E sì, una bella trama di personaggi seriali.
C’è l’avvocato Mickey Haller, c’è il poliziotto Hieronymus Bosch, c’è
l’ispettore islandese Erlendur Sveinsson ed infine l’alter nomine mio, lo
scozzese John Rebus. Dove Michael Connelly lo preferisco con Bosch (cattivo
rapporto con gli avvocati?), dove Arnaldur Indriðason scende un po’ in basso
quando si incarta nei ricordi del suo ispettore, dove infine Ian Rankin, in
questa che è una delle prime uscite (e lo spiego sotto) è ancora di un buon
livello noir e, soprattutto, scozzese.
Michael Connelly “Il quinto testimone” Piemme euro 13 (in realtà,
scontato a 12,35 euro)
[A: 01/03/2015– I:
21/03/2016 – T: 24/03/2016] - && e ¾
[tit. or.: The Fifth Witness; ling. or.: inglese; pagine: 485; anno 2011]
Siamo
nel lato “legal thriller” di Connelly, quello con Mickey Haller per protagonista.
Purtroppo il nostro autore, che in molte uscite ho trovato di un livello
comunque più che sufficiente, qui mi si propone in un romanzo molto “legal” e
poco thriller. E non è che riesca a coinvolgere più di tanto. Certo, e ben lo
sappiamo dai lavori eponimi di Grisham, che la parte legale ha un suo
svolgimento avvincente in America, pieno di risvolti che, per la nostra
legislatura italiana ed europea, risultano fantasiosi e spesso capziosi.
Tuttavia, non sono riuscito ad appassionarmi alla vicenda della preparazione e
dello svolgimento del processo che vede sul banco degli imputati Lisa Trammel,
accusata dell’omicidio di Mitchell Bondurant, dirigente dell’Istituto di
credito che voleva espropriarla dalla casa di cui non aveva finito di pagare il
mutuo. Certo, il thriller non può mancare in uno scritto di Connelly, e
sicuramente, arrivando all’ultima delle cinque parti del libro, il lettore avrà
tutte le risposte (o gran parte delle risposte) che si aspettava. Si troverà
chi ha organizzato tutto, si capiranno molti motivi e moventi. Tuttavia in modo
molto affrettato e sommario (non a caso questa parte occupa 12 delle quasi 500
pagine del libro). Tutto il resto è legato, bene o male, al processo. Ed alla
vita di Haller. Ai suoi rapporti con l’ex moglie Maggie, dove i due si trovano
e si lasciano diverse volte qui e altrove, in particolare per le due opposte
barricate su cui militano (uno avvocato difensore, l’altra nell’ufficio di
Procuratore Distrettuale) e sulle differenti visioni che da quelle ne hanno. Ai
suoi, questa volta scarsi, incontri con la figlia. Al cammeo del fratellastro
Bosch che interviene con la figlia solo alla festa di compleanno di Haller.
Tutto il resto è per l’appunto nelle maglie delle procedure legali americane.
Prima le modalità di rinvio a giudizio, dove l’esorbitante cifra chiesta per la
libertà su cauzione viene pagata da un losco figuro, che cerca di accompagnarsi
a Liza per tutto il libro. Si scoprirà, ben presto, ma solo dopo la metà, con i
particolari, che oltre ad essere losco, aggirantesi nei meandri del sottobosco
hollywoodiano di produzioni un po’ ai limiti, e senza soldi, è alle dipendenze
economiche di tale Louis Opparizio, italo-americano di sicura scarsa
luminosità. Non solo, ha molti contrasti con Bondurant per le modalità che
utilizza, e per i suoi legami alle famiglie italo-americane di New York (mi
avete capito, no?). Haller avrà il suo bel da fare per emarginare il tizio, e
per riprendersi da una bella pestata che due tizi da lui assoldati (ma per
conto di chi?) gli fanno a metà romanzo. Poi c’è lo scontro tra accusa e
difesa, con l’avvocato Andrea Freeman che è anche amica della Maggie di cui
sopra, quindi con un potenziale conflitto con il di lei ex Mickey. Haller ci
spiega le strategie che si usano in aula, le modalità di scelta dei giurati,
cercando di tirarli dalla propria parte, gli interrogatori ed i
controinterrogatori, il conto dei punti che idealmente accumulano le due parti
durante il dibattimento. L’accusa inizia in sordina, tirando fuori, in un paio
di occasioni, elementi probanti ma non precedentemente mostrati alla difesa. E
questa sembra essere una grave colpa. L’accusa trova il martello con cui è
stata colpita la vittima, con il DNA della stessa, ed è un martello
probabilmente proveniente dagli attrezzi di Lisa, trova un paio di scarpe
altresì macchiate di sangue, e, nel garage della nostra imputata, anche un
dispensatore di elio per gonfiare palloncini. Haller ribatte punto su punto, ma
il momento cruciale viene dalla dimostrazione della difficoltà per una persona
alta 1 metro e 57 di colpire in cima alla testa una persona alta 1 metro e 90.
