Un bel duello italo-francese a suon di saggi
e di assaggi. Seppur vinto dai francesi, che approfittano della mia passione
per Augé e del bel libro sulla vecchiaia senza età. Ma anche non dimentico di
pubblicare il piccolo scritto di Leiris ad un anno dalla strage del Bataclan.
Mi ha un po’ deluso il memoir di Feltrinelli. Mentre non mi delude mai (finora)
Culicchia. E così vorresti fare il saggio? Meglio continuare a scrivere le
trame.
Carlo Feltrinelli “Senior Service” Feltrinelli s.p. (prestito di Fako)
[A: 03/12/2015 – I: 30/04/2016 – T: 08/05/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 430;
anno 1999]
Mi
aspettavo molto di più dalla lettura di questo memoir familiare. Alla fine però
il figlio Carlo non riesce, se non in piccola parte ed in alcune situazioni, a
restituirmi l’immagine della figura interessante e controversa del padre
Giangiacomo. Innanzi tutto perché la scrittura non coinvolge, non ci fa
partecipi. Quasi che Carlo veda il padre nello scorrere di un film, di cui
conosce gli interpreti ma sono degli attori, e non delle persone a lui vicine
(e presumibilmente care). Idealmente è come se il racconto si spezzasse in tre
fasi: dalla notte dei tempi alla presa di coscienza di Giangiacomo, da qui alla
rottura con il partito, contemporanea o quasi con le due grandi avventure
editoriali (Zivago e Gattopardo), e poi l’ultima parte fino alla clandestinità
ed alla non ancora completamente acclarata morte. La difficoltà, nella lettura,
oltre a quell’aria “esterna” che dicevo, è anche la presenza di numerosi
inserti con brani, testimonianze, racconti in prima persona di persone presenti
agli avvenimenti. Nell’intento di creare un’atmosfera di verità oggettiva in
una vicenda che più soggettiva non potrebbe essere. Facciamo parlare Tizio o
Caio, in loro avrete fede, più nelle mie parole che forse, in quanto figlio,
sono di parte. Così sembra dire Carlo. Ma l’intento riesce solo in minima
parte. Quello che più riesce è appesantire il discorso. La parte migliore,
quella che più rimane, è la vicenda feltrinelliana dal ‘45 al ’56. Cioè dalla
fine della guerra (e GG aveva 19 anni, essendo nato nel ’26) cui aveva
partecipato alle ultime battute come partigiano in Toscana, acquisendo quella
coscienza di un mondo altro rispetto a quello “dorato” sia del padre Carlo che
del patrigno Luigi Barzini jr. Se vogliamo invece ripercorrere le tappe
cronologicamente, la prima parte, pur interessante e ben fatta, si perde un po’
nella memoria. Le origini della famiglia, nei meandri dell’Ottocento, con la
nascita della “Fabbrica Legnami Fratelli Feltrinelli”, che tanta fortuna fece,
e consentì alla famiglia di avere un inizio del Novecento agiato. Con il nonno
Carlo (nonno dello scrittore) che assume tante cariche, presiede la Banca
Feltrinelli, poi entra nei consigli d’Amministrazione dell’Edison, e di tante
industrie all’avanguardia. Carlo che sposa Giannalisa, da cui nel ’26 avrà Giangiacomo
e nel ’27 Antonella. Poi un ricordo personale, quando si descrive il viaggio al
Cairo di Giannalisa e Carlo Feltrinelli nel 1928, con sosta all’Hotel
Semiramis, hotel sempre presente nelle mie memorie (ed in molti scritti). Un
albergo che sono contento di aver visto più e più volte. Carlo è comunque un
liberale, non si allinea al fascismo imperante, e nel ’35 muore d’infarto. Le
industri rimangono in mano allo zio, in attesa che GG cresca. Poi viene la
guerra, viene la maturazione del nostro, la sua iscrizione al PCI, e tutta la
parte di vicenda che segna le basi dell’impero Feltrinelli come lo conosciamo
ora. Dicevo la parte migliore, anche se, qui come altrove, il Feltrinelli
privato è sempre lasciato in ombra. Si accenna di sfuggita alle mogli. Ben
quattro, alla fine. Bianca Delle Nogare dal ’47 al ’56, poi Ninni De Stefanis
dal ’56 al ’64 (ma si separarono già dopo un anno, senza che GG pensasse a
scioglimenti o divorzi), Inge Schöntal dal ’60 (sposata in Messico) al ’69, ed
infine Sibilla Melega dal ’69 fino alla morte. Solo Inge sarà solidale con il
Feltrinelli uomo, solo Inge gli darà un figlio (appunto Carlo, il cui nome
completo è in realtà Carlo Fitzgerald, forse per lo scrittore forse per
Kennedy, chissà?), solo Inge, con Carlo continuerà l’avventura editoriale,
quella che continua tuttora anche se Inge ha 85 anni (e GG a giugno ne avrebbe
fatti 90!). Sono i dieci anni cruciali, quelli dei rapporti (tesi) con
Togliatti, quelli dell’Ufficio Studi, quello dei tanti personaggi che giravano
allora per il mondo (quelli che vissi all’inverso, essendo invece gli anni in
cui mio padre, la mia antenna in quella parte di mondo, si era ritirato dalla
politica, prima di tornarvi, attivo, pimpante e partecipe, solo a metà degli
anni ’60). Personaggi che portano uno strano manoscritto alla casa editrice, di
un autore russo che non riesce a pubblicare in patria. Non entro nelle vicende,
ma è la parte migliore, quella che porterà alla pubblicazione de “Il dottor
Živago”. Ed a ruota con la scoperta anche del manoscritto di Tomasi di
Lampedusa e l’uscita de “Il Gattopardo”. Momenti epici, che faranno della casa
editrice un punto fermo nell’editoria mondiale. Poi arriva il ’56, le vicende
d’Ungheria, l’allontanamento progressivo dal partito, la vicinanza alla sinistra
radicale. Tutta la vicenda dell’ultima parte della vita di GG. Il fallito
colpito di stato del ’64 (di cui si seppe solo molto a posteriori, ma che GG
aveva indicato in alcuni suoi libelli). Il ’68, ma soprattutto la reazione a
quelle vicende, con le bombe di Piazza Fontana, e con il progressivo passaggio
alla clandestinità di GG. Sino alla morte, indecifrabile ancora, lì su quel
traliccio di Segrate, il 14 marzo del 1972. Il figlio Carlo tenta di farci
seguire il percorso umano e politico del padre. Tenta di ricostruire anche
tutte le vicende ancora oscure degli anni dal ’69 al ’72. Ma a me questa parte,
pur vicina nel ricordo, è rimasta più oscura nell’analisi. E non entro qui in
tutti i risvolti che sono presentati. Non entro nei giudizi posti su vari
personaggi pubblici: uno su tutti, Valerio Riva, che Carlo sembra indicare più
come spia che come giornalista. Non entro nell’idea terzomondista di GG, che
sta in Centroamerica proprio negli anni dell’inizio della rivoluzione cubana,
quando cercando di incontrare Hemingway, si “innamora” del castrismo e del
terzomondismo (per non dimenticare che a ruota nel ’60 sposa la fotografa Inge
in Messico). Sono tutte parti che vanno lette, magari discusse sul filo dei
ricordi e di altre testimonianze di parti diverse. Quello che so, ma che sapevo
anche prima, è che la verità in questi frangenti non emerge, né potrà mai
farlo. La storia è fatta dai vincitori, gli sconfitti avranno sempre una figura
monca nel grande affresco della vita. Alla fine, devo dire che la storia
contenuta nel libro mi ha fatto piacere leggerla. Meno la scrittura, tanto che
il giudizio complessivo non raggiunge la sufficienza. Però non posso esimermi
dal ringraziare il mio amico Fako che, con il suo prestito, mi ha costretto a
leggere un libro che andava in ogni caso letto.
Giuseppe Culicchia “E così vorresti fare lo scrittore” Laterza euro
9,50 (in realtà, scontato a 8,07 euro)
[A: 01/09/2015 – I: 07/05/2016 – T: 11/05/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 150;
anno 2013]
Il
titolo non ha il punto interrogativo, così che non si possa cadere nel plagio
con il libro di Bukowski. Che poi è un libro di poesie uscito postumo, con
tutti i temi cari al nostro scrittore ubriacone. Un titolo che Culicchia
trasforma in affermativo, per poi dedicarsi ad una scrittura a ruota libera sui
fasti (pochi) ed i nefasti (tanti) del mestiere di scrittore. Lasciando in
finale, ed è un bene, e bisogna leggerla, la poesia di Bukowski (ne troverete
senz’altro una versione online, che è molto diffusa, per cui non ve la
riporto). Il libro è in ogni caso di difficile catalogazione, una sorta di
gradita affabulazione, con qualche ridondanza, ma anche con spunti da
riprendere. Non è certo un saggio (anche se in mancanza di altri posti l’ho avvicinato
ad altri di altrettanta difficile collocazione), né un manuale per scrittori.
Forse, come sottintende l’autore, un avvicendarsi di pensieri durante la
propria vita di scrittore. Laddove, partendo dal suo personale, Culicchia prova
(spesso azzeccando, sempre con gusto) a generalizzare le proprie esperienze.
Culicchia è inoltre un autore che a me sta simpatico a pelle, anche se ho letto
un solo suo libro (“Torino e casa mia”, un viaggio amoroso e piacevole in una
città che ho scoperto solo in tarda età). Prima o poi leggerò altro, quindi non
entrerò a gamba tesa sparando giudizi drastici, del tipo questo libro è meglio
di quello, il tal altro libello è una cagata pazzesca. Altri lo fanno, ma io
recensisco e solo tangenzialmente critico. Per tornare al nocciolo duro della
narrazione, le scarne 150 pagine passano in rassegna i tre stadi attraverso i
quali si estrinseca la carriera di una persona che riesce a farsi pubblicare i
propri libri. Come tutti, al primo libro, ed in particolare se il primo libro è
pubblicato in giovane età, si viene etichettati come “Brillante promessa”. Uno
stadio duro, in cui il pubblicato autore si crogiola di belle critiche, di bei
dibattiti, ed è assediato da potenti invidie. Da chi non riesce a pubblicare,
da chi ha appena pubblicato, è diventato una brillante promessa, ma questo
primo libro di questo nuovo autore l’ha subito declassato al secondo stadio. Lo
stadio, ampio, forse il più grande di tutti, quello di “Solito stronzo”. Lo
stadio di tutti coloro che pubblicano il secondo libro, ed ovviamente ne
ricevono critiche in genere e per svariati motivi, negative. I due principali
motivi delle critiche negative sono poi uguali ed opposti. Hai scritto un libro
che riprende i temi del primo, allora stai scrivendo sempre la stessa storia.
Hai cambiato registro, allora hai tradito lo spirito del primo libro. Solo in
veneranda età, solo passando forche caudine a volte insormontabili (e spesso
invalicabili ai più) raggiungerai la pace del terzo stadio, quello di “Venerato
maestro”. Ma sempre, in ogni stadio, in ogni situazione dovrai: combattere con
i responsabili editoriali, sottostare alle dittature dei responsabili del
marketing, sorbirti, con il sorriso sulle labbra, le sempre uguali domande dei
sedicenti lettori alle presentazioni pubbliche delle tue opere. Quelli che si
alzano dicendo “Vorrei fare una domanda provocatoria” e poi si biforcano in
domande banali (“quanto c’è di autobiografico nel suo libro?”) o in
dissertazioni che non arrivano mai ad una domanda. A questo punto, quello che
si può estrapolare con un po’ di fantasia, saltabeccando tra le pagine, sono
alcuni consigli, ed alcuni suggerimenti. Primo fra tutti, passare direttamente
dal primo al terzo libro, facendo saltare le contumelie sulla mancata coerenza
tra il primo ed il secondo. Altro chiodo fisso di Culicchia è l’avversione
(caustica ma coerente) al “Fabio Fazio show”, non perché sia fatto male, ma
vedendolo nell’ottica (forse a volte radical-chic) di un “Maurizio Costanzo
show” del terzo millennio. E poi tirarsela alla David Foster Wallace (ma su DFW
ci sarebbe da fare un discorso lungo e contorto, che non essendo io mai
riuscito a separare l’autore dall’uomo, non sono ancora mai riuscito a leggerne
un libro). Fino alla tirata che riporto sotto, che esemplifica il difficile
rapporto tra l’autore ed il contesto letterario (ma è un discorso che va oltre
la carta stampata, indirizzandosi a tutti i miei amici ed amiche che sono
personaggi pubblici o quasi, e sulle cui frasi bisognerebbe fare una
riflessione seria, migliore di quella che, ad esempio, se ne può fare
paragonandone gli esiti al libro di Corrias “Dormiremo da vecchi”). Un libro
gradevole, un autore a me simpatico, una lettura distensiva che non annoia. Mi
sembra che ci siano tutti gli ingredienti per una sana lettura. Che consiglio,
salutando amichevolmente Culicchia, sperando anche lui legga queste righe con
l’affetto con cui io ho letto il suo libro.
“Dato che per carità tutto può darsi, se
proprio ci si tiene l’unica è cercare di farsi accettare dal milieu intellettuale
… Il che comporta non di rado una serie di piccoli accorgimenti. Occorre
infatti imparare a praticare l’arte del paraculismo ed eccellere in quella del
salamelecco, o se preferisci delle pubbliche relazioni, facendo in modo da
agganciare le persone giuste, ovvero quelle che detengono il potere all’interno
dell’industria culturale, politici e assessori compresi, e come usa dire sapersi
muovere. Fondamentale è cercare di fare il possibile per non crearsi nemici, ma
al contrario tessere alleanze, in un gioco all’insegna del do ut des che alla
fine porta sempre i suoi frutti. Cerca quindi di essere sempre gentile e
disponibile a trecentosessanta gradi almeno con coloro che contano, e di
salutare sempre tutti con grandi baci e abbracci, e con trasporto, entusiasmo,
il sorriso sempre pronto, gli occhi che brillano. Comprese le compagne, le
amanti, le mogli. O i compagni, gli amanti, i mariti. Se poi un giorno ti
venisse offerto un qualunque incarico, non limitarti a ringraziare, ma
tramutati in zerbino. Solo così avrai qualche possibilità. Sempre che la cosa
t’interessi davvero, naturalmente. E dando per scontato che tu abbia lo stomaco
per guardarti allo specchio, la mattina, quando ti svegli.” (100)
Antoine Leiris “Non avrete il mio odio” Corbaccio s.p. (regalo di
Alessandra)
[A: 07/05/2016– I: 11/05/2016
– T: 13/05/2016] - &&&& e ½
[tit. or.: Vous
n’aurez pas ma haine; ling. or.: francese; pagine: 120; anno 2016]
Non
avendo collocazioni precise per un “instant book”, lo colloco tra i saggi, perché
come i saggi è un libro che fa riflettere. Premetto subito che non è un “bel”
libro, e che sicuramente sconta qualche forzatura editoriale. Ma è un libro che
esce quasi a caldo, a valle di avvenimenti recenti, e sui quali, in vario modo,
ci fa riflettere. Per questo “instant book” (che come ci suggerisce
l’Enciclopedia Treccani, è un “libro scritto e pubblicato in tempi
strettissimi, nel quale viene raccontato, interpretato e commentato un noto
avvenimento della cronaca recente”) l’avvenimento cui ci si riferisce è
l’uccisione, nella famigerata “strage del Bataclan” di Luna- Hélène
Muyal-Leiris, una, appunto, delle 130 vittime della strage. Lei era andata al
concerto degli Eagles of Death Metal. Lui, Antoine, è rimasto a casa con il
piccolo Melvil di 17 mesi. Hélène non tornerà più, vittima dell’insensato
terrorismo. Antoine, pochi giorni dopo, pubblica un breve messaggio su
Facebook, un messaggio dolente e forte. L’unico momento anche, in tutto il
libro in cui si rivolge agli assassini, a coloro che immeritatamente pensano di
combattere per un Dio che non può che essere anche lui ferito a morte da quelle
pallottole. Antoine grida forte che tutto ciò non scatenerà in lui odio
insensato, anche se certamente non ci sarà mai neanche il perdono. Ci sono troppe
cose da portare avanti. C’è Melvil. Ma soprattutto c’è il suo amore per l’amata
che esce forte in tutte le parole del messaggio. Dal messaggio forte, ripreso
da tutti i media ed i social network del mondo, Antoine torna a guardare in sé,
alla sua vita. A farsi domande, come quella, forte, lunga, grande, che riporto
alla fine. Per sé stesso, per esorcizzarsi, per cauterizzare le proprie ferite,
Antoine, giornalista, comincia a ripercorrere in forma di diario i giorni che
trascorrono, a partire dal 13 novembre 2015. Lo fa in forma privata, perché
Hélène è il suo grande amore ed ora è la sua grande mancanza. Non pontifica,
non parla dei massimi sistemi. Sono i problemi giornalieri, l’andare avanti
ogni giorno che affollano le sue righe. Potrebbe essere un’operazione di
mercato, potrebbe uscire meno di quello che ci si aspetta. In realtà, c’è meno,
ma c’è anche di più. Come ho detto, non c’è, volutamente, coscientemente,
un’analisi del perché è successo, del come è successo, di cosa succederà dopo.
Forse è monca in tutto ciò? Probabilmente, ma è anche una mancanza voluta.
Antoine si concentra sulla sua vita, cioè sulla vita che comunque continua a
scorrere dopo il 13 novembre. C’è Melvil, c’è il nido, ci sono le pappe, ci
sono attività minute cui non si dava peso prima, tipo tagliare le unghie al
bimbo. E c’è la vita stessa di Antoine, il funerale, gli amici che ci sono e
che riescono a non essere pesanti e lugubri, come sarebbe troppo facile. C’è
l’amico che stava con Hélène e che si è salvato. Appunto, poteva essere un
libello di analisi delle tensioni che hanno portato al Bataclan, e ad altri
attentati, e che ne porteranno ancora. In fondo Antoine Leiris è un giornalista
di France Info e France Bleu, anche se lavora alla cultura, poteva partire in
una pontificazione generale su tutta la materia. Ma lui fa una scelta minimale,
ma essenziale. Sono altri quelli che faranno quel mestiere. Lui, come Pavese,
pensa al mestiere di vivere. Vivere significa accudire Melvil, significa
alzarsi la mattina, leggere il giornale, fare la spesa, mangiare, scrivere,
sentire musica, prendere Melvil al nido, giocare con lui, fargli da mangiare,
fargli il bagnetto, fargli le coccole, metterlo a letto, preparare la cena,
leggere, ed infine cercare, spesso senza riuscire, di dormire. Per tutto questo
ci vuole un coraggio che Antoine cerca di avere. Per tutto questo ci vuole un
collante che lo tenga insieme. L’amore per Hélène. Non c’è tempo per odiare,
che tutto fa sparire in una nuvola di buoni propositi e di cattivi pensieri.
C’è solo la necessità di continuare a viere. Non ho mai, fortunatamente, auto
un lutto così forte come quello di morti violente. Non so come io, come voi,
reagireste a tutto ciò. Probabilmente non lo sa neanche Antoine, come riporto
nella frase finale. Ma ne ammiro l’umanità. E penso sia la cosa migliore che
ognuno possa mostrare di sé.
“E, tutt’a un tratto, ho paura. Paura di non
essere all’altezza di quello che ci si aspetta da me. Avrò ancora il diritto di
non essere coraggioso? … Il diritto di non essere capace.” (90)
Marc Augé “Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste” Raffaello
Cortina Editore euro 11
[A: 28/05/2016 – I:
01/06/2016 – T: 08/06/2016] - &&&&
[tit. or.: Une
ethnologie de soi. Le temps sans âge; ling. or.: francese; pagine: 104; anno 2014]
Sempre
piacevole e stimolante leggere gli agili volumi di Augé, soprattutto ora che,
con l’avanzare dell’età (mia o sua?), preferisce pubblicare corte memorie
piuttosto che ponderosi saggi ed io mi continuo ad interrogare sulla percezione
personale del tempo. Vorrei solo iniziare con la solita critica ai titoli, dove
tra l’originale e l’italiano, pur rimanendo un nucleo comune, sparisce il
riferimento all’etnologia (ed è un peccato che questo libro andrebbe messo
insieme a tutti quei riferimenti di Augé ai non-luoghi, ecc.) e compare quel
richiamo sulla vecchiaia che è il leitmotiv del libretto, ma messo così in
copertina, rischia solo di essere un inutile richiamo per le allodole. Augé,
etnologo e scrittore, da intellettuale ed erudito ci invita infatti a riflettere
su cose che a volte cerchiamo di ignorare, ci porta per mano a metterci di
fronte a quello specchio che anno dopo anno rifletterà un volto diverso,
irriconoscibile, lontano dall’immagine che ognuno di noi mantiene dentro (come
da una delle frasi sotto riportate). Ed oltre le frasi-ricordo che sotto
riporto, non posso fare a meno di citare lui ed altri con lui, perché qui le
frasi sono difficili da esorcizzare per un povero tramatore come me. Stefan
Zweig ne “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”, scriveva: “Così gli anni
scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e
gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni”. Augé
prende, cita, riflette ed approfondisce il discorso, partendo dalla sua gatta e
citando e commentando altri che attraverso la scrittura esorcizzano l’andar del
tempo. La cosa che più mi ha colpito, sin dall’inizio è questo invito alla
riflessione su come sia relativa la rappresentazione mentale della vecchiaia e
su come questa muti a seconda della prospettiva dalla quale la si considera.
Augé pensa alla sua gatta Mounette che lo ha accompagnato in una parte del suo
percorso di vita, dall’infanzia all’affacciarsi all’età adulta, invecchiando
mentre lui cresceva, senza mutare troppo nell’aspetto. Da giovane Mounette
graffiava le braccia del ragazzo che incauto la provocava, e sceglieva come
rifugio privilegiato il piano più alto della credenza, per poter dominare la
situazione. Con gli anni – maturando il padrone e invecchiando la gatta –
smisero le provocazioni e i graffi, mentre il luogo del riposo diventava sempre
meno ardito: dall’alto della credenza allo schienale della poltrona, poi alla
seduta della poltrona, finché la poltrona stessa funse da soffitto. Mounette ha
attraversato placida le età della sua vita, adeguandosi nei comportamenti alle
diminuite capacità fisiche, senza per questo mostrare segni di disagio. La
disamina della vitta della gatta ci conforta quindi nell’affermare che la
vecchiaia esiste, e dunque va accolta con il dovuto rispetto. Augé ci ricorda,
a questo proposito, quanto già Cicerone affermava nel De Senectute: La
vecchiaia “non ha il monopolio della debolezza e della cattiva salute, che
possono affliggere anche i giovani. D’altro canto, le persone anziane devono
avere cura della loro salute fisica e intellettuale, quelle che in età avanzata
regrediscono nell’infanzia venivano considerati poveri di spirito. Certo, la
vecchiaia limita alcune attività e tuttavia non esercita alcun effetto nocivo
sulla mente di chi non ha trascurato di conservarne la vitalità. In altre
parole: dimmi come invecchi e ti dirò chi sei stato.” “Conosco la mia età,
posso dichiararla, ma non ci credo”, scrive Augé, facendo notare che la nostra
età è definita dalla percezione che abbiamo di noi stessi – e spesso questa non
coincide con l’età anagrafica. Tutto il libro lo sento allora come un invito a
vivere pienamente il presente, se non altro per evitare, per quanto possibile,
di rimanere vittime di due perniciose nostalgie. La prima: “Mi piacerebbe
ritrovare quei giorni felici”. La seconda: “Se avessi osato agire”. No, io sono
felice più ora che sono consapevole che allora quando, forse, non osavo agire.
Ed ora, consapevole, agisco. E con motivo d’orgoglio affermo la mia età. È
questa, è ora. E non accetto giudizi su di lei. Ma non ci si nasconde però
dietro un dito. Ora, “canuto e stanco”, penso a chi si ritira, ed a chi muore.
“Non si può invecchiare a lungo senza vedere molti amici cari e parenti
allontanarsi o scomparire”. E con loro un pezzo di noi. Al tempo stesso
subentra un’indifferenza crescente nei confronti della contemporaneità e degli
altri. Alcuni riescono ad affrontare tutto ciò e adattarsi, domandando al loro
corpo e alla mente solo quello che sono in grado di fare. Sono senza dubbio
quelli che vivono meglio, l’esempio da seguire, se possibile. Ma dentro, io,
tu, noi, siamo sempre gli stessi. Si, mio caro etnologo di quel non-luogo che
sarò io dopo che non ci sarò, sono d’accordo con te. Tutti muoiono giovani.
“Scrivere è un po’ morire, ma un po’ meno
soli.” (54)
“La visione di un film in una sala
cinematografica è un’esperienza totalmente diversa da quella che si vive
guardando un DVD o la televisione.” (75)
“È necessario leggere e rileggere [un libro
n.m.] la relazione con un testo è viva.” (82)
“Tuttavia, quando mi guardo allo specchio e
mi dico che sono invecchiato … ricompongo e riunifico il mio corpo … Invecchio,
dunque vivo. Sono invecchiato, dunque sono.” (85)
“Che ce ne si rallegri o che lo si deplori …
bisogna ben ammetterlo: tutti muoiono giovani.” (104)
Seconda domenica di novembre, ed allora eccovi una bella lezione di
lussuria in allegato, con quadri, orecchini ed altri colori.
Mentre per il resto si continua a mettere in
ordine le proprie carte, si pensa a qualche viaggio asiatico (di cui vi terrò
conto se si concretizza), e si riflette su tutti i propri amici e sulla voglia
di stare con loro. Sempre.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE 2016
Una grande storia, un grande
pittore, una ragazza e le sue decisioni. Un mese di lussuria per le nostre cure
LUSSURIA
Tracy
Chevalier “La ragazza con l’orecchino di
perla”
Anche la
lussuria ha la sua importanza, ovviamente. Senza non ci sentiremmo vivi.
Eppure, quando si tratti di prendere decisioni, sarebbe meglio che restasse in
secondo piano. Il desiderio umano è immensamente potente, ma è anche del tutto irragionevole,
privo di buon senso e capacità di giudizio (e se è questo il vostro problema,
in generale, v. Buon senso, mancanza di). Permettere alla lussuria di
influenzare le vostre scelte, francamente, è altrettanto sensato che dare a un
tredicenne le chiavi della vostra nuova Aston Martin e invitarlo a farci un
giro.
Seguite
l’esempio di Griet, la riflessiva, misurata domestica e musa di Johannes
Vermeer nella ricostruzione che Tracy Chevalier fa del periodo che precede la
realizzazione dell’omonimo quadro. La ragazza, di carattere umile, attira
l’attenzione del pittore quando gli fa notare che ha sistemato il cavolo rosso
e le carote in modo tale che i colori non contrastino tra loro, dimostrando di
avere un occhio da pittrice. La prenderà come modella, e i due si rispetteranno
a vicenda e lavoreranno tranquillamente nello studio di lui, fianco a fianco.
Griet adesso parla di Vermeer come del suo «padrone» o, in modo ancora più
eloquente, come di un anonimo «lui». Entrambi hanno insegnato all’altro nuovi
modi per vedere le cose, e tra loro c’è stato un momento assai importante,
significativo: Vermeer ha messo la propria mano sopra quella di Griet per
mostrarle come usare il pestello e ridurre in polvere un pezzo di avorio
carbonizzato per ottenere del pigmento nero, suscitando nella ragazza un
brivido erotico tanto forte da farle perdere la presa. È l’inizio del
corteggiamento; quando il quadro sarà finito, il desiderio sessuale - di
entrambi - è lì alla luce di tutti, nel bianco scintillante degli occhi, nelle
labbra umide e socchiuse, nel tessuto del copricapo, delicatamente avvolto e
fermato intorno alla testa e, ovviamente, nello splendore, sul collo in ombra,
di quella perla tanto incongrua quanto brillante.
Griet sa bene
che nella Delft del Seicento una ragazza con le sue origini non può legarsi a
un uomo dello status sociale di Vermeer. È un territorio molto pericoloso, e
con la tensione sessuale che ribolle dalla pagina, capiamo che è in gioco il
futuro stesso di Griet. La prosa attenta e concisa di Chevalier rispecchia la
moderazione che si richiede a entrambi. Saranno in grado di trovarla, o
prevarrà la lussuria?
Oh caloroso
lettore, quando i tuoi ormoni minacciano di avere la meglio sulla tua testa,
vattene in un posto tranquillo insieme a “La ragazza con l'orecchino di perla”.
Lascia che quelle frasi eleganti e disciplinate temperino la tua passione e
tengano a freno la tua lussuria. Fermati, rallenta, rifletti. Sei attratto da
qualcuno con cui potresti condividere carote e cavoli? Altrimenti, prendi la
tua eccitazione per quello che è, fai un respiro profondo e volta pagina.
Bugiardino
Ho
letto con piacere il libro della Chevalier, nonostante il mio non grande amore
per i romanzi “storici”. Che poi direi più che storico, pittorico e d’ambiente.
Tracy Chevalier “La ragazza con l’orecchino di perla” Neri Pozza euro
9,90
[trama pubblicata il 27 settembre 2015]
Ho
un rapporto ambivalente con il romanzo storico. Da un lato mi intriga la
costruzione di un intreccio a partire da elementi storici veritieri (cosa che
spesso poi mi porta ad approfondire gli elementi stessi con lunghe ricerche
wikipediche). Dall’altro mi deprime se l’aspetto romanzesco prende il
sopravvento intrecciando storie poco verosimili. La signora Tracy Chevalier
mantiene un corretto equilibrio da questi due poli, con una prosa scorrevole
(non a caso è anche Master in Scrittura Creativa), lasciando solo un po’ a
desiderare sul fronte pittorico in senso stretto. Che qui, come penso si
sappia, si parla di pittura olandese del 1600, e di uno dei maestri del colore,
Johannes van der Meer, noto a noi con la sua firma Jan Vermeer. Intrecciando
una trama diagonale, incentrata sulla figura della giovane Griet, forse presa a
modella dal pittore per uno dei suoi quadri più noti (“La ragazza col turbante”
nota anche, appunto, come “La ragazza con l’orecchino di perla”), con l’intento
di portarci nella cittadina olandese di Delft nel 1664, e con l’atelier e la
pittura del maestro olandese. L’autrice ha buon gioco nel parlare del pittore,
che poco di lui si sa storicamente. Si lascia però irretire da alcune teorie
(verosimili ma non provate) sulle modalità della sua pittura minuziosa,
aderendo a quella che è nota come "tesi Hockney-Falco", dal nome dei
due pittori che l’hanno elaborato, sull’utilizzo di strumenti para-fotografici
per entrare nel dettaglio dei propri modelli (come l’utilizzo della camera
oscura). Lo fa con troppa incuranza della delicatezza del dettaglio. E questo
mi ha lasciato un po’ perplesso. Di certo gli effetti di luce di Vermeer sono
sorprendenti, come anche l’effetto di “fuori fuoco” presenti in alcuni suoi
quadri. A parte questa tiratina d’orecchi, lo scritto scorre in maniera
piacevole, facendoci realmente calare, a parte forse con qualche mancanza nel
finale, dentro le atmosfere complesse dell’Olanda dell’epoca. Ma torniamo alla
storia narrata dalla sedicenne Griet, giovane dalle grandi capacità percettive
dei colori (ereditate dal padre esimio piastrellista) che, essendo la famiglia
in ristrettezze economiche, viene inviata, controvoglia, a fare da cameriera
presso la potente famiglia Vermeer. Che si sa le cameriere hanno la dubbia
reputazione di rubare e soprattutto di dormire con i loro padroni. In casa
Vermeer, la nostra fa amicizia con l’altra servetta, Tanneke, ma entra presto
in contrasto con Cornelia, la più piccola di casa. Mentre il giovane macellaio
locale, Pieter, comincia a farle una corte discreta, il freddo pittore scopre
l’occhio artistico di Griet e comincia a chiederle aiuto nel mescolare i colori
e, a volte, da fare da modella sostituta in alcuni quadri. Suscitando un po’ di
gelosia in Catharina, la moglie del pittore, ma essendo protetta sia da nonna
Maria, che da alcuni amici del pittore stesso. Ma la ruvida bellezza di Griet
non sfugge invece a Van Ruijven, il magnate di Vermeer, che vorrebbe un dipinto
insieme alla ragazza. Sapendo che in altre occasioni ciò ha portato scandalo,
Vermeer arriva ad un compromesso: dipingerà Griet regalando il quadro a Van
Ruijven. Nasce così il quadro che dà il titolo al romanzo. Ma gli orecchini
sono di Catharina, che, sobillata dalla perfida Cornelia, decide di cacciare
Griet. Qui la narrazione fa un salto di dieci anni, arrivando alla morte di
Vermeer (morto appunto nel 1675 a 43 anni). Griet è sposata con Pieter, hanno
due bambini (uno dei quali somiglia stranamente al pittore, anche se non
sappiamo cosa Griet e Jan abbiano combinato). Alla morte di Vermeer, comunque,
Griet è convocata a casa dell’artista, e la moglie le consegna i famosi
orecchini. Vermeer era rimasto affezionato, così ci fa credere l’autrice, alla
modella dall’occhio artistico, anche se non l’aveva mai più avvicinata. La
parte migliore ritengo sia il nucleo centrale, con le descrizioni di alcuni
quadri dell’artista (Tanneke che posa per “La lattaia” o Van Ruijven e la serva
sedotta in “Il bicchiere di vino”) e le possibili tecniche da lui utilizzate
per rendere vivaci i colori, e ben rappresentare le figure umane (che in genere
sono donne). Un po’ tirata per i capelli la parte finale con l’eredità degli
orecchini, quasi a voler saldare un debito d’onore di cui si può intuire ma non
si sa. Una scrittura ed una lettura discrete, solo poco al di sotto di un
gradimento pieno. comunque al fine ringrazio le mie libropeute (che spero non
mi facciate ogni volta ripetere chi siano), per avermi suggerito questo libro.
E se ne riparlerà ancora nel momento della cura.
Conclusioni
Se lussuria, etimologicamente,
sta per incontrollata sensualità, direi che la nostra Griet si ferma un passo
prima. Forse non sarà la virtù opposta, quella temperanza che vuole avere un
controllo, di testa, sulla propria pancia. Ma io ho letto il libro in ottica
diversa. Lascio a voi la decisione.
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