventato informatore farmaceutico per volere del padre, pur avendo nell’animo solo la passione per la musica in generale e per la batteria in particolare. Tanto che alla fine decide di lasciare tutto e tutti, e di andare a fare il side man a Sharm el-Sheikh. Infarcito dalla storia d’amore con la giornalista Sara, donna contraddittoria e simpatica, che gira con il velo, ma in privato beve birra e fuma spinelli. Non è un rapporto facile il loro, che Taha è bloccato dalle memorie paterne, e non è politicizzato, mentre Sara è parte attiva anche di movimenti anti-governativi. Riusciranno i due a coronare il loro (inespresso) sogno d’amore? Il tutto inframmezzato dal comportamento aberrante di Walid e della polizia egiziana, che, se ne leggiamo alla luce dell’omicidio Regeni, ne abbiamo un quadro non molto distante dalla verità. Mourad quindi infarcisce la sua opera sia di riferimenti autobiografici (Taha nasce il 14 febbraio come il nostro Ahmed, si parla di manifestazioni e di infiltrazioni, che da “vicino” di Mubarak ha sicuramente orecchiato), sia di riferimenti a momenti e situazioni egiziane, che probabilmente avrebbero avuto necessità, per essere colte dal lettore italiano medio, o di una bella post-fazione, o di esaurienti note a piè pagina. Facciamo degli esempi: a pagina 252 si cita Djamila Bouhired, che pochi ricordano essere stata una grande combattente per la liberazione dell’Algeria, condannata a morte per un attentato nel ’57, graziata dopo una campagna di stampa internazionale, e ben ricordata in uno degli episodi de “La Battaglia di Algeri” di Pontecorvo. Oppure, a pagina 274, si paragona il modo di vivere di Sara con Souad Hosny, una delle più grandi attrici arabe, protagonista di decine e decine di film negli anni Sessanta e Settanta, dove spesso faceva la parte della donna emancipata (ma che spesso non andava a finire bene). Infine, non molti, al di fuori dei circuiti gay, conoscono la storia dei 52 uomini arrestati nel 2001 a bordo della “Queen Boat”, una nave che bordeggiava il Nilo e dove furoreggiava l’amore omosessuale; anche perché i 52 uomini subirono lunghe detenzioni, soprusi e processi non certo sereni. Forse solo la citazione di “Palazzo Yacoubian” può smuovere il lettore, che ne conosce per averlo letto (è il primo e migliore libro di ‘Ala al-Aswani), qui però ne viene citato il film, che, visto che come nel libro si parla di omosessualità, venne osteggiato in Egitto e fatto uscire con la visione “Solo per Adulti”. Due ultime note di colore. La prima, riguarda la polvere di diamante, ritenuta appunto nell’antichità veleno potentissimo, ma poi riconosciuta agente di morte solo in quanto provocava inarrestabili emorragie interne, di impossibile cura. Elemento che venne studiato e descritto dal grande esperto di metallurgia del Cinquecento, il toscano Vannoccio Biringuccio. L’altra riguarda una grande festa che nel capitolo 21 si tiene all’Hotel Semiramis. Un hotel a me caro per tante ragioni: è stato il primo hotel dove ho dormito nel centro della città, nel lontano settembre 1989; è stato l’hotel cui sono sempre tornato tutte le volte che negli anni Novanta tornavo in Egitto per lavoro; è situato in una posizione fantastica, sul bordo del Nilo, a poche centinaia di metri da piazza Tahir e dal Museo Egizio, e con di fronte il mitico (per noi viaggiatori) Shepheard Hotel, dove negli anni Trenta transitavano Lawrence d’Arabia e Agatha Christie. Ma il libro di Mourad non è un libro di memorie, anche se le suscita in me. È un libro giallo, e non è un libro giallo riuscito.
