martedì 1 novembre 2016

Poderosi romanzi - 01 novembre 2016

Torniamo ogni tanto anche alle letture non gialle né poliziesche né seriali. Con un parterre di scrittori di primo livello. E dove tre ne ho trovati decisamente sopra la media. Ovviamente il sempre a me caro israeliano Oz, lo spagnolo fino ad ora a me poco noto Cabré e l’americano Franzen. A me non è mai piaciuto, invece, e qui ne ribadisco i miei limiti di comprensione verso il pur da leggere Bukowski.
Amos Oz “Altrove, forse” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 01/01/2016– I: 24/03/2016 – T: 02/04/2016] - &&&&+
[tit. or.: Maqom Acher מקום אחר (Elsewhere, perhaps); ling. or.: ebraico; pagine: 343; anno 1966]
Ho solo un piccolo dubbio sul titolo, che, tra reminiscenze arabe e piccole ricerche sul web, sembra sia originariamente solo “Altrove”, senza l’aggiunta di quel forse. Ma, forse, mi sfugge qualcosa. Che invece non sfugge a questo grande scrittore, in quest’opera che, come vedete dai dati sopraesposti, è la sua prima opera narrativa, datata 1966. Cioè un libro che ha ben compiuto i suoi cinquanta anni. Qualcosa si sente, in una certa lentezza. Non certo in tutto l’impianto generale, nell’idea narrativa, e nelle descrizioni della vita del kibbutz di Mezudat Ram, attraverso i quali Amos Oz ci porta nel suo mondo ante guerra del Sinai. Ma direi meglio, nel mondo ebraico di un certo modo di vivere la vita e la religione, di cui Oz è sempre stato fautore. Questo libro, in fondo, è quasi un’epitome del mondo del nostro autore, laddove sempre, nelle sue opere, traspare l’ombra della sua vita, di quello che sta passando, giorno dopo giorno. In fondo è quello che capita a tutti gli scrittori, solo che in Oz sembra quasi più facile individuarne i riscontri. Seguendolo fino a quel capolavoro di scrittura che è stato per me “Una storia d’amore e di tenebre”, dove Amos riesce a buttar fuori il suo dolore per il suicidio della madre. Qui siamo ancora agli inizi della sua scrittura, come detto. Anche se da più di dieci anni il forte toro Klausner, in lotta con i sentimenti di destra della famiglia d’origine lituana, si trasferisce in un kibbutz. Toro perché nato il 4 di maggio. E forte che Amos adotta il cognome Oz che significa “forza” in ebraico. Sarebbe molto interessante ripercorrere la nascita ed il declino della vita nei kibbutz a partire dalla loro nascita a Degania nel 1910, quando il territorio era ancora sotto il dominio ottomano. Amos passa tutte le fasi della vita comunitaria, dal lavoro comune, al mettersi al servizio di tutti, gestendo la propria vita secondo i ritmi decisi dai gestori del kibbutz. Passando per il servizio militare, gli studi di letteratura a Gerusalemme e l’inizio della scrittura, come riscatto ed aiuto ai lavoratori del kibbutz visto che lui, comunque, era un disastro nei lavori agricoli. Benché poi ritorni spesso sulla vita comunitaria (ad esempio con i più stringati “Scene dalla vita di un villaggio” o “Tra amici” o l’altrettanto lungo e articolato “Una pace perfetta”), questo primo lungo assaggio, propone tutti i suoi temi migliori. Vediamo lo scrittore che ci narra la storia, che si pone dentro il kibbutz, ma comunque senza partecipare a nessuna attività diretta (così come farà Amos). Vediamo l’intrecciarsi di una serie di persone e di famiglie, le cui storie vanno a tessere la loro vita, ed a tinteggiare in controluce la vita in Israele. Leggiamo infine, anche una serie di pagine che, con tratti a volte poetici, a volte finemente descrittivi, lasciano trasparire la ricerca dello scrittore di comunicarci modi e sensazioni che non riesce a descrivere in altro modo. Questa è forse la parte più grezza, quella su cui Amos lavorerà molto negli anni e nella scrittura, arrivando a gestirne meglio la materia. Tolti quindi gli orpelli e le sovrastrutture, rimane la vita. Di persone e di rapporti. C’è l’intellettuale, Ruben il poeta, rimasto solo con i suoi due figli, l’adolescente Noga (direi sui diciassette anni) ed il più giovane Gai, dopo che la moglie Eva l’ha lasciato per volar via dal kibbutz e da Israele con il cugino Isaac, andando a vivere in Germania. Dove portano avanti una vita di successi economici, insieme a Zachariah Siegfried. Il quale ha due fratelli in Israele: lo studioso a Gerusalemme (ai margini della nostra storia) ed Ezra nel kibbutz. Ezra il camionista, Ezra che cita la Bibbia perché quasi non riesce a comunicare in altro modo, Ezra sposato con Bronka. Torniamo allora lì, quasi al confine con la Siria, dove, stancamente, Bronka e Ruben intrecciano una relazione di mutuo soccorso. Che appunto si trascina. Ma che rende instabile la crescita di Noga, presa sì dal solingo Rami, ma che, quasi per vendetta verso il padre, intreccia una relazione con Ezra, facendosi mettere incinta. Su questa trama, Oz imbastisce il suo mondo di kibbutz, con odi e amori, rancori ed amicizie, pettegolezzi e gentilezze. Queste sono le parti migliori, quelli in cui Oz ci restituisce il modo di vivere e di pensare, non dico dei pionieri, ma di coloro che avevano una certa idea della terra d’Israele, come dalla bella frase che riporto sotto. La trama poi si evolve, si nasce, si muore, ci si sposa, ma non è quello, seppur interessante, l’importante del libro. Che ovviamente, alla fine, risente dei suoi cinquanta anni, ma che a me è piaciuto. Facendomi mantenere Oz nella mia lista preferita dei candidati al Nobel.
“Dovete sempre tenerlo a mente: non sono gli arabi il nostro nemico, ma è l’odio. Cerchiamo tutti di non farci contagiare dall’odio.” (79)
“La vita è fatta di una serie di piccoli atti, ed è da questi piccoli atti che si giudicano i grandi uomini.” (239)
Charles Bukowski “Donne” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[A: 25/09/2014– I: 02/04/2016 – T: 07/04/2016] - &---  
[tit. or.: Women; ling. or.: inglese; pagine: 303; anno 1978]
