domenica 24 dicembre 2017

Dahlitudine - 24 dicembre 2017

Nuova puntata dedicata, invece che al Natale cui riserviamo l’allegato, al Giallo Svezia del Corriere della Sera, dove si affrontano il norvegese Kjell Ola Dahl e lo svedese Arne Dahl. Stesso cognome ma nazioni e stili diversi. Nonché resa, visto che il norvegese è sempre almeno sufficiente, mentre lo svedese è sempre poco sotto la sufficienza.
Kjell Ola Dahl “L’uomo in vetrina” Corriere della Sera Svezia 8 euro 7,90
[A: 01/10/2015– I: 23/05/2017 – T: 25/05/2017] - &&& -
[tit. or.: Mannen i vinduet; ling. or.: norvegese; pagine: 488; anno 2001]
Continuiamo a farci del male, come direbbe Nanni Moretti. Altro libro della collana “Giallo Svezia”: peccato che l’autore sia norvegese e che l’azione si svolga, appunto, ad Oslo. L’autore, tra l’altro, nasce come professore di liceo, e solo nel 1993, a 35 anni, comincia a scrivere. Iniziando una serie imperniata su due poliziotti, il commissario Gunnarstranda e l’ispettore Frank Frølich. Questo che ho appena letto è in realtà il terzo romanzo della serie, e si nota, che i personaggi principali fanno riferimento a vicende precedenti, che non sempre vengono decrittate da noi poveri lettori attuali. In questi casi, poiché l’autore sorvola su molti passi, una piccola introduzione riassuntiva dei caratteri e delle vicende dei personaggi non sarebbe certo male. Ad esempio il commissario è sempre indicato con il cognome, come se il nome fosse un accidente. Inoltre ha avuto una moglie, morta probabilmente di cancro, almeno dieci se non di più anni prima delle vicende presenti. È un tipo solitario, fumatore accanito di sigarette che prepara lui stesso, parla al suo pesce rosso e si tocca spesso il riporto di capelli. In questa vicenda, Gunnarstranda comincia ad avere un rapporto con un’altra donna, Tove. E la preparazione psicologica dell’autore (che infatti oltre ad insegnare è anche psicologo) ce ne mostra i timidi passi verso un possibile nuovo mondo. L’ispettore Frølich, invece, è preso in uno strano rapporto di coppia non convivente con Eva-Britt. Ma è un rapporto che si sta esaurendo, per incapacità di rapportarsi tra i due. Eva fa innervosire Frank qualsiasi cosa faccia, e Frank non riesce a tirar fuori i suoi problemi. Tanto che comincia ad avere una storia con tal Gøril, una donna poliziotto che sembra decisamente simpatica. Anche perché, di base, lui è il più gioviale dei due ed è decisamente robusto se non si vuol dire che è grasso. I rapporti personali dei due fanno da contraltare privato alla vicenda, che invece ha altri scenari ed altro svolgimento. Quindi noi, dopo aver capito, o cercato di capire, i due poliziotti, ci immergiamo nella trama vera e propria del libro. Trama che si incentra sulla strana morte di Reidar Folke Jespersen, 79 anni. Un anziano metodico, con una routine giornaliera costante, una moglie più giovane, Ingrid, di cui sa la relazione con tale Eyolf (e non la disapprova). Il 13 gennaio, venerdì, Reidar viene trovato morto, nudo, seduto nella vetrina del suo negozio d’antiquariato, con uno strano codice alfanumerico disegnato sul petto. Molte cose veniamo a sapere sull’antecedente della morte: i fratelli di Reidar vogliono vendere l’attività in perdita, ma lui si oppone. Anche se Kirkenær fa un’offerta fuori mercato (perché?). Reidar vede inoltre una donna vestita di rosso, e fuori ad osservarli c’è il marito di lei, tassista e geloso. Infine c’è il commesso Jonny, da poco, e inspiegabilmente, licenziato. Tra tutti questi possibili autori dell’omicidio, i nostri due si cominciano a muovere, utilizzando le consuete modalità poliziesche: scavare nel passato per trovare il presente. Passato che porta ben presto alla luce l’attività di Reidar durante la Seconda Guerra Mondiale. Laddove la Norvegia, presto occupata, divenne sede di comandi nazisti. E dove molti norvegesi cominciarono fiancheggiamenti ed altre turpi attività. Come fece la famiglia Jespersen. Come fece Reidar stesso. Si snoda cosi una storia d’amore e di vendetta con ombre che perseguitano ancora sia le vittime che i persecutori. Non ci meravigliamo di scoprire che la famiglia di Jonny è ebrea, che parenti di Kirkenær sono morti nei campi di concentramento, che il codice sul cadavere è anch’esso di derivazione nazista. Ovvio che molto è fumo negli occhi di chi non sa vedere. Arriveremo, noi e i due investigatori, alla soluzione, alla spiegazione di tutti i vari passi che hanno portato alla morte di Reidar. Ma come in un sano giallo alla Simenon, non tutti i colpevoli subiranno la stessa sorte. E qui mi fermo. Per fare un passo indietro e fornire alcuni giudizi generali su questa mia prima lettura di un libro del norvegese Dahl. La partenza è buona, in salita e di corsa. La descrizione della vita del morto, i possibili motivi della sua uccisione, la cupa atmosfera norvegese, la vita privata dei due investigatori. Purtroppo il norvegese Dahl non riesce a mantenere questa tensione per molto tempo, e ben prima di arrivare alle quasi 500 pagine finali ci si domanda perché non ha tagliato un po’, perché continua a rimestare intorno alle solite cose, tanto ormai sappiamo come sono verosimilmente andate le vicende. Come diceva un attento osservatore: “Non basta essere nati a Oslo per saper scrivere un buon giallo”. Vedremo se migliorerà continuando.
“Le persone anziane dovrebbero … riposarsi, godersi la vita in altre maniere.” (80)
“Le persone che amano sono innocenti, indipendentemente da chi amano e perché amano.” (411)
Kjell Ola Dahl “False apparenze” Corriere della Sera Svezia 25 euro 7,90
[A: 19/01/2016 – I: 14/06/2017 – T: 17/06/2017] – &&& --
[tit. or.: Kvinnnen i Plast; ling. or.: norvegese; pagine: 362; anno 2010]