Ripeto, è bello ed istruttivo leggere il dibattere delle varie prove, al termine
delle quali la giura andrà a deliberare se Lisa ha commesso il reato o esiste
un ragionevole dubbio. Non ve lo dico, ma ripeto, che alla fine Connelly
spiegherà tutto. Ma dopo aver ripetuto la gradevolezza del leggere, ribadisco
anche il poco coinvolgimento nello svolgimento delle azioni. Infine, un ultimo
elemento, questo sì da “tirata d’orecchi” verso il sempre attento Connelly.
Parlo della scivolata sulla citazione del pezzo di musica classica che secondo
Haller fa da colonna sonora alla costruzione del processo da parte dell’accusa.
Viene descritto, e su questo concordo, come un lungo montare degno del Bolero
di Ravel: prima strumenti isolati, poi un lungo crescendo verso l’esplosione
finale. Ma si indica come titolo del pezzo Shèhèrazade. Ora, non sono d’accordo
su chi, in rete e altrove, prende di mira lo svarione di aver confuso Ravel con
Rimsky-Korsakov. Piuttosto, credo che abbia confuso il pezzo di Ravel con il
titolo che compare nel disco nel 1992 vinse il Grammy Awards, dove, oltre al
Bolero, compare la Shèhèrazade di Manuel Rosenthal. Entrambi eseguiti dalla
pluripremiata e benemerita Orchestre Lamoureux. Caro Michael, meglio tornare al
jazz, e soprattutto a Bosch, dove senz’altro ti muovi più a tuo agio.
Michael Connelly “La caduta” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a
11,05 euro)
[A: 12/06/2015– I: 18/04/2016 – T: 21/04/2016] - &&&
e ¼
[tit. or.: The Drop; ling. or.: inglese; pagine: 344;
anno 2011]
Fortunatamente
torniamo subito a Bosch! Devo dire che non mi ha convinto completamente, ma è
intrigante, ben costruito, e, al solito, aperto a successivi sviluppi. Sono al
24° volume della produzione di Connelly, e non è poco. E siamo anche al 17°
episodio che ha per protagonista il detective Bosch. Quante ne abbiamo passate
con lui. Gli inizi, la scoperta del personaggio, il matrimonio con Eleanor, il
divorzio, la scoperta di avere una figlia, la scoperta delle sue radici
familiari, e di conseguenza del fratellastro Mike, la morte di Eleanor,
l’invecchiamento. Ed eccoci qui, dove, reintegrato nei ranghi, si occupa dei
casi irrisolti, quelli che abbiamo anche imparato a chiamare, seguendo le serie
televisive, “Cold Case”. Non solo, ma nelle prime pagine, il suo capo gli
comunica che tra 3 anni andrà in pensione. Sarà interessante vedere come
l’autore americano riuscirà a svolgere le prossime trame, magari facendo
convergere il sodalizio con il fratellastro. Anche se il loro rapporto, pur
pacifico, non sembra idilliaco. Più sprint potrebbe avere l’accenno della
figlia Maddie di voler entrare anche lei nei corpi di polizia. In questo
romanzo è presente solo in poche pagine, ma con due dettagli importanti: rivela
al padre le intenzioni di un indagato analizzandone il linguaggio del corpo e
indirizza il padre verso una poesia, che Bosch aveva dimenticato, dedicata a
Chet Baker. Facciamo un inciso su questo cameo, che se tutti (o quasi)
conosciamo il grande trombettista americano morto cascando (suicidio?
