Torniamo ogni tanto anche alle letture non
gialle né poliziesche né seriali. Con un parterre di scrittori di primo
livello. E dove tre ne ho trovati decisamente sopra la media. Ovviamente il
sempre a me caro israeliano Oz, lo spagnolo fino ad ora a me poco noto Cabré e
l’americano Franzen. A me non è mai piaciuto, invece, e qui ne ribadisco i miei
limiti di comprensione verso il pur da leggere Bukowski.
Amos Oz “Altrove, forse” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 01/01/2016– I:
24/03/2016 – T: 02/04/2016] - &&&&+
[tit. or.: Maqom Acher מקום אחר (Elsewhere, perhaps); ling. or.: ebraico; pagine: 343; anno 1966]
Ho
solo un piccolo dubbio sul titolo, che, tra reminiscenze arabe e piccole
ricerche sul web, sembra sia originariamente solo “Altrove”, senza l’aggiunta
di quel forse. Ma, forse, mi sfugge qualcosa. Che invece non sfugge a questo
grande scrittore, in quest’opera che, come vedete dai dati sopraesposti, è la
sua prima opera narrativa, datata 1966. Cioè un libro che ha ben compiuto i
suoi cinquanta anni. Qualcosa si sente, in una certa lentezza. Non certo in
tutto l’impianto generale, nell’idea narrativa, e nelle descrizioni della vita
del kibbutz di Mezudat Ram, attraverso i quali Amos Oz ci porta nel suo mondo
ante guerra del Sinai. Ma direi meglio, nel mondo ebraico di un certo modo di
vivere la vita e la religione, di cui Oz è sempre stato fautore. Questo libro,
in fondo, è quasi un’epitome del mondo del nostro autore, laddove sempre, nelle
sue opere, traspare l’ombra della sua vita, di quello che sta passando, giorno
dopo giorno. In fondo è quello che capita a tutti gli scrittori, solo che in Oz
sembra quasi più facile individuarne i riscontri. Seguendolo fino a quel
capolavoro di scrittura che è stato per me “Una storia d’amore e di tenebre”,
dove Amos riesce a buttar fuori il suo dolore per il suicidio della madre. Qui
siamo ancora agli inizi della sua scrittura, come detto. Anche se da più di
dieci anni il forte toro Klausner, in lotta con i sentimenti di destra della
famiglia d’origine lituana, si trasferisce in un kibbutz. Toro perché nato il 4
di maggio. E forte che Amos adotta il cognome Oz che significa “forza” in
ebraico. Sarebbe molto interessante ripercorrere la nascita ed il declino della
vita nei kibbutz a partire dalla loro nascita a Degania nel 1910, quando il
territorio era ancora sotto il dominio ottomano. Amos passa tutte le fasi della
vita comunitaria, dal lavoro comune, al mettersi al servizio di tutti, gestendo
la propria vita secondo i ritmi decisi dai gestori del kibbutz. Passando per il
servizio militare, gli studi di letteratura a Gerusalemme e l’inizio della
scrittura, come riscatto ed aiuto ai lavoratori del kibbutz visto che lui,
comunque, era un disastro nei lavori agricoli. Benché poi ritorni spesso sulla
vita comunitaria (ad esempio con i più stringati “Scene dalla vita di un
villaggio” o “Tra amici” o l’altrettanto lungo e articolato “Una pace
perfetta”), questo primo lungo assaggio, propone tutti i suoi temi migliori.
Vediamo lo scrittore che ci narra la storia, che si pone dentro il kibbutz, ma
comunque senza partecipare a nessuna attività diretta (così come farà Amos).
Vediamo l’intrecciarsi di una serie di persone e di famiglie, le cui storie
vanno a tessere la loro vita, ed a tinteggiare in controluce la vita in
Israele. Leggiamo infine, anche una serie di pagine che, con tratti a volte
poetici, a volte finemente descrittivi, lasciano trasparire la ricerca dello
scrittore di comunicarci modi e sensazioni che non riesce a descrivere in altro
modo. Questa è forse la parte più grezza, quella su cui Amos lavorerà molto
negli anni e nella scrittura, arrivando a gestirne meglio la materia. Tolti
quindi gli orpelli e le sovrastrutture, rimane la vita. Di persone e di
rapporti. C’è l’intellettuale, Ruben il poeta, rimasto solo con i suoi due
figli, l’adolescente Noga (direi sui diciassette anni) ed il più giovane Gai,
dopo che la moglie Eva l’ha lasciato per volar via dal kibbutz e da Israele con
il cugino Isaac, andando a vivere in Germania. Dove portano avanti una vita di
successi economici, insieme a Zachariah Siegfried. Il quale ha due fratelli in
Israele: lo studioso a Gerusalemme (ai margini della nostra storia) ed Ezra nel
kibbutz. Ezra il camionista, Ezra che cita la Bibbia perché quasi non riesce a
comunicare in altro modo, Ezra sposato con Bronka. Torniamo allora lì, quasi al
confine con la Siria, dove, stancamente, Bronka e Ruben intrecciano una
relazione di mutuo soccorso. Che appunto si trascina. Ma che rende instabile la
crescita di Noga, presa sì dal solingo Rami, ma che, quasi per vendetta verso
il padre, intreccia una relazione con Ezra, facendosi mettere incinta. Su
questa trama, Oz imbastisce il suo mondo di kibbutz, con odi e amori, rancori
ed amicizie, pettegolezzi e gentilezze. Queste sono le parti migliori, quelli
in cui Oz ci restituisce il modo di vivere e di pensare, non dico dei pionieri,
ma di coloro che avevano una certa idea della terra d’Israele, come dalla bella
frase che riporto sotto. La trama poi si evolve, si nasce, si muore, ci si
sposa, ma non è quello, seppur interessante, l’importante del libro. Che
ovviamente, alla fine, risente dei suoi cinquanta anni, ma che a me è piaciuto.
Facendomi mantenere Oz nella mia lista preferita dei candidati al Nobel.
“Dovete sempre tenerlo a mente: non sono gli
arabi il nostro nemico, ma è l’odio. Cerchiamo tutti di non farci contagiare
dall’odio.” (79)
“La vita è fatta di una serie di piccoli
atti, ed è da questi piccoli atti che si giudicano i grandi uomini.” (239)
Charles Bukowski “Donne” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,10 euro)
[A: 25/09/2014– I:
02/04/2016 – T: 07/04/2016] - &---
[tit. or.: Women; ling. or.: inglese; pagine: 303; anno 1978]
Forse
vi sorprenderete nel vedere un così basso indice di gradimento in un libro di
cui, credo, parlerò in termini non dico elogiativi, ma sicuramente problematici
e propositivi. Ho letto altro di Bukowski, ho commentato “Post Office”, e
continuo a ripetermi: non riesco ad entrare nel suo mondo alcolico. Come non
riesco a sintonizzarmi con tutti i libri con elevati tassi di vini e liquori.