E qui saltiamo dal terzo al settimo romanzo della serie dei due poliziotti. Ed il salto si sente, che, pur rimanendo nel filone dei caratteri sopra espressi, si notano salti caratteriali e di vita, forse giustificati, ma di certo non spiegati. Che, ovvio, erano stati espressi nel corso delle varie puntate della scrittura seriale. Ma abbiamo anche un altro punto negativo: il vezzo di modificare il titolo da “Donna nella plastica” (come in effetti viene trovato il cadavere di Veronika) a queste apparenze false (come spesso sono le apparenze), ma immotivatamente assurte a titolo. Non nego, ovvio, che il titolo italiano abbia comunque attinenza alla trama. Anzi, per tutto il corso del romanzo sono proprie le cose che appaiono a non essere vere, a celare altre verità. Dahl ha anche qui la capacità di mescolare più trame, intrecci disparati, alcuni solo marginali, altri che tendono a distogliere il lettore, e farlo procedere su false piste. La trama principale riguarda la morte di Veronika Undset, trovata dall’ispettore Frank Frølich in un cassonetto, nuda ed avvolta in un sacco di plastica. La riconosce perché l’aveva arrestata pochi giorni prima. Frølich stava pedinando un criminale, Kadir Zahid e scopre che Veronika passa la notte con lui. Quando esce, Frølich la perquisisce e trova della cocaina in un accendino. Veronika se la cava con una multa. Ma la sera stessa Frølich partecipando alla festa del suo amico Karl Anders scopre che questi si è fidanzato con Veronika. Alla festa Frølich conosce anche la precedente fiamma di Karl, Janne, una madre single con figlio adolescente e problematico. Molti misteri si addensano nell’orizzonte della trama: Veronika infatti va da uno psicologo, Erik Valeur, ed è assediata da uno stalker che la fotografava sovente quando lei riceveva uomini nella sua casa. Stalker che pochi giorni dopo viene anche lui trovato ucciso. Inoltre, tutte le tracce tendono a sparire: il computer di Veronika, i suoi telefoni, fissi e mobili, il computer dello stalker, e chi più ne ha più ne metta. Frølich, troppo coinvolto nelle indagini, viene allora dirottato sul caso di una studentessa di colore Rosalind M’Taya, arrivata da poco in Norvegia per studiare, scomparsa poche ore dopo l’arrivo. Le indagini vengono quindi prese in mano direttamente da Gunnarstranda, che viene aiutata da un nuovo personaggio, l’ispettrice Lena Stigersand. Indagando ad ampio raggio, si scopre inoltre che Kadir è implicato in una serie di furti, che spaccia anche droga, servendosi di ragazzotti, tra cui Kristoffer, il figlio di Janne. Inoltre, Erik Valeur era stato lo psicologo di una scuola media, dove trovò la morte una ragazza, Sonja, con modalità simili a quelle di Veronika. Mentre Frank risolve brillantemente il caso della ragazza scomparsa, ritrovandola, trovando il colpevole, ed innescando una storia parallela che poco interessa il filone principale, Lena si intrufola nell’ambiente dello psicologo, cercando di trovare prove del suo coinvolgimento nell’omicidio di Veronika. Ma anche noi capiamo che sarebbe troppo facile. Troppo misteriose le mosse di Veronika la notte della sua morte. Perché è stata a lungo da Janne prima di andare da Kadir? Perché non c’è una prova della convergenza tra la morte di Veronika e quella dello stalker? Perché Kristoffer ha il bagno pieno di dosi di cocaina? Perché Janne torna con Karl Anders? Il finale lascia qualche sorpresa, dove vi svelo solo che Valeur era l’assassino di Sonja, ma non di Veronika. Scoperta che fa Lena mettendo in pericolo anche la sua vita, ma uscendone vittoriosa anche se malconcia. Così come vittorioso esce Frank dal confronto con Karl, dove veniamo anche a scoprire i segreti del loro odio – amore che risaliva ad una brutta storia di donne in gioventù svoltasi in Corsica. Ma la vittoria Frank la paga a caro prezzo, che, furioso con Karl, lo riempie di botte. Per tale motivo, verrà allontanato dalla polizia, o quanto meno sospeso. Nel resoconto finale che fa Gunnarstranda oltre a capire tutta la vicenda, di Veronika, di Janne, di Karl, dello stalker, capiamo anche che sarà Lena la sua prossima partner investigativa. Sperando che la nuova coppia sia più accattivante di questa ormai arrivata al lumicino. Dahl ci presenta un discreto spaccato dalla Oslo odierna, ma non riesce a coinvolgerci in maniera seria nella trama e nei suoi risvolti. Tanto che mi trovo a ripetere il finale del commento precedente (anzi non lo ripeto, rileggetelo). Finisco con un piccolo cammeo: a pagina 151 Gunnarstranda sta in salotto con la sua nuova fiamma Tove, ascoltando musica. Alla richiesta di cosa sia, la donna risponde: “Paolo Conte … jazz italiano … è davvero piacevole da ascoltare”. Concordo al 100%.
Arne Dahl “Brama” Corriere della Sera Svezia 9 euro 7,90
[A: 01/10/2015– I: 06/11/2017 – T: 13/11/2017] - && +
[tit. or.: Viskleken; ling. or.: svedese; pagine: 538; anno 2011]
Dopo alcuni mesi di pausa, riprendo in mano i gialli “svedesi”, con una prima buona novella: un giallo realmente scritto da uno svedese. Anche se Arne Dahl non è il suo nome ma uno pseudonimo che l’autore usa quando scrive polizieschi. Che Jan Arnald è uno scrittore altrimenti noto in patria, collaboratore con l’Accademia Svedese dei Nobel (tra l’altro). Dahl comincia a scrivere gialli agli inizi di questo secolo, inventandosi una squadra di investigatori della polizia svedese, che chiama “Gruppo A”, e di cui scrive, credo, una decina di libri. All’inizio del decennio, invece, riprende alcuni personaggi della serie, e ne inizia una nuova, portando i suoi “attori” sulla scena internazionale, come gruppo operativo all’interno dell’Europol. Gruppo denominato “OpCop”. Al comando del quale ritroviamo il commissario capo del gruppo A, Paul Hjelm, coadiuvato dal finlandese di origini svedesi (o viceversa) Arto Söderstedt. Del gruppo, poi, fanno parte una serie di poliziotti provenienti da molti paesi europei: la tedesca Jutta, il polacco Marek, la rumena Lavinia, l’inglese Miriam, la lituana Laima, il greco Angelos, la francese Corinne, lo spagnolo Felipe, l’italiano Fabio. Il gruppo è coadiuvato anche da alcune equipe nazionali, la più importante delle quali, ovvio, è quella svedese, composta da Kerstin (la compagna di Paul), Jorge (l’esperto informatico) e Sara (la moglie di Jorge). Detto questo come introduzione ed ambientazione, prima di inserirsi nella