Forse vi sorprenderete nel vedere un così basso indice di gradimento in un libro di cui, credo, parlerò in termini non dico elogiativi, ma sicuramente problematici e propositivi. Ho letto altro di Bukowski, ho commentato “Post Office”, e continuo a ripetermi: non riesco ad entrare nel suo mondo alcolico. Come non riesco a sintonizzarmi con tutti i libri con elevati tassi di vini e liquori. Non che sia astemio, ma ritengo sia qualcosa di genetico che mi blocca. Tanto che, per ricordare qualcosa ai miei amati lettori, anche le letture di Harry Hole di Jo Nesbo ad un certo punto mi son venute a noia. D’altra parte Bukowski è tutto un eccesso. Ovvio, non solo nel bere, anche se si ubriaca ogni tre pagine e mezzo (e vomita ogni quattro). Ma anche nel sesso. E qui è un panegirico di incontri sessuali, descritti più o meno esplicitamente. Crudi anch’essi come le bevute. Come gli spinelli (pochi), la coca, ed altre droghe più o meno pesanti. In un mondo vissuto sull’orlo sempre del baratro. Perché? Forse posso capire il sesso. In fondo fa bene (e non solo in fondo), ma bevute e stravizi che fanno sballare a cosa servono? Non credo che sballando s’impara. Se avesse scritto il libro anni e anni dopo, avrei ben visto un titolo ammiccante come “Bevi, scopa, ama”. Dove però l’amore non c’è mai, che Henry Chinaski (il protagonista di “Donne” ed alter-ego di Bukowski) non ama nessuna. E forse nemmeno sé stesso. Se poi fossimo colti ed esegeti, non potremmo che ripensare al libro come ad una sua biografia, vera ed inventata allo stesso tempo. Sicuramente, l’inizio e la fine ripercorrono due momenti fondamentali della vita di Charles-Henry. Dopo aver lasciato le Poste Americane (vedi la fine di “Post Office” in proposito), incontra ed inizia una turbolenta relazione con Linda King (rinominata nel libro Lydia Vance), di venti anni più giovane. Rapporto burrascoso per gli appetiti sessuali di Linda, per il suo odio delle corse dei cavalli (passione fondamentale di Henry), per l’alcolismo perenne di Henry, e per il suo attaccarsi a qualsiasi donna gli mostra un minimo di apertura. Ed evitate di fare battutacce su questa frase infelice. Tralasciando (non siamo qui per fare un elenco di prestazioni sessuali) tutte le donne che seguono Linda, arriverà alla fine ad avere una relazione più equilibrata con Linda lee Beighle (ribattezzata Sara), che riuscirà anche a fargli diminuire il tasso alcolico. Sara è una salutista, devota del santone indiano Mehar Baba (uno strano tipo che dal 1925 alla morte nel 1969 rimase in silenzio, comunicando a gesti con i suoi discepoli). Quello che emerge di Chinaski è appunto il suo lasciarsi vivere. La sua filosofia sembra essere: se accade, lasciamolo accadere. Come un bambino che non sa, non riesce a dire no. Tanto che ad un certo punto, il giorno del Ringraziamento, si trova invischiato in una situazione ingestibile: tre donne con cui ha fatto sesso vogliono passare il giorno con lui. E Henry non sceglie, tanto che, giustamente, alla fine lo passerà da solo. Non nego che alla fine, nei ricordi che lascia una lettura quando chiudi il libro, di Bukowski-Chinaski mi resta in mente questa parte (l’incapacità di decisione) e la spinta verso l’altro sesso. Una spinta forte, come succede in tutte le persone. Ma dove la spinta delle possibilità è mitigata dal bagno di realtà. Non si è più bambini che si può volere tutto. Bisogna, imperativamente, fare delle scelte. Le scelte che il proprio modo di vivere reputa consone al proprio essere. Ed io, quello del nostro pur grande scrittore, non riesco a districarle dal grande ammasso di cose che non sono mie e che quindi non capisco. Il giocare ai cavalli piuttosto che passare del tempo a parlare con una donna. Bere sino a stordirsi, bere sino a vomitare ogni poche pagine (anche perché, pur amando un sano bicchiere, ritengo che questo, come il fumo, come le donne, vada preso per il piacere e non perché va bene tutto). Scopare con tutte le donne che capitano a tiro, solo per soddisfare un bisogno fisico, quando il sesso, pur esteso, pur grande deve essere anch’esso legato ad un piacere. Per questo ho continuato a leggere il libro anche se non mi ha mai preso, non mi ha mai coinvolto, come in genere succede in 8quasi) tutti i libri che leggo. Caro Bukowski, sei stato un grande, ma non un grande della mia scala di valori. Non so se leggerò altro dei tuoi scritti. Con stima ma senza affetto, arrivederci.
“Vivi per scrivere? No, mi limito ad esistere. Poi cerco di ricordare e buttar giù un po’ di cose.” (201)
“Vivere fino alla morte è una gran fatica.” (213)
Jaume Cabré “Le voci del fiume” Beat euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)
[A: 25/09/2014– I: 08/04/2016 – T: 16/04/2016] - &&&&
[tit. or.: Les Veus del Panamo; ling. or.: catalano; pagine: 617; anno 2004]
Era tra i libri consigliati dalle mie simpatiche dottoresse in libropatie, in quanto “spesso come un mattone”. Di questa patologia ne parlerò a suo tempo. Per ora mi resta il libro che ho letto con grande piacere, anche se, diciamolo, non è una lettura facile. Non per la mole, tuttavia (anche se potete constatare quante serate abbia impiegato per “digerirlo”). Ma per la particolare scrittura di Cabré, che mescola passato e presente dell’azione con un cocktail che spesso lascia disorientati. Si passa dall’uno all’altro tempo del romanzo sovente senza alcuna soluzione di continuità. Si racconta un avvenimento del 1975, ad esempio, e si scivola inavvertitamente a collegarlo con altre azioni intrecciatesi trenta anni prima. Questo, spesso, mi ha confuso e spaesato. Almeno fino a che non si decide di lasciarsi trasportare dalle acque del Panamo, il fiume che scorre a valle della città di Torena, nel comprensorio di Sort, un duecento chilometri a nord di Barcellona, sulle prime pendici dei Pirenei. Il fiume del titolo originale, che, essendo un fiume spagnolo e per di più ignoto, è stato omesso dal titolo italiano (non sia mai che si riesca a fare un’operazione filologicamente corretta). Cabré con questo suo volumone prova a recuperare memorie antiche e ad imbastire una storia di quelle “ottocentesche”, con amori, tradimenti, impegni politici, morti, comunisti, franchisti, santi e monsignori. Ma come detto, non essendo uno scrittore alla Jane Eyre, mescola il tutto sul piatto della sua scrittura. Devo dire, che, alla fine, se si abbandona un po’ la resistenza alle novità, è anche piacevole cullarsi con il rumore del fiume, e mettersi lì a seguire, anche, le onde della memoria. Alla fine è come un racconto del nonno intorno al camino. Che comincia una storia, ne collega ad un’altra, poi ad un’altra, e poi, forse, riprende il filo