Incidente? Altro?) da un hotel ad Amsterdam, pochi (e non io) conoscevamo la
bella poesia a lui dedicata da John Harvey. Quella citata nel libro. E John
Harvey è un personaggio reale, un discreto scrittore di gialli inglese, che ha
scritto anche un paio di libri di poesie, compresa quella di cui stiamo
parlando. Tornando alla trama. A Bosch viene affidato un caso irrisolto, di una
ragazza strangolata, perché il DNA trovato sulla vittima corrispondente ad un
bambino di otto anni. Errore del dipartimento o altro? Mentre Bosch inizia la
sua indagine, il capo della polizia gli affida un secondo caso, non “cold” ma
molto “hot”. Il figlio del potente lobbysta Irving, molti episodi fa in
contrasto duro con Bosch, muore precipitando dal balcone della suite di un
albergo esclusivo. Suicidio? Incidente? Omicidio? Irving ha qualcosa da
nascondere e sa, come noi sapremo ben presto, che ci sono macchie scure sulla
vicenda. Per questo vuole Bosch, di cui conosce l’integrità, anche se i due
appunto si sono spesso scontrati. Analizzando la morte del giovane Irving,
Bosch nota che questi non ha lanciato grida cadendo (quindi escludiamo subito
l’incidente), e che aveva uno strano segno sulla schiena, da lui presto
ricondotto ad una presa da arti marziali utilizzata dalla polizia per mettere
fuori combattimento un pregiudicato, ma dalla polizia stessa bandita all’epoca
del caso Rodney King (che tutti dovremmo conoscere, in quanto mise a ferro e
fuoco Los Angeles). Proseguendo le indagini, Bosch scopre inoltre: una lotta di
lobby per un appalto di taxi, che una delle lobby era guidata dal morto, che
l’aggiudicazione dell’appalto fa capo ad Irving, che i taxi in difficoltà sono
comandati da un ex-agente di polizia, allontanato dal corpo proprio inseguito a
quella presa assassina, che la moglie del morto gli aveva appena comunicato di
volere il divorzio, che il migliore amico del morto lo aveva lasciato proprio
in conseguenza delle strane manovre sui taxi, che il morto aveva comperato un
biglietto aereo per il figlio per il giorno dopo la sua morte, e che infine
l’ex-agente era stato nella suite poche ore prima della morte. Certo, tutta
l’indagine è costellata da altri colpi di scena, che lascio ai volenterosi
lettori. Ma, non esprimendomi comunque sulla ricostruzione finale
dell’accaduto, è certo che il politico Irving ne esce inguaiato con la sua
rielezione messa in bilico. È ovvio poi che Bosch non tralascia l’altra
indagine. Dove scopre che il sangue del bambino poteva risiedere sulla cintura
con il quale questi era colpito a sangue dal patrigno. Dove risale, con un po’
di fortuna, al patrigno stesso, scoprendo un killer seriale che potenzialmente
potrebbe aver commesso più di trenta omicidi. Il problema di queste morti è la
mancanza di cadaveri, a parte quello di cui all’inizio del caso. Sarà
sufficiente per incriminarlo? Anche perché, al solito, Bosch ottiene confessioni
ed ammissioni non sempre in modo ortodosso. Infine, indagando su questo caso,
viene a contatto con la dottoressa Stone, con la quale, sembra, poter iniziare
una nuova storia, lui che da tanto ormai sembra aver rinunciato ai rapporti con
l’altro sesso. Insomma, un bel pamphlet nello stile di storie complesse,
intriganti ed intrigate, una buona traccia per una serie televisiva. Con la
solita, accattivante scrittura, e le solite incursioni musicali, in particolare
sul lato jazz, che a me piacciono sempre. Un solo commento finale per una
reprimenda sulla quarta di copertina. Non è vero che i due casi sono
intrecciati, ma c’è solo una minaccia del potente Irving di usare il caso
irrisolto per mettere in difficoltà Bosch e il corpo di polizia. Quindi, probabilmente,
saranno collegati in un prossimo episodio. Tuttavia, se si legge prima la
quarta, si creano aspettative che, in questo libro, vengono deluse. Quindi un
po’ più della sufficienza per Connelly, un voto negativo alla Piemme.
“Si era ancora una volta inimicato un
potente, ma non se ne curava. Non sarebbe stato capace di vivere in un mondo
senza nemici.” (267)
“A volte è necessario imboccare la strada
sbagliata per arrivare a quella giusta.” (273)
Arnaldur Indriðason “Le abitudini delle volpi” TEA euro 10 (in realtà,
scontato a 8,50 euro)
[A: 01/11/2014– I: 16/06/2016 – T: 22/06/2016] - &&
e ½
[tit. or.: Furðustrandir; ling. or.: islandese; pagine: 303;
anno 2010]
Come esimersi dal leggere un
nuovo episodio della saga dell’ispettore Erlendur Sveinsson quando si è
nuovamente impegnati in un bello e coinvolgente tour proprio in Islanda? E
mentre nella piazza della capitale la gente impazza per le vittorie della
nazionale di calcio, io mi gusto questo ritorno alle sue radici dell’ispettore,
sempre alla ricerca del motivo della scomparsa del fratello quando lui aveva 8
anni. Ferita che non si rimargina (e ben lo capiamo!). Lo leggiamo, lo portiamo
anche sotto la pioggia battente, e ne terminiamo brillantemente la lettura,
anche se poi il risultato è leggermente inferiore alle mie attese. Intanto,
penso di non svelare nulla, soprattutto a chi ha già letto almeno un libro di
Arnaldur Indriðason, se dico che l’ispettore Erlendur da sempre è tormentato da
un episodio avvenuto nella sua infanzia: la scomparsa del fratellino Bergur
durante una tempesta di neve. Loro due con il padre erano usciti nella
brughiera per tentare di radunare le loro pecore. Erlendur e il padre erano
stati ritrovati semiassiderati, del fratello nessuna traccia. Per questo motivo
l’ispettore è sempre stato attratto dalle storie di sparizione delle persone,
fino al punto di indagare per conto suo, al di fuori delle indagini ufficiali
della polizia. Sappiamo da alcuni romanzi precedenti (dove Erlendur lascia il
primo piano delle indagini ai suoi sottoposti), che il nostro commissario ha
preso un periodo di ferie. Non si sapeva che fine avesse fatto, ed ora qui
scopriamo che si è andato a stabilire nel rudere che era stata la loro casa,
prima che la famiglia, dopo la disgrazia, si trasferisse a Reykjavík. C’era
tornato varie volte nel corso degli anni, ma ora, dopo trentacinque anni, vuole
andare fino in fondo alle sue ricerche e cancellare dalla propria testa tutti i
fantasmi che la popolano. E cerca che ti ricerca, al nostro commissario, coadiuvato
da alcune presenze locali, viene in mente che potrebbe (dovrebbe?) seguire le
abitudini delle volpi, che nel loro peregrinare nei boschi, raccolgono di
tutto, portandolo nella loro tana. E quando in una tana Erlendur trova delle
ossa comincia a sospettare che, forse, la storia di Bergur possa avere una
fine. Noi lo speriamo con lui, che, va bene l’ossessione, ma stava portando il
nostro ad una via senza ritorno. Forse nel prossimo volume se ne capirà di più.
