Nuova puntata dedicata, invece
che al Natale cui riserviamo l’allegato, al Giallo Svezia del Corriere della
Sera, dove si affrontano il norvegese Kjell Ola Dahl e lo svedese Arne Dahl.
Stesso cognome ma nazioni e stili diversi. Nonché resa, visto che il norvegese
è sempre almeno sufficiente, mentre lo svedese è sempre poco sotto la
sufficienza.
Kjell Ola Dahl “L’uomo in vetrina” Corriere della Sera Svezia 8 euro
7,90
[A: 01/10/2015– I: 23/05/2017 – T: 25/05/2017] - &&&
-
[tit. or.: Mannen i vinduet; ling. or.: norvegese; pagine: 488;
anno 2001]
Continuiamo
a farci del male, come direbbe Nanni Moretti. Altro libro della collana “Giallo
Svezia”: peccato che l’autore sia norvegese e che l’azione si svolga, appunto,
ad Oslo. L’autore, tra l’altro, nasce come professore di liceo, e solo nel
1993, a 35 anni, comincia a scrivere. Iniziando una serie imperniata su due
poliziotti, il commissario Gunnarstranda e l’ispettore Frank Frølich. Questo
che ho appena letto è in realtà il terzo romanzo della serie, e si nota, che i
personaggi principali fanno riferimento a vicende precedenti, che non sempre
vengono decrittate da noi poveri lettori attuali. In questi casi, poiché
l’autore sorvola su molti passi, una piccola introduzione riassuntiva dei
caratteri e delle vicende dei personaggi non sarebbe certo male. Ad esempio il
commissario è sempre indicato con il cognome, come se il nome fosse un
accidente. Inoltre ha avuto una moglie, morta probabilmente di cancro, almeno
dieci se non di più anni prima delle vicende presenti. È un tipo solitario, fumatore
accanito di sigarette che prepara lui stesso, parla al suo pesce rosso e si
tocca spesso il riporto di capelli. In questa vicenda, Gunnarstranda comincia
ad avere un rapporto con un’altra donna, Tove. E la preparazione psicologica
dell’autore (che infatti oltre ad insegnare è anche psicologo) ce ne mostra i
timidi passi verso un possibile nuovo mondo. L’ispettore Frølich, invece, è
preso in uno strano rapporto di coppia non convivente con Eva-Britt. Ma è un
rapporto che si sta esaurendo, per incapacità di rapportarsi tra i due. Eva fa
innervosire Frank qualsiasi cosa faccia, e Frank non riesce a tirar fuori i
suoi problemi. Tanto che comincia ad avere una storia con tal Gøril, una donna
poliziotto che sembra decisamente simpatica. Anche perché, di base, lui è il
più gioviale dei due ed è decisamente robusto se non si vuol dire che è grasso.
I rapporti personali dei due fanno da contraltare privato alla vicenda, che
invece ha altri scenari ed altro svolgimento. Quindi noi, dopo aver capito, o
cercato di capire, i due poliziotti, ci immergiamo nella trama vera e propria
del libro. Trama che si incentra sulla strana morte di Reidar Folke Jespersen,
79 anni. Un anziano metodico, con una routine giornaliera costante, una moglie
più giovane, Ingrid, di cui sa la relazione con tale Eyolf (e non la
disapprova). Il 13 gennaio, venerdì, Reidar viene trovato morto, nudo, seduto
nella vetrina del suo negozio d’antiquariato, con uno strano codice
alfanumerico disegnato sul petto. Molte cose veniamo a sapere sull’antecedente
della morte: i fratelli di Reidar vogliono vendere l’attività in perdita, ma
lui si oppone. Anche se Kirkenær fa un’offerta fuori mercato (perché?). Reidar
vede inoltre una donna vestita di rosso, e fuori ad osservarli c’è il marito di
lei, tassista e geloso. Infine c’è il commesso Jonny, da poco, e
inspiegabilmente, licenziato. Tra tutti questi possibili autori dell’omicidio,
i nostri due si cominciano a muovere, utilizzando le consuete modalità
poliziesche: scavare nel passato per trovare il presente. Passato che porta ben
presto alla luce l’attività di Reidar durante la Seconda Guerra Mondiale.