iniziale. Lasciando che la memoria di ognuno ricostruisca il suo proprio senso alla vicenda. Di un grande parallelo, almeno inizialmente ed intenzionalmente. Jordi e Tina sono da anni andati a vivere a Torena, insegnanti nella stessa scuola. Laici, tendenzialmente agnostici, amanti del multiculturalismo. Nelle pieghe del racconto iniziale, la loro vita è ad una svolta. Tina si accorge di aver (probabilmente) un tumore al seno, scopre che Jordi la tradisce, ed il figlio Arnau le rivela che ha deciso di entrare in monastero. Il tutto mentre Tina stessa prepara, con le colleghe, una mostra sui 60 anni della scuola di Torena. Tra una foto e l’altra, scopre anche un nascondiglio segreto in un’aula scolastica, dove è nascosto il diario di uno dei primi maestri di Torena, Oriol Fontelles. Oriol che si era trasferito a Torena con la moglie Rosa incinta. Oriol che insegna e dipinge. Oriol che viene preso in mezzo dagli schiaccianti meccanismi delle piccole e meschine vendette, personali e pubbliche, che venivano consumate in quegli anni bui. Perché Torena è il regno dei Vilabrù, e quando si dice Vilabrù si dice Elisenda, il motore di tutta la vicenda. Elisenda che durante la Guerra Civile ha visto giustiziare dai Repubblicani il padre ed il fratello, ed ha giurato vendetta. Strumento della vendetta Valentì Targa, sindaco di Torena e falangista della prima ora. Che uccide ad uno ad uno gli autori dell’eccidio Vilabrù. Ma quando arriva Oriol, Elisenda sente qualcosa cambiare. Nasce in lei un inspiegabile sentimento verso questo timido maestro. Che Vicentì coinvolge nelle sue trame. E per stanare uno degli ultimi “cattivi”, non esita a mentire al paese, indicando Oriol come delatore, e non esita ad uccidere il figlio di Ventura. Una morte che sconvolge Oriol. Una morte che allontana la sua Rosa incinta per sempre da lui. Lui che trova sì l’amore in Elisenda, ma nello stesso tempo inizia a fare il doppio gioco, aiutando i ribelli nella loro, purtroppo fallimentare, guerra di liberazione. Fino a che, stritolato dai meccanismi della guerra stessa, non viene scoperto dai falangisti, ed ucciso prima che Elisenda riesca ad intervenire. La nostra decide allora che deve mettere su di un altare Oriol ed il loro amore, inventandosi tutta una storia inverosimile di devozione al Tabernacolo della Chiesa di Torena, ed al martirio di Oriol da parte dei comunisti. Nello stesso tempo, riceve casualmente una telefonata da Barcellona dove muore anche Rosa, lasciando solo il figlio di Oriol. Inserita nella vendetta e nell’espiazione, allora, adotta il piccolo e lo cresce come suo. E dopo la guerra, da spietata donna d’affari, prima estromette il marito (che morirà presto d’infarto) poi continuerà ad accumulare montagne di denaro, con l’unico scopo di corrompere tutto e tutti per la causa del “suo” Oriol. Che verrà fatto Venerabile prima e Beato poi. In tutto questo si re-inserisce la dimenticata Tina di cui sopra, quella che scopre il diario di Oriol, dove questi descrive la vera storia della sua vita, del suo amore per Elisenda, della sua lotta contro Valentì ed i falangisti. Tina cerca riscontri, trova anche le testimonianze della vera morte di Oriol. Ma sarà sempre ostacolata da Elisenda e dai suoi scagnozzi. Chi vincerà? La verità o il denaro? Qualcuno, oltre a noi ostinati lettori, saprà la vera storia di un povero maestro preso da ingranaggi più grandi di lui? Qualcuno capirà che nei momenti bui, non tutti riescono ad essere degli eroi. Quanti compromessi furono fatti in quei terribili venti anni, dal 1930 al 1950? E quanto se ne trascinò anche dopo? Cabré fa una lunga denuncia, non salvando nessuno. Perché tutti sono stritolati dal motore della storia. Non si salvano i cattivi puri come Valentì e compagni. Non si salvano gli incerti come Oriol. Non si salva la dura Elisenda, il cui unico sprazzo d’umanità fu proprio l’amore per Oriol. Non si salva Tina, anche lei presa da meccanismi che non riesce a comprendere. Forse solo Jaume il marmista coltiverà il ricordo di quello che fu, e sarà triste per sempre. Se mi avete seguito fin qui, adesso andate a leggere il libro, dove tutte queste carte che ho messo in fila sono mescolate e distribuite con ordine sparso, eppure alla fine accattivante. È un libro doloroso, ma mi ha fatto pensare. E vi pare poco?
Jonathan Franzen “Libertà” Einaudi euro 14 (in realtà, scontato a 12,60 euro)
[A: 25/09/2014– I: 17/04/2016 – T: 29/04/2016] - &&& 
[tit. or.: Freedom; ling. or.: inglese; pagine: 645; anno 2010]
Chissà perché, le mie amiche libropeute consigliano questo ponderoso libro per chi soffre di tinnito. Che non è una malattia del vino, ma quella specie di fischio di sottofondo che si manifesta in fondo all’orecchio, alterando la percezione uditiva. A volte, provocando dei veri e propri fastidi dell’attenzione, nonché, può capitare, anche sensazioni di sordità selettiva (gli acufeni coprono e si sostituiscono ad alcuni suoni, rendendo il portatore sano di questa malattia impermeabili ad alcune sollecitazioni uditive). Certo, ne soffre il nostro Richard, uno dei protagonisti del ponderoso romanzo di Franzen. Ma mi sembra una scusa quanto meno labile, e poco in linea con un romanzo che, in linea generale, non mi è particolarmente piaciuto. Anche se, per la scrittura e per alcune parti di testo e contesto, non posso portarlo sotto la soglia della sufficienza. Il primo elemento meta testuale che rilevo, dalla prima riga del testo, è che uno dei protagonisti principali si chiama Walter Berglund. No comment. Ricordo solo che il padre di Franzen è di origini svedesi. Ed è probabile, come spesso accade, che ci sia molta meta-autobiografia nel libro (come in quasi tutti i libri). Dove vediamo ancora una volta Franzen alle prese con una saga familiare a più voci (rimando a “Le correzioni” per chi lo avesse letto e gradito, non come a me che non è che sia piaciuto gran che). Proprio perché si parla di ambiti familiari, inoltre, consiglierei il libro come manuale terapeutico so come (non) si devono educare i figli e su come si dovrebbe avere un rapporto con loro. Riprendo anche l’aggettivo ponderoso sopra utilizzato, che questo è un libro di oltre 600 pagine, che il buon critico americano James Wood etichetta come appartenente al genere di “realismo