Questa parte, inoltre, consente agli esimi editori italiani di travisare il
titolo ed uscirsene con questo “Le abitudini delle volpi”, ben lontano
dall’originale “Furðustrandir”. Il titolo fa riferimento ad una striscia
costiera probabilmente situata nel Labrador canadese, che viene citata a lungo
nella saga islandese di Erik il Rosso. Ed ha tutto un altro senso. Primo,
perché è una terra scoperta dai vichinghi nel loro peregrinare, come se
Erlendur finalmente potesse scoprire un nuovo modo di vivere. E secondo, e ben
più importante, il termina in islandese significa “spiaggia splendida”. Dove
ben vediamo il contraltare con la tormenta di neve che ha portato via Bergur. E
che risulta anche il motivo dominante di una storia che a quella di Bergur
idealmente si intreccia, e che fortunatamente dà quel poco di sapore poliziesco
alla vicenda. Dove infatti vediamo che in una tormenta di neve, nel lontano
1942 scompare nel nulla una giovane sposa, Matthildur. Durante la stessa
tormenta che aveva bloccato nel passo sopra il paese una colonna di soldati. Si
disse allora che Matthildur fosse fuggita con uno di loro, ma interrogando e
tormentando Ezra, uno dei pochi sopravvissuti a quel periodo, ad Erlendur
vengono dubbi. Parlando e scavando nelle memorie, scopre che la giovane aveva
sposato tal Jakob, che la riempiva di botte. Jakob ed Ezra erano anche soci
nella pesca. Dal fatto che i due, alla scomparsa di Matthildur si allontanano,
e che Ezra non si avvicina più ad una donna, il nostro intuisce motivi di
gelosia dietro la storia. Tanto che riesuma la bara di Jakob, scoprendo che è
stato sepolto semi-congelato ma ancora vivo. Facile sarà per voi capire chi lo
ha sepolto, perché, e tutta la storia collegata, che il nostro scrittore ci fa
rivivere anche con passeggiate interessanti su e giù nel tempo. Eppur tuttavia
la storia è un po’ moscia, non prende, e soprattutto risultano a me fastidiosi
i salti onirici notturni di Erlendur quando sogna e rivive i momenti della
morte del fratello. Spero, per lui e per noi, che si torni presto a Reykjavík
ed alle sue più organiche storie.
“Ci convivo da allora … con il disprezzo di me stesso che non sono mai
riuscito a sopportare.” (263)
Ian Rankin “Morte grezza” Tea euro 12 (in realtà, scontato a 10,20euro)
[A: 12/05/2015– I: 29/09/2016
– T: 06/10/2016] - &&&--
[tit. or.: Black&Blue; ling. or.: inglese; pagine: 522; anno 1997]
Pur
ringraziando la buona volontà delle edizioni TEA, non posso che rimarcare con
dispiacere che questa è l’ottava inchiesta dell’ispettore John Rebus, e che già
sono uscite da anni (e ne ho già parlato) le ultime inchieste dell’esimio
ispettore, arrivate credo alla ventunesima puntata. Inoltre, sempre per dovere
di completezza, delle prime nove inchieste solo la prima, la terza e questa
sono uscite in italiano. Peccato, che in queste prime si andava forgiando una
tipologia interessante del personaggio, che nelle successive si evolve, si
incarta e quasi deflagra (ma non ci torno sopra, che ne ho tramate ben otto).
Altro punto di domanda riguarda quel “neroazzurro” del titolo, che, nel gergo
poliziesco, si riferisce alle ecchimosi, soprattutto facciali. E Rebus non ne
smentirà il significato, in molte parti del libro. C’è anche un riferimento
all’album dei Rolling Stones (si parla anche marginalmente di musica, citando
una sconosciuta banda scozzese che piacque in gioventù a Rankin, i Dancing
Pigs). Infine, il titolo si scompone nel Black del petrolio e nel Blu riferito
alle forze di polizia. Tutto ciò si banalizza in italiano con una morte grezza,
che penso voglia alludere al petrolio ed ai guasti con esso perpetrati nei Mar
del Nord. Ultimo appunto editoriale (ma quand’è che faranno ammenda?), riguarda
l’inopinato cambiamento di sesso del morto che dà inizio alla vicenda, e che
nella quarta di copertina diventa “il caso della morte di una giovane” (sic!).
Ma nonostante tutto, rispetto ad altre inchieste di Rebus e ad altri scritti di
Rankin, questo libro è comunque un classico nel suo genere. Infatti con questo
libro lo scrittore scozzese darà il via ad un filone che i critici letterari
ribattezzeranno ben presto “Tartan Noir” o, per noi continentali, “Nero scozzese”.
Che tartan è ovviamente riferito al particolare disegno dei tessuti in lana
delle Highland scozzesi. E questo, come i libri degli altri autori che
seguiranno, è intrinsecamente scozzese. Si beve birra, si va spesso su e giù
tra Edimburgo e Glasgow, con qualche puntata ad Aberdeen, si parla del
petrolio, grande ricchezza locale, si parla delle forze di polizia che allora
si chiamava “Lothian and Borders”, si parla di cibo scozzese, tra cui il
fantomatico “haggis”. Per chi non ne fosse a conoscenza, l'haggis è un
insaccato di interiora di pecora, macinate insieme a cipolla, grasso di
rognone, farina d'avena, sale e spezie, mescolati con brodo e bollite
tradizionalmente nello stomaco dell'animale per circa tre ore: una delizia! E
si parla di violenza, di morti, di scazzottate (black&blue, appunto). Come
in molte storie di Rankin, molti sono i piani che si intersecano. C’è il
giovane della quarta di copertina che viene ucciso nelle prime pagine, ed il
cui caso viene affidato a Rebus. C’è il suicidio in carcere di un ergastolano
che sostiene nelle sue memorie di essere stato incastrato anni prima da Rebus e
da Gaddes allora capo del nostro. Ci sono prove che sembrano incastrare Rebus a
questo caso, tanto che viene affidato al suo vecchio amico Jack in modo che non
possa inquinare le prove. C’è il suicidio anche di Gaddes che sembra sempre più
incastrare Rebus. Ci sono morti di donne che sembrano ricalcare un serial
killer che proprio di Gaddes era diventato l’assillo prima che questi andasse
in pensione. E che ora diventa l’assillo di Rebus. Tra l’altro i due serial
killer hanno un andamento talmente omologo che, essendo il vecchio serial
soprannominato “Bible John”, quest’eponimo viene chiamato “Johnny Bible”. E c’è
anche Bible John, che vuol trovare il suo Emulo, per ribadire la sua primarietà
in quelle tipologie omicide. Sembrano tanti fatti slegati, ma la bravura di
Rankin, dribblando le facili scorciatoie, è proprio quello di ricondurle
(quasi) all’unità. Il tutto legato al petrolio, ambiente in cui lavorava Alan
il primo morto. Dove il magnate del petrolio, facendo affari con un ras delle
Highland, convince un accolito di questo a farlo fuori (anche perché Alan si
era legato alla figlia di lui, anche se da lui diseredata). Ma quando Rebus si
avvicina a questa soluzione, il nipote del ras fa piazza pulita del primo
cattivo. Cercando anche di mettere fuori gioco lo zio. Non ci riuscirà, e sarà
una bella lotta di interrogatori (e scazzottate) che porterà Rebus a risolvere
questa parte. Che come sottoprodotto, lo porterà a capire i legami tra le morti
perpetrate da Johnny Bible, e trovandolo poi, anche se già morto e forse ucciso
da Bible John. Che farà in modo anche di uscire allo scoperto (anche se non
volontariamente). Ci vorrà una lettera d’addio scritta da Gaddes prima di
uccidersi a mettere molti puntini sulle “i” della vicenda. Intanto, scagionando
Rebus da tutte le accuse. E facendo capire (e facendoci capire) le ossessioni
di Gaddes. Il tutto per dar modo a Rebus di stanare Bible John, anche se questi
farà in tempo a far perdere le sue tracce. Probabilmente. Il tutto con un
finale abbastanza aperto da consentire al nostro di prevedere l’inizio di un
plot per una successiva puntata. E per finire abbiamo Rebus che cerca di
smetter di bere, abbiamo Rebus che sicuramente ha avuto una storia con Gill, ma
che per ora no, abbiamo la comparsa di Siv, l’aiutante delle forze di polizia
che tra molti libri uscirà meglio definita. Non manca naturalmente anche una
frecciata alla corruzione delle forze di polizia. Molto per un libro solo, ma
so già che Rankin non si risparmia mai, anche in queste più di 500 pagine. Che
sono una sempre utile lettura del mondo scozzese, degno contraltare delle
letture facili dell’epigono opposto degli scrittori locali, quell’Alexander McCall
Smith, che poi è stato il primo che ho seguito con piacere.
Anche questo mese si riesce a
riempire le tre settimane, ed allora eccovi un bel regalo sulle terapie d’amore
con la mia cara Audrey.
In questo
novembre tra estate di San Martino e primavera inventata, sono ancora
combattuto tra Hans Fallada (“Ognuno muore solo”) e John Donne (“Nessun uomo è
un'isola … La morte di qualsiasi uomo mi
sminuisce, perché io sono parte dell'umanità). Forse dovrei solo scrivere di
più, e magari con voi ridere di più.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
NOVEMBRE 2016
In questo novembre forse troppo da estate indiana (per chi
ha frequentato l’America) eccoci immersi nelle “dolci e fresche acque”, non di
Petrarca né di Capote, ma nel cortile di Audrey Hepburn, ascoltandola cantare
“Moon River”.
TERAPIE D’AMORE (IV)
COLAZIONE DA TIFFANY di TRUMAN CAPOTE (1959)
Pillole
di trama
Un giovane aspirante scrittore rievoca il suo incontro con
l’evanescente Holly Golightly, ragazza disinvolta e misteriosa che conduce una
vita sregolata tutta feste, cene e appuntamenti. Si circonda di personaggi
strampalati almeno quanto lei, uomini ricchi e facoltosi da cui farsi mantenere
come il gangster mafioso Sally Tornato, l’antipatico miliardario Rusty Trawler,
il potente agente di Hollywood O.J. Berman e un politico brasiliano che
promette di sposarla ma poi la scarica. È a quel punto che Holly abbandona
Manhattan per sempre, facendo perdere le sue tracce e lasciando al giovane
scrittore solo il suo incancellabile ricordo.
Supposta-saggezza
Il biglietto da visita di Holly non potrebbe essere più
chiaro: «Signorina Holiday Golightly. In transito». Il suo nome d’arte,
Holiday, vuol dire “vacanza”, mentre il cognome, Golightly, “andare con
leggerezza”, “viaggiare leggeri”. Holly è così: perennemente in vacanza dalla
vita reale e sempre di passaggio, vola su tutto e su tutti con un candore
spiazzante. Sfuggente e misteriosa, è effervescente come le bollicine dello
champagne che scorre a fiumi durante le numerose feste a cui prende parte.
Impossibile restare indifferenti al fascino misterioso di questa donna
inafferrabile. Ne viene travolto anche il protagonista, ma ne è solo
affascinato o anche innamorato? Difficile a dirsi perché tra i due s’instaura
una relazione platonica e indefinibile come non potrebbe essere altrimenti
vista la natura di Holly, sempre di passaggio nella sua vita e in quella degli
altri. Per scelta non si affeziona a niente e a nessuno, detesta vedere gli
animali in gabbia e il suo gatto non ha nome così come il protagonista del
romanzo. Perde sempre le chiavi di casa e disturba regolarmente i vicini
citofonando a ogni ora del giorno e della notte. Il suo appartamento sembra un
campeggio, pieno di casse e valigie sempre pronte. All’essere «normale»
preferisce di gran lunga l’essere «naturale», è falsa ma «autenticamente falsa»
e non si abitua a niente perché «chi si abitua a tutto tanto vale che muoia». È
come se pattinasse sul ghiaccio, piroettando intorno ai problemi con sublime
leggiadria ma graffiando la vita delle persone che lastricano la sua pista,
scivolando con incosciente disinvoltura e noncuranza sui sentimenti e sugli
affetti. Di fatto Holly è un angelo crudele la cui leggerezza si trasforma in
un peso per gli altri, almeno per le persone sensibili, le uniche che possono
essere ferite (le altre, tutt’al più possono essere scalfite), le uniche che
non se lo meritano. Come suo marito, un anziano veterinario di provincia
abbandonato senza spiegazioni dopo averla sposata, giovanissima, adottandola,
prendendosi cura di lei e amandola, forse l’unico fra tutti gli uomini che la
ragazza colleziona uno dopo l’altro. Holly non si fa problemi per questo “go
lightly”, ma la sua incoscienza, la sua distrazione o, peggio, la sua
indifferenza diventano un macigno per gli altri. Il mondo è pieno di Holly,
persone terrorizzate dal pensiero di perdere la propria libertà e che, fuggendo
da qualsiasi tipo di legame, finiscono con il costruirsi una gabbia e rimanere
sole, profondamente sole anche in mezzo alla gente. Sole, tristi e malinconiche
come Holly, che sotto la sua esuberanza nasconde un vuoto che la risucchia.
Esemplificativo della natura fuggevole e sfuggente del personaggio è anche il
suo rapporto con Tiffany, la mitica gioielleria che ha il potere di
rassicurarla quando è afflitta dalle paturnie ovvero quando è inquieta (cioè
sempre). A lei non interessano tanto i gioielli (ma se arrivano in regalo non
li disdegna) né i diamanti. Perché, come si dice, un diamante è per sempre e la
parola “sempre” non esiste per chi è perennemente “in transito”. Ma muoversi in
continuazione senza una destinazione, partire e non tornare, non vuol dire
viaggiare ma fuggire. E non si può ruggire da sé stessi. Così, anche la
spensierata Holly che non si lega a nessuno, finisce per legarsi da sola
rinchiudendosi in gabbia. C’è una parola che può riassumere l’essenza della
protagonista e del romanzo: spiazzante. Holly è tutto e il contrario di tutto:
è ingenua ma calcolatrice, generosa ma avida, sincera ma bugiarda, allegra ma
inquieta, libera ma prigioniera di sé stessa, trasgressiva ma incastrata nei
compromessi. Altrettanto contraddittoria ma irresistibilmente affascinante è
New York, la città che fa da sfondo alla storia e all’umanità brancolante tra
illusione e disillusione che racconta. Spiazzante e affascinante è il romanzo
come lo è il suo autore.
Posologia
Colazione da Tiffany è una pomata da applicare sulle ustioni
di vario grado causate dalle infatuazioni per quelle anime evanescenti e
intriganti come Holly, al cui fascino è impossibile resistere ma che sono la
principale causa di scottanti delusioni amorose. Nonostante possa provocare un
po’ di dolore durante la somministrazione, grazie alla sua azione emolliente e
lenitiva il romanzo aiuta a cicatrizzare rapidamente le ferite. È consigliato
anche per garantire un immediato sollievo a quella sensazione di pesantezza che
affligge chi prima di fare qualsiasi cosa, pensa e ripensa fino a dimenticarsi
cosa deve fare, chi pianifica tutto nei minimi dettagli e se qualcosa va storto
entra in crisi, chi è così abitudinario da essere immobile, chi di natura è
pesante come il cotechino con le lenticchie a ferragosto, chi prende tutto
troppo seriamente, anche le barzellette, e carica cose e persone di eccessive
aspettative. Se prese nelle giuste dosi, le componenti caratteriali di Holly
stimolano la circolazione di sana spensieratezza (da non confondere con la
superficialità) e incrementano la capacità di godere appieno del momento
presente senza preoccuparsi eccessivamente del domani, che tanto «di doman non
c’è certezza», diceva il Magnifico. O per dirla come Truman Capote, “go
lightly” ovvero “take it easy”.
Colazione da Tiffany è uno psicofarmaco naturale per
affrontare le paturnie. Altra cosa dalla tristezza, che viene per ragioni
precise come il fatto che si sta ingrassando o che piove, le paturnie sono
un’improvvisa e apparentemente inspiegabile paura di non si sa cosa. Per Holly
l’unico rimedio è andare da Tiffany, dove ha l’impressione che niente di brutto
possa accadere. Ai primi sintomi di paturnie, si consiglia di andare in
qualsiasi luogo ci si senta al sicuro, anche da Tiffany. Non è necessario
entrare e comprare (è scontato che se poi qualcuno vi regala un gioiello, la
paura potrebbe anche passare prima). In caso Tiffany non sia a portata di mano,
il rimedio più pratico è accomodarsi sul divano e godersi il film tratto dal
romanzo: un vero gioiello, magari da vedere sorseggiando un bicchiere di
champagne.
Terapia
cinematografica sostitutiva
La lettura di Colazione da Tiffany non può essere disgiunta
dal superbo adattamento cinematografico di Blake Edwards. E questo non solo
perché per tutti Holly ha il volto e il fascino di Audrey Hepburn, ma perché
proprio le differenze tra il romanzo e il film, tante e consistenti, sono utili
ai fini di quel la sensazione di felicità che è l’obiettivo principale del
nostro percorso terapeutico. Commedia sofisticata per eccellenza, che ha
consacrato la divina Audrey a icona di stile ed eleganza, il film vanta una
regia impeccabile, attori straordinari, dialoghi brillanti, un’ambientazione
raffinata e una colonna sonora indimenticabile (la canzone Moon River rende
perfettamente la cifra malinconica che pervade tutta la pellicola). La
differenza sostanziale rispetto al romanzo è la storia d’amore tra i
protagonisti. Mentre il libro lascia l’amaro in bocca, il film scioglie la
malinconia in un finale a base di lacrime, pioggia e un bacio appassionato. E
la scritta «the end» mette fine all’inquietudine di Holly e alla nostra.