Non che sia astemio, ma ritengo sia qualcosa di genetico che mi blocca. Tanto
che, per ricordare qualcosa ai miei amati lettori, anche le letture di Harry
Hole di Jo Nesbo ad un certo punto mi son venute a noia. D’altra parte Bukowski
è tutto un eccesso. Ovvio, non solo nel bere, anche se si ubriaca ogni tre
pagine e mezzo (e vomita ogni quattro). Ma anche nel sesso. E qui è un
panegirico di incontri sessuali, descritti più o meno esplicitamente. Crudi
anch’essi come le bevute. Come gli spinelli (pochi), la coca, ed altre droghe
più o meno pesanti. In un mondo vissuto sull’orlo sempre del baratro. Perché?
Forse posso capire il sesso. In fondo fa bene (e non solo in fondo), ma bevute
e stravizi che fanno sballare a cosa servono? Non credo che sballando s’impara.
Se avesse scritto il libro anni e anni dopo, avrei ben visto un titolo
ammiccante come “Bevi, scopa, ama”. Dove però l’amore non c’è mai, che Henry
Chinaski (il protagonista di “Donne” ed alter-ego di Bukowski) non ama nessuna.
E forse nemmeno sé stesso. Se poi fossimo colti ed esegeti, non potremmo che
ripensare al libro come ad una sua biografia, vera ed inventata allo stesso
tempo. Sicuramente, l’inizio e la fine ripercorrono due momenti fondamentali
della vita di Charles-Henry. Dopo aver lasciato le Poste Americane (vedi la
fine di “Post Office” in proposito), incontra ed inizia una turbolenta
relazione con Linda King (rinominata nel libro Lydia Vance), di venti anni più
giovane. Rapporto burrascoso per gli appetiti sessuali di Linda, per il suo
odio delle corse dei cavalli (passione fondamentale di Henry), per l’alcolismo
perenne di Henry, e per il suo attaccarsi a qualsiasi donna gli mostra un
minimo di apertura. Ed evitate di fare battutacce su questa frase infelice.
Tralasciando (non siamo qui per fare un elenco di prestazioni sessuali) tutte
le donne che seguono Linda, arriverà alla fine ad avere una relazione più
equilibrata con Linda lee Beighle (ribattezzata Sara), che riuscirà anche a
fargli diminuire il tasso alcolico. Sara è una salutista, devota del santone
indiano Mehar Baba (uno strano tipo che dal 1925 alla morte nel 1969 rimase in
silenzio, comunicando a gesti con i suoi discepoli). Quello che emerge di
Chinaski è appunto il suo lasciarsi vivere. La sua filosofia sembra essere: se
accade, lasciamolo accadere. Come un bambino che non sa, non riesce a dire no.
Tanto che ad un certo punto, il giorno del Ringraziamento, si trova invischiato
in una situazione ingestibile: tre donne con cui ha fatto sesso vogliono
passare il giorno con lui. E Henry non sceglie, tanto che, giustamente, alla
fine lo passerà da solo. Non nego che alla fine, nei ricordi che lascia una
lettura quando chiudi il libro, di Bukowski-Chinaski mi resta in mente questa
parte (l’incapacità di decisione) e la spinta verso l’altro sesso. Una spinta
forte, come succede in tutte le persone. Ma dove la spinta delle possibilità è
mitigata dal bagno di realtà. Non si è più bambini che si può volere tutto.
Bisogna, imperativamente, fare delle scelte. Le scelte che il proprio modo di
vivere reputa consone al proprio essere. Ed io, quello del nostro pur grande
scrittore, non riesco a districarle dal grande ammasso di cose che non sono mie
e che quindi non capisco. Il giocare ai cavalli piuttosto che passare del tempo
a parlare con una donna. Bere sino a stordirsi, bere sino a vomitare ogni poche
pagine (anche perché, pur amando un sano bicchiere, ritengo che questo, come il
fumo, come le donne, vada preso per il piacere e non perché va bene tutto).
Scopare con tutte le donne che capitano a tiro, solo per soddisfare un bisogno
fisico, quando il sesso, pur esteso, pur grande deve essere anch’esso legato ad
un piacere. Per questo ho continuato a leggere il libro anche se non mi ha mai
preso, non mi ha mai coinvolto, come in genere succede in 8quasi) tutti i libri
che leggo. Caro Bukowski, sei stato un grande, ma non un grande della mia scala
di valori. Non so se leggerò altro dei tuoi scritti. Con stima ma senza
affetto, arrivederci.
“Vivi per scrivere? No, mi limito ad
esistere. Poi cerco di ricordare e buttar giù un po’ di cose.” (201)
“Vivere fino alla morte è una gran fatica.”
(213)
Jaume Cabré “Le voci del fiume” Beat euro 13 (in realtà, scontato a
11,70 euro)
[A: 25/09/2014– I: 08/04/2016 – T: 16/04/2016] - &&&&
[tit. or.: Les Veus del
Panamo; ling. or.: catalano; pagine: 617; anno 2004]
Era
tra i libri consigliati dalle mie simpatiche dottoresse in libropatie, in
quanto “spesso come un mattone”. Di questa patologia ne parlerò a suo tempo.
Per ora mi resta il libro che ho letto con grande piacere, anche se, diciamolo,
non è una lettura facile. Non per la mole, tuttavia (anche se potete constatare
quante serate abbia impiegato per “digerirlo”). Ma per la particolare scrittura
di Cabré, che mescola passato e presente dell’azione con un cocktail che spesso
lascia disorientati. Si passa dall’uno all’altro tempo del romanzo sovente
senza alcuna soluzione di continuità. Si racconta un avvenimento del 1975, ad
esempio, e si scivola inavvertitamente a collegarlo con altre azioni
intrecciatesi trenta anni prima. Questo, spesso, mi ha confuso e spaesato.
Almeno fino a che non si decide di lasciarsi trasportare dalle acque del
Panamo, il fiume che scorre a valle della città di Torena, nel comprensorio di
Sort, un duecento chilometri a nord di Barcellona, sulle prime pendici dei
Pirenei. Il fiume del titolo originale, che, essendo un fiume spagnolo e per di
più ignoto, è stato omesso dal titolo italiano (non sia mai che si riesca a
fare un’operazione filologicamente corretta). Cabré con questo suo volumone
prova a recuperare memorie antiche e ad imbastire una storia di quelle
“ottocentesche”, con amori, tradimenti, impegni politici, morti, comunisti,
franchisti, santi e monsignori. Ma come detto, non essendo uno scrittore alla
Jane Eyre, mescola il tutto sul piatto della sua scrittura. Devo dire, che, alla
fine, se si abbandona un po’ la resistenza alle novità, è anche piacevole
cullarsi con il rumore del fiume, e mettersi lì a seguire, anche, le onde della
memoria. Alla fine è come un racconto del nonno intorno al camino. Che comincia
una storia, ne collega ad un’altra, poi ad un’altra, e poi, forse, riprende il
filo iniziale. Lasciando che la memoria di ognuno ricostruisca il suo proprio
senso alla vicenda. Di un grande parallelo, almeno inizialmente ed
intenzionalmente. Jordi e Tina sono da anni andati a vivere a Torena,
insegnanti nella stessa scuola. Laici, tendenzialmente agnostici, amanti del
multiculturalismo. Nelle pieghe del racconto iniziale, la loro vita è ad una
svolta. Tina si accorge di aver (probabilmente) un tumore al seno, scopre che
Jordi la tradisce, ed il figlio Arnau le rivela che ha deciso di entrare in
monastero. Il tutto mentre Tina stessa prepara, con le colleghe, una mostra sui
60 anni della scuola di Torena. Tra una foto e l’altra, scopre anche un
nascondiglio segreto in un’aula scolastica, dove è nascosto il diario di uno
dei primi maestri di Torena, Oriol Fontelles. Oriol che si era trasferito a
Torena con la moglie Rosa incinta. Oriol che insegna e dipinge. Oriol che viene
preso in mezzo dagli schiaccianti meccanismi delle piccole e meschine vendette,
personali e pubbliche, che venivano consumate in quegli anni bui. Perché Torena
è il regno dei Vilabrù, e quando si dice Vilabrù si dice Elisenda, il motore di
tutta la vicenda. Elisenda che durante la Guerra Civile ha visto giustiziare
dai Repubblicani il padre ed il fratello, ed ha giurato vendetta. Strumento
della vendetta Valentì Targa, sindaco di Torena e falangista della prima ora.
Che uccide ad uno ad uno gli autori dell’eccidio Vilabrù. Ma quando arriva
Oriol, Elisenda sente qualcosa cambiare. Nasce in lei un inspiegabile
sentimento verso questo timido maestro. Che Vicentì coinvolge nelle sue trame.
E per stanare uno degli ultimi “cattivi”, non esita a mentire al paese,
indicando Oriol come delatore, e non esita ad uccidere il figlio di Ventura.
Una morte che sconvolge Oriol. Una morte che allontana la sua Rosa incinta per
sempre da lui. Lui che trova sì l’amore in Elisenda, ma nello stesso tempo
inizia a fare il doppio gioco, aiutando i ribelli nella loro, purtroppo
fallimentare, guerra di liberazione. Fino a che, stritolato dai meccanismi
della guerra stessa, non viene scoperto dai falangisti, ed ucciso prima che
Elisenda riesca ad intervenire. La nostra decide allora che deve mettere su di
un altare Oriol ed il loro amore, inventandosi tutta una storia inverosimile di
devozione al Tabernacolo della Chiesa di Torena, ed al martirio di Oriol da
parte dei comunisti. Nello stesso tempo, riceve casualmente una telefonata da
Barcellona dove muore anche Rosa, lasciando solo il figlio di Oriol. Inserita
nella vendetta e nell’espiazione, allora, adotta il piccolo e lo cresce come
suo. E dopo la guerra, da spietata donna d’affari, prima estromette il marito
(che morirà presto d’infarto) poi continuerà ad accumulare montagne di denaro,
con l’unico scopo di corrompere tutto e tutti per la causa del “suo” Oriol. Che
verrà fatto Venerabile prima e Beato poi. In tutto questo si re-inserisce la
dimenticata Tina di cui sopra, quella che scopre il diario di Oriol, dove
questi descrive la vera storia della sua vita, del suo amore per Elisenda,
della sua lotta contro Valentì ed i falangisti. Tina cerca riscontri, trova
anche le testimonianze della vera morte di Oriol. Ma sarà sempre ostacolata da
Elisenda e dai suoi scagnozzi. Chi vincerà? La verità o il denaro? Qualcuno,
oltre a noi ostinati lettori, saprà la vera storia di un povero maestro preso
da ingranaggi più grandi di lui? Qualcuno capirà che nei momenti bui, non tutti
riescono ad essere degli eroi. Quanti compromessi furono fatti in quei terribili
venti anni, dal 1930 al 1950? E quanto se ne trascinò anche dopo? Cabré fa una
lunga denuncia, non salvando nessuno. Perché tutti sono stritolati dal motore
della storia. Non si salvano i cattivi puri come Valentì e compagni. Non si
salvano gli incerti come Oriol. Non si salva la dura Elisenda, il cui unico
sprazzo d’umanità fu proprio l’amore per Oriol. Non si salva Tina, anche lei
presa da meccanismi che non riesce a comprendere. Forse solo Jaume il marmista
coltiverà il ricordo di quello che fu, e sarà triste per sempre. Se mi avete
seguito fin qui, adesso andate a leggere il libro, dove tutte queste carte che
ho messo in fila sono mescolate e distribuite con ordine sparso, eppure alla
fine accattivante. È un libro doloroso, ma mi ha fatto pensare. E vi pare poco?
Jonathan Franzen “Libertà” Einaudi euro 14 (in realtà, scontato a 12,60
euro)
[A: 25/09/2014– I: 17/04/2016
– T: 29/04/2016] - &&&
[tit. or.: Freedom; ling. or.: inglese; pagine: 645; anno 2010]
Chissà
perché, le mie amiche libropeute consigliano questo ponderoso libro per chi
soffre di tinnito. Che non è una malattia del vino, ma quella specie di fischio
di sottofondo che si manifesta in fondo all’orecchio, alterando la percezione
uditiva. A volte, provocando dei veri e propri fastidi dell’attenzione, nonché,
può capitare, anche sensazioni di sordità selettiva (gli acufeni coprono e si
sostituiscono ad alcuni suoni, rendendo il portatore sano di questa malattia
impermeabili ad alcune sollecitazioni uditive). Certo, ne soffre il nostro
Richard, uno dei protagonisti del ponderoso romanzo di Franzen. Ma mi sembra
una scusa quanto meno labile, e poco in linea con un romanzo che, in linea
generale, non mi è particolarmente piaciuto. Anche se, per la scrittura e per
alcune parti di testo e contesto, non posso portarlo sotto la soglia della
sufficienza. Il primo elemento meta testuale che rilevo, dalla prima riga del
testo, è che uno dei protagonisti principali si chiama Walter Berglund. No
comment. Ricordo solo che il padre di Franzen è di origini svedesi. Ed è
probabile, come spesso accade, che ci sia molta meta-autobiografia nel libro
(come in quasi tutti i libri). Dove vediamo ancora una volta Franzen alle prese
con una saga familiare a più voci (rimando a “Le correzioni” per chi lo avesse
letto e gradito, non come a me che non è che sia piaciuto gran che). Proprio
perché si parla di ambiti familiari, inoltre, consiglierei il libro come
manuale terapeutico so come (non) si devono educare i figli e su come si
dovrebbe avere un rapporto con loro. Riprendo anche l’aggettivo ponderoso sopra
utilizzato, che questo è un libro di oltre 600 pagine, che il buon critico
americano James Wood etichetta come appartenente al genere di “realismo
isterico”. Una scrittura prolissa, come molte digressioni dalla trama
principale, nonché inserti nella vita reale. Questo infatti fa Franzen,
narrandoci la storia della famiglia Berglund, saltabeccando avanti ed indietro
nella saga familiare sia della radice “Walter”, sia dei rami Emerson, quelli
della moglie Patty. Mescolando narrazione, finta autobiografia e capitoli
incentrati sui vari personaggi, quasi fossero delle storie autosostenentesi.
Con l’intento di dare uno spaccato di vita americana, magari prendendo anche in
giro alcuni elementi maniacali della vita d’Oltreoceano: puritanesimo
pruriginoso, ambientalismo, musica e successo. Il tutto come detto seguendo le
vicende della famiglia Berglund, composta da Walter (il padre), Patty (la
madre), Joey e Jessica (i figli). Con l’aggiunta di Richard (l’amico musicista)
e di Lalitha (factotum dell’ambientalismo). La meno trattata nella lunga
narrazione è Jessica, mai intervenuta in prima persona, sempre brava a scuola,
vicina idealmente alle aspirazioni ambientaliste paterne, ma sempre a supporto
della madre. Joey, invece, è ben presente, con la sua lunga parabola
tipicamente americana. Si innamora della sedicenne vicina di casa andandoci a
vivere e scatenando la crisi familiari che andrà a ridefinire gli spazi di
ognuno. Avrà una lunga storia di vicinanza ed allontanamento con Connie, fino a
sposarla segretamente, farà immeritatamente soldi a palate, svilupperà un’anima
repubblicana in contrasto con il “sanderismo” del padre. E sarà eletto da Patty
suo confidente primario, anche non volendolo essere. Ma alla fine, tutto torna
nel flusso normale delle cose, con Joey e Connie che si avvieranno verso la
seconda decade del millennio fiduciosi e danarosi. Lalitha entra per un breve
periodo nella storia, entusiasta dell’ambientalismo di Walter, coinvolta con
lui nella costruzione di una grande riserva per la “dendroica coronata”, un
uccello nativo americano a rischio estinzione. I due dovranno fare compromessi
con le industrie carbonifere per raggiungere il loro scopo, compromessi che
Walter non regge per lo stress di avere un rapporto sempre più deteriorata con
Patty e un’attrazione sempre maggiore verso Lalitha. Purtroppo, nel momento del
culmine della loro felicità (comunque apparente) Lalitha avrà la peggio, e ci
vorranno 6 anni per Walter per elaborarlo. Richard è l’amico musicista di
Walter, suo compagno di università, quello che scopa come un riccio e suona
come Eric Clapton (e non viceversa). Richard che presenta Patty a Walter,
Richard che ha quasi un rapporto omo con Walter, venerandolo come più
intelligente, e decidendo prima di non toccare Patty quando da ventenni ne
avrebbe l’occasione. Poi, venti anni dopo, quando anche il successo gli arride,
decidendo invece di fare quel passo, e scatenando tutta la serie di avvenimenti
che portano alla separazione tra Patty e Walter, alla sua convivenza con Patty,
al loro lasciarsi. Fino a perderlo nelle nebbie del New Jersey. Inciso: Richard
è quello che soffre di tinnito, avendo abusato dei suoni musicali quando era
leader della mitica band “Walnut Surprise”. Walter è quello che a me piace di
meno. Non per il suo impegno ambientalista. Ma perché è sempre irrisolto.
Impiega mesi e mesi per dichiararsi a Patty, non affronta mai il proprio
antagonismo verso Richard, non prende posizione sulla vicenda Joey, si piega a
compromessi sapendo bene a cosa va incontro, per poi scagliarsi come un toro
nel momento che la pressione lo sommerge. Soprattutto quando capisce che Patty
ha molte più facce di quelle che pensava, che potrebbe averlo scelto proprio non
riuscendo ad andare a letto con Richard. E non ha neanche la forza, se non
veramente costretto, di dichiararsi e di avere un rapporto felice con Lalitha.
Inoltre non sembra capire nessuna delle persone a lui intorno, chiudendo le
orecchie a qualsiasi discorso lo metta in difficoltà. Solo quando capirà
(implicitamente) che deve anche ascoltare, potrà perdonare tutti e, forse,
avviarsi ad una vecchiaia più serena. Patty è il motore primo di tutta la
storia, che lei si oppone agli amori di Joey scatenando la prima tempesta. Poi
è lei che ripercorre la sua vita, i motivi e le mosse per cui scelse Walter e
non Richard. L’idea che amare Walter sia anche comprendere le sue debolezze
(cosa che Walter non capirà mai). Il ritorno di fiamma verso Richard, la delusione,
il difficile rapporto con la ricca famiglia Emerson, e con i suoi squinternati
fratelli. Al solito, sono sempre perplesso quando vedo un maschio cercare di
calarsi a fondo in un personaggio femminile. E ritengo che Franzen ne abbia
leggermente abusato, tanto che scatenò a suo tempo fior di polemiche. Tuttavia
complessa viene rappresentata la vita di Patty, complessi i suoi sentimenti,
incomprensibile il suo imperituro amore per Walter. Bene, ho cercato di dare i
caratteri primari che mi ha rimandato questa storia, senza entrare nel dubbio
di fondo che mi attanaglia dalle prime righe: libertà? Ma quale? Certo non ne
capisco il senso in queste 600 pagine, forse dovrei fare un salto logico.
Libertà di amare, di fare sesso, di fare soldi, di vivere nella natura, di
suonare, di fregarsene di tutto e di tutti. Potrei continuare per pagine, ma
non ne capisco bene il suono (ricordate Jacopo Ortis e la sua ricerca di
libertà così cara). Certo è un romanzo di relazioni, e le relazioni si fondano
sul grado di indipendenza che riescono a creare reciprocamente. Tant’è che più
che libertà, qui vedrei meglio il titolo “Vincoli”. Cioè tutti quei legami
(consci ed inconsci) che negano di fatto la nostra libertà. Tuttavia, ho
parlato troppo di questo libro e di questo autore. Vediamo se qualcuno riesce
anche a farmi capire meglio qualcosa di lui e di questo scritto.
In questa festa infrasettimanale, cui i miei
auguri vanno a tutti gli onomastici che non si celebrano lungo il corso
dell’anno, vado a recuperare anche alcune cure libropatiche.
In questo finale invece vi accomuno nella fatica di
queste settimane. Difficili, un po’ storte, con qualche, per fortuna,
illuminazione che ci consente di andare avanti. Che sempre bisogna procedere
(vero Rosa, fermarsi è morire?). Noi ci proviamo e vi abbraccio tutti e tutte.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
OGNISANTI
Come ormai ci ho abituato, quando
abbiamo delle feste “infrasettimanali”, compatibilmente con i miei frequenti
spostamenti, recupero alcune delle “cure” superate dagli andamenti alfabetici.
Qui ne recuperiamo quattro, due di cure già descritte e due ci cure solo
passate.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
Adolescenti, essere
Gli ormoni
impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio …
Ecco allora
una cura omeopatica
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER
ADOLESCENTI
1.
Italo Calvino Il
sentiero dei nidi di ragno
2.
Paolo Giordano La
solitudine dei numeri primi
3.
Elsa Morante L'isola
di Arturo
4.
Robert Musil I
turbamenti del giovane Törless
5.
Raymond Queneau Il
diario intimo di Sally Mara
6.
Joào Guimaraes Rosa Miguilim
7.
J. D. Salinger Il
giovane Holden
8.
Robert Louis Stevenson L'isola del tesoro
9.
Boris Vian La
schiuma dei giorni
10.Alice Walker Il colore viola
Adolescenza, uscire dalla
L'adolescenza
non deve essere un inferno. Ricordatevi che, se siete adolescenti, pure i
vostri coetanei stanno lottando per valicare lo stesso abisso e, se ce la fate,
lottate insieme a loro. Con gli amici o senza, assicuratevi di fare tutte
quelle cose stupide e folli che fanno gli adolescenti. Se non ci riuscite prima
del diploma, allora prendetevi un anno di pausa e aspettate a iscrivervi
all'università (badando bene di leggere, nel frattempo, i libri giusti). Poi,
quando sarete più grandi, almeno potrete guardarvi indietro, ripensare a questo
tempo inebriante, eccitante, ormonale, e riderne.
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE TRA LE SUPERIORI E L'UNIVERSITÀ
1. Chimamanda Ngozi Adichie L'ibisco viola
2. Albert
Camus Lo
straniero
3. Elias
Canetti La
lingua salvata
4. Truman
Capote Colazione da
Tiffany
5. Beppe
Fenoglio La paga
del sabato
6. Ernest
Hemingway Festa mobile
7. Daniel
Keyes Fiori per
Algernon
8. Cesare
Pavese La luna e i
falò
9. Alessandro
Piperno Con le peggiori
intenzioni
10.
Charles Webb II
laureato
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
Apatia
James M. Cain ”Il postino suona sempre due volte”
Anche se può
manifestarsi come una spossatezza fisica - e altrettanto vale per sua cugina
dalle membra pesanti, la letargia - l’apatia è essenzialmente una condizione
mentale, caratterizzata da un atteggiamento di indifferenza verso l’esito delle
cose, tanto per sé stessi quanto per il mondo in generale. La guarigione,
tuttavia, si raggiunge con maggiore facilità se si affronta per prima la
spossatezza fisica, rendendo ancora più distinta questa patologia rispetto ai
suoi parenti prossimi, vale a dire il pessimismo e l’angoscia esistenziale, che
richiedono un intervento radicale sulla mente. Questo accade perché l’apatia è
caratterizzata anche dalla soppressione di certe emozioni positive, e dunque
per farle ingranare di nuovo, e riaccendere il desiderio che tutto vada bene,
si tratta di smuovere i sedimenti che si depositano sul fondo di un’anima
troppo sedentaria.
Non è che
tutto finisca così bene per Frank Chambers, il piccolo delinquente, per di più
evaso, protagonista de “Il postino suona sempre due volte”, capolavoro del 1934
di James M. Cain. Anzi, se dovessimo adottare la sua filosofia di vita,
finiremmo (come lui) con una taglia sulla testa e diverse donne infuriate
all’inseguimento. Il romanzo, tuttavia, è scritto con una tale impetuosa
esuberanza che è impossibile leggerlo senza agitarsi. Alla fine, ci si troverà
a camminare a passo svelto, e a gettare al vento la prudenza, convinti di poter
decidere del proprio destino, pronti a imboccare una nuova strada, più spontanea
e intraprendente - per quanto leggermente spericolata.
Nel momento in
cui Frank Chambers viene buttato giù dal camion di fieno, la storia è già in
pieno svolgimento. Nel giro di tre pagine avrà imbrogliato l’onesto
proprietario della Twin Oaks Tavern convincendolo a offrirgli una colazione
pantagruelica (succo d’arancia, cereali, uova fritte, pancetta, enchilada,
frittelle e caffè, se vi interessa), si sarà fatto assumere come meccanico e
avrà messo gli occhi avidi e assai poco abituati ad accettare rifiuti su Cora,
la moglie imbronciata e sexy del proprietario. Una cosa tira l’altra - e poi
un’altra ancora - e Cain riesce splendidamente a sedurre la nostra attenzione
attraverso Frank, catturandone l’immorale incapacità di astenersi dal male in
frasi brevi e scattanti, intrise di gergo. La combinazione di racconto e stile
vi farà l’effetto di un triplo espresso e, visto che si tratta di un centinaio
di pagine scarse, succederà anche molto in fretta. Divoratelo in un pomeriggio,
poi mettetevi in spalla la vostra apatia e buttatela in mezzo alla strada,
mentre ve ne andate. Da questo momento sarete ispirati dall’irresistibile
determinazione di Frank - anche quando le cose non andranno gran che bene – e
farete di tutto per non mandare in malora, come lui, le opportunità che vi si
presenteranno.
Burocrazia
Andrea Camilleri ”La concessione del telefono”
Che di
burocrazia si possa anche morire, gli italiani lo sanno da secoli. Gli abitanti
di una regione diseredata, diffidente e rovinosa come la Sicilia, poi, tra
tutti, ne portano una coscienza innata ed ereditaria. Basta entrare
nell’ufficio di una sua qualsiasi provincia e richiedere la voltura, ad
esempio, di un contratto dell’acqua per ritrovarsi precipitati in un film del
dopoguerra se non in un’indefinibile epoca preunitaria e borbonica. Solo in
un’isola fuori dal tempo, dove anche Gesù ha perso le scarpe, questo malanno
nazionale poteva degenerare in un’infezione così acuta e cronica da avere per
alcuni un decorso fatale.
Un romanzo
storico di Camilleri ne illustra dettagliatamente tutti i rischi e le premesse
più recenti. La storia di una pratica per la concessione di una linea
telefonica nell’ultimo decennio dell’Ottocento da parte di un commerciante di
legnami, all’anagrafe Filippo Genuardi, è una perfetta cartina al tornasole per
ritrarre senza speranza quel caos pirandelliano di usurpazioni, truffe,
concussioni, scandali e favori che chiamiamo società. La tortuosità degli
adempimenti amministrativi mette in moto una catena di equivoci. L’avanzare
laborioso della malattia segue un iter di carte bollate, atti, estratti,
certificati, cose dette e cose scritte, fino allo smascheramento del banale
movente della richiesta del Genuardi: la necessità di mettersi in comunicazione
per telefono con la sua amante, la giovane moglie di suo suocero.
Alla fine, tra
depistaggi, presunti complotti socialisti, attentati contraffatti, numeri della
smorfia e suscettibilità personali, il destino si dimostrerà il più cavilloso
degli esattori e la burocrazia stessa una metafora cancerosa dell’inafferrabile
e mistificata verità di tutte le cose. Non si sarà mai abbastanza al riparo dai
suoi errori, dai suoi malintesi e dalle sue lentezze.
Bugiardino
Adolescenti, essere
È
stata la mia prima cura pubblicata, nel gennaio 2014, dove avevo inserito i
libri di allora (Giordano e Vian). Aggiungiamo ora il bel libro di Alice Walker
Alice Walker “Il colore viola” Sperling euro 9,50
[trama del 8 marzo 2015]
Un
bel libro, certamente non facile, e sicuramente ravvivato nei ricordi da chi
(ma non io) ha visto il bel film che ne ha tratto Spielberg. Anche questo, come
altri che leggo in questo periodo, vincitore di un Pulitzer, pur se un premio
avuto or sono trenta anni. Ed anche questo, come il coevo della Morrison,
ambientato nell’universo nero. E di non facile lettura, perché si configura
come un romanzo epistolare. Seguiamo le vicende di Celie attraverso le sue
lettere, prima a Dio, quando giovane e spaventata, non sa a chi rivolgere le
sue parole e come affrontare una vita molto complicata. Poi alla sorella
Nettie, da cui viene separata a forza. Finendo poi nelle risposte che la
sorella invia e che non sappiamo se arrivano. Quindi mai una narrazione
diretta, sempre una ricostruzione attraverso le parole dei protagonisti. Siamo
nella prima metà del ventesimo secolo, nel più profondo Sud degli Stati Uniti,
dove i neri si sposano solo per avere una persona che curi i numerosi figli che
nascono dentro e fuori il matrimonio. Celie, abusata dal patrigno, vede sparire
i suoi due figli. Poi, per salvare la sorella Nettie dagli stessi abusi,
accetta di sposare l’anziano (ma non vecchio) Albert, e di fare la cameriera
per tutti. Così Nettie riesce a fuggire lontano, tanto che se ne perderanno le
tracce per buona parte del libro. Celie fa crescere i figli di Albert, aiuta
Harpo, il maggiore, a sposare la ribelle Sofia. Poi tutto cambia con l’arrivo
di Shug, una cantante (professione quanto mai peccaminosa) che è stata per anni
l’amante di Albert. La ventata di una donna indipendente comincia a far maturare
Celie (e lo vediamo dal tono delle lettere che cambia). C’è all’inizio
diffidenza tra le due, poi comprensione, poi qualcosa in più, forse amore. E
grazie all'aiuto di Shug, Celie trova le lettere che Nettie aveva continuato a
spedirle, e che il marito le aveva occultato in tutti quegli anni. Scopre così
che la sorella, seguendo le sue indicazioni, aveva raggiunto i missionari a cui
erano stati affidati i suoi due figli, e con loro si era recata in Africa, per
un programma di evangelizzazione ed assistenza nelle zone più arretrate di quel
continente. Attraverso le lettere recupera il suo mondo, abbandona la scrittura
con Dio, e si affida alla sorella, seguendo la crescita dei figli ed assistendo
alla progressiva demolizione dell'ambiente e delle tradizioni tribali del luogo
da parte della rapace civiltà occidentale. Intanto Sofia ha l’ardire di
schiaffeggiare il sindaco, viene incarcerata, poi allontanata dai figli e dal
marito. Celie, attraverso la forza che le ha dato Shug, tenta di affrontare
tutto e tutti. E quando è messa alle corde, decide di andarsene a Memphis, con
Shug, mettendo a frutto il suo talento, creando una piccola attività di
sartoria. Sembra un bel momento, poi Shug irrequieta riparte e tornerà anni
dopo, sposata con un ragazzo che ha un terzo dei suoi anni. Decidono tutti di
tornare al paese natio, che il patrigno è morto lasciando una cospicua eredità
a Celie. Anche Albert è cambiato, non picchia più Celie come faceva all’inizio,
si cura dei figli e dei nipoti. Intanto Nettie cerca di tornare con i figli di
Celie, ma nella traversata vengono affrontati da navi tedesche (siamo ormai in
guerra) e se ne perdono le tracce. Il mondo sembra crollare, ma è proprio
l’ex-marito che la sostiene nel piccolo e le da quella pur poco consistente
serenità per andare avanti. Per far ricongiungere Harpo e Sofia. Per farsi
avanti al ritorno di Shug, e finalmente dichiarare apertamente l’amore che da
sempre provava, e di viverlo. E quando meno se lo aspetta, arriva Nettie con la
sua nuova famiglia. Portando definitivamente la felicità nella casa in cui
tanti anni prima, tutto era cominciato. Si sente molto che Alice Walker è
un’attivista dei diritti delle donne, ma lo fa in un modo corretto verso tutti.
Si sente molto, e ne viene una grande rabbia, il modo come i bianchi (che poco
entrano direttamente sulla scena) tengono i neri sotto il tallone. Si sente
molto la capacità che può avere una donna quando viene messa in grado di poter
sfruttare al meglio le proprie capacità. Si sente molto la bravura di una scrittrice
che ha ragione di esistere anche solo per aver scritto questo libro
(probabilmente ne ha scritti molti altri, ma per ora questo mi è sufficiente).
“Siamo qui … per far domande. Per chiedere.
E … facendo domande, interrogandosi sulle cose grosse, si impara molto sulle
piccole, quasi per caso. … Più mi faccio domande … più amo la gente.” (307)
Adolescenza, uscire dalla
Ne
parlai a marzo 2014, citando quelli che avevo tramato allora (Canetti, Capote e
Pavese). Ora mettiamo invece mano al libro della Adichie, letto
successivamente.
Chimamanda Ngozi Adichie “L’ibisco viola” Einaudi euro 11 (in realtà,
scontato a 9,90 euro)
[trama del 29 novembre 2015]
Altro
mirabile libro proveniente dalla fucina dei consigli libropatici di
Ella&Susan. Libro che durante la lettura ed appena chiuso riporta subito
dentro la più buia Africa che ho frequentato e di cui ho letto negli anni. In
quella Nigeria che uscì dal buio con il grande Wole Soyinka (premio Nobel
esattamente trenta anni fa) e ne senti sempre la forza leggendo del purtroppo
scomparso Chinua Achebe. La bella Adichie, ancora under 40, scrive di sicuro
nel solco del secondo, operando un duplice viaggio: nell’infanzia di ragazzi
africani e nella giovinezza della democrazia di un popolo che esce (anche se
non sempre) dai solchi delle dittature militari. Sebbene narrato con la voce di
Kambili, che sicuramente con noi va scoprendo le realtà intorno a sé, la forza
narrativa viene da quel doppio solco anzidetto. E seguiamone subito il solco
pubblico, ambientato nei luoghi natii della stessa Chimama (maggior parte delle
azioni nella città di Enugu, all’interno di un’enclave di etnia Igbo, e puntate
a Nsukka dove c’è l’Università) dove Eugene, il padre di Kambili e Jaja,
conduce una battaglia incessante per la legalità, i diritti civili, la
democrazia per l’affermazione delle libertà politiche e civili. Il ricco Eugene
è l'editore di un giornale, e spinge il suo direttore Ade Cocker alla
pubblicazione di inchieste e denunce. Subendo varie volte i contraccolpi della
giunta militare. Eugene è anche profondamente religioso, convertito dagli
animismi locali al cristianesimo, comunità di cui è un membro di spicco, e non
manca mai a una celebrazione con i suoi oboli generosi, la sua religiosità
severa (odia le tradizioni pagane della sua terra al punto che impedisce di
fatto ai figli di frequentare suo padre, il loro nonno, perché l'uomo non si è
convertito al cattolicesimo, ma si ostina a professare la fede dei suoi avi) e
il suo esempio specchiato. Questo il lato pubblico di Eugene e della sua
famiglia, che Kambili ci narra con ammirazione e partecipazione. Famiglia che
ha il suo contraltare con quella della zia Ifeona, allegra, spigliata, vedova
con tre figli, sempre a corto di soldi, benché insegni alla locale Università.