isterico”. Una scrittura prolissa, come molte digressioni dalla trama principale, nonché inserti nella vita reale. Questo infatti fa Franzen, narrandoci la storia della famiglia Berglund, saltabeccando avanti ed indietro nella saga familiare sia della radice “Walter”, sia dei rami Emerson, quelli della moglie Patty. Mescolando narrazione, finta autobiografia e capitoli incentrati sui vari personaggi, quasi fossero delle storie autosostenentesi. Con l’intento di dare uno spaccato di vita americana, magari prendendo anche in giro alcuni elementi maniacali della vita d’Oltreoceano: puritanesimo pruriginoso, ambientalismo, musica e successo. Il tutto come detto seguendo le vicende della famiglia Berglund, composta da Walter (il padre), Patty (la madre), Joey e Jessica (i figli). Con l’aggiunta di Richard (l’amico musicista) e di Lalitha (factotum dell’ambientalismo). La meno trattata nella lunga narrazione è Jessica, mai intervenuta in prima persona, sempre brava a scuola, vicina idealmente alle aspirazioni ambientaliste paterne, ma sempre a supporto della madre. Joey, invece, è ben presente, con la sua lunga parabola tipicamente americana. Si innamora della sedicenne vicina di casa andandoci a vivere e scatenando la crisi familiari che andrà a ridefinire gli spazi di ognuno. Avrà una lunga storia di vicinanza ed allontanamento con Connie, fino a sposarla segretamente, farà immeritatamente soldi a palate, svilupperà un’anima repubblicana in contrasto con il “sanderismo” del padre. E sarà eletto da Patty suo confidente primario, anche non volendolo essere. Ma alla fine, tutto torna nel flusso normale delle cose, con Joey e Connie che si avvieranno verso la seconda decade del millennio fiduciosi e danarosi. Lalitha entra per un breve periodo nella storia, entusiasta dell’ambientalismo di Walter, coinvolta con lui nella costruzione di una grande riserva per la “dendroica coronata”, un uccello nativo americano a rischio estinzione. I due dovranno fare compromessi con le industrie carbonifere per raggiungere il loro scopo, compromessi che Walter non regge per lo stress di avere un rapporto sempre più deteriorata con Patty e un’attrazione sempre maggiore verso Lalitha. Purtroppo, nel momento del culmine della loro felicità (comunque apparente) Lalitha avrà la peggio, e ci vorranno 6 anni per Walter per elaborarlo. Richard è l’amico musicista di Walter, suo compagno di università, quello che scopa come un riccio e suona come Eric Clapton (e non viceversa). Richard che presenta Patty a Walter, Richard che ha quasi un rapporto omo con Walter, venerandolo come più intelligente, e decidendo prima di non toccare Patty quando da ventenni ne avrebbe l’occasione. Poi, venti anni dopo, quando anche il successo gli arride, decidendo invece di fare quel passo, e scatenando tutta la serie di avvenimenti che portano alla separazione tra Patty e Walter, alla sua convivenza con Patty, al loro lasciarsi. Fino a perderlo nelle nebbie del New Jersey. Inciso: Richard è quello che soffre di tinnito, avendo abusato dei suoni musicali quando era leader della mitica band “Walnut Surprise”. Walter è quello che a me piace di meno. Non per il suo impegno ambientalista. Ma perché è sempre irrisolto. Impiega mesi e mesi per dichiararsi a Patty, non affronta mai il proprio antagonismo verso Richard, non prende posizione sulla vicenda Joey, si piega a compromessi sapendo bene a cosa va incontro, per poi scagliarsi come un toro nel momento che la pressione lo sommerge. Soprattutto quando capisce che Patty ha molte più facce di quelle che pensava, che potrebbe averlo scelto proprio non riuscendo ad andare a letto con Richard. E non ha neanche la forza, se non veramente costretto, di dichiararsi e di avere un rapporto felice con Lalitha. Inoltre non sembra capire nessuna delle persone a lui intorno, chiudendo le orecchie a qualsiasi discorso lo metta in difficoltà. Solo quando capirà (implicitamente) che deve anche ascoltare, potrà perdonare tutti e, forse, avviarsi ad una vecchiaia più serena. Patty è il motore primo di tutta la storia, che lei si oppone agli amori di Joey scatenando la prima tempesta. Poi è lei che ripercorre la sua vita, i motivi e le mosse per cui scelse Walter e non Richard. L’idea che amare Walter sia anche comprendere le sue debolezze (cosa che Walter non capirà mai). Il ritorno di fiamma verso Richard, la delusione, il difficile rapporto con la ricca famiglia Emerson, e con i suoi squinternati fratelli. Al solito, sono sempre perplesso quando vedo un maschio cercare di calarsi a fondo in un personaggio femminile. E ritengo che Franzen ne abbia leggermente abusato, tanto che scatenò a suo tempo fior di polemiche. Tuttavia complessa viene rappresentata la vita di Patty, complessi i suoi sentimenti, incomprensibile il suo imperituro amore per Walter. Bene, ho cercato di dare i caratteri primari che mi ha rimandato questa storia, senza entrare nel dubbio di fondo che mi attanaglia dalle prime righe: libertà? Ma quale? Certo non ne capisco il senso in queste 600 pagine, forse dovrei fare un salto logico. Libertà di amare, di fare sesso, di fare soldi, di vivere nella natura, di suonare, di fregarsene di tutto e di tutti. Potrei continuare per pagine, ma non ne capisco bene il suono (ricordate Jacopo Ortis e la sua ricerca di libertà così cara). Certo è un romanzo di relazioni, e le relazioni si fondano sul grado di indipendenza che riescono a creare reciprocamente. Tant’è che più che libertà, qui vedrei meglio il titolo “Vincoli”. Cioè tutti quei legami (consci ed inconsci) che negano di fatto la nostra libertà. Tuttavia, ho parlato troppo di questo libro e di questo autore. Vediamo se qualcuno riesce anche a farmi capire meglio qualcosa di lui e di questo scritto.
In questa festa infrasettimanale, cui i miei auguri vanno a tutti gli onomastici che non si celebrano lungo il corso dell’anno, vado a recuperare anche alcune cure libropatiche.
In questo finale invece vi accomuno nella fatica di queste settimane. Difficili, un po’ storte, con qualche, per fortuna, illuminazione che ci consente di andare avanti. Che sempre bisogna procedere (vero Rosa, fermarsi è morire?). Noi ci proviamo e vi abbraccio tutti e tutte.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