Effetti
collaterali
Nel caso di Colazione da Tiffany gli effetti collaterali più
diffusi sono stati riscontrati in seguito alla somministrazione del film
piuttosto che del libro. Per via del suo lento e graduale rilascio di emozioni
positive (che contrastano la malinconia del romanzo), il primo e più eclatante
sintomo verificato su larga scala è il manifestarsi di una forma di dipendenza
piuttosto forte, con conseguente compulsione a vedere e rivedere il film a ogni
buona occasione (cioè sempre). Altrettanto comune è il rischio di venire
contagiati dal fascino di Audrey Hepburn, sviluppando la pericolosa mania di
imitarne lo stile. Tra le controindicazioni c’è la possibilità di ritrovarsi
vestiti con tubino nero, guanti lunghi, tiara in testa, filo di perle, lungo
bocchino in una mano e bicchiere di champagne nell’altra, ma l'effetto potrebbe
essere diverso da quello provocato dall’attrice. Lo dico per mettere al riparo
da eventuali delusioni scottanti. Ricordatevi che Holly cura le paturnie
guardando le vetrine di Tiffany, non entrando dentro la gioielleria. Voi fate
lo stesso guardando il film e Audrey, non calandovi nei suoi panni, per quanto
irresistibilmente glamour.
Commenti
Non ho mai particolarmente amato Truman Capote, ma ho sempre
venerato Audrey, per cui, in omaggio al Toro che è in lei (nasce il 4 maggio,
ragazzi!), ho letto anche questo tomo.
Truman Capote
“Colazione da Tiffany” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 31 luglio 2011]
Il
fatto è che Holly sarà sempre legata ad Audrey, e leggere ora il racconto
lascia un po’ spaesati (si potrebbe aprire un dibattito su libri e film?). Sarà
poi che Capote non riesce a piacermi; certo non ho letto tantissimo, e
soprattutto non ho ancora affrontato “A sangue freddo”, ma questa colazione non
mi è piaciuta troppo. Comunque facciamo uno sforzo di dimenticarci di Audrey,
dei “Vermi” (nelle meno di cento pagine del libro, il termine compare verso
pagina 80), ed anche della colazione (che si cita a pagina venti, in meno di
due righe). E rimaniamo per ora al libro. Un racconto dolente di un piccolo
spaccato della bohème di New York. Scrittori spiantati, fotografi giapponesi,
miliardari arroganti, ambasciatori brasiliani, amiche balbuzienti e baristi
saggi. Tutti gli ingredienti per fare una piccola miscela calibrata, un buon
gin fizz (non un martini cocktail). E lei, ingenua o forse no, illumina con i
suoi tocchi di lucida follia questo mondo un po’ squallido, un po’ chic. In
realtà, non succede gran che, è solo un filo di ricordi, che, saltando qua e
là, andando avanti ed indietro nel corso del tempo, ci fa innamorare di questa
ragazza in cerca di successo, ma in un mondo cattivo e torbido. Capote
infioretta le pagine di qualche sentenzina, e tenta di inzeppare il testo con
tiepidi aforismi. Ma non graffia, non affonda. A volte sbaglia il tiro (come
quando bolla il brasiliano spaesato di essere ‘fuoriposto come un violino in
un’orchestra jazz’: ma Stéphane Grappelli allora? O Joe Venuti? Per non parlare
di Jean-Luc Ponty, che verrà però qualche anno dopo?). Sembra girare un po’ in
tondo (ma mi piace di più quando lo farà Paul Auster in atmosfere compatibili
qualche anno dopo). Il vero punto forte (rispetto al film) è il suo essere non
consolatorio, al fine. Qui niente lieto fine, niente gatto ritrovato sotto la
pioggia. No, qui Holly scompare, ed è proprio grazie a poche sparse notizie che
arrivano vuoi dal Sudamerica vuoi dall’Africa che lo scrittore alter ego ce ne
parla e ci racconta questa storia. Che anche altro afflato avrebbe avuto se,
come Capote aveva suggerito, fosse stata impersonata da Marylin. Altra storia.
Altro film. Film che, a parte Audrey, non ha altri grossi atout. Perché al
solito, Hollywood qui stravolge, fa dello scrittore Paul un gigolò mantenuto, e
sparisce l’amica balbuziente. Ma si sa, il Cinema americano stravolge tutto pur
di fare cassetta. L’unica cosa di veramente buona è la colonna sonora con quel
Moon River da favola. E l’unica cosa veramente esilarante è Mickey Rooney nella
parte del fotografo giapponese. Ma qui si parlava del libro. E della scrittura
di Capote, che, alla fine dei conti, a me irrita. Boh, speriamo in altro. Ma
ora vado a rimettere la punta ideale sul vinile consumato e sentire ancora una
volta “…Wherever you're going, I'm going your way…”.
“La patria è dove ci
si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (87)
“… non sapere che
cos’è tuo finché non lo butti via.” (93)
Finalino
Non so se ci sia modo di curare la tristezza con Truman, con
Audrey, o con Grazia Fiore, ma riprendo le ultime righe, senza andare a vedere
le vetrine di Tiffany, e canto “Two drifters, off to see the world / There's
such a lot of world to see … Wherever you're goin' / I'm goin' your way” (Due
vagabondi, in giro per il mondo / Ci sono tante cose da vedere … Dovunque
andrai / io sarò con te). Lacrime e “The end”.
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