Laddove la Norvegia, presto occupata, divenne sede di comandi nazisti. E dove
molti norvegesi cominciarono fiancheggiamenti ed altre turpi attività. Come
fece la famiglia Jespersen. Come fece Reidar stesso. Si snoda cosi una storia
d’amore e di vendetta con ombre che perseguitano ancora sia le vittime che i
persecutori. Non ci meravigliamo di scoprire che la famiglia di Jonny è ebrea,
che parenti di Kirkenær sono morti nei campi di concentramento, che il codice
sul cadavere è anch’esso di derivazione nazista. Ovvio che molto è fumo negli
occhi di chi non sa vedere. Arriveremo, noi e i due investigatori, alla
soluzione, alla spiegazione di tutti i vari passi che hanno portato alla morte
di Reidar. Ma come in un sano giallo alla Simenon, non tutti i colpevoli
subiranno la stessa sorte. E qui mi fermo. Per fare un passo indietro e fornire
alcuni giudizi generali su questa mia prima lettura di un libro del norvegese
Dahl. La partenza è buona, in salita e di corsa. La descrizione della vita del
morto, i possibili motivi della sua uccisione, la cupa atmosfera norvegese, la
vita privata dei due investigatori. Purtroppo il norvegese Dahl non riesce a
mantenere questa tensione per molto tempo, e ben prima di arrivare alle quasi
500 pagine finali ci si domanda perché non ha tagliato un po’, perché continua
a rimestare intorno alle solite cose, tanto ormai sappiamo come sono
verosimilmente andate le vicende. Come diceva un attento osservatore: “Non
basta essere nati a Oslo per saper scrivere un buon giallo”. Vedremo se
migliorerà continuando.
“Le persone anziane dovrebbero … riposarsi,
godersi la vita in altre maniere.” (80)
“Le persone che amano sono innocenti,
indipendentemente da chi amano e perché amano.” (411)
Kjell Ola Dahl “False apparenze” Corriere della Sera Svezia 25 euro
7,90
[A: 19/01/2016 – I:
14/06/2017 – T: 17/06/2017] – &&& --
[tit. or.: Kvinnnen i Plast; ling. or.: norvegese; pagine: 362; anno 2010]
E qui saltiamo dal terzo al
settimo romanzo della serie dei due poliziotti. Ed il salto si sente, che, pur
rimanendo nel filone dei caratteri sopra espressi, si notano salti caratteriali
e di vita, forse giustificati, ma di certo non spiegati. Che, ovvio, erano
stati espressi nel corso delle varie puntate della scrittura seriale. Ma
abbiamo anche un altro punto negativo: il vezzo di modificare il titolo da
“Donna nella plastica” (come in effetti viene trovato il cadavere di Veronika)
a queste apparenze false (come spesso sono le apparenze), ma immotivatamente
assurte a titolo. Non nego, ovvio, che il titolo italiano abbia comunque attinenza
alla trama. Anzi, per tutto il corso del romanzo sono proprie le cose che
appaiono a non essere vere, a celare altre verità. Dahl ha anche qui la
capacità di mescolare più trame, intrecci disparati, alcuni solo marginali,
altri che tendono a distogliere il lettore, e farlo procedere su false piste.
La trama principale riguarda la morte di Veronika Undset, trovata
dall’ispettore Frank Frølich in un cassonetto, nuda ed avvolta in un sacco di
plastica. La riconosce perché l’aveva arrestata pochi giorni prima. Frølich
stava pedinando un criminale, Kadir Zahid e scopre che Veronika passa la notte
con lui. Quando esce, Frølich la perquisisce e trova della cocaina in un
accendino. Veronika se la cava con una multa. Ma la sera stessa Frølich
partecipando alla festa del suo amico Karl Anders scopre che questi si è
fidanzato con Veronika. Alla festa Frølich conosce anche la precedente fiamma
di Karl, Janne, una madre single con figlio adolescente e problematico. Molti
misteri si addensano nell’orizzonte della trama: Veronika infatti va da uno
psicologo, Erik Valeur, ed è assediata da uno stalker che la fotografava
sovente quando lei riceveva uomini nella sua casa. Stalker che pochi giorni
dopo viene anche lui trovato ucciso. Inoltre, tutte le tracce tendono a sparire:
il computer di Veronika, i suoi telefoni, fissi e mobili, il computer dello
stalker, e chi più ne ha più ne metta. Frølich, troppo coinvolto nelle
indagini, viene allora dirottato sul caso di una studentessa di colore Rosalind
M’Taya, arrivata da poco in Norvegia per studiare, scomparsa poche ore dopo
l’arrivo. Le indagini vengono quindi prese in mano direttamente da
Gunnarstranda, che viene aiutata da un nuovo personaggio, l’ispettrice Lena
Stigersand. Indagando ad ampio raggio, si scopre inoltre che Kadir è implicato
in una serie di furti, che spaccia anche droga, servendosi di ragazzotti, tra
cui Kristoffer, il figlio di Janne. Inoltre, Erik Valeur era stato lo psicologo
di una scuola media, dove trovò la morte una ragazza, Sonja, con modalità simili
a quelle di Veronika. Mentre Frank risolve brillantemente il caso della ragazza
scomparsa, ritrovandola, trovando il colpevole, ed innescando una storia
parallela che poco interessa il filone principale, Lena si intrufola
nell’ambiente dello psicologo, cercando di trovare prove del suo coinvolgimento
nell’omicidio di Veronika. Ma anche noi capiamo che sarebbe troppo facile.