OGNISANTI
Come ormai ci ho abituato, quando abbiamo delle feste “infrasettimanali”, compatibilmente con i miei frequenti spostamenti, recupero alcune delle “cure” superate dagli andamenti alfabetici. Qui ne recuperiamo quattro, due di cure già descritte e due ci cure solo passate.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

Adolescenti, essere

Gli ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio …
Ecco allora una cura omeopatica
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER ADOLESCENTI
1.    Italo Calvino                           Il sentiero dei nidi di ragno
2.    Paolo Giordano                       La solitudine dei numeri primi
3.    Elsa Morante                          L'isola di Arturo
4.    Robert Musil                           I turbamenti del giovane Törless
5.    Raymond Queneau                  Il diario intimo di Sally Mara
6.    Joào Guimaraes Rosa               Miguilim
7.    J. D. Salinger                          Il giovane Holden
8.    Robert Louis Stevenson            L'isola del tesoro
9.    Boris Vian                              La schiuma dei giorni
10.Alice Walker                               Il colore viola

Adolescenza, uscire dalla

L'adolescenza non deve essere un inferno. Ricordatevi che, se siete adolescenti, pure i vostri coetanei stanno lottando per valicare lo stesso abisso e, se ce la fate, lottate insieme a loro. Con gli amici o senza, assicuratevi di fare tutte quelle cose stupide e folli che fanno gli adolescenti. Se non ci riuscite prima del diploma, allora prendetevi un anno di pausa e aspettate a iscrivervi all'università (badando bene di leggere, nel frattempo, i libri giusti). Poi, quando sarete più grandi, almeno potrete guardarvi indietro, ripensare a questo tempo inebriante, eccitante, ormonale, e riderne.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE TRA LE SUPERIORI E L'UNIVERSITÀ
1.  Chimamanda Ngozi Adichie    L'ibisco viola
2.  Albert Camus                          Lo straniero
3.  Elias Canetti                           La lingua salvata
4.  Truman Capote                       Colazione da Tiffany
5.  Beppe Fenoglio                        La paga del sabato
6.  Ernest Hemingway                   Festa mobile
7.  Daniel Keyes                          Fiori per Algernon
8.  Cesare Pavese                        La luna e i falò
9.  Alessandro Piperno                  Con le peggiori intenzioni
10.      Charles Webb                     II laureato

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE

Apatia

James M. Cain   ”Il postino suona sempre due volte”
Anche se può manifestarsi come una spossatezza fisica - e altrettanto vale per sua cugina dalle membra pesanti, la letargia - l’apatia è essenzialmente una condizione mentale, caratterizzata da un atteggiamento di indifferenza verso l’esito delle cose, tanto per sé stessi quanto per il mondo in generale. La guarigione, tuttavia, si raggiunge con maggiore facilità se si affronta per prima la spossatezza fisica, rendendo ancora più distinta questa patologia rispetto ai suoi parenti prossimi, vale a dire il pessimismo e l’angoscia esistenziale, che richiedono un intervento radicale sulla mente. Questo accade perché l’apatia è caratterizzata anche dalla soppressione di certe emozioni positive, e dunque per farle ingranare di nuovo, e riaccendere il desiderio che tutto vada bene, si tratta di smuovere i sedimenti che si depositano sul fondo di un’anima troppo sedentaria.
Non è che tutto finisca così bene per Frank Chambers, il piccolo delinquente, per di più evaso, protagonista de “Il postino suona sempre due volte”, capolavoro del 1934 di James M. Cain. Anzi, se dovessimo adottare la sua filosofia di vita, finiremmo (come lui) con una taglia sulla testa e diverse donne infuriate all’inseguimento. Il romanzo, tuttavia, è scritto con una tale impetuosa esuberanza che è impossibile leggerlo senza agitarsi. Alla fine, ci si troverà a camminare a passo svelto, e a gettare al vento la prudenza, convinti di poter decidere del proprio destino, pronti a imboccare una nuova strada, più spontanea e intraprendente - per quanto leggermente spericolata.
Nel momento in cui Frank Chambers viene buttato giù dal camion di fieno, la storia è già in pieno svolgimento. Nel giro di tre pagine avrà imbrogliato l’onesto proprietario della Twin Oaks Tavern convincendolo a offrirgli una colazione pantagruelica (succo d’arancia, cereali, uova fritte, pancetta, enchilada, frittelle e caffè, se vi interessa), si sarà fatto assumere come meccanico e avrà messo gli occhi avidi e assai poco abituati ad accettare rifiuti su Cora, la moglie imbronciata e sexy del proprietario. Una cosa tira l’altra - e poi un’altra ancora - e Cain riesce splendidamente a sedurre la nostra attenzione attraverso Frank, catturandone l’immorale incapacità di astenersi dal male in frasi brevi e scattanti, intrise di gergo. La combinazione di racconto e stile vi farà l’effetto di un triplo espresso e, visto che si tratta di un centinaio di pagine scarse, succederà anche molto in fretta. Divoratelo in un pomeriggio, poi mettetevi in spalla la vostra apatia e buttatela in mezzo alla strada, mentre ve ne andate. Da questo momento sarete ispirati dall’irresistibile determinazione di Frank - anche quando le cose non andranno gran che bene – e farete di tutto per non mandare in malora, come lui, le opportunità che vi si presenteranno.

Burocrazia

Andrea Camilleri           ”La concessione del telefono”
Che di burocrazia si possa anche morire, gli italiani lo sanno da secoli. Gli abitanti di una regione diseredata, diffidente e rovinosa come la Sicilia, poi, tra tutti, ne portano una coscienza innata ed ereditaria. Basta entrare nell’ufficio di una sua qualsiasi provincia e richiedere la voltura, ad esempio, di un contratto dell’acqua per ritrovarsi precipitati in un film del dopoguerra se non in un’indefinibile epoca preunitaria e borbonica. Solo in un’isola fuori dal tempo, dove anche Gesù ha perso le scarpe, questo malanno nazionale poteva degenerare in un’infezione così acuta e cronica da avere per alcuni un decorso fatale.
Un romanzo storico di Camilleri ne illustra dettagliatamente tutti i rischi e le premesse più recenti. La storia di una pratica per la concessione di una linea telefonica nell’ultimo decennio dell’Ottocento da parte di un commerciante di legnami, all’anagrafe Filippo Genuardi, è una perfetta cartina al tornasole per ritrarre senza speranza quel caos pirandelliano di usurpazioni, truffe, concussioni, scandali e favori che chiamiamo società. La tortuosità degli adempimenti amministrativi mette in moto una catena di equivoci. L’avanzare laborioso della malattia segue un iter di carte bollate, atti, estratti, certificati, cose dette e cose scritte, fino allo smascheramento del banale movente della richiesta del Genuardi: la necessità di mettersi in comunicazione per telefono con la sua amante, la giovane moglie di suo suocero.
Alla fine, tra depistaggi, presunti complotti socialisti, attentati contraffatti, numeri della smorfia e suscettibilità personali, il destino si dimostrerà il più cavilloso degli esattori e la burocrazia stessa una metafora cancerosa dell’inafferrabile e mistificata verità di tutte le cose. Non si sarà mai abbastanza al riparo dai suoi errori, dai suoi malintesi e dalle sue lentezze.

