Non in quanto ammiratori di qualche strano
idolo, ma riconoscenti estimatori dell’investigatore Bacci Pagano, dovuto alla
penna di Bruno Morchio. In primis, in quanto Bacci, in dialetto locale è un
diminutivo di Giovanni Battista. Secondo, perché Morchio, oltre ad essere
scrittore, è anche psicologo, ed io ho un debole per questa categoria di
persone. Terzo perché i primi scritti mi erano piaciuti, ed ho continuato a
leggerne, anche se qua e là si scende di tono, Infine perché per colpa di una
rima che per abbaglio chiamo canina, è diventato meno pagano e più umano.
Bruno Morchio “Rossoamaro” Garzanti euro 9,90
[A: 02/10/2014– I: 15/03/2016 – T: 16/03/2016] - &&&-
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244;
anno 2008]
Una prova onesta dello scrittore
ligure che abbiamo ormai imparato a conoscere. Forse mi aspettavo di più sul
lato investigativo, ma, al solito, Morchio a volte sembra più interessato alle
atmosfere ed ai rapporti tra le persone. Non si è psicologhi per caso, credo.
Inoltre, avendo voglia di tirar fuori una storia dalle proprie radici
personali, innesta, sulla vicenda attuale, un romanzo costruito in flash-back e
risalente agli anni della Seconda Guerra mondiale. In particolare al periodo di
poco precedente la liberazione della Liguria, con tanto di nazisti e partigiani
all’opera. Anche senza il mordente che attendevo, la scrittura e la resa rimane
sulla sufficienza, anche se scarsa. Nel presente, Bacci si innesta sulla fine
della storia precedente. Sulla ricerca cioè della fine della sua cara (o forse
amata) Jasmine. Seguendo le indicazioni ricevute da un trans, Pagano ed il
commissario Petrusiello mettono le mani sulla banda che traffica in prostitute.
Liberandole tutte, ma non trovando tra loro Jasmine. Interrogando a destra,
scavando a sinistra, con l’aiuto informatico di Essam, Bacci trova il luogo
della detenzione della nigeriana. Conflitto a fuoco, altri cattivi uccisi, e
Jasmine portata in coma in ospedale. Per tutto il resto del libro, si attende
di sapere se uscirà dal coma ed in quali condizioni. Non riuscendo a stare ad
aspettare senza far nulla, Bacci accetta allora l’incarico di Kurt, un anziano
e morente tedesco, alla ricerca di un parente (fratellastro o sorellastra).
Kurt nasce dalla relazione tra una donna di Genova ed un SS, che poi muore nel
famoso attentato al cinema Odeon del 15 maggio del ’44. Quello in seguito al
quale la ritorsione tedesca sfociò nella Strage del Turchino (analoga e forse più
feroce di quella delle Fosse Ardeatine) dove, a fronte dei 5 morti tedeschi al
cinema, furono fucilati, al passo del Turchino, 59 tra civili e partigiani. Qui
si diparte la narrazione sul duplice binario di Morchio. Da un lato seguiamo le
vicende dei primi mesi del 1944 nella Genova occupata dai nazisti, le
formazioni partigiane operanti in città alla guida di Olindo. Soprattutto
seguiamo la storia di Tilde, operaia e partigiana, fidanzata con “Biscia”. Per
frenare l’emorragia di arresti, Olindo le chiede di entrare in contatto con il
capitano Hessen, uno dei comandanti tedeschi della città. Hessen ha avuto
moglie e figli morti nel bombardamento di Colonia, è disincantato, pensa che la
guerra finirà presto (e male per i tedeschi). Inoltre è colpito dalla bellezza
di Tilde. Tra i due ben presto si instaura un rapporto fisico forte, con tutti
i distinguo del caso. Che consente a Tilde di fornire indicazioni al gruppo di
Olindo. Tutte giuste, salvo la prima, quando si tratta di scoprire chi sia la
delatrice. Hessen indica Iolanda, e Biscia provvede all’esecuzione. Ma non era
lei, si scoprirà qualche mese dopo, lasciando una macchia indelebile nella vita
futura di Tilde e di Biscia. Ovviamente Tilde rimane incinta di Hessen, e nel
maggio del ’44, dopo aver fornito l’indicazione per la cattura del caporione
fascista Maestri, viene spedita da Hessen sul Lago di Garda, dove partorisce
Kurt, lo consegna alla sorella di Hessen e torna a Genova. Ma nel maggio Hessen
è tra i morti del cinema Odeon. Comunque, Biscia torna dai monti dove ha svolte
le sue azioni partigiane, sposa Tilde e qualche anno dopo (in questo un po’
impreciso Morchio) nasce una nuova vita. Quella che Kurt vuole trovare,
mentendo su una favolosa eredità, ma in realtà per vendicarsi della madre che
secondo lui ha venduto il padre. Il nostro Bacci allora indaga, nel presente,
muovendosi tra i (pochi) sopravvissuti. C’è ancora Olindo. Ci sono altri
partigiani, riuniti sotto la bandiera gloriosa dell’ANPI. Non ci sono più Tilde
e Biscia, sicuramente morti. Non si sa quando, non si sa soprattutto il loro
vero nome, essendo quelli i loro nomi di battaglia. Bacci trova,
inaspettatamente, un muro di omertà cui fare fronte. Nessuno si sbilancia.
Ricordano a pezzi, magari mentendo un pochino e nascondendo molto. Perché tutti
sono convinti che il tedesco voglia altro. Solo Bacci continua imperterrito, e,
tra un nome e l’altro, tra un ricordo e l’altro, ricostruisce una storia (di
cui in parte noi sappiamo dai flash-back). Ma che lo porta ad una soluzione che
noi attenti lettori già si capiva dove voleva andare a parare. Ma, al solito,
non è questo che interessa a Morchio. Quanto capire il rapporto tra oppressi ed
oppressori, capire dove porta la menzogna, dove l’amor di patria, dove
l’appartenenza. Chi ha tradito chi, ci si domanda ad un certo punto. E quanto,
per non essere scoperti, si può fuorviare, magari sacrificando delle vittime
innocenti. Domande sempre valide, in tutte le situazioni, anche quelle non così
drammatiche come una guerra di liberazione. Peccato che non compaiano altri
comprimari che eravamo abituati a vedere spuntare, anche solo per un saluto.
Mara, la figlia Aglaja, Gina, anche Totò. Ma qui c’è come un debito che Morchio
vuole sanare, come emerge tra le righe, nei saluti finali, dove, in alcuni cammei
di passaggio, l’autore confessa di aver inserito i propri genitori. D’altra
parte Morchio è del 1954, ed i suoi, come i miei, cui mando un riverito
omaggio, quelle battaglie le hanno fatte. Riposiamoci ora, in attesa di più
leggeri scritti, con un ritorno, si spera, tutto al presente.
Bruno Morchio “Bacci Pagano cerca giustizia” Fratelli Frilli editore
euro 9,90
[A: 14/03/2016– I: 19/03/2016 – T: 21/03/2016] - &&&-----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155;
anno 2011]
Uno dei libri che, per la
roulette della lettura, appena entrato è passato subito tra i leggibili, e poi
tra i letti. Peccato che, tuttavia, rispetto ai romanzi, sia una raccolta di
racconti. E nei racconti mi sembra che sia Morchio sia Bacci abbiano il fiato
molto corto. Per essere precisi, invero, si tratta di quattro racconti brevi ed
un racconto lungo, l’unico, dei cinque, che si sollevi un po’. Infatti i
quattro racconti sono veloci e privi di mordente. “Bacci Pagano al Roger Café”
è un divertimento al bar, pubblicato su “Il Sole 24 Ore” nel 2010, dove Bacci
ed i suoi amici discettano su immigrati, moschee e rispetto del prossimo, senza
nessun elemento di giallo, di poliziesco né tantomeno di interesse. Forse solo
in controluce rispetto al racconto lungo, come vedremo sotto. “Bacci Pagano sul lago” sono tre scarse
pagine, pubblicate su “Cooperazione” nel 2007, dove Bacci convince un
imprenditore a non perseguire la sua segretaria ex-amante: senza alcun senso.
L’unico interesse è il fatto di essere il solo scritto in cui Bacci non
interviene in prima persona. “Bacci Pagano al ballo a Fontanigorda” proviene da
una raccolta del 2006 di scritti ambientati in Liguria. Anche qui l’intreccio è
di inutile lunghezza. Un tizio paga Bacci perché impedisca alla figlia di
andare a letto con un biondino che risulterebbe essere suo figlio naturale.
Ovvio che è una menzogna globale, nella quale cade Bacci, ma che insieme al
biondino risolve, anche se non brillantemente. Anche qui, l’interesse, o la
curiosità è altrove. Nel titolo e nel luogo, che il racconto è solo un doveroso
omaggio al poeta Giorgio Caproni, che scrisse la bella poesia “Ballo a
Fontanigorda” nel 1936, e proprio in quel borgo, è sepolto vicino alla moglie.
“Gli uccelli di Pechino” infine, è solo un omaggio all’Istituto di Cultura
Italiana di Pechino, perché non c’è storia, non c’è giallo, non c’è
praticamente nulla, se non alcune descrizioni pechinesi ed un timido accenno
alle connivenze tra mafie italiane e mafie cinesi. Veramente poco. Talmente
poco che se mi dovessi basare solo su questi quattro, i libricini scenderebbero
sensibilmente verso lo zero. C’è allora il racconto lungo, un po’ più
articolato, ed in linea con lo stile “paganico”. “Un ibrido d’uomo” pur non
raggiungendo gli interessi che suscitano i romanzi di Morchio ha almeno un filo
conduttore, un’idea ed uno sviluppo coerenti. Intanto ritorna con prepotenza il
lato psicologico del nostro. Il personaggio principale, l’ibrido del titolo, è
tal Mario Canepa, cinquantenne genovese in tutti i suoi aspetti (amore della città,
lavoro e piccole manie). Peccato, per lui ovviamente, che sia nero di pelle, in
quanto adottato quando aveva due anni dalla natia Eritrea, dal padre Ottavio
importatore del locale caffè. Mario esce da una tremenda depressione, che lo ha
ridotto sul lastrico, fisicamente e lavorativamente. Lasciato dalla moglie, con
la figlia Rachele, bulimica ed astiosa, che non finisce mai di cercare di farlo
soffrire, ed il figlio Giovanni che non vuole più avere a che fare con lui.
Mario, alla disperazione, ingaggia il nostro Bacci per cercare di ritrovare il
figlio. E Bacci, che non si lascia sfuggire nulla, capendo che la diaspora
della famiglia Caputo ha origini antiche, cerca non tanto Giovanni ma di capire
il perché della caduta di Mario. Ecco quindi il lato investigativo, dove Bacci,
non vi dico come, riesce a risalire al bandolo di tutta la matassa: il perfido
cugino Ottavio. Non vi narro nemmeno come ha fatto il cugino per rovinare
Mario. Fatto sta che Bacci trova le prove, e le consegna alla famiglia Caputo, che
ne farà quello che vuole. E capisce anche che la depressione di Mario origina
dal giorno delle prime immigrazioni africane in Liguria, quando lui, nero e
benestante, comincia a vedere i suoi fratelli di colore, neri e poveri. In
questo si ricollega ai discorsi del primo racconto di cui sopra. Come si
ricollega il rifiuto di Giovanni al fatto sia che considera il padre un
perdente, sia che non accetta neanche lui il colore della sua pelle scura.
Riuscirà Bacci a rappacificare la famiglia? Riuscirà Bacci a trovare la
giustizia cercata? Se volete leggetene, anche se, consiglio vivamente di
dedicarsi ai romanzi di Morchio, che ben altro respiro hanno sulla pagina.
Bruno Morchio “Colpi di coda” Garzanti euro 11,60 (in realtà, scontato
a 6,96 euro)
[A: 12/04/2016– I: 13/04/2016 – T: 15/04/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 473;
anno 2010]
E
vengo subito smentito, che questo romanzo di Morchio, in gran parte per
l’eccessiva complessità della trama, ma anche per la tematica scelta, non fa
salire l’indice di gradimento, lasciando il rimpianto dei primi libri di Bacci
Pagano a rigirarsi nella memoria. Il nostro scrittore psicologo, infatti, si
imbarca in una trama complessa, certamente attuale, ma con tanti di quei
risvolti, che portano il romanzo verso una dimensione tra lo spionistico ed il
politico, che il nostro autore maneggia meno bene delle tematiche sociali e
personali con cui aveva intrecciato i suoi primi libri. L’inizio sembra quasi
in linea con il Bacci che conosciamo. Vengono uccisi quattro arabi ed il nostro
investigatore viene ingaggiato per tirar fuori dalle peste il nipote della sua
donna di casa, la nubiana Zenab. Ma subito precipitiamo nell’intrigo
internazionale. A pagare e consigliare Bacci interviene tal Ghaffar, capo di
una fantomatica “Lega dei Fratelli Mussulmani”, a metà strada tra la ben nota
Lega araba e sceicchi di grido alla Aga Khan. L’arabo lo mette sulle tracce di
un giornalista freelance, Rodney l’irlandese, che già conosce alcuni retroscena
della vicenda. E che Bacci convince a trasferirsi a Genova per proseguire le
indagini. Saltano fuori ben presto altri intrecci fantomatici. Gli arabi erano
scappati da una nave “fantasma” che dovrebbe trasportare armi da consegnare ad
Istanbul a qualcuno, forse talebani afghani. La nave è di proprietà di un certo
Mayer, faccendiere americano e noto trafficante di armi. Meyer che ha fatto una
figlia con la bella Ute, sfortunata tedesca presa da ingranaggi più grandi di
lei. Ovviamente, Ute e Rodney non solo si conoscono, ma sono innamorati.
Intrecciando così un affare di cuore ad un ben più losco affare di armi e
soldi. Ovviamente anche intervengono i servizi segreti. Per primi gli
americani, dove tira le fila (anche se Morchio ce lo nasconde per molto tempo)
il “pacioso” JJ. Questi aveva conosciuto Bacci quando il nostro aveva passato
tre mesi da clandestino a New York. Una conoscenza che era rimasta scolpita
nell’animo ingenuo dell’americano. Altro stereotipo di cui si infarcisce il
racconto. Arabi buoni ed arabi malvagi. Americani ingenui ma truffaldini. Il
tutto complicato dal fatto che siamo nel novembre del 2008, giorni in cui
l’America si avvia ad una svolta, eleggendo Obama come primo presidente nero
della sua storia. Con poca fantasia, Morchio immagina quindi che i malavitosi
che circondavano l’ambiente Bush operino per mettere delle zeppe alla futura
amministrazione Obama. Rodney riesce a convincere il nipote fuggiasco a
rilasciare interviste esplosive, che mettono in difficoltà la nave che si
aggira in avaria per il Mediterraneo. Nave su cui, per complicare il tutto, è
segregata la figlia di Ute. Avete visto le complicazioni che sta imbastendo il
nostro scrittore? Ormai non si tratta di parlare di sentimenti, di rapporti, di
umanità che si aggira per i carruggi. Siamo alla politica internazionale. Dove
intervengono, in modo com’è giusto da comica finale, anche i Servizi Segreti
italiani. Dove c’è un procuratore della Repubblica, la dottoressa Crovetto, che
dietro le rivelazioni di Bacci e Randolph, cerca di fare pulizia. Ma i capi
della dottoressa, nonché quelli di Totò, il commissario amico di Bacci,
intervengono per mettere a tutto un freno, che l’Italia (altro luogo comune
ovvio) è succube della politica americana. Randolph, con le sue conoscenze e le
sue trame, spande le sue interviste sui media internazionali. Tuttavia Meyer ha
la sua arma segreta: la figlia di Ute. Attraverso la quale ricatta Ute,
costringe Randolph ad uscire allo scoperto, ed a rimanerci, dentro un sacco in
fondo al mare. Non poteva mancare la minaccia alla famiglia di Bacci, per cui
il nostro spedisce in America, sotto la protezione di JJ, la figlia Aglaja e la
sua ex-moglie. Si avvia una trattativa internazionale per fermare le armi,
ridare i soldi a Meyer, liberare Ute e la figlia. Capiamo che JJ è più
coinvolto di quanto sembra, anche se mantiene un fondo di lealtà con Bacci, per
quegli ingenui trascorsi di trenta anni prima. In una scena madre, una volta
saputa la morte di Randolph, Bacci provoca Meyer e con uno stratagemma, lo
uccide. Ute ritrova la figlia. JJ fa in modo che nella barca di Meyer si
ritrovino i passaporti degli arabi uccisi. Il nipote di Zenab può tornare a
Genova. Così come a Genova tornano Aglaja e la madre. Abbiamo però perso per
strada l’umanità di Bacci. Certo deve ancora riprendersi dalle rivelazioni
dell’ultimo romanzo, quel “Rossoamaro” dove ritrovò le tracce della giovinezza
dei suoi genitori, con una serie di rivelazioni che non ha digerito e non
digerisce. Qui si aggira, non trova nessuna signorina che lo consola (e siamo
solidali con lui), né alcuna donna che suscita in lui sentimenti per cui vale
la pena vivere. Bacci si trascina. Così come questa vicenda piena di ovviomi e
banalità. Arabi = terroristi (almeno molti). Arabi non terroristi =
traffichini. Americani o al servizio della CIA o malviventi internazionali ben
protetti. Servizi Segreti scalcinati. E ne potete trovare altri a iosa. Morchio
capiamo la volontà di rendere le vicende aderenti alla realtà che viviamo
quotidianamente. Ma non è questo il luogo dove fare politica internazionale.
Non è con una vicenda così scontata che si scoprono altarini e connivenze.
Tutto rimane senza mordente e senza coinvolgimento. Un’occasione gestita male,
purtroppo.
“Non si dovrebbero lasciar passare gli anni
senza cercare le persone che sono state importanti per noi.” (77)
Bruno Morchio “Lo spaventapasseri” Garzanti euro 9,90
[A: 07/05/2015– I: 16/04/2016 – T: 18/04/2016] - &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 239;
anno 2013]
Risaliamo pian pianino, ma si
rimane ancora ben lontani dai primi scritti del nostro amico genovese. E non è
certo un caso che sia passato del tempo dallo scritto precedente. Certo,
Morchio ha scritto altro, che non prevede l’intervento del nostro Bacci, ma
sento come se avesse voluto prendere un po’ di spazio fra sé ed il suo
personaggio. Aveva fatto un salto nel passato, rinvangando episodio d’infanzie
(che credo abbiano anche risvolti personali, come accenna nei ringraziamenti,
sebbene Bruno sia del ’54). Aveva cercato di fare un giallo spionistico
internazionale, mettendo in mezzo arabi ed americani. Senza molto successo,
secondo me. Ora si ritorna nei carruggi di Genova, nei soliti personaggi tra
via del Campo e la notte. Si ritorna anche all’altro momento “epico” di Bacci,
la giovinezza, gli anni ’70, la rivoluzione, il terrorismo. Sappiamo dei suoi
cinque anni di carcere per motivi di certo incauti. Qui vengono fuori i vinti
ed i vittoriosi dell’epoca, qui viene soprattutto fuori Cesare, il suo grande
sodale di quegli anni, avvocato e paladino ambientalista. Cesare il cui padre
aveva difeso con un certo successo Bacci, facendogli avere il minimo della
pena. Cesare da cui si era allontanato il giorno dopo la scarcerazione. Dopo
una notte brava, di alcool e spinelli, e forse altro (ma non per Bacci), e
dalla quale il nostro si era dipartito per un lungo giro negli spazi aperti del
mondo, di certo necessari dopo cinque anni di spazi ristretti. Ora che siamo in
clima elettorale, Cesare si presenta da outsider, ma di possibile successo, alle
elezioni per il Senato. Ma riceve minacce telefoniche oscure, e chiede subito
aiuto al fiuto ed alle conoscenze di Bacci Pagano, l’investigatore dei
carruggi. La vicenda, come capiamo be presto, e come indica il titolo, è ben
più complessa di semplici telefonate minatorie. Cesare è sposata con Katia,
altra compagna d’epoca, non a caso chiamata a suo tempo “Katia la Pasionaria”.
Si circonda di persone motivate per la sua campagna, ed in particolare di Lou,
di otto anni (credo) più giovane di loro, che scopriamo essere sorella di una
tale Amalia, morta proprio il giorno della liberazione di Bacci. Amalia che a
quel tempo era segretamente fidanzata con Cesare, e della cui morte nessuna ha
trovato il colpevole. Ronza intorno, infine, anche Gianni, architetto,
capomastro, impegnato in mille faccende redditizie, ma sempre ai limiti della
legge. Gianni che era il terzo di quella famosa cena. Gianni che Cesare ha
sempre difeso in accuse minori, ma che dall’avvocato fu mollato quando il
crollo di una casa ipotizza non solo incuria, ma connivenza con strascichi
mafiosi. Ovviamente Bacci è preso da Lou, anche se lei sembra più che altro
dedicata al proprio piacere che alla costruzione di un rapporto. Ma Bacci,
soprattutto, scopre molti altarini. Le reali collusioni con la mafia, che
sbandiera ad una cena elettorale, e viene ben pestato da due loschi figuri.
Capisce subito, e ci fa capire, che è proprio Gianni che sta dietro alle
telefonate. Ma si domanda, e ci domandiamo, bastano due telefonate minatorie a
spaventare qualcuno con lo spauracchio dell’intervento mafioso? O la Mafia,
quella con la M maiuscola, ha ben altri sistemi? Ed allora perché quelle
telefonate? Sarà una canzone di Bennato tratta dall’album “Sono solo
canzonette” che ronza in testa a Bacci, che la figlia Aglaja ci rivela in tutti
i suoi versi, che è ben nota da Lou, amante delle canzoni d’epoca, che veniva
suonata nel locale cui Bacci, Cesare e Gianni festeggiavano trenta anni prima.
Non vi dico certo il finale, anche se Katia è partita per la Patagonia, e Lou
rivela a Bacci che… Morchio cerca anche qui di fare qualche accenno di discorso
politico. Cosa succede ai compagni degli anni ’70 ora che sono passati
quarant’anni? Ideali contro pragmatismo. Perché gente come Gianni ha fatto
soldi, gente come Cesare ha fatto carriera e gente come Bacci si accontenta di
vivere il proprio piccolo? L’unico dubbio, nel finale, è una conclusione stile
Igor Attila del penultimo libro di Foschi. Messaggio criptico che qualcuno
vorrà decriptare, spero. Per ora abbiamo fatto una scorpacciata delle avventure
di Bacci, con ben otto libri (sette romanzi ed uno di racconti), che hanno
saturato la mia voglia di tornare a girare per Genova. Cercheremo altro nel
prossimo futuro. Anche se Bacci mi rimane simpatico (e rimpiango non restino
sulla scena più spesso Aglaja, Mara, Gina, e le altre donne del nostro).
“La verità non può essere tagliata e servita a fette come una patéca
[cocomero in genovese], a seconda delle convenienze.” (198)
Chiamasi rima canina un tentativo poetico in cui si
forza la costruzione di una assonanza piuttosto che il compimento di una frase.
Intanto non avventurandoci oltre in giro per la terra, mi avvio ad un week-end
basco (ma senza Vasco). Ed anticipo la domenica con il sabato.
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