Troppo misteriose le mosse di Veronika la notte della sua morte. Perché è stata
a lungo da Janne prima di andare da Kadir? Perché non c’è una prova della
convergenza tra la morte di Veronika e quella dello stalker? Perché Kristoffer
ha il bagno pieno di dosi di cocaina? Perché Janne torna con Karl Anders? Il
finale lascia qualche sorpresa, dove vi svelo solo che Valeur era l’assassino di
Sonja, ma non di Veronika. Scoperta che fa Lena mettendo in pericolo anche la
sua vita, ma uscendone vittoriosa anche se malconcia. Così come vittorioso esce
Frank dal confronto con Karl, dove veniamo anche a scoprire i segreti del loro
odio – amore che risaliva ad una brutta storia di donne in gioventù svoltasi in
Corsica. Ma la vittoria Frank la paga a caro prezzo, che, furioso con Karl, lo
riempie di botte. Per tale motivo, verrà allontanato dalla polizia, o quanto
meno sospeso. Nel resoconto finale che fa Gunnarstranda oltre a capire tutta la
vicenda, di Veronika, di Janne, di Karl, dello stalker, capiamo anche che sarà
Lena la sua prossima partner investigativa. Sperando che la nuova coppia sia
più accattivante di questa ormai arrivata al lumicino. Dahl ci presenta un
discreto spaccato dalla Oslo odierna, ma non riesce a coinvolgerci in maniera
seria nella trama e nei suoi risvolti. Tanto che mi trovo a ripetere il finale
del commento precedente (anzi non lo ripeto, rileggetelo). Finisco con un
piccolo cammeo: a pagina 151 Gunnarstranda sta in salotto con la sua nuova
fiamma Tove, ascoltando musica. Alla richiesta di cosa sia, la donna risponde:
“Paolo Conte … jazz italiano … è davvero piacevole da ascoltare”. Concordo al
100%.
Arne Dahl “Brama” Corriere della Sera Svezia 9 euro 7,90
[A: 01/10/2015– I:
06/11/2017 – T: 13/11/2017] - && +
[tit. or.: Viskleken; ling. or.: svedese; pagine: 538; anno 2011]
Dopo
alcuni mesi di pausa, riprendo in mano i gialli “svedesi”, con una prima buona
novella: un giallo realmente scritto da uno svedese. Anche se Arne Dahl non è
il suo nome ma uno pseudonimo che l’autore usa quando scrive polizieschi. Che
Jan Arnald è uno scrittore altrimenti noto in patria, collaboratore con
l’Accademia Svedese dei Nobel (tra l’altro). Dahl comincia a scrivere gialli
agli inizi di questo secolo, inventandosi una squadra di investigatori della
polizia svedese, che chiama “Gruppo A”, e di cui scrive, credo, una decina di
libri. All’inizio del decennio, invece, riprende alcuni personaggi della serie,
e ne inizia una nuova, portando i suoi “attori” sulla scena internazionale,
come gruppo operativo all’interno dell’Europol. Gruppo denominato “OpCop”. Al
comando del quale ritroviamo il commissario capo del gruppo A, Paul Hjelm,
coadiuvato dal finlandese di origini svedesi (o viceversa) Arto Söderstedt. Del
gruppo, poi, fanno parte una serie di poliziotti provenienti da molti paesi
europei: la tedesca Jutta, il polacco Marek, la rumena Lavinia, l’inglese
Miriam, la lituana Laima, il greco Angelos, la francese Corinne, lo spagnolo
Felipe, l’italiano Fabio. Il gruppo è coadiuvato anche da alcune equipe
nazionali, la più importante delle quali, ovvio, è quella svedese, composta da
Kerstin (la compagna di Paul), Jorge (l’esperto informatico) e Sara (la moglie
di Jorge). Detto questo come introduzione ed ambientazione, prima di inserirsi
nella trama, viene ad alcune domande che mi sono saltate subito in mente.