Chan Ho Kei “Duplice delitto a Hong Kong” Repubblica AgendaNoir 11 euro 7,90
[A: 07/09/2015 – I: 25/04/2016 – T: 27/04/2016] - &&& +   
[tit. or.: Yiwang Xingjing: The Man who sold the World; ling. or.: cinese; pagine: 205; anno 2011]
Interessante prova, anche se non completamente riuscita. Peccato intanto che nel titolo italiano si perda l’accenno a David Bowie, che invece ha un suo ruolo nella confezione e nella soluzione della storia. Anche se la parte cinese del titolo (la seconda parte ricordo è il titolo di una canzone del Duca Bianco) non ha una traduzione semplice. Secondo quanto ho dedotto da alcuni siti specializzati contiene cenni alla polizia ed a fatti avvenuti nel passato. Che poi è il succo di questo romanzo del nativo di Hong Kong. Tengo a sottolineare questo fatto perché pare che il testo originale abbia molte inflessioni derivanti dal cantonese, piuttosto che dal cinese mandarino ufficiale. Sarebbe inoltre interessante fare un paragone tra questo noir di Hong Kong e la serie di noir ambientati a Shangai e scritti a Qiu Xialong. Essendo tutto ciò, al momento, fuori dalla mia portata, torno al libro, e ad Hong Kong. Ed anche a Bowie, che anche lui (come troppi musicisti) ci ha lasciato quest’anno. Intanto l’autore, Ho Kei, non è certo molto noto all’estero, pur avendo un buon background di sceneggiature di fumetti. Vena che, in alcuni momenti, sembra emergere anche dal racconto. Possiamo immaginarne i riquadri che riempiono le pagine di noi vecchi amanti del disegno a parole. Ed inizia anche con un po’ straniamento. Una sensazione che l’autore spinge un po’ all’eccesso: abbiamo un uomo che, per confusione mentale, stress, o altro, pensa di essere nel 2003 ed invece è nel 2009. E pensa di essere l’agente di polizia criminale Hui, che sta indagando sull’assassinio di una coppia (di cui la donna è anche incinta) nella brulicante città di Hong Kong. Facciamo subito un inciso: l’autore si sente appartenere alla città tentacolare, e riesce a farcene percepire i ritmi e le contraddizioni. Io ho visto avanzare la città inglese fino a diventare uno strano enclave multietnico in Cina. Città dove l’isola è diversa da Kowloon e dall’entroterra. Dove ci sono ville e grattacieli. Dove si vive ammassati (i poveri) e si vive in spazi immensi (i ricchi). Dove la cosa più costosa non è la casa, ma il posto auto! Bravo Chan. Hui (chiamiamolo così fino a prova contraria) si imbarca in una ricerca di capire dove sia, e si imbatte, anche nel 2009, nel mistero della morte che viene dal passato. Stanno girando un film sulla storia, e una giornalista, Sum, sta facendo interviste ai protagonisti. Hui e Sum allora incontrano May Lei, la sorella della vittima, e ripercorrono con lei la storia. Incontrano la moglie del presunto assassino, Lam, che muore solo qualche giorno dopo il feroce omicidio. Vengono a conoscenza dell’esistenza di Yim, amico di Lam, tipo violento e con qualcosa da nascondere. Hui accumula brani di notizie, e noi con lui, che l’autore ci fa fare ogni tanto dei flashback guidati, ricostruendo la storia di Hui, del suo entrare in polizia, delle prime indagini, del DPTS che lo assilla (DPTS à Disturbo Post-Traumatico da Stress), disturbo che colpisce anche Yim, e di cui, nei flashback, conosceremo i motivi (e di certo non ve li dico io, che altrimenti che vi leggete?). Tra flashback e presente scopriamo che Hui e Yim si frequentano, anzi sono amici, e … Arriviamo così al convulso (dal punto di vista della logica e dei capovolgimenti di fronte) finale. Dall’inizio, ora possiamo dirlo, non stiamo seguendo Hui, ma stiamo seguendo Yim. Che ricostruisce la storia perché il suo amico Hui gli ha trovato un posto come attore nel film che stanno girando. E dopo un colpo in testa, Yim si scorda di essere Yim e pensa di essere Hui, ricostruisce il tutto ed accusa … sé stesso dell’omicidio. Ma mentre cerca di spiegarlo a May Lei e a Sum, da foto sui giornali le donne capiscono che parlano con Yim, si spaventano e Yim viene quasi ucciso in una colluttazione. Sul letto d’ospedale, finalmente viene anche per noi lettori ricostruita la storia di Hui e di Yim, con il secondo scagionato dagli omicidi per una serie di testimonianze. Che, nel ricordo di Yim, scagionando anche Lam. Sarà la musica di Bowie che permetterà a Yim di risalire ad una ricostruzione completa della parte finale della vicenda. Che si scinderà in due gradevoli sotto-finali entrambi plausibili. Anche questi non li racconto, neanche per grandi linee. Sarebbe bene che chi non ha visitato la cittadina anglo-cinese ne legga, anche per immedesimarsi nel suo invivibile ma vissuto caos. Faccio un’ultima menzione d’onore alla casa editrice che ha portato Chan in Italia, oltre che a Repubblica che ne ha amplificato l’audience. Si tratta di “Metropoli d’Asia”, editore specializzato appunto in poco noti testi orientali. Un plauso, e la speranza che possa continuare a prosperare.
J.K. Rowling (Robert Galbraith) “Il Baco da seta” Repubblica AgendaNoir 1 euro 7,90
[A: 06/07/2015– I: 25/05/2016 – T: 31/05/2016] - && e ½  
[tit. or.: The Silkworm; ling. or.: inglese; pagine: 540; anno 2014]
Secondo appuntamento con la scrittura gialla della mammina di Harry Potter. Ed anche primo appuntamento con una nuova serie di gialli editi da Repubblica, intitolata “Agenda Noir” (e cercheremo di capirne prima o poi il motivo). Ritroviamo i personaggi seriali del primo libro, ma la (voluta) complessità non tanto della trama ma dell’idea ad essa sottesa, rende questo libro meno gradevole del primo. Non ci sono quegli scatti che potrebbero rendere più accattivanti i personaggi. Ma soprattutto c’è questa tesi che percorre tutto il libro che vuole essere un’accusa, bonaria ma tendenzialmente pungente, del mondo editoriale. Dove si discetta per le più di cinquecento pagine (anche qui siamo sul lunghetto…) su autori, su libri maledetti, su libri caustici, su parole che fanno male ed inducono a male azioni. Fortunatamente Cormoran ha avuto un buon ritorno economico dal precedente caso, tanto che si permette di ingaggiare il suo pettirosso a tempo pieno. E con Robin come assistente comincia ad indagare sulla misteriosa scomparsa dell’eccentrico scrittore Owen Quine. Caso in cui si impegna anche se ben presto capisce che la parte economica non è così rilevante come vorrebbe. Infatti, è la disperata moglie di Quine che chiede il suo aiuto, ed il suo istinto lo porta ad accettare senza pensare più (per ora) al denaro. Owen Quine, personaggio sgradevole e fuori dagli schemi, autore di testi controversi e alla ricerca di una fama che, dopo il successo del primo libro non si è ripresentata, è scomparso ed ha portato con sé un suo manoscritto che getta (getterebbe, se lo si potesse leggere) fango su parecchi personaggi del mondo editoriale di cui fa parte, un libro in cui tortura e sessualità malata tessono le fila per portare a galla i vizi e i segreti più oscuri di molti suoi colleghi. Non è un caso che il libo scomparso si intitoli “Bombyx Mori”, il nome della farfalla che, quando è allo stato larvale diventa l’ingrediente numero uno della seta, il famoso baco da seta (da cui il titolo inglese “Silkworm”). I nostri due detective scopriranno nel corso delle indagini tanti punti oscuri e tanti efferati delitti. C’è l’ex-amico di Quine, Michael Francourt, la cui prima moglie pare si sia suicidata dopo la pubblicazione di un libro apocrifamente ascritto a lei ma in realtà opera di… C’è Elizabeth, l’agente di Francourt e di Quine, un tempo anche amante del primo, ma da cui viene lasciata per una più allegra e promettente (sessualmente) signorina. Entrambi colpiti “a morte” da una frase detta da Quine ad un banchetto, dove lo scrittore in via di scomparire afferma che Michael con Elizabeth ha “il cazzo moscio”. E non vi dico il putiferio che suscita.  C’è appunto la moglie di Quine (sempre un po’ tristina e fuori luogo). C’è la ragazza Orlando, afflitta da ritardi psichici e figlia di… Ci sono gli agenti di Scotland Yard. E c’è anche il fratello di Cormoran (anzi fratellastro; cioè figlio del famoso cantante pop, ma con altra madre ed altra strada nella vita). Ovviamente Quine è morto, ed in maniera abbastanza trucida. Il libro, una volta svelati alcuni misteri, comunque corre velocemente (si fa per dire) verso il suo ragionevole epilogo, dove sempre più capiamo che Robin può diventare qualcosa di meglio di una segretaria. Ovviamente c’è anche della tensione erotica tra Cormoran e Robin (con una fenomenale battuta, quando questa lo chiama “Fulmine”, in memoria del detto inglese “Lightnig dosen’t strike twice”, e ricordandoci che, appunto, il cognome del nostro è Strike) con un finale aperto che ci lascia intravedere possibili episodi numero 3. Come ricordavo parlando del libro di Corrias, anche qui si cerca di evidenziare gli aspetti più oscuri del mondo delle lettere. Un mondo fatto di invidie e ostacoli in cui il desiderio di fama, a volte, supera quello di esprimersi attraverso la propria arte. La Rowling, quindi, dopo essersela presa con il mondo della moda nel primo libro, qui appunto passa a qualcosa a lei più vicino, quello della letteratura, degli scrittori, dei traduttori, degli agenti. Ma la scrittura non è caustica come vorrebbe, anche se, fortunatamente, il lato giallo è abbastanza ben salvaguardato. A me viene da pensare quanto sia stato più dirompente il libro di Doris Lessing “Il diario di Jane Sommers”, dove l’affermata scrittrice pubblica un libro sotto pseudonimo, per smascherare le ipocrisie appunto del mondo delle lettere. Ma tornando alla trama, e al testo, fin dall’inizio gli indizi “polizieschi” sono numerosi, presentati quasi come insignificanti dettagli: qualsiasi cosa, da una brutta tosse a un cane malandato sono appunti da prendere mentalmente! Contribuisce poi a questo, il fatto che nel romanzo di Quine, ogni persona sia mascherata dietro uno stravagante personaggio, e ogni segreto sia invece svelato in modo allegorico, e fornisca quindi ulteriori indizi. Tuttavia il gioco allegorico è troppo pesante da essere sostenuto sino in fondo. E nella parte finale, tutto si svela, anche se, contravvenendo alle regole auree del genere, Cormoran è sempre un passo avanti al lettore. E se i personaggi propri del dramma sono caricati e caricaturali, io mi attengo a quelli fissi, a Cormoran ed a Robin, che tutto sommato mi piacciono e che spero di incontrare ancora nel futuro. Insomma, un libro da ombrellone, ma non proprio da buttare via.
Chiudiamo queste note al termine di una giornata segnata, anche per noi romani, da scosse di terremoto come non si sentivano da anni. La casa tremò come ricordo tremò nel lontano terremoto irpino (anche se era un’altra casa). Spero che tutti (ed in primis i miei amici umbri) stiano bene, come indicano i messaggi ricevuti. 

Nessun commento:

Posta un commento