trama, viene ad alcune domande che mi sono saltate subito in mente. Perché in italiano viene presentato come “Brama” un libro che in originale si intitola “Sussurri”? Certo, nello svolgimento la brama di denaro è il motore di molte azioni. Ma sono i sussurri, le parole nascoste, quello che da giovani facevamo come “telefono senza fili” che reggono l’intreccio. In un susseguirsi di notizie, sussurrate, sibilate, nascoste, mal comprese, che fanno da sfondo alla trama, che devo dire, soprattutto all’inizio, è assai complicata. A meno che non ci sia una pervicace traduzione dal tedesco (dove fu lanciato con il titolo “Gier”, cioè avidità, brama)!! La seconda domanda, si collega alla sopracitata sfilza di personaggi. Che, nel caso di Paul e Arto soprattutto, fanno a volte riferimento al Gruppo A. Ma non c’è una parola di raccordo, come se noi sapessimo (ma non lo sappiamo) quali siano le precedenti imprese del gruppo, quali le sottese alleanze, quali i moti dell’anima. La terza domanda, invece, viene a lettura ultimata. Certo, è un intreccio interessante, e discretamente attuale. Tuttavia l’autore ogni tanto si perde nei rivoli di altro, si infogna in storie collaterali (almeno all’apparenza), mette una discreta massa di carne al fuoco, e lasciando alcuni punti sospesi. Perché uno dei “cattivi” viene battezzato come Minotauro? Perché una delle vittime predestinate prende il nome di Arianna? Perché il filo salvifico viene tenuto da tal Elena e non giunge a nessun Teseo? Perché l’agenzia di sicurezza dei “cattivi” si chiama Asterione, come il padre di Minosse, nonché nonno di Arianna? Il tentativo di Dahl è quello di produrre uno scenario internazionale complesso, in cui convergono corruzione, scandali finanziari, inquinamento ambientale, droga, e chi più ne ha più ne metta. Il fulcro è quel tal Minotauro, che, muovendo leve finanziarie legate ad una misteriosa banca d’affari stranamente salvatasi sia dall’11/9 sia dai disastri dei fondi alla Lehman Brothers, cerca di ridurre in bancarotta addirittura la Lituania. Per fare ciò muove, oltre ai suddetti denari, la falsificazione di mobili a basso costo nel Tibet, producendo un solvente che inibisce gli odori e consente alla ‘ndrangheta, cui si associa, di esportare in Lituania droga orientale. Proprio Riga diventa un fulcro dell’azione, dato che, per aumentare i proventi, i mafiosi calabresi devono riciclare materiale poco pulito, andando ad inquinare le coste del Mar Baltico. Il tutto garantito da una segreta squadra di sicurezza facente capo alla società “Asterion Security”. I meccanismi si inzeppano quando, contemporaneamente, durante il summit G20 dell’aprile 2009 muore un cinese (che poi si scopre essere tibetano) tra le braccia di Arto (uno degli OpCop) e contemporaneamente viene rapita, torturata ed uccisa la bella Arianna. Che sapeva dell’esistenza degli OpCop in quanto il suo ragazzo aveva avuto una tresca con una polacca che aveva giaciuto con Marek, che le aveva detto di essere un super-poliziotto. Inciso: questa del telefono senza fili per risalire da Marek ad Arianna è appunto la traccia “forte” del libro da cui deriva il titolo. Paul, visti i fili che convergono verso la sua nuova squadra, mette tutti al lavoro: Marek segue la pista americana (uscendo miracolosamente indenne da un attacco con il gas), Miriam e Corinne seguono la pista inglese (dove ci sono le due morti acclarate), Jorge e Laima seguono la pista lituana ambientalista, Fabio e Lavinia la pista mafiosa calabrese, mentre Kerstin e Sara la pista dei mobili che parte da Stoccolma, e si intreccia con una pista di pedo-pornografia infantile originatasi in Cina (e sarà casualmente il contatto cinese che, riconoscendo nel morto un tibetano, darà un impulso fondamentale alle indagini). Indagini che termineranno con un bel bagno di sangue a Berlino. Fortunatamente, Dahl, nei capitoli finali, ci fa un riassunto dei collegamenti tra tutti gli avvenimenti sparsi nel libro, che altrimenti sarebbe arduo andare a ricollocare al giusto posto. Certo, l’uso del giallo per denunciare scandali e corruttele finanziarie è degno e nobile. Peccato sia troppo diluito nelle 500 pagine, e che non abbia una soluzione definitiva. Il che lascia supporre o che nei libri seguenti se ne riprenda il filo o che l’autore voglia dirci che “contra argentum, nihil potest”. Speravo qualcosa di più omogeneo, ma è un libro che può andare in questi momenti di turbolenza familiare, per poter distogliere alla grande la mente.
Arne Dahl “Ira” Corriere della Sera Svezia 23 euro 7,90
[A: 04/01/2016– I: 14/11/2017 – T: 16/11/2017] - && +
[tit. or.: Hela havet stormar; ling. or.: svedese; pagine: 448; anno 2012]
Prima di entrare nella trama vera e propria di questo secondo libro di Dahl, casualmente letto a ruota del primo, ribadisco un sospetto che mi era venuto guardando in giro sulla rete e che avevo espresso nella trama precedente. In effetti, anche qui il titolo originale è “Tutte le tempeste del mare”, ed ogni parte del libro è ad esse dedicata (calma piatta, brezza, burrasca, tempesta, uragano). Mentre in tedesco è stato lanciato come “Zorn” (che per l’appunto in italiano è “Ira”). Secondo appunto riguarda la continuità nelle descrizioni e nei personaggi, nonché alcune lungaggini di scrittura. Infatti, se non avessi appena letto “Brama” mi sarei perso il collegamento, che nasce a pagina 210, con la banca Antebellum e la società di security Asterion. Che invece l’autore dà per scontato, come se tutti già sapessero quegli antefatti. Che sono invece a molti ignoti, che Dahl non chiarisce, anche se poi sono funzionali a tutta una parte della trama, ed a tutta una parte della sua risoluzione. L’altro appunto riguarda molte parti francamente poco leggibili, in cui si salta nel passato nebuloso di qualche personaggio, cercando di avvolgere il tutto in un’aura di mistero. Ebbene, se li saltate (o se l’editore avesse convinto Dahl a toglierli) sarebbe stato tutto molto più leggibile e probabilmente appassionante. Infatti, una volta tolti di mezzo, la seconda