Perché in italiano viene presentato come “Brama” un libro che in originale si
intitola “Sussurri”? Certo, nello svolgimento la brama di denaro è il motore di
molte azioni. Ma sono i sussurri, le parole nascoste, quello che da giovani
facevamo come “telefono senza fili” che reggono l’intreccio. In un susseguirsi
di notizie, sussurrate, sibilate, nascoste, mal comprese, che fanno da sfondo
alla trama, che devo dire, soprattutto all’inizio, è assai complicata. A meno
che non ci sia una pervicace traduzione dal tedesco (dove fu lanciato con il
titolo “Gier”, cioè avidità, brama)!! La seconda domanda, si collega alla
sopracitata sfilza di personaggi. Che, nel caso di Paul e Arto soprattutto,
fanno a volte riferimento al Gruppo A. Ma non c’è una parola di raccordo, come
se noi sapessimo (ma non lo sappiamo) quali siano le precedenti imprese del
gruppo, quali le sottese alleanze, quali i moti dell’anima. La terza domanda,
invece, viene a lettura ultimata. Certo, è un intreccio interessante, e
discretamente attuale. Tuttavia l’autore ogni tanto si perde nei rivoli di
altro, si infogna in storie collaterali (almeno all’apparenza), mette una
discreta massa di carne al fuoco, e lasciando alcuni punti sospesi. Perché uno
dei “cattivi” viene battezzato come Minotauro? Perché una delle vittime
predestinate prende il nome di Arianna? Perché il filo salvifico viene tenuto
da tal Elena e non giunge a nessun Teseo? Perché l’agenzia di sicurezza dei
“cattivi” si chiama Asterione, come il padre di Minosse, nonché nonno di
Arianna? Il tentativo di Dahl è quello di produrre uno scenario internazionale
complesso, in cui convergono corruzione, scandali finanziari, inquinamento
ambientale, droga, e chi più ne ha più ne metta. Il fulcro è quel tal
Minotauro, che, muovendo leve finanziarie legate ad una misteriosa banca
d’affari stranamente salvatasi sia dall’11/9 sia dai disastri dei fondi alla
Lehman Brothers, cerca di ridurre in bancarotta addirittura la Lituania. Per
fare ciò muove, oltre ai suddetti denari, la falsificazione di mobili a basso
costo nel Tibet, producendo un solvente che inibisce gli odori e consente alla
‘ndrangheta, cui si associa, di esportare in Lituania droga orientale. Proprio
Riga diventa un fulcro dell’azione, dato che, per aumentare i proventi, i
mafiosi calabresi devono riciclare materiale poco pulito, andando ad inquinare
le coste del Mar Baltico. Il tutto garantito da una segreta squadra di
sicurezza facente capo alla società “Asterion Security”. I meccanismi si
inzeppano quando, contemporaneamente, durante il summit G20 dell’aprile 2009
muore un cinese (che poi si scopre essere tibetano) tra le braccia di Arto (uno
degli OpCop) e contemporaneamente viene rapita, torturata ed uccisa la bella
Arianna. Che sapeva dell’esistenza degli OpCop in quanto il suo ragazzo aveva
avuto una tresca con una polacca che aveva giaciuto con Marek, che le aveva
detto di essere un super-poliziotto. Inciso: questa del telefono senza fili per
risalire da Marek ad Arianna è appunto la traccia “forte” del libro da cui
deriva il titolo. Paul, visti i fili che convergono verso la sua nuova squadra,
mette tutti al lavoro: Marek segue la pista americana (uscendo miracolosamente
indenne da un attacco con il gas), Miriam e Corinne seguono la pista inglese
(dove ci sono le due morti acclarate), Jorge e Laima seguono la pista lituana
ambientalista, Fabio e Lavinia la pista mafiosa calabrese, mentre Kerstin e
Sara la pista dei mobili che parte da Stoccolma, e si intreccia con una pista
di pedo-pornografia infantile originatasi in Cina (e sarà casualmente il
contatto cinese che, riconoscendo nel morto un tibetano, darà un impulso
fondamentale alle indagini). Indagini che termineranno con un bel bagno di
sangue a Berlino. Fortunatamente, Dahl, nei capitoli finali, ci fa un riassunto
dei collegamenti tra tutti gli avvenimenti sparsi nel libro, che altrimenti
sarebbe arduo andare a ricollocare al giusto posto. Certo, l’uso del giallo per
denunciare scandali e corruttele finanziarie è degno e nobile. Peccato sia
troppo diluito nelle 500 pagine, e che non abbia una soluzione definitiva. Il
che lascia supporre o che nei libri seguenti se ne riprenda il filo o che
l’autore voglia dirci che “contra argentum, nihil potest”. Speravo qualcosa di
più omogeneo, ma è un libro che può andare in questi momenti di turbolenza
familiare, per poter distogliere alla grande la mente.
