sabato 22 ottobre 2016

Paganidi - 22 ottobre 2016

Non in quanto ammiratori di qualche strano idolo, ma riconoscenti estimatori dell’investigatore Bacci Pagano, dovuto alla penna di Bruno Morchio. In primis, in quanto Bacci, in dialetto locale è un diminutivo di Giovanni Battista. Secondo, perché Morchio, oltre ad essere scrittore, è anche psicologo, ed io ho un debole per questa categoria di persone. Terzo perché i primi scritti mi erano piaciuti, ed ho continuato a leggerne, anche se qua e là si scende di tono, Infine perché per colpa di una rima che per abbaglio chiamo canina, è diventato meno pagano e più umano.
Bruno Morchio “Rossoamaro” Garzanti euro 9,90
[A: 02/10/2014– I: 15/03/2016 – T: 16/03/2016] - &&&-
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244; anno 2008]
Una prova onesta dello scrittore ligure che abbiamo ormai imparato a conoscere. Forse mi aspettavo di più sul lato investigativo, ma, al solito, Morchio a volte sembra più interessato alle atmosfere ed ai rapporti tra le persone. Non si è psicologhi per caso, credo. Inoltre, avendo voglia di tirar fuori una storia dalle proprie radici personali, innesta, sulla vicenda attuale, un romanzo costruito in flash-back e risalente agli anni della Seconda Guerra mondiale. In particolare al periodo di poco precedente la liberazione della Liguria, con tanto di nazisti e partigiani all’opera. Anche senza il mordente che attendevo, la scrittura e la resa rimane sulla sufficienza, anche se scarsa. Nel presente, Bacci si innesta sulla fine della storia precedente. Sulla ricerca cioè della fine della sua cara (o forse amata) Jasmine. Seguendo le indicazioni ricevute da un trans, Pagano ed il commissario Petrusiello mettono le mani sulla banda che traffica in prostitute. Liberandole tutte, ma non trovando tra loro Jasmine. Interrogando a destra, scavando a sinistra, con l’aiuto informatico di Essam, Bacci trova il luogo della detenzione della nigeriana. Conflitto a fuoco, altri cattivi uccisi, e Jasmine portata in coma in ospedale. Per tutto il resto del libro, si attende di sapere se uscirà dal coma ed in quali condizioni. Non riuscendo a stare ad aspettare senza far nulla, Bacci accetta allora l’incarico di Kurt, un anziano e morente tedesco, alla ricerca di un parente (fratellastro o sorellastra). Kurt nasce dalla relazione tra una donna di Genova ed un SS, che poi muore nel famoso attentato al cinema Odeon del 15 maggio del ’44. Quello in seguito al quale la ritorsione tedesca sfociò nella Strage del Turchino (analoga e forse più feroce di quella delle Fosse Ardeatine) dove, a fronte dei 5 morti tedeschi al cinema, furono fucilati, al passo del Turchino, 59 tra civili e partigiani. Qui si diparte la narrazione sul duplice binario di Morchio. Da un lato seguiamo le vicende dei primi mesi del 1944 nella Genova occupata dai nazisti, le formazioni partigiane operanti in città alla guida di Olindo. Soprattutto seguiamo la storia di Tilde, operaia e partigiana, fidanzata con “Biscia”. Per frenare l’emorragia di arresti, Olindo le chiede di entrare in contatto con