parte del libro scorre molto meglio, ed è anche più avvincente. L’altro vizio, che gli autori di serial writing non si riescono a togliere, è quello di voler inserire più vicende che si intrecciano (a volte), che spesso vanno su binari paralleli, e la cui gestione non è facile. Qui, il doppio binario (che ricordo è ormai un must dei serial fiction televisivi alla CSI o similari), porta l’autore a cercare di confondere le acque. Cerca di farci credere che tutte le morti siano derivanti da un unico disegno criminoso, quando, casualmente, si scopre che ci sono due serial killer, che, ad un certo punto, uccidono contemporaneamente lo stesso uomo. anche se, come si vedrà, per ragioni diverse. Al centro, in ogni caso, c’è la squadra OpCop che abbiamo imparato a conoscere nel precedente libro (meno i due poliziotti morti in Basilicata, senza che però venga preso il colpevole). Con le loro manie, con i loro rapporti interpersonali (che qui fanno un discreto passo in avanti) e con le loro storie pregresse, che noi onnivori lettori sappiamo, ma che Dahl si guarda bene dal rinverdirne le gesta. Così abbiamo Paul, il grande capo, che ha sempre il suo rapporto con la distaccata (di sede, non di umore) Kerstin. Ci sono Jorge e Sara, anche se si defilano un po’. Ci sono Lamia e Miriam che fanno una bella coppia d’assalto. C’è il pensieroso Arno. C’è Felipe con la moglie incinta. C’è Alexis sempre pronto con le sue magie tecnologiche. C’è Jutta (che segretamente è invaghita di Paul) e c’è Marek (che segretamente è invaghito di Jutta). C’è Corinne, la franco-mussulmana che comincia a piacermi per la sua solitudine, la sua serietà, la sua professionalità. E ci sono le storie. C’è l’assassino seriale che da più di dieci anni opera indisturbato su tutto il fronte internazionale, attirando le sue vittime nelle più sperdute isole-prigione di tutto il mondo, dove le uccide con un colpo di pugnale al cuore e straziandone la carne della spalla. Certo, questa modalità ci consente di fare un ripasso delle più terribili prigioni che sono state istituite in giro per il mondo: il castello di If in Francia, la Ilha Grande in Brasile, Ile du Diable nella Guyana francese, Robben Island in Sudafrica, Isla Dawson in Cile o Goli Otok in Croazia, tanto per citarne le più famose (per i poco attenti ricordo che Ilha Grande fu un penitenziario brasiliano sino al 1994, l’Isola del Diavolo vide rinchiuso il capitano Dreyfus, Robben Island fu la prigione di Mandela, a Isla Dawson fu rinchiuso Luis Corvalan, sodale di Allende, e Goli Otok quella istituita da Tito). Significativo è il primo assassinio che viene perpetrato a If, dato che poi, ogni successivo crimine contempla la presenza di una citazione del “Conte di Montecristo” (una fantasia sfrenata…). Il gruppo di Paul, pur con una discreta fatica, riesce a trovare un fattore comune a tutti i morti: erano tutti comunisti. E qui l’autore si lancia in una piccola polemica (messa in bocca al cattivo assassino) contro l’ideologia che tanti morti ha causato nel secolo scorso. Polemica che risulta assai sterile, in quanto nessuno ne discute con l’assassino, solo Arto dice qualche frase, più che altro per giustificare i suoi scritti giovanili (era un convinto marxista svedese) ed il suo successivo passaggio nella polizia. Mentre Dahl cerca di convincerci che queste sono le morti che dobbiamo tenere in controllo (invece sono elencate, decrittate, ed una volta capito il meccanismo, facilmente isolate con le future vittime salvate o salvabili, ed il colpevole arrestato), sono tutte le altre, che più intrigano e che sono di più difficile comprensione. Anche perché sappiamo subito, dai rapporti che ogni tanto si inseriscono nel testo (che fanno un pendant mentale con le lettere di Arianna del primo libro), che l’autore è un certo W, intelligente, quasi geniale, e ben presto scomparso. Tanto che gli autori dei rapporti stanno da tempo cercandone le tracce. Capiamo presto, dall’analisi delle altre morti, che W è un prodotto genetico modificato ante-litteram. Che vuole vendicarsi, e riesce anche a farlo, di chi lo ha “costruito”. Nella seconda parte, quella meglio riuscita, c’è tutta l’escalation sia delle componenti eugenetiche delle attività dei malvagi, sia l’intelligenza di W, sia quella, misto di bravura e di coraggio, del gruppo OpCop. Mescolando la fine di questo libro con le domande aperte alla fine del precedente, Dahl costruisce la sua trama e la sua storia. Che tuttavia, benché ben congeniata, non lascia una grande traccia di sé. Alla fine, ripensando, il tentativo di Dahl è di dare un bel colpo di maglio a chi voleva costruire “un uomo nuovo”. Chi lo faceva utilizzando la politica, chi utilizzano la scienza. Tuttavia non riesce ad essere né coinvolgente né convincente. Rimane solo il gruppo, con le sue personalità abbastanza simpatiche (Corinne su tutti per me), e quel finale che cerca di mettere qualche pulce nell’orecchio. Ma non vi dico né di che pulce si tratta né di quale orecchio. Dahl continua a cercare di inserirsi nel solco della tradizione gialla nordica, senza però raggiungere l’efficacia e le capacità empatiche di Sjöwall e Wahlöö, di Mankell, di Stieg Larsson o di Håkan Nesser. Non credo, a meno di altre casualità, che se ne leggerà ancora molto.
Visto che siamo a Natale, oltre a questi scrittori vicini alle renne ed al circolo polare, ecco che vi regalo un recupero di cure librarie come piccolo regalo di Natale.
Un Natale in minore, se vogliamo, che siamo più tesi verso le saluti genitoriali che verso le adunate conviviali. Ma visto che tra poco saremo in un anno “8”, aspettiamo di far rima e di salutarci calorosamente.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NATALE
Come già detto, a volte prendo qualche festa non domenicale per recuperare libri. O qualche festa anche più complicata, come un Natale che viene di lunedì con gli auguri che vi mando il giorno prima.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
DIARREA, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE AL GABINETTO