Dove subisce anche lei le ingiurie per non sottostare alla corruzione imperante
(ed anche per essere parente di Eugene). Tanto che alla fine, stremata,
rinuncerà alla lotta, decidendo di emigrare verso gli Stati Uniti, anche perché
Eugene … Lasciamo questa parte in sospeso, e veniamo invece al privato di tutti
questi modi di vivere. Perché Eugene è in realtà uno psicopatico, che affligge
la famiglia di punizioni corporali terribili, che tutti loro accettano proprio
per l’aurea di generosità e disponibilità che Eugene ha verso il mondo.
Punizioni nate soprattutto in nome della rigida moralità e della religione
fanatica che segue Eugene. Tra silenzi, ipocrisie, interessi economici e
dolore, la famiglia della giovane Kambili fa finta che il problema non esista,
finché - quando il fratello Jaja raggiunge la pubertà e inizia a ribellarsi
alla figura paterna - la situazione precipita, fino all'imprevedibile (o forse
prevedibilissimo) finale... Con gli occhi spauriti di Kambili seguiamo tutto
l’evolversi della vicenda, in parte crescendo con lei. Seguiamo il fanatismo
dei neoconvertiti, il conflitto tra il mondo postcoloniale e la cultura
tradizionale, e soprattutto e fino in fondo uno dei temi sempre presenti negli
scritti della Adichie: la condizione della donna, in difficoltà in entrambi i
mondi (non è un caso che intitola uno dei suoi più duri saggi “Dovremmo essere
tutti femministi”). La scrittura prende nella descrizione dei vari personaggi,
ovviamente con le figure femminili che vengono sicuramente meglio, come la zia
Ifeona, o la figlia di lei Amaka. Ma bella e dolente è anche la drammatica
grandezza del nonno, con le sue storie incantatrici e ricche di umanità
(nonostante il suo paganesimo, come direbbe Eugene). Una bellissima lettura,
che ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, i come ci si dovrebbe rivolgere ancora
ora verso i paesi africani, spingendone le voci libere e pure ad uscire fuori,
ad incoraggiarne la pubblicità, a difenderle dagli attacchi di tutti fanatismi
che, purtroppo, stanno risorgendo. Fanatismi militari, ma, purtroppo e
soprattutto, anche religiosi. Cerchiamo tutti di fare uno sforzo, pubblico e
privato, per aiutare tutte le Kambili del continente martoriato (e penso a
tutta l’Africa dalla Libia alla Nigeria al Sudafrica, e chi mi conosce sa
quanto ne soffra).
Apatia
Nel
2014 non avevo ancora letto l’interessante libro di Cain, un autore veramente
“filmico”.
James M. Cain “Il postino suona sempre due volte” Adelphi euro 9
[trama del 7 febbraio 2016]
Confesso,
preliminarmente ed a scanso di equivoci, che non ho visto né il film con Lana
Turner e John Garfield del 1946 né quello del 1981 con Jessica Lang e Jack
Nicholson. Anche se, come tutti, se n’è sempre sentito parlare. Come si sente
parlare che questo libro avrebbe trasversalmente ispirato anche “Ossessione” di
Luchino Visconti (con Clara Calamai e Massimo Girotti). Ma io parlo di libri, e
di Cain ho letto con piacere quel bellissimo “Mildred Pierce”. Per cui, in
questa estate caliente, ho deciso di portarmelo appresso, principalmente per la
sua brevità, e quindi per la maneggevolezza dell’oggetto-libro. E nella tiepida
estate baltica mi sono immerso nella torrida vicenda di Frank e Cora. Frank,
sbandato giramondo, vivacchiando di qua e di là, si ritrova ad accettare un
lavoro da aiutante presso Nick Pappadakis, un immigrato greco che gestisce la
“taverna delle Due Querce”, insieme alla moglie Cora. Ovviamente, ed in poco
tempo. Frank e Cora diventano amanti, pensano di costruirsi una vita insieme. E
quale soluzione per avere un futuro libero davanti? Uccidere Nick senza esserne
accusati. Il tentativo però è goffo, come tutto in Cora e in Frank. Lui aspetta
in macchina che Cora dia una botta in testa a Nick che fa il bagno, così che
questo possa essere preso per annegamento dopo malore. Ma mentre si sta svolgendo
il misfatto, un poliziotto passa vicino alla Taverna guardando Frank con aria
interrogativa, e subito dopo un gatto salta sui fili della luce scoperti,
facendo saltare la corrente a tutta la zona. Cora è presa da rimorsi, porta
Nick all’ospedale, e Frank se ne va per la sua strada, tornando a fare il
vagabondo. Tuttavia a Frank manca la bella Cora. Torna, e la passione divampa
nuovamente. Ed allora, ecco che proviamo un nuovo incidente. Questa volta di
macchina, facendo ubriacare Nick, e simulando una uscita di strada. Dove per
poco anche Frank non ci lascia le penne. Qualcuno ha visto qualcosa, ma un
astuto avvocato (ed è questa la parte migliore del libro), riesce ad imbastire
una sottile linea di difesa, che porta la corte ad assolvere i due amanti
dall’accusa di omicidio. Tuttavia, durante il processo, il loro rapporto è
gravemente provato, ci sono momenti in cui dubitano reciprocamente delle
rispettive correttezze e del rispettivo amore. Tornati alla taverna, Cora deve
andare dalla madre ammalata, e Frank (si sa che l’uomo è cacciatore, ma Frank
più che altro sembra succube della propria virilità) ha una storia con una
signorina locale. Al ritorno, pur nel continuo comportamento cane-gatto,
F&C sembrano ritrovare una prima dose di serenità. Minata però dai
tentativi di ricatto di un losco figuro. Anche questo riescono a superare.
Finalmente si sposano e Cora rimane incinta. Ci avviamo così a grandi passi
verso l’epico finale. Cora ha le doglie, Frank prende la macchina per portarla
in ospedale e… Ovviamente ha un incidente, ovviamente Cora muore, ovviamente
Frank rimane ferito. E si riaprono i giochi che sembravano chiusi. Qui,
inoltre, c’è la grande divaricazione tra libro e film, per cui non vi dirò come
nel libro si evolverà la parte finale, che è tutta da seguire. Un
mega-polpettone in meno di 150 pagine. Pensavo potesse essere più lungo, come
sosteneva il grande Raymond Chandler, che, da Hollywood, aveva bollato il
nostro Cain come un Proust dei poveri. Ma, tornando al libro, quello che rimane
sempre un mistero, nonostante le spiegazioni che lo stesso Cain ha dato più
volte (ed ogni volta diverse), è il titolo. Dato che nessun postino compare mai
in tutto il libro. Personalmente, la versione cui do maggior credito è quella
che fa riferimento alla vicenda di Ruth Snyder, che nel 1927, aiutata
controvoglia dall’amante Judd, uccide il marito simulando un incidente. Ma la
coppia viene smascherata, accusata, condannata e giustiziata. Tuttavia non è
questa parte cui mi riferisco, anche se ci sono similitudini con il primo
tentativo di uccidere Nick. Il collegamento è con il postino: Ruth aveva
convinto il marito a stipulare una assicurazione sulla vita, cambiandone poi le
modalità, e convincendo altresì il postino che, nel caso arrivasse posta per
lei, doveva suonare due volte. Forse, se avesse conosciuto il latino, poteva
anche chiamarlo “Reptita non iuvant”, visto che a forza di ripetere azioni e
situazioni, invece di migliorare, le cose peggiorano. Ripeto però che al fine,
trovo leggibile e godibile lo scritto di Cain. Trovo la sua modalità
interessante, per quella fine che dà un senso a tutta la storia. E per questo
amore tra Frank e Cora, un’attrazione sessuale che non si può frenare. Tipica
dell’immagine che abbiamo dell’America degli Anni Trenta.