Bugiardino

Adolescenti, essere

È stata la mia prima cura pubblicata, nel gennaio 2014, dove avevo inserito i libri di allora (Giordano e Vian). Aggiungiamo ora il bel libro di Alice Walker
Alice Walker “Il colore viola” Sperling euro 9,50
[trama del 8 marzo 2015]
Un bel libro, certamente non facile, e sicuramente ravvivato nei ricordi da chi (ma non io) ha visto il bel film che ne ha tratto Spielberg. Anche questo, come altri che leggo in questo periodo, vincitore di un Pulitzer, pur se un premio avuto or sono trenta anni. Ed anche questo, come il coevo della Morrison, ambientato nell’universo nero. E di non facile lettura, perché si configura come un romanzo epistolare. Seguiamo le vicende di Celie attraverso le sue lettere, prima a Dio, quando giovane e spaventata, non sa a chi rivolgere le sue parole e come affrontare una vita molto complicata. Poi alla sorella Nettie, da cui viene separata a forza. Finendo poi nelle risposte che la sorella invia e che non sappiamo se arrivano. Quindi mai una narrazione diretta, sempre una ricostruzione attraverso le parole dei protagonisti. Siamo nella prima metà del ventesimo secolo, nel più profondo Sud degli Stati Uniti, dove i neri si sposano solo per avere una persona che curi i numerosi figli che nascono dentro e fuori il matrimonio. Celie, abusata dal patrigno, vede sparire i suoi due figli. Poi, per salvare la sorella Nettie dagli stessi abusi, accetta di sposare l’anziano (ma non vecchio) Albert, e di fare la cameriera per tutti. Così Nettie riesce a fuggire lontano, tanto che se ne perderanno le tracce per buona parte del libro. Celie fa crescere i figli di Albert, aiuta Harpo, il maggiore, a sposare la ribelle Sofia. Poi tutto cambia con l’arrivo di Shug, una cantante (professione quanto mai peccaminosa) che è stata per anni l’amante di Albert. La ventata di una donna indipendente comincia a far maturare Celie (e lo vediamo dal tono delle lettere che cambia). C’è all’inizio diffidenza tra le due, poi comprensione, poi qualcosa in più, forse amore. E grazie all'aiuto di Shug, Celie trova le lettere che Nettie aveva continuato a spedirle, e che il marito le aveva occultato in tutti quegli anni. Scopre così che la sorella, seguendo le sue indicazioni, aveva raggiunto i missionari a cui erano stati affidati i suoi due figli, e con loro si era recata in Africa, per un programma di evangelizzazione ed assistenza nelle zone più arretrate di quel continente. Attraverso le lettere recupera il suo mondo, abbandona la scrittura con Dio, e si affida alla sorella, seguendo la crescita dei figli ed assistendo alla progressiva demolizione dell'ambiente e delle tradizioni tribali del luogo da parte della rapace civiltà occidentale. Intanto Sofia ha l’ardire di schiaffeggiare il sindaco, viene incarcerata, poi allontanata dai figli e dal marito. Celie, attraverso la forza che le ha dato Shug, tenta di affrontare tutto e tutti. E quando è messa alle corde, decide di andarsene a Memphis, con Shug, mettendo a frutto il suo talento, creando una piccola attività di sartoria. Sembra un bel momento, poi Shug irrequieta riparte e tornerà anni dopo, sposata con un ragazzo che ha un terzo dei suoi anni. Decidono tutti di tornare al paese natio, che il patrigno è morto lasciando una cospicua eredità a Celie. Anche Albert è cambiato, non picchia più Celie come faceva all’inizio, si cura dei figli e dei nipoti. Intanto Nettie cerca di tornare con i figli di Celie, ma nella traversata vengono affrontati da navi tedesche (siamo ormai in guerra) e se ne perdono le tracce. Il mondo sembra crollare, ma è proprio l’ex-marito che la sostiene nel piccolo e le da quella pur poco consistente serenità per andare avanti. Per far ricongiungere Harpo e Sofia. Per farsi avanti al ritorno di Shug, e finalmente dichiarare apertamente l’amore che da sempre provava, e di viverlo. E quando meno se lo aspetta, arriva Nettie con la sua nuova famiglia. Portando definitivamente la felicità nella casa in cui tanti anni prima, tutto era cominciato. Si sente molto che Alice Walker è un’attivista dei diritti delle donne, ma lo fa in un modo corretto verso tutti. Si sente molto, e ne viene una grande rabbia, il modo come i bianchi (che poco entrano direttamente sulla scena) tengono i neri sotto il tallone. Si sente molto la capacità che può avere una donna quando viene messa in grado di poter sfruttare al meglio le proprie capacità. Si sente molto la bravura di una scrittrice che ha ragione di esistere anche solo per aver scritto questo libro (probabilmente ne ha scritti molti altri, ma per ora questo mi è sufficiente).
“Siamo qui … per far domande. Per chiedere. E … facendo domande, interrogandosi sulle cose grosse, si impara molto sulle piccole, quasi per caso. … Più mi faccio domande … più amo la gente.” (307)