il capitano Hessen, uno dei comandanti tedeschi della città. Hessen ha avuto moglie e figli morti nel bombardamento di Colonia, è disincantato, pensa che la guerra finirà presto (e male per i tedeschi). Inoltre è colpito dalla bellezza di Tilde. Tra i due ben presto si instaura un rapporto fisico forte, con tutti i distinguo del caso. Che consente a Tilde di fornire indicazioni al gruppo di Olindo. Tutte giuste, salvo la prima, quando si tratta di scoprire chi sia la delatrice. Hessen indica Iolanda, e Biscia provvede all’esecuzione. Ma non era lei, si scoprirà qualche mese dopo, lasciando una macchia indelebile nella vita futura di Tilde e di Biscia. Ovviamente Tilde rimane incinta di Hessen, e nel maggio del ’44, dopo aver fornito l’indicazione per la cattura del caporione fascista Maestri, viene spedita da Hessen sul Lago di Garda, dove partorisce Kurt, lo consegna alla sorella di Hessen e torna a Genova. Ma nel maggio Hessen è tra i morti del cinema Odeon. Comunque, Biscia torna dai monti dove ha svolte le sue azioni partigiane, sposa Tilde e qualche anno dopo (in questo un po’ impreciso Morchio) nasce una nuova vita. Quella che Kurt vuole trovare, mentendo su una favolosa eredità, ma in realtà per vendicarsi della madre che secondo lui ha venduto il padre. Il nostro Bacci allora indaga, nel presente, muovendosi tra i (pochi) sopravvissuti. C’è ancora Olindo. Ci sono altri partigiani, riuniti sotto la bandiera gloriosa dell’ANPI. Non ci sono più Tilde e Biscia, sicuramente morti. Non si sa quando, non si sa soprattutto il loro vero nome, essendo quelli i loro nomi di battaglia. Bacci trova, inaspettatamente, un muro di omertà cui fare fronte. Nessuno si sbilancia. Ricordano a pezzi, magari mentendo un pochino e nascondendo molto. Perché tutti sono convinti che il tedesco voglia altro. Solo Bacci continua imperterrito, e, tra un nome e l’altro, tra un ricordo e l’altro, ricostruisce una storia (di cui in parte noi sappiamo dai flash-back). Ma che lo porta ad una soluzione che noi attenti lettori già si capiva dove voleva andare a parare. Ma, al solito, non è questo che interessa a Morchio. Quanto capire il rapporto tra oppressi ed oppressori, capire dove porta la menzogna, dove l’amor di patria, dove l’appartenenza. Chi ha tradito chi, ci si domanda ad un certo punto. E quanto, per non essere scoperti, si può fuorviare, magari sacrificando delle vittime innocenti. Domande sempre valide, in tutte le situazioni, anche quelle non così drammatiche come una guerra di liberazione. Peccato che non compaiano altri comprimari che eravamo abituati a vedere spuntare, anche solo per un saluto. Mara, la figlia Aglaja, Gina, anche Totò. Ma qui c’è come un debito che Morchio vuole sanare, come emerge tra le righe, nei saluti finali, dove, in alcuni cammei di passaggio, l’autore confessa di aver inserito i propri genitori. D’altra parte Morchio è del 1954, ed i suoi, come i miei, cui mando un riverito omaggio, quelle battaglie le hanno fatte. Riposiamoci ora, in attesa di più leggeri scritti, con un ritorno, si spera, tutto al presente.