Non perdete un istante. Scegliete un romanzo da questo elenco. Non importa se li leggerete a salti e frammenti durante le vostre sedute, scegliendo, volta per volta, un capitolo breve o uno lungo. Organizzate uno scaffale apposito, nella stanza più piccola della vostra casa.
Saul Bellow                   Il re della pioggia
Charles Bukowski           Post office
William S. Burroughs      Pasto nudo
Raymond Chandler         Il grande sonno
J. M. Coetzee                Diario di un anno difficile
Heimito von Doderer      Le finestre illuminate
Ralph Ellison                  Uomo invisibile
Bjorn Larsson                 La vera storia del pirata Long John Silver
Michael Ondaatje           Le opere complete di Billy the Kid
Simon Vestdijk              Il giardino dove suonavano gli ottoni

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, paura della
CURA: Ripensare il genere

Una delle assenze più comuni nella galassia degli interessi di un lettore che altrimenti potremmo definire a tutto tondo e quell’insieme di romanzi che di solito sono etichettati come «di fantascienza». Per ragioni non del tutto chiare, questo termine riesce sempre a mandare un brivido lungo la spina dorsale. Forse evoca immagini di alieni, astronavi e guerre intergalattiche - e tutto senza nemmeno un essere umano. Forse chi non legge fantascienza non è in grado di capire come un mondo irreale possa rapportarsi con quello che c’è fuori dalla porta.
O forse i lettori sono messi fuori strada da un termine cosi generico che non riesce a comunicare la varietà e la qualità di questo genere. Invece che fantascienza, provate a chiamarla narrativa «speculativa», come la definì una volta Margaret Atwood - romanzi che esplorano le direzioni in cui la razza umana potrebbe andare. Gli scrittori di narrativa speculativa hanno spesso predetto il nostro presente: Ray Bradbury, Arthur C. Clarke e William Gibson avevano immaginato certi gadget odierni con cinquant’anni di anticipo. Altri, che scrivono adesso, prediranno e in un certo senso contribuiranno a determinare il nostro futuro - e continueranno a servire da sistema di preallarme. Considerate, ad esempio, come la letteratura abbia evidenziato i pericoli dell'ingegneria genetica (“L’ultimo degli uomini”), della bio-ingegneria (“Il giorno dei trifidi”) e dell'ingegneria sociale (“1984”). Se, come lettori, siamo interessati a ciò che significa essere umani, non dovremmo essere altrettanto interessati alla nostra identità futura?
Sotto molti punti di vista la fantascienza e uno sviluppo naturale dei mondi magici in cui abbiamo abitato da bambini (molti di noi, anzi, leggono con piacere narrativa speculativa da tempo, senza accorgersene; ricordate quel romanzo su un uomo che poteva viaggiare nel tempo, e su come la moglie viveva tutto questo? Se gli editor avessero scelto di etichettare Audrev Niffenegger come scrittrice di fantascienza, migliaia di lettori non l'avrebbero toccata nemmeno con una spada laser). La narrativa speculativa apre universi paralleli nei quali possiamo fuggire per dare sfogo alla nostra passione per tutte le cose che vanno oltre la nostra comprensione. Se evitate questi universi, lo fate a vostro rischio e pericolo.

I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER PRINCIPIANTI DELLA FANTASCIENZA

Questi libri trascendono i confini del genere, e dunque non sono considerati dei classici. Quasi senza che ve ne rendiate conto vi convertiranno a un mondo nuovo - come persone, oltre che come lettori.
Douglas Adams                 Guida galattica per gli autostoppisti
Isaac Asimov                    Io, Robot
J. G. Ballard                      Deserto d'acqua
J. G. Ballard                         Crash
Philip K. Dick                    Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Stanislaw Lem                  Solaris
China Mieville Perdido         Street station
Walter Tevis                      L'uomo che cadde sulla terra
Kurt Vonnegut                   Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini
H.G. Wells                        La guerra dei mondi

DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, non leggere altro che
CURA: Scoprire il pianeta Terra

Lev Tolstoj              Guerra e pace
Frank Herbert          Dune
Michel Faber           Sotto la pelle
Hermann Hesse      Il gioco delle perle di vetro
Angela Carter          Le infernali macchine del desiderio
Jeanette Winterson   Passione
Leggete solo fantascienza. Non c’è una sola copertina in casa vostra che non splenda di un bagliore alieno. La fantascienza è diventata un buco nero letterario, e voi ci siete caduti dentro. Mentre vi facciamo i complimenti per la vostra immaginazione e la capacità di mettere da parte le leggi della fisica, vi esortiamo a utilizzare una mente così esercitata anche per le rappresentazioni artistiche del pianeta che avete oltre la porta di casa. Ci sono altri universi letterari, là fuori. Vi consigliamo di fare un giro in questo territorio inesplorato.
Cominciate con “Guerra e pace” di Tolstoj, il grande romanzo epico russo che, come “Dune” di Frank Herbert, abbraccia tre generazioni di guerra e politica, senza mai perdere di vista gli individui. Passate poi a “II gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse, un romanzo ambientato, e questo potrebbe rassicurarvi, nel venticinquesimo secolo, ma che si occupa di questioni filosofiche e spirituali. Poi leggete “Sotto la pelle” di Michel Faber, un romanzo che tocca vari generi e che vi assorbirà e infine vi darà una bella scossa. Lasciate che “Le infernali macchine del desiderio” di Angela Carter, un'esuberante stravaganza magico-realista, vi faccia conoscere alcune macchine che distorcono la realtà e gettano lo scompiglio nella vostra mente. “Passione” di Jeanette Winterson, un altro romanzo che sfida le classificazioni di genere, vi farà sondare il ventre molle della narrativa site-specific. Un altro piccolo passo, e avrete a vostra disposizione tutti gli altri romanzi ambientati in regioni sconosciute del nostro pianeta. Alla fine, potreste considerarvi ufficialmente guariti dalla vostra ossessione per lo spazio.

Ipocondria

Frances H. Burnett “Il giardino segreto”
Leggere “Il giardino segreto” serve a ricordare che molti dei nostri disturbi sono, in realtà, immaginari.
Il giovane Colin, confinato nella sua camera da letto fin dalla nascita, è convinto di avere un rigonfiamento sulla schiena che, prima o poi, diventerà una gobba e lo porterà alla sua prematura scomparsa. Ovviamente non c’è alcun nodulo, se non si contano le vertebre della spina dorsale. Quelli che si occupano di lui lo hanno spinto a credere di essere deforme, condannato a non diventare adulto, e che l’aria aperta può avvelenargli il sangue. Mary, la cuginetta viziata, altrettanto arrogante e scontrosa di lui, non vuole nemmeno sentirne parlare. È l’unica persona abbastanza coraggiosa da dire al bambino che in lui non c’è niente di sbagliato, e fa corrispondere alla propria rabbia per la sua inerzia quella di Colin per il suo presunto destino. Solo una bambina dal carattere impetuoso, decisa a trovare il suo giardino segreto, può rompere il guscio della paura di Colin e mostrargli la verità.
La passione di Mary per il giardino attira Colin fuori dalla camera e lo fa entrare in un mondo di boccioli e di uccelli - un mondo dove abita anche l’irresistibile Dickon, pieno di lentiggini, un vero ritratto della salute. Lasciatevi conquistare da questo romanzo, alzatevi dal letto, trovate il vostro giardino segreto, forse anche il vostro Dickon, e vi sentirete subito in perfetta salute.