Adolescenza, uscire dalla

Ne parlai a marzo 2014, citando quelli che avevo tramato allora (Canetti, Capote e Pavese). Ora mettiamo invece mano al libro della Adichie, letto successivamente.
Chimamanda Ngozi Adichie “L’ibisco viola” Einaudi euro 11 (in realtà, scontato a 9,90 euro)
[trama del 29 novembre 2015]
Altro mirabile libro proveniente dalla fucina dei consigli libropatici di Ella&Susan. Libro che durante la lettura ed appena chiuso riporta subito dentro la più buia Africa che ho frequentato e di cui ho letto negli anni. In quella Nigeria che uscì dal buio con il grande Wole Soyinka (premio Nobel esattamente trenta anni fa) e ne senti sempre la forza leggendo del purtroppo scomparso Chinua Achebe. La bella Adichie, ancora under 40, scrive di sicuro nel solco del secondo, operando un duplice viaggio: nell’infanzia di ragazzi africani e nella giovinezza della democrazia di un popolo che esce (anche se non sempre) dai solchi delle dittature militari. Sebbene narrato con la voce di Kambili, che sicuramente con noi va scoprendo le realtà intorno a sé, la forza narrativa viene da quel doppio solco anzidetto. E seguiamone subito il solco pubblico, ambientato nei luoghi natii della stessa Chimama (maggior parte delle azioni nella città di Enugu, all’interno di un’enclave di etnia Igbo, e puntate a Nsukka dove c’è l’Università) dove Eugene, il padre di Kambili e Jaja, conduce una battaglia incessante per la legalità, i diritti civili, la democrazia per l’affermazione delle libertà politiche e civili. Il ricco Eugene è l'editore di un giornale, e spinge il suo direttore Ade Cocker alla pubblicazione di inchieste e denunce. Subendo varie volte i contraccolpi della giunta militare. Eugene è anche profondamente religioso, convertito dagli animismi locali al cristianesimo, comunità di cui è un membro di spicco, e non manca mai a una celebrazione con i suoi oboli generosi, la sua religiosità severa (odia le tradizioni pagane della sua terra al punto che impedisce di fatto ai figli di frequentare suo padre, il loro nonno, perché l'uomo non si è convertito al cattolicesimo, ma si ostina a professare la fede dei suoi avi) e il suo esempio specchiato. Questo il lato pubblico di Eugene e della sua famiglia, che Kambili ci narra con ammirazione e partecipazione. Famiglia che ha il suo contraltare con quella della zia Ifeona, allegra, spigliata, vedova con tre figli, sempre a corto di soldi, benché insegni alla locale Università. Dove subisce anche lei le ingiurie per non sottostare alla corruzione imperante (ed anche per essere parente di Eugene). Tanto che alla fine, stremata, rinuncerà alla lotta, decidendo di emigrare verso gli Stati Uniti, anche perché Eugene … Lasciamo questa parte in sospeso, e veniamo invece al privato di tutti questi modi di vivere. Perché Eugene è in realtà uno psicopatico, che affligge la famiglia di punizioni corporali terribili, che tutti loro accettano proprio per l’aurea di generosità e disponibilità che Eugene ha verso il mondo. Punizioni nate soprattutto in nome della rigida moralità e della religione fanatica che segue Eugene. Tra silenzi, ipocrisie, interessi economici e dolore, la famiglia della giovane Kambili fa finta che il problema non esista, finché - quando il fratello Jaja raggiunge la pubertà e inizia a ribellarsi alla figura paterna - la situazione precipita, fino all'imprevedibile (o forse prevedibilissimo) finale... Con gli occhi spauriti di Kambili seguiamo tutto l’evolversi della vicenda, in parte crescendo con lei. Seguiamo il fanatismo dei neoconvertiti, il conflitto tra il mondo postcoloniale e la cultura tradizionale, e soprattutto e fino in fondo uno dei temi sempre presenti negli scritti della Adichie: la condizione della donna, in difficoltà in entrambi i mondi (non è un caso che intitola uno dei suoi più duri saggi “Dovremmo essere tutti femministi”). La scrittura prende nella descrizione dei vari personaggi, ovviamente con le figure femminili che vengono sicuramente meglio, come la zia Ifeona, o la figlia di lei Amaka. Ma bella e dolente è anche la drammatica grandezza del nonno, con le sue storie incantatrici e ricche di umanità (nonostante il suo paganesimo, come direbbe Eugene). Una bellissima lettura, che ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, i come ci si dovrebbe rivolgere ancora ora verso i paesi africani, spingendone le voci libere e pure ad uscire fuori, ad incoraggiarne la pubblicità, a difenderle dagli attacchi di tutti fanatismi che, purtroppo, stanno risorgendo. Fanatismi militari, ma, purtroppo e soprattutto, anche religiosi. Cerchiamo tutti di fare uno sforzo, pubblico e privato, per aiutare tutte le Kambili del continente martoriato (e penso a tutta l’Africa dalla Libia alla Nigeria al Sudafrica, e chi mi conosce sa quanto ne soffra).

Apatia

Nel 2014 non avevo ancora letto l’interessante libro di Cain, un autore veramente “filmico”.
James M. Cain “Il postino suona sempre due volte” Adelphi euro 9
[trama del 7 febbraio 2016]
Confesso, preliminarmente ed a scanso di equivoci, che non ho visto né il film con Lana Turner e John Garfield del 1946 né quello del 1981 con Jessica Lang e Jack Nicholson. Anche se, come tutti, se n’è sempre sentito parlare. Come si sente parlare che questo libro avrebbe trasversalmente ispirato anche “Ossessione” di Luchino Visconti (con Clara Calamai e Massimo Girotti). Ma io parlo di libri, e di Cain ho letto con piacere quel bellissimo “Mildred Pierce”. Per cui, in questa estate caliente, ho deciso di portarmelo appresso, principalmente per la sua brevità, e quindi per la maneggevolezza dell’oggetto-libro. E nella tiepida estate baltica mi sono immerso nella torrida vicenda di Frank e Cora. Frank, sbandato giramondo, vivacchiando di qua e di là, si ritrova ad accettare un lavoro da aiutante presso Nick Pappadakis, un immigrato greco che gestisce la “taverna delle Due Querce”, insieme alla moglie Cora. Ovviamente, ed in poco tempo. Frank e Cora diventano amanti, pensano di costruirsi una vita insieme. E quale soluzione per avere un futuro libero davanti? Uccidere Nick senza esserne accusati. Il tentativo però è goffo, come tutto in Cora e in Frank. Lui aspetta in macchina che Cora dia una botta in testa a Nick che fa il bagno, così che questo possa essere preso per annegamento dopo malore. Ma mentre si sta svolgendo il misfatto, un poliziotto passa vicino alla Taverna guardando Frank con aria interrogativa, e subito dopo un gatto salta sui fili della luce scoperti, facendo saltare la corrente a tutta la zona. Cora è presa da rimorsi, porta Nick all’ospedale, e Frank se ne va per la sua strada, tornando a fare il vagabondo. Tuttavia a Frank manca la bella Cora. Torna, e la passione divampa nuovamente. Ed allora, ecco che proviamo un nuovo incidente. Questa volta di macchina, facendo ubriacare Nick, e simulando una uscita di strada. Dove per poco anche Frank non ci lascia le penne. Qualcuno ha visto qualcosa, ma un astuto avvocato (ed è questa la parte migliore del libro), riesce ad imbastire una sottile linea di difesa, che porta la corte ad assolvere i due amanti dall’accusa di omicidio. Tuttavia, durante il processo, il loro rapporto è gravemente provato, ci sono momenti in cui dubitano reciprocamente delle rispettive correttezze e del rispettivo amore. Tornati alla taverna, Cora deve andare dalla madre ammalata, e Frank (si sa che l’uomo è cacciatore, ma Frank più che altro sembra succube della propria virilità) ha una storia con una signorina locale. Al ritorno, pur nel continuo comportamento cane-gatto, F&C sembrano ritrovare una prima dose di serenità. Minata però dai tentativi di ricatto di un losco figuro. Anche questo riescono a superare. Finalmente si sposano e Cora rimane incinta. Ci avviamo così a grandi passi verso l’epico finale. Cora ha le doglie, Frank prende la macchina per portarla in ospedale e… Ovviamente ha un incidente, ovviamente Cora muore, ovviamente Frank rimane ferito. E si riaprono i giochi che sembravano chiusi. Qui, inoltre, c’è la grande divaricazione tra libro e film, per cui non vi dirò come nel libro si evolverà la parte finale, che è tutta da seguire. Un mega-polpettone in meno di 150 pagine. Pensavo potesse essere più lungo, come sosteneva il grande Raymond Chandler, che, da Hollywood, aveva bollato il nostro Cain come un Proust dei poveri. Ma, tornando al libro, quello che rimane sempre un mistero, nonostante le spiegazioni che lo stesso Cain ha dato più volte (ed ogni volta diverse), è il titolo. Dato che nessun postino compare mai in tutto il libro. Personalmente, la versione cui do maggior credito è quella che fa riferimento alla vicenda di Ruth Snyder, che nel 1927, aiutata controvoglia dall’amante Judd, uccide il marito simulando un incidente. Ma la coppia viene smascherata, accusata, condannata e giustiziata. Tuttavia non è questa parte cui mi riferisco, anche se ci sono similitudini con il primo tentativo di uccidere Nick. Il collegamento è con il postino: Ruth aveva convinto il marito a stipulare una assicurazione sulla vita, cambiandone poi le modalità, e convincendo altresì il postino che, nel caso arrivasse posta per lei, doveva suonare due volte. Forse, se avesse conosciuto il latino, poteva anche chiamarlo “Reptita non iuvant”, visto che a forza di ripetere azioni e situazioni, invece di migliorare, le cose peggiorano. Ripeto però che al fine, trovo leggibile e godibile lo scritto di Cain. Trovo la sua modalità interessante, per quella fine che dà un senso a tutta la storia. E per questo amore tra Frank e Cora, un’attrazione sessuale che non si può frenare. Tipica dell’immagine che abbiamo dell’America degli Anni Trenta.

Burocrazia

Stesso discorso vale per Camilleri, l’autore più presente nella mia libreria. Qui con una prova al solito sopra la media, pur non essendo “montalbaniana”, ed inoltre da poco pubblicata.
Andrea Camilleri “La concessione del telefono” Sellerio euro 10
[trama del 28 agosto 2016]
Siamo nella stagione feconda di Camilleri, quella che vedeva le prime uscite di Montalbano da un lato e le altre storie di Vigata dall’altro, con quel “Birraio di Preston” che per me raggiunge una delle vette del primo Camilleri. Un autore che in questo periodo valutai per una serie di fattori che esprimeva in alto grado: l’uso della lingua (L), l’intreccio delle storie (I), il “social engagment” che risultava dalle trame (S) e l’ironia di fondo (I). Il suo LISI cominciò ad essere molto alto. Qui seppur abbiamo un discreto L ed S, siamo solo sulla sufficienza nell’intreccio e decisamente carente per l’ironia (anche se viene costantemente tentata). Il tentativo nuovo che fa in questo libro è l’utilizzo di forme “indirette” per raccontarci la storia. Un uso sapiente e ben alternato di capitoli intitolati “cose scritte”, dove si intrecciano lettere, proclami ufficiali di questori e tenenti dei carabinieri, nonché pagine di giornali, e di capitoli intitolati “cose dette”, dove Camilleri riporta dialoghi tra i vari componenti della vicenda. La difficoltà nel ricostruire la trama è che, da un lato, benché i personaggi cardini siano pochi, la vicenda coinvolge una serie di coprotagonisti di cui non è facile tenere a mente i nomi. Dall’altro, per le cose scritte, bisogna sempre rifarsi alle date in cui si scambino le missive, anche se vengono riprodotte in ordine temporale, ma risultano di diverso impatto se passano due giorni o due mesi tra l’una e l’altra. Ciò detto, la vicenda è tutto un gioco degli equivoci, come piace a Camilleri sulle orme del suo amato Pirandello. Filippo “Pippo” Genuardi, commerciante poco fortunato ma molto “dotato” (capisci a me) benché preso dalla moglie Taniné, si invaghisce, ricambiato, della seconda e giovane moglie del suocero (Lillina). Per poter aumentare le occasioni di incontro, lui che è sempre pronto alle novità tecnologiche (siamo nel 1891) cerca di installare una linea telefonica tra la sua fabbrica di legnami e la casa del suocero. Cerca quindi di trovare, nei meandri della burocrazia, la strada per avere una “concessione telefonica”. Qui comincia a scontrarsi con un questore napoletano fuori di testa (parla con i numeri della “smorfia”) che, equivocando il tutto comincia a tenere sotto mira Pippo, coinvolgendo i carabinieri (che non ci fanno una gran figura, come è ovvio) e spargendo voci sul presunto “socialismo” del richiedente. Una costruzione di ipotesi che il prefetto di polizia ha buon gioco a smontare, pezzo dopo pezzo. peccato che la storia si intrecci con uno sgarbo fatto da un presunto amico di Pippo, tal Sasà, al boss mafioso locale, don Lollò. Pippo, cercando appigli per risolvere la questione “telefona”, cerca di ingraziarsi il boss, fornendo a più riprese l’indirizzo del latitante Sasà. Purtroppo, per Pippo, Sasà lo sta prendendo in giro, fornendo indirizzi falsi, cosa che dopo un po’ fa girare i cabasisi al “nervuso” don Lollò. Che pensa bene di inguaiare Pippo, sia mettendo bastoni tra le ruote alla famosa concessione (ad esempio, blandendo i vicini per impedire l’impianto dei pali di comunicazione), sia facendolo apparire “rosso”, così come vuole il questore. È tutto in gioco di specchi, per cui una cosa si può sempre interpretare in diverse maniere, e l’ottusità del potere (S) ha sempre buon gioco per mettersi in ridicolo ma far sì che Pippo sia sempre più inguaiato. Finché don Lollò, scoperto l’ultimo nascondiglio di Sasà, da l’ultimatum a Pippo: che gli spari lui alle gambe, così andrà tutto in pari. Cosa che Pippo fa, ed a questo punto sembra che tutto vada per il meglio: i vicini cedono, la concessione è avviata, i nemici istituzionali messi in condizione di non nuocere. Tuttavia, il telefono servendo a scopi non decisamente onesti, il nostro ha un bel colpo d’ingegno per far saltare il banco su tutti i tavoli. Sasà, azzoppato e disonorato da don Lollò, si vendica denunciando Pippo al suocero, che, dopo aver verificato la veridicità dell’illazione, decide il passo estremo. Uccide a revolverate Pippo e poi si spara. Essendo i carabinieri i primi ad aver notizia del delitto, decidono di risalire in sella, facendo scoppiare una bomba sul luogo del delitto, convincendo tutti che il povero Pippo era un facinoroso. In questo modo, tutti i peggiori elementi dello stato in formazione vengono premiati, e gli onesti mandati in esilio in Sardegna. Tutta la storia è anche condita da altri elementi sociali, cominciando all’epoca del governo Di Rudinì e terminando con il primo governo Giolitti, e con le prime idee concrete di lotta alla mafia, poi presto abbandonate (un unico appunto storico, tra le lettere ne compare una, in data aprile 1892 a firma di Giuseppe Sensales come direttore generale di Pubblica Sicurezza, carica che però il Sensales ricoprì a partire dall’ottobre del 1893). Ma di ironia, come potete constatare da queste mie righe, ce n’è ben poca. Anche se, rispetto a prove più tarde e più involute di Camilleri, resta in ogni caso un bel leggere.
“Passata la sissantina, un duluri ogni mattina.” [anche no!] (156)

Conclusioni


Sull’adolescenza, intesa come “malattia”, ritengo e convergo sulla bellezza e sull’utilità dei due libri citati. Così come il buon Camilleri è un epigono della presenza burocratica italica. Poi la citazione finale è da antologia. Meno in accordo l’utilizzo di Frank e Nora sull’apatia, anche se molto si lasciano scivolare addosso. Forse una cura più omeopatica che allopatica…

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