Bruno Morchio “Bacci Pagano cerca giustizia” Fratelli Frilli editore euro 9,90
[A: 14/03/2016– I: 19/03/2016 – T: 21/03/2016] - &&&-----
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 155; anno 2011]
Uno dei libri che, per la roulette della lettura, appena entrato è passato subito tra i leggibili, e poi tra i letti. Peccato che, tuttavia, rispetto ai romanzi, sia una raccolta di racconti. E nei racconti mi sembra che sia Morchio sia Bacci abbiano il fiato molto corto. Per essere precisi, invero, si tratta di quattro racconti brevi ed un racconto lungo, l’unico, dei cinque, che si sollevi un po’. Infatti i quattro racconti sono veloci e privi di mordente. “Bacci Pagano al Roger Café” è un divertimento al bar, pubblicato su “Il Sole 24 Ore” nel 2010, dove Bacci ed i suoi amici discettano su immigrati, moschee e rispetto del prossimo, senza nessun elemento di giallo, di poliziesco né tantomeno di interesse. Forse solo in controluce rispetto al racconto lungo, come vedremo sotto.  “Bacci Pagano sul lago” sono tre scarse pagine, pubblicate su “Cooperazione” nel 2007, dove Bacci convince un imprenditore a non perseguire la sua segretaria ex-amante: senza alcun senso. L’unico interesse è il fatto di essere il solo scritto in cui Bacci non interviene in prima persona. “Bacci Pagano al ballo a Fontanigorda” proviene da una raccolta del 2006 di scritti ambientati in Liguria. Anche qui l’intreccio è di inutile lunghezza. Un tizio paga Bacci perché impedisca alla figlia di andare a letto con un biondino che risulterebbe essere suo figlio naturale. Ovvio che è una menzogna globale, nella quale cade Bacci, ma che insieme al biondino risolve, anche se non brillantemente. Anche qui, l’interesse, o la curiosità è altrove. Nel titolo e nel luogo, che il racconto è solo un doveroso omaggio al poeta Giorgio Caproni, che scrisse la bella poesia “Ballo a Fontanigorda” nel 1936, e proprio in quel borgo, è sepolto vicino alla moglie. “Gli uccelli di Pechino” infine, è solo un omaggio all’Istituto di Cultura Italiana di Pechino, perché non c’è storia, non c’è giallo, non c’è praticamente nulla, se non alcune descrizioni pechinesi ed un timido accenno alle connivenze tra mafie italiane e mafie cinesi. Veramente poco. Talmente poco che se mi dovessi basare solo su questi quattro, i libricini scenderebbero sensibilmente verso lo zero. C’è allora il racconto lungo, un po’ più articolato, ed in linea con lo stile “paganico”. “Un ibrido d’uomo” pur non raggiungendo gli interessi che suscitano i romanzi di Morchio ha almeno un filo conduttore, un’idea ed uno sviluppo coerenti. Intanto ritorna con prepotenza il lato psicologico del nostro. Il personaggio principale, l’ibrido del titolo, è tal Mario Canepa, cinquantenne genovese in tutti i suoi aspetti (amore della città, lavoro e piccole manie). Peccato, per lui ovviamente, che sia nero di pelle, in quanto adottato quando aveva due anni dalla natia Eritrea, dal padre Ottavio importatore del locale caffè. Mario esce da una tremenda depressione, che lo ha ridotto sul lastrico, fisicamente e lavorativamente. Lasciato dalla moglie, con la figlia Rachele, bulimica ed astiosa, che non finisce mai di cercare di farlo soffrire, ed il figlio Giovanni che non vuole più avere a che fare con lui. Mario, alla disperazione, ingaggia il nostro Bacci per cercare di ritrovare il figlio. E Bacci, che non si lascia sfuggire nulla, capendo che la diaspora della famiglia Caputo ha origini antiche, cerca non tanto Giovanni ma di capire il perché della caduta di Mario. Ecco quindi il lato investigativo, dove Bacci, non vi dico come, riesce a risalire al bandolo di tutta la matassa: il perfido cugino Ottavio. Non vi narro nemmeno come ha fatto il cugino per rovinare Mario. Fatto sta che Bacci trova le prove, e le consegna alla famiglia Caputo, che ne farà quello che vuole. E capisce anche che la depressione di Mario origina dal giorno delle prime immigrazioni africane in Liguria, quando lui, nero e benestante, comincia a vedere i suoi fratelli di colore, neri e poveri. In questo si ricollega ai discorsi del primo racconto di cui sopra. Come si ricollega il rifiuto di Giovanni al fatto sia che considera il padre un perdente, sia che non accetta neanche lui il colore della sua pelle scura. Riuscirà Bacci a rappacificare la famiglia? Riuscirà Bacci a trovare la giustizia cercata? Se volete leggetene, anche se, consiglio vivamente di dedicarsi ai romanzi di Morchio, che ben altro respiro hanno sulla pagina.
Bruno Morchio “Colpi di coda” Garzanti euro 11,60 (in realtà, scontato a 6,96 euro)
[A: 12/04/2016– I: 13/04/2016 – T: 15/04/2016] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 473; anno 2010]
E vengo subito smentito, che questo romanzo di Morchio, in gran parte per l’eccessiva complessità della trama, ma anche per la tematica scelta, non fa salire l’indice di gradimento, lasciando il rimpianto dei primi libri di Bacci Pagano a rigirarsi nella memoria. Il nostro scrittore psicologo, infatti, si imbarca in una trama complessa, certamente attuale, ma con tanti di quei risvolti, che portano il romanzo verso una dimensione tra lo spionistico ed il politico, che il nostro autore maneggia meno bene delle tematiche sociali e personali con cui aveva intrecciato i suoi primi libri. L’inizio sembra quasi in linea con il Bacci che conosciamo. Vengono uccisi quattro arabi ed il nostro investigatore viene ingaggiato per tirar fuori dalle peste il nipote della sua donna di casa, la nubiana Zenab. Ma subito precipitiamo nell’intrigo internazionale. A pagare e consigliare Bacci interviene tal Ghaffar, capo di una fantomatica “Lega dei Fratelli Mussulmani”, a metà strada tra la ben nota Lega araba e sceicchi di grido alla Aga Khan. L’arabo lo mette sulle tracce di un giornalista freelance, Rodney l’irlandese, che già conosce alcuni retroscena della vicenda. E che Bacci convince a trasferirsi a Genova per proseguire le indagini. Saltano fuori ben presto altri intrecci fantomatici. Gli arabi erano scappati da una nave “fantasma” che dovrebbe trasportare armi da consegnare ad Istanbul a qualcuno, forse talebani afghani. La nave è di proprietà di un certo Mayer, faccendiere americano e noto trafficante di armi. Meyer che ha fatto una figlia con la bella Ute, sfortunata tedesca presa da ingranaggi più grandi di lei. Ovviamente, Ute e Rodney non solo si conoscono, ma sono innamorati. Intrecciando così un affare di cuore ad un ben più losco affare di armi e soldi. Ovviamente anche intervengono i servizi segreti. Per primi gli americani, dove tira le fila (anche se Morchio ce lo nasconde per molto tempo) il “pacioso” JJ. Questi aveva conosciuto Bacci quando il nostro aveva passato tre mesi da clandestino a New York. Una conoscenza che era rimasta scolpita nell’animo ingenuo dell’americano. Altro stereotipo di cui si infarcisce il racconto. Arabi buoni ed arabi malvagi. Americani ingenui ma truffaldini. Il tutto complicato dal fatto che siamo nel novembre del 2008, giorni in cui l’America si avvia ad una svolta, eleggendo Obama come primo presidente nero della sua storia. Con poca fantasia, Morchio immagina quindi che i malavitosi che circondavano l’ambiente Bush operino per mettere delle zeppe alla futura amministrazione Obama. Rodney riesce a convincere il nipote fuggiasco a rilasciare interviste esplosive, che mettono in difficoltà la nave che si aggira in avaria per il Mediterraneo. Nave su cui, per complicare il tutto, è segregata la figlia di Ute. Avete visto le complicazioni che sta imbastendo il nostro scrittore? Ormai non si tratta di parlare di sentimenti, di rapporti, di umanità che si aggira per i carruggi. Siamo alla politica internazionale. Dove intervengono, in modo com’è giusto da comica finale, anche i Servizi Segreti italiani. Dove c’è un procuratore della Repubblica, la dottoressa Crovetto, che dietro le rivelazioni di Bacci e Randolph, cerca di fare pulizia. Ma i capi della dottoressa, nonché quelli di Totò, il commissario amico di Bacci, intervengono per mettere a tutto un freno, che l’Italia (altro luogo comune ovvio) è succube della politica americana. Randolph, con le sue conoscenze e le sue trame, spande le sue interviste sui media internazionali. Tuttavia Meyer ha la sua arma segreta: la figlia di Ute. Attraverso la quale ricatta Ute, costringe Randolph ad uscire allo scoperto, ed a rimanerci, dentro un sacco in fondo al mare. Non poteva mancare la minaccia alla famiglia di Bacci, per cui il nostro spedisce in America, sotto la protezione di JJ, la figlia Aglaja e la sua ex-moglie. Si avvia una trattativa internazionale per fermare le armi, ridare i soldi a Meyer, liberare Ute e la figlia. Capiamo che JJ è più coinvolto di quanto sembra, anche se mantiene un fondo di lealtà con Bacci, per quegli ingenui trascorsi di trenta anni prima. In una scena madre, una volta saputa la morte di Randolph, Bacci provoca Meyer e con uno stratagemma, lo uccide. Ute ritrova la figlia. JJ fa in modo che nella barca di Meyer si ritrovino i passaporti degli arabi uccisi. Il nipote di Zenab può tornare a Genova. Così come a Genova tornano Aglaja e la madre. Abbiamo però perso per strada l’umanità di Bacci. Certo deve ancora riprendersi dalle rivelazioni dell’ultimo romanzo, quel “Rossoamaro” dove ritrovò le tracce della giovinezza dei suoi genitori, con una serie di rivelazioni che non ha digerito e non digerisce. Qui si aggira, non trova nessuna signorina che lo consola (e siamo solidali con lui), né alcuna donna che suscita in lui sentimenti per cui vale la pena vivere. Bacci si trascina. Così come questa vicenda piena di ovviomi e banalità. Arabi = terroristi (almeno molti). Arabi non terroristi = traffichini. Americani o al servizio della CIA o malviventi internazionali ben protetti. Servizi Segreti scalcinati. E ne potete trovare altri a iosa. Morchio capiamo la volontà di rendere le vicende aderenti alla realtà che viviamo quotidianamente. Ma non è questo il luogo dove fare politica internazionale. Non è con una vicenda così scontata che si scoprono altarini e connivenze. Tutto rimane senza mordente e senza coinvolgimento. Un’occasione gestita male, purtroppo.
“Non si dovrebbero lasciar passare gli anni senza cercare le persone che sono state importanti per noi.” (77)
Bruno Morchio “Lo spaventapasseri” Garzanti euro 9,90
[A: 07/05/2015– I: 16/04/2016 – T: 18/04/2016] - &&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 239; anno 2013]
Risaliamo pian pianino, ma si rimane ancora ben lontani dai primi scritti del nostro amico genovese. E non è certo un caso che sia passato del tempo dallo scritto precedente. Certo, Morchio ha scritto altro, che non prevede l’intervento del nostro Bacci, ma sento come se avesse voluto prendere un po’ di spazio fra sé ed il suo personaggio. Aveva fatto un salto nel passato, rinvangando episodio d’infanzie (che credo abbiano anche risvolti personali, come accenna nei ringraziamenti, sebbene Bruno sia del ’54). Aveva cercato di fare un giallo spionistico internazionale, mettendo in mezzo arabi ed americani. Senza molto successo, secondo me. Ora si ritorna nei carruggi di Genova, nei soliti personaggi tra via del Campo e la notte. Si ritorna anche all’altro momento “epico” di Bacci, la giovinezza, gli anni ’70, la rivoluzione, il terrorismo. Sappiamo dei suoi cinque anni di carcere per motivi di certo incauti. Qui vengono fuori i vinti ed i vittoriosi dell’epoca, qui viene soprattutto fuori Cesare, il suo grande sodale di quegli anni, avvocato e paladino ambientalista. Cesare il cui padre aveva difeso con un certo successo Bacci, facendogli avere il minimo della pena. Cesare da cui si era allontanato il giorno dopo la scarcerazione. Dopo una notte brava, di alcool e spinelli, e forse