Burocrazia
Stesso
discorso vale per Camilleri, l’autore più presente nella mia libreria. Qui con
una prova al solito sopra la media, pur non essendo “montalbaniana”, ed inoltre
da poco pubblicata.
Andrea Camilleri “La concessione del telefono” Sellerio euro 10
[trama del 28 agosto 2016]
Siamo
nella stagione feconda di Camilleri, quella che vedeva le prime uscite di
Montalbano da un lato e le altre storie di Vigata dall’altro, con quel “Birraio
di Preston” che per me raggiunge una delle vette del primo Camilleri. Un autore
che in questo periodo valutai per una serie di fattori che esprimeva in alto
grado: l’uso della lingua (L), l’intreccio delle storie (I), il “social
engagment” che risultava dalle trame (S) e l’ironia di fondo (I). Il suo LISI
cominciò ad essere molto alto. Qui seppur abbiamo un discreto L ed S, siamo
solo sulla sufficienza nell’intreccio e decisamente carente per l’ironia (anche
se viene costantemente tentata). Il tentativo nuovo che fa in questo libro è
l’utilizzo di forme “indirette” per raccontarci la storia. Un uso sapiente e
ben alternato di capitoli intitolati “cose scritte”, dove si intrecciano
lettere, proclami ufficiali di questori e tenenti dei carabinieri, nonché
pagine di giornali, e di capitoli intitolati “cose dette”, dove Camilleri
riporta dialoghi tra i vari componenti della vicenda. La difficoltà nel
ricostruire la trama è che, da un lato, benché i personaggi cardini siano
pochi, la vicenda coinvolge una serie di coprotagonisti di cui non è facile
tenere a mente i nomi. Dall’altro, per le cose scritte, bisogna sempre rifarsi
alle date in cui si scambino le missive, anche se vengono riprodotte in ordine
temporale, ma risultano di diverso impatto se passano due giorni o due mesi tra
l’una e l’altra. Ciò detto, la vicenda è tutto un gioco degli equivoci, come
piace a Camilleri sulle orme del suo amato Pirandello. Filippo “Pippo”
Genuardi, commerciante poco fortunato ma molto “dotato” (capisci a me) benché
preso dalla moglie Taniné, si invaghisce, ricambiato, della seconda e giovane
moglie del suocero (Lillina). Per poter aumentare le occasioni di incontro, lui
che è sempre pronto alle novità tecnologiche (siamo nel 1891) cerca di
installare una linea telefonica tra la sua fabbrica di legnami e la casa del
suocero. Cerca quindi di trovare, nei meandri della burocrazia, la strada per
avere una “concessione telefonica”. Qui comincia a scontrarsi con un questore
napoletano fuori di testa (parla con i numeri della “smorfia”) che, equivocando
il tutto comincia a tenere sotto mira Pippo, coinvolgendo i carabinieri (che
non ci fanno una gran figura, come è ovvio) e spargendo voci sul presunto
“socialismo” del richiedente. Una costruzione di ipotesi che il prefetto di
polizia ha buon gioco a smontare, pezzo dopo pezzo. peccato che la storia si
intrecci con uno sgarbo fatto da un presunto amico di Pippo, tal Sasà, al boss
mafioso locale, don Lollò. Pippo, cercando appigli per risolvere la questione
“telefona”, cerca di ingraziarsi il boss, fornendo a più riprese l’indirizzo
del latitante Sasà. Purtroppo, per Pippo, Sasà lo sta prendendo in giro,
fornendo indirizzi falsi, cosa che dopo un po’ fa girare i cabasisi al
“nervuso” don Lollò. Che pensa bene di inguaiare Pippo, sia mettendo bastoni
tra le ruote alla famosa concessione (ad esempio, blandendo i vicini per
impedire l’impianto dei pali di comunicazione), sia facendolo apparire “rosso”,
così come vuole il questore. È tutto in gioco di specchi, per cui una cosa si
può sempre interpretare in diverse maniere, e l’ottusità del potere (S) ha sempre
buon gioco per mettersi in ridicolo ma far sì che Pippo sia sempre più
inguaiato. Finché don Lollò, scoperto l’ultimo nascondiglio di Sasà, da
l’ultimatum a Pippo: che gli spari lui alle gambe, così andrà tutto in pari.
Cosa che Pippo fa, ed a questo punto sembra che tutto vada per il meglio: i
vicini cedono, la concessione è avviata, i nemici istituzionali messi in
condizione di non nuocere. Tuttavia, il telefono servendo a scopi non
decisamente onesti, il nostro ha un bel colpo d’ingegno per far saltare il
banco su tutti i tavoli. Sasà, azzoppato e disonorato da don Lollò, si vendica
denunciando Pippo al suocero, che, dopo aver verificato la veridicità
dell’illazione, decide il passo estremo. Uccide a revolverate Pippo e poi si
spara. Essendo i carabinieri i primi ad aver notizia del delitto, decidono di
risalire in sella, facendo scoppiare una bomba sul luogo del delitto,
convincendo tutti che il povero Pippo era un facinoroso. In questo modo, tutti
i peggiori elementi dello stato in formazione vengono premiati, e gli onesti
mandati in esilio in Sardegna. Tutta la storia è anche condita da altri
elementi sociali, cominciando all’epoca del governo Di Rudinì e terminando con
il primo governo Giolitti, e con le prime idee concrete di lotta alla mafia,
poi presto abbandonate (un unico appunto storico, tra le lettere ne compare
una, in data aprile 1892 a firma di Giuseppe Sensales come direttore generale
di Pubblica Sicurezza, carica che però il Sensales ricoprì a partire
dall’ottobre del 1893). Ma di ironia, come potete constatare da queste mie
righe, ce n’è ben poca. Anche se, rispetto a prove più tarde e più involute di
Camilleri, resta in ogni caso un bel leggere.
“Passata la sissantina, un duluri ogni
mattina.” [anche no!] (156)
Conclusioni
Sull’adolescenza, intesa come
“malattia”, ritengo e convergo sulla bellezza e sull’utilità dei due libri
citati. Così come il buon Camilleri è un epigono della presenza burocratica
italica. Poi la citazione finale è da antologia. Meno in accordo l’utilizzo di
Frank e Nora sull’apatia, anche se molto si lasciano scivolare addosso. Forse
una cura più omeopatica che allopatica…
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