Bugiardino

Diarrea, i dieci migliori romanzi da leggere al gabinetto

Ho parlato di questa “malattia” in una cura dell’aprile 2015, dove parlai di cinque tra questi dieci libri. Ora vi aggiungo un sesto, l’ottimo romanzo dello svedese navigatore Bjorn Larsson.
Björn Larsson “La vera storia del pirata Long John Silver” Iperborea euro 18,50
[trama pubblicata il 18 giugno 2017]
Eccoci qua, allora, dopo una lunga cavalcata per i sette mari, a ritrovare la bella scrittura di Larsson ed una storia che vale molte storie. Peccato solo non aver mantenuto l’asciutto titolo originale, ed essersi dilungati nell’aggiungere “vera storia” e “pirata”. Inutili e ridondanti simboli qualificativi, che servono solo a cercare di attirare lettori ad una storia che, devo dire, si attira e si commenta da sé. Anche se l’originale svedese, che i nostri traduttori neanche riportano, implica un bel sottotitolo che val la pena menzionare: “Den äventyrliga och sannfärdiga berättelsen om mitt liv och leverne som lyckoriddare och mänsklighetens fiende” (cioè “La storia avventurosa e veritiera della mia vita e delle mie avventure di uomo libero, di gentiluomo di fortuna e di nemico dell’umanità”). Che, infatti, il nostro svedese Larsson è uno scrittore di intriganti capacità complicative di trame e situazioni. Che è solo cognonimo del compianto Stieg (quello di Millennium) e della giallista Åsa. Che ho imparato a conoscere nel tempo per due caratteristiche: l’abilità nell’ideare trame (come quella, cui rimando, del primo suo libro che ho letto, un poliziesco letterario dal titolo “I poeti morti non scrivono gialli”) e l’amore per il mare. Che traspare in molti suoi scritti (che consiglio al mio amico Renato), e dalla sua vita, visto che passa la maggior parte del suo tempo sulla sua barca, un Rustler 31 di nome “Rustica”. Dove, al largo delle coste galiziane, ha anche ideato e scritto questo romanzo biografico su di un personaggio inventato. Già questo me lo rende simpatico: prendere a prestito da Robert L. Stevenson uno dei personaggi più emblematici de “L’isola del tesoro”, e fargli ripercorrere in prima persona le tappe della sua vita. Mescolando, sapientemente, vero e falso, facendo intervenire a lungo Daniel Defoe (coevo delle vicende narrate) sia come scrittore sia come conoscitore di pirati. Anche se l’opera cui si fa spesso riferimento (“Storia generale dei pirati”) è scritta sotto la firma “Captain Johnson” che per molto tempo si pensò fosse uno pseudonimo dello stesso Defoe (ma pare non lo sia). E facendo intervenire anche altri pirati famosi, veri o letterari. Dal vero Edward England (sodale di Silver) al falso capitano Flint (uscito dalla penna di Stevenson). Tutta la finzione, tuttavia, è al servizio di un’idea di fondo del nostro Bjorn: parlare degli uomini, dei loro sentimenti, del loro modo di vivere, in quei primi 40 anni del 1700. Gli anni che seguirono la grande guerra tra Inghilterra e Spagna, laddove gli inglesi utilizzarono le navi da corsa per attaccare le galee spagnole (da cui i famosi “corsari”). E dove questi, una volta assaporati soldi e donne, non si tirano indietro, si impadroniscono di quel vessillo che diventerà famoso (il teschio con le due tibia incrociate, chiamato in inglese “Jolly Roger”). Larsson usa Silver per farlo diventare eponimo di quest’epoca. Mozzo in fuga dalla natia Bristol, girellando per i mari ad “imparare il mestiere”. Sempre padrone del suo destino, per cui deciderà di non diventare mai capitano di una nave, tuttalpiù quartiermastro (che è una specie di secondo ufficiale, con il compito, importante per quelle imprese, di tenere anche la contabilità). A lungo ancora in Scozia, per sfuggire ad una falsa accusa di ammutinamento, a lungo in compagnia del suo primo grande amore, Elisa. Scoperto, di nuovo in fuga, di qua e di là degli oceani. Coinvolto nella tratta dei negri, ma di cui diventa amico. Soprattutto del capo Jack e di una mulatta fiera che ritroverà dopo qualche anno, libererà dalla schiavitù e diventerà la compagna dell’ultima parte della sua vita. Non la donna, che Dolores non chinerà mai il capo a nessuno (tanto che aveva ucciso un capitano che voleva violentarla), ma che deciderà di unire le sue forze alla declinante vecchiaia di Silver. Larsson ci spiega anche l’origine del soprannome “Long”, non per l’altezza, ma come pseudonimo per sfuggire alle guardie. Si fece chiamare John Long, per un periodo, divenendo poi facilmente Long John, e finalmente Long John Silver. Ci dice come perse la gamba, non per una palla nemica, ma per un tiro mancino dell’invidioso Deval. Cui, per ripicca, farà tagliere dal medico di bordo una gamba sana! E poi il lungo sodalizio con Edward England, un pirata che realmente aveva poca voglia di uccidere i nemici sconfitti, tanto che alla fine il suo equipaggio si ammutinò e lo lasciò su di un’isola deserta verso il Madagascar. Infine, l’ultima parte, dove (grande momento di meta-letteratura) scorre la storia del tesoro del capitano Flint scritta da … Jim Hawkins, ormai gentiluomo in Londra con i soldi del Tesoro. Silver sa che quella storia segnerà la sua fine, e si affretta a finire la sua e spedirla a Jim. Per poi finire come tutti i pirati. O forse no? Larsson ci lascia un’ombra di mistero, che non svela (né io a voi). Perché quello che piace, che rende godibile le 500 pagine non è solo la storia dei pirati sulle onde dei sette mari, ma la figura stessa di Long John. Che Larsson prende da Stevenson ampliandone i lati ambigui. Se ricordate, il grande scozzese aveva sempre messo su due binari il pirata da una gamba sola. Un po’ con Jim e molto con sé stesso. Qui Larsson ci presenta un pirata che, come dice sempre lui stesso, volendo “essere padrone del mio destino”, usa tutti i mezzi per farlo. Sfrutta i suoi studi giovanili (è uno dei pochi che sa leggere e scrivere). È empatico con gli schiavi negri (che una volta liberati saranno con lui sino alla fine), è crudele con i capitani inglesi, è tenero solo con due donne (Elisa e Dolores). Ruba, tradisce, ed alla fine, come tutti, si ritrova solo. A cosa serve aver girato tutta una vita, per poi essere lì, forse sui sessant’anni, con la pirateria che è ormai morta da venti. Solo a pensare di non aver trovato, di non riuscire a trovare, di non trovare mai, la sua posizione. Questa la riflessione personale che poi tutte le belle pagine mi lasciano. Mentre io lascio ai miei amici che amano il mare il godimento di seguire le navigazioni per i sette mari. Anche a chi, purtroppo, le sentirà solo da queste righe. Ed a lui brindo con un colmo bicchiere di rhum!
“Se tanta gente muore prima di aver imparato a vivere, è perché vive come se non dovesse mai morire” (12)
“Mi dissi, in tutta onestà, che tra i milioni e milioni di donne che popolano la nostra terra, dovevano pur essercene altre come … Ma a incontrarne una, in tutta la mia lunga vita, che io sia dannato se ci sono riuscito.” (141)
“Vi confesso dunque che, di tanto in tanto, ho desiderato che … scrivere non fosse un’attività così dannatamente solitaria.” (184)
“La mia vita non è stata che una navigazione stimata, ma forse, chi lo sa, arriverò a trovare la mia posizione, prima di affondare.” (220) [dicesi navigazione stimata quella tecnica di navigazione a mezzo della quale è possibile determinare la posizione stimata della nave in mare, utilizzando gli elementi del moto quali: la velocità, la direzione ed il senso.]
“Se c’è una cosa da cui ci si deve tenere lontani, se si vuole restare sani di mente, è … la scrittura.” (403)

DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, paura della

Non sono certo io a poter parlar male della fantascienza, dati i miei ben noti trascorsi ambiguamente utopici.
James G. Ballard “Crash” Feltrinelli euro 8
[trama pubblicata l’8 febbraio 2015]
Nonostante il piacevole salto che mi ha consentito la lettura di questo libro, e su cui si ritornerà, devo dire che sono rimasto alquanto deluso. Dalla scrittura, dalla storia, dal modo anche che se ne parla in giro (in rete e sui libri). Il salto è stato il ritorno, almeno nella memoria, al tempo in cui le mie uniche letture erano dedicate alla “fantascienza” (uso le virgolette che il termine mi è rimasto sempre antipatico, essendo un tipo di scrittura variegato, e spesso per nulla fantastico: ucronie, sociologie possibili, certo i robot di Asimov, ma anche Bradbury, Farmer, la Le Guin e tanti altri, dove la scienza non sempre era il fulcro della storia). Nella mia libreria “juvenilia” sono rimasti ancora qualche migliaio di libri di genere, e Ballard aveva senz’altro un posto in questo mondo, con la sua scrittura che ha aperto (proprio nei tempi a cavallo degli anni ’70) la strada per un modo nuovo, anglosassone ma non solo, di scrivere (che da lì si diparte la vena umoristica alla Douglas Adams ed il cyber-punk alla Gibson). Fatto questo revival, mi sono messo in lettura, pensando di ritrovare queste atmosfere, anche perché il libro viene etichettato come fantascienza tecnologica di pochi anni avanti. Ed anche, perché spesso Ballard è un gran provocatore, di pornografia tecnologica (fanta-pornografia mi sembrerebbe un termine un po’ troppo forte). Ma letto ora, a quarant’anni dalla scrittura, non ha nulla di anticipatorio, è solo un romanzo che sfrutta dei meccanismi tecnologici (in questo caso le automobili) per portare avanti un suo discorso sulla difficoltà dei rapporti umani, e sulle alienazioni che l’innamoramento verso la tecnologia può portare. La storia, molto cruda in sé, gira intorno al protagonista soggettivo, che scopriamo ben presto avere dei seri problemi di rapporto con la moglie Catherine. Non riescono a fare l’amore se non tradendosi continuamente a vicenda, e raccontandosi i loro tradimenti. La svolta avviene quando il protagonista ha un grande incidente automobilistico, dove uccide una persona che viene in senso opposto, ferendo gravemente la di lui moglie al volante, nonché rimanendo lui stesso gravemente ferito. Questo shock, dopo vari capitoli un po’ inutili, lo porta a contatto con un certo Vaughan, adoratore di incidenti, e fotografo degli stessi. Lui stesso, pluri-incidentato con cicatrici ovunque. Vaughan si aggira cercando incidenti, fotografandoli, e tenendo dietro di sé una specie di scuderia fatta da uno stuntman strafatto di coca, la di lui moglie cicatrizzata, un regista fallito e la moglie di questi, in giro con stampelle sempre per incidenti vari. Una corte dei miracoli, che il nostro però scopre terribilmente eccitata dal pericolo e dalle sue conseguenze. Il nostro, tra l’altro, continua a scopare in macchina ripensando all’incidente, e, tra un coito e l’altro, riesce anche a rimorchiare sia la moglie del morto sia la stampellata. Ma quando comincia a frequentare da vicino Vaughan, oltre ad avere un soprassalto di eccitazione tecnologica, ha anche un soprassalto di passione omosessuale verso di lui. Vaughan continua a studiare morti possibili, e Ballard ci maciulla un po’ i “cabasisi” con queste storie di accartocciamenti di cruscotti ed altre menate. Si vede che i due sono attratti e respinti da questa ordalia di sangue e sesso. Niente di più facile quindi immaginarne la fine annunciata: strafatti di LSD il protagonista e Vaughan fanno l’amore. E poi Vaughan si getta da un cavalcavia (ovviamente con l'auto) e muore. Una fine ovviamente annunciata, e scoperta, come se non resistesse più alla “vergogna” dell’atto consumato. Ma tutto ciò si protrae per duecento inutili pagine. Continuiamo a vedere sesso e crude descrizioni dello stesso, continuiamo ad avere descrizioni di incidenti. Tutto senza un vero perché. Senza un briciolo di “anticipazione”, se non nel fatto dell’uso della tecnologia. Ed alla fine, non ritengo sia un romanzo ascrivibile al genere. Anche se bisogna riconoscere che Ballard si è sempre rifiutato di considerarsi un fantascrittore, piuttosto pensava di sé essere un investigatore dello spazio interiore. Tuttavia, quello che volevo sottolineare è il fatto che non è un romanzo che mantiene il passo con i tempi: è datato, e leggibile solo in una prospettiva storica. Per me, al contrario, un qualsiasi romanzo, di qualsiasi natura, ha senso se riesce a mantenersi godibile (anche se può non piacere, intento godibile nel senso intellettuale) con il passare degli anni. Questo, ora, è solo un romanzo di pornografia pudica, come vedere le fotografie delle donnine discinte che si facevano nell’Ottocento. Divertente vederne una, palloso leggere tutto un romanzo.

DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, non leggere altro che

Ripeto quanto detto la pagina precedente, ovvio.
Hermann Hesse “Il giuoco delle perle di vetro (Saggio biografico sul Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi)” Mondadori euro 12
[trama pubblicata il 4 dicembre 2016]
Un’opera ponderosa, complessa, che mi ha impegnato per quasi un mese di lettura non sempre agevole. Ma alla fine, mi ha lasciato con un po’ di delusione nel fondo del cervello. Meno, sicuramente, del precedente Narciso. Lontanissimo, tuttavia, dal mio ricordo di “Siddhartha”. Intanto, inizio subito trasversalmente, che comprai questo libro su indicazione della bibliografia delle libropeute che conoscete ormai bene. Collocandolo prima tra i libri che devono leggere i cinquantenni. Mistero, ma ci si tornerà sopra. poi tra i libri che gli amanti della fantascienza devono leggere per tornare sulla terra. È vero, come dice l’ottima introduzione di Hans Mayer, che l’azione dovrebbe svolgersi intorno al 2200, ma è tutt’altro il pregio ed il difetto di questo libro. Mi permetto di parlare di difetto in senso personale, che non sempre (anzi sempre più spesso) libri osannati e celebrati nell’universo mondo, ad un mio approccio diretto mi forniscono meno stimoli di quanto speravo. Così anche in questo caso, sebbene devo riconoscere che la scrittura, e le cose che Hesse riesce a dire durante tutta la storia di Josef Knecht, sono da leggere e soppesare ad una ad una. Intanto c’è l’impianto generale del libro, imperniato sul giuoco del titolo e su di un Magister dello stesso. Con quattro divisioni generali che ne fanno un’opera come sopra detto complessa. Una prima parte in cui, con parole oscure, si cerca di spiegare l’inspiegabile: cosa sia mai “il giuoco delle perle di vetro”. Una seconda ben ampia che percorre tutta la vita di Knecht. Una breve esposizione di alcune sue poesie (di cui riporto sotto due versi che mi hanno affascinato). Infine, un bellissimo gioco nel gioco. Gli studenti del mondo di Knecht, a varie riprese nella loro vita, sono invitati a scrivere una loro biografia fantastica. Un piccolo inciso: lo trovo un modo bellissimo di esporre la propria personale visione di sé stessi; dovrebbe essere presa come esempio in molte situazioni in cui bisogno presentare sé stessi. Per tornare al libro, Knecht scriverà tre finte autobiografie, e sono altrettanti momenti importanti per capire l’uomo, ma anche per capire Hesse, ed il suo grande tentativo. Quello non solo e non tanto di scagliarsi contro le brutture e le storture del mondo (non dimentichiamo che il libro vede la luce nel 1943 in piena Guerra Mondiale), contro la guerra, contro la febbre del denaro, contro i nazionalismi, ma con il tentativo di sostituirli con valori etici altri. Purtroppo noi, oggi, siamo ancora lontani dalle utopie del tedesco premio Nobel bandito in patria (tanto che prenderà la cittadinanza svizzera); purtroppo i valori etici che ci descrive sono ancora di là da venire. E spero di non dover aspettare anche io il 2200! Per chi non conoscesse (ancora) il complicato incastro di Hesse, la sua finzione si basa su di una sorta di consorteria (Castalia) dove giovani dotati vengono educati al meglio (e non è un caso che nel meglio siano in primo piano la musica e la matematica). Ogni elemento di Castalia, eccellendo, cresce in qualche arte, e l’andrà insegnando ad altri. L’arte suprema è, poi, il giuoco delle perle di vetro (indescrivibile momento di vita) che governa Castalia e (forse) il mondo intero, e, come tutti i giuochi, deve essere guidato da un grande Maestro, il Magister Ludi. La Castalia è comunque inserita nel mondo (la Provincia), debole e fallace, dove vivono tutti gli altri umani. Ci sono i seminaristi castali che vivono solo per questi ideali e i seminaristi provinciali che torneranno a governare la Provincia (e il Mondo). Knecht, in base a circostanze descritte nel libro ma ininfluenti, viene scelto per far parte dei seminaristi castali. L’ignoto biografo futuro ci descrive tutto il suo percorso di crescita, da umile seminarista a grande (o forse ultimo dei grandi) Magister. Il suo percorso, così come il modo di Hesse di porci le sue idee, si imbatte sin dall’infanzia in una sorta di alter-ego provinciale, tal Designori, con il quale entra in discussione alta e forte, ognuno dei due cercando di portare avanti le giuste ragioni e di Castalia e della Provincia. Designori andrà nel mondo, e Knecht proseguirà nella sua ascesa. Fino a diventare uno dei più giovani e promettenti Magister Ludi. Finalmente, in questa veste, oltre ad insegnare, girerà per la Provincia, capendo che Castalia è un’isola forse felice, ma slegata dalla realtà del mondo. Incontrerà di nuovo Designori, la sua famiglia, la moglie ed il figlio. Perché, scordavo, ma lo avete ovviamente capito, i Castali sono dedicati allo studio, quindi niente sesso per favore. Riprende nella parte finale della sua vita il dibattito acerrimo con Designori, dove però le parti si sono smussate alquanto. Il provinciale, vivendo nel mondo, capisce la bellezza dell’isolamento castalio. Knecht, dalla “torre di vetro”, comprende la bellezza e la necessità della Provincia. La comprende talmente che capisce che solo un gesto estremo potrà dare una scossa alla cristallizzazione castalia. Decide allora di dimettersi dal suo ruolo e tornare nel mondo. Gesto che metterà in crisi tutto l’edificio delle perle di vetro, facendo capire come l’etica senza la pratica possa diventare un momento sterile di vita. Knecht decide di insegnare al figlio di Designori, ma deve, moralmente, pagare il fio del suo abbandono. Morirà quindi annegando in un lago che ha tutte le caratteristiche di un lago di montagna elvetico, e che ricorda, nel sacrifico, la morte di Empedocle (almeno quella leggendaria di una sua caduta nel fuoco etneo). Difficile, complicato ed irrappresentabile per me è tutto il percorso delle onerose pagine. Mi ha coinvolto, cerebralmente, il discorso etico. Ho cercato di seguirne i risvolti, i voli pindarici di Hesse scrittore. E di Hesse travestito in un “Faber Ludi” che vuole insegnarci questa via verso un’etica diversa, ma che, senile ma non invecchiato (in fondo pubblica questo ritenuto uno dei suoi capolavori a 66 anni; ho ancora speranza), non riesce a portarmici dentro fino in fondo. Ci vuole personale più filosofico, più erudito di me. Io mi accontento di sentire la mia testa (spesso) e la mia pancia (sempre). Ed è quest’ultima che non mi porta molto più in là di un apprezzamento formale. E di una sostanziale stanchezza verso tutta l’opera del grande svizzero. È giusto, quanto abbiamo lottato e lotteremo per avere davanti una vita che spazzi via (tanto per fare nomi alla rinfusa) i Berlusconi, i Trump, i Putin. Ma dobbiamo avere accanto, noi uomini e donne fallaci, i nostri amici, i nostri amori, i nostri sostegni reciproci. Insomma, mi mancano dei pezzi verso la felicità, e non riesco ad incollarli a me. Ed Hesse non riesce a farmeli sostituire con altro. Quindi, essendo confuso, finisco qui, facendo l’ipotesi di riuscire, un dì, a scrivere anche io una mia biografia fantastica, dove fare convergere in pace ed armonia tutti i pezzi del me stesso diverso e diviso.
“Studiare storia significa abbandonarsi al caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” (172)
“Quanto più invecchiava, tanto più lo attirava la gioventù.” (246)
“Knecht, che in quei mesi si era sentito talvolta molto vecchio, si persuase di essere giovane e forte.” (251)
“Vide che l’altro … non ascoltava come si ascolta una chiacchierata o magari un racconto interessante, ma con quella dedizione assoluta con la quale ci si concentra nel meditare.” (307)
“Ogni inizio contiene una magia / che ci protegge e a vivere ci aiuta.” (465)
“Si racconta di santi e di esseri celesti che, affascinati da una donna deliziosa, la tennero abbracciata per giorni, mesi e anni fondendosi con lei, tutti compresi del piacere, dimentichi di ogni altra preoccupazione.” (556)

Ipocondria

Avevo già parlato di questo libro quando si parlava di adozione, ma non vedo perché non ripeterlo in questo scorcio fakekiano.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama pubblicata il 3 settembre 2017]
Non poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio, l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero, moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico. Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi” della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato. Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia, ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote, ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette. Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi. Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?

Conclusioni


Non torno sulla diarrea, né tanto vorrei aggiungere qualcosa di ipocondriaco alla giusta citazione. Dirò soltanto che, per la fantascienza, avrei citato molto altro, e soprattutto altro di Ballard. Mentre per staccare dalla stessa, basta aver voglia di non nascondersi, di aprirsi al mondo ed alla lettura. E tutto vi sembrerà possibile (anche se niente vi apparirà chiaro).

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