altro (ma non per Bacci), e dalla quale il nostro si era dipartito per un lungo giro negli spazi aperti del mondo, di certo necessari dopo cinque anni di spazi ristretti. Ora che siamo in clima elettorale, Cesare si presenta da outsider, ma di possibile successo, alle elezioni per il Senato. Ma riceve minacce telefoniche oscure, e chiede subito aiuto al fiuto ed alle conoscenze di Bacci Pagano, l’investigatore dei carruggi. La vicenda, come capiamo be presto, e come indica il titolo, è ben più complessa di semplici telefonate minatorie. Cesare è sposata con Katia, altra compagna d’epoca, non a caso chiamata a suo tempo “Katia la Pasionaria”. Si circonda di persone motivate per la sua campagna, ed in particolare di Lou, di otto anni (credo) più giovane di loro, che scopriamo essere sorella di una tale Amalia, morta proprio il giorno della liberazione di Bacci. Amalia che a quel tempo era segretamente fidanzata con Cesare, e della cui morte nessuna ha trovato il colpevole. Ronza intorno, infine, anche Gianni, architetto, capomastro, impegnato in mille faccende redditizie, ma sempre ai limiti della legge. Gianni che era il terzo di quella famosa cena. Gianni che Cesare ha sempre difeso in accuse minori, ma che dall’avvocato fu mollato quando il crollo di una casa ipotizza non solo incuria, ma connivenza con strascichi mafiosi. Ovviamente Bacci è preso da Lou, anche se lei sembra più che altro dedicata al proprio piacere che alla costruzione di un rapporto. Ma Bacci, soprattutto, scopre molti altarini. Le reali collusioni con la mafia, che sbandiera ad una cena elettorale, e viene ben pestato da due loschi figuri. Capisce subito, e ci fa capire, che è proprio Gianni che sta dietro alle telefonate. Ma si domanda, e ci domandiamo, bastano due telefonate minatorie a spaventare qualcuno con lo spauracchio dell’intervento mafioso? O la Mafia, quella con la M maiuscola, ha ben altri sistemi? Ed allora perché quelle telefonate? Sarà una canzone di Bennato tratta dall’album “Sono solo canzonette” che ronza in testa a Bacci, che la figlia Aglaja ci rivela in tutti i suoi versi, che è ben nota da Lou, amante delle canzoni d’epoca, che veniva suonata nel locale cui Bacci, Cesare e Gianni festeggiavano trenta anni prima. Non vi dico certo il finale, anche se Katia è partita per la Patagonia, e Lou rivela a Bacci che… Morchio cerca anche qui di fare qualche accenno di discorso politico. Cosa succede ai compagni degli anni ’70 ora che sono passati quarant’anni? Ideali contro pragmatismo. Perché gente come Gianni ha fatto soldi, gente come Cesare ha fatto carriera e gente come Bacci si accontenta di vivere il proprio piccolo? L’unico dubbio, nel finale, è una conclusione stile Igor Attila del penultimo libro di Foschi. Messaggio criptico che qualcuno vorrà decriptare, spero. Per ora abbiamo fatto una scorpacciata delle avventure di Bacci, con ben otto libri (sette romanzi ed uno di racconti), che hanno saturato la mia voglia di tornare a girare per Genova. Cercheremo altro nel prossimo futuro. Anche se Bacci mi rimane simpatico (e rimpiango non restino sulla scena più spesso Aglaja, Mara, Gina, e le altre donne del nostro).
“La verità non può essere tagliata e servita a fette come una patéca [cocomero in genovese], a seconda delle convenienze.” (198)
Chiamasi rima canina un tentativo poetico in cui si forza la costruzione di una assonanza piuttosto che il compimento di una frase. Intanto non avventurandoci oltre in giro per la terra, mi avvio ad un week-end basco (ma senza Vasco). Ed anticipo la domenica con il sabato.

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