Arne Dahl “Ira” Corriere della Sera Svezia 23 euro 7,90
[A: 04/01/2016– I: 14/11/2017
– T: 16/11/2017] - && +
[tit. or.: Hela havet stormar; ling. or.: svedese; pagine: 448; anno 2012]
Prima di entrare nella trama vera
e propria di questo secondo libro di Dahl, casualmente letto a ruota del primo,
ribadisco un sospetto che mi era venuto guardando in giro sulla rete e che
avevo espresso nella trama precedente. In effetti, anche qui il titolo originale
è “Tutte le tempeste del mare”, ed ogni parte del libro è ad esse dedicata
(calma piatta, brezza, burrasca, tempesta, uragano). Mentre in tedesco è stato
lanciato come “Zorn” (che per l’appunto in italiano è “Ira”). Secondo appunto
riguarda la continuità nelle descrizioni e nei personaggi, nonché alcune
lungaggini di scrittura. Infatti, se non avessi appena letto “Brama” mi sarei
perso il collegamento, che nasce a pagina 210, con la banca Antebellum e la
società di security Asterion. Che invece l’autore dà per scontato, come se
tutti già sapessero quegli antefatti. Che sono invece a molti ignoti, che Dahl
non chiarisce, anche se poi sono funzionali a tutta una parte della trama, ed a
tutta una parte della sua risoluzione. L’altro appunto riguarda molte parti
francamente poco leggibili, in cui si salta nel passato nebuloso di qualche
personaggio, cercando di avvolgere il tutto in un’aura di mistero. Ebbene, se
li saltate (o se l’editore avesse convinto Dahl a toglierli) sarebbe stato
tutto molto più leggibile e probabilmente appassionante. Infatti, una volta
tolti di mezzo, la seconda parte del libro scorre molto meglio, ed è anche più
avvincente. L’altro vizio, che gli autori di serial writing non si riescono a
togliere, è quello di voler inserire più vicende che si intrecciano (a volte),
che spesso vanno su binari paralleli, e la cui gestione non è facile. Qui, il
doppio binario (che ricordo è ormai un must dei serial fiction televisivi alla
CSI o similari), porta l’autore a cercare di confondere le acque. Cerca di
farci credere che tutte le morti siano derivanti da un unico disegno criminoso,
quando, casualmente, si scopre che ci sono due serial killer, che, ad un certo
punto, uccidono contemporaneamente lo stesso uomo. anche se, come si vedrà, per
ragioni diverse. Al centro, in ogni caso, c’è la squadra OpCop che abbiamo
imparato a conoscere nel precedente libro (meno i due poliziotti morti in
Basilicata, senza che però venga preso il colpevole). Con le loro manie, con i
loro rapporti interpersonali (che qui fanno un discreto passo in avanti) e con
le loro storie pregresse, che noi onnivori lettori sappiamo, ma che Dahl si
guarda bene dal rinverdirne le gesta. Così abbiamo Paul, il grande capo, che ha
sempre il suo rapporto con la distaccata (di sede, non di umore) Kerstin. Ci
sono Jorge e Sara, anche se si defilano un po’. Ci sono Lamia e Miriam che
fanno una bella coppia d’assalto. C’è il pensieroso Arno. C’è Felipe con la
moglie incinta. C’è Alexis sempre pronto con le sue magie tecnologiche. C’è
Jutta (che segretamente è invaghita di Paul) e c’è Marek (che segretamente è
invaghito di Jutta). C’è Corinne, la franco-mussulmana che comincia a piacermi
per la sua solitudine, la sua serietà, la sua professionalità. E ci sono le
storie. C’è l’assassino seriale che da più di dieci anni opera indisturbato su
tutto il fronte internazionale, attirando le sue vittime nelle più sperdute
isole-prigione di tutto il mondo, dove le uccide con un colpo di pugnale al
cuore e straziandone la carne della spalla. Certo, questa modalità ci consente
di fare un ripasso delle più terribili prigioni che sono state istituite in
giro per il mondo: il castello di If in Francia, la Ilha Grande in Brasile, Ile
du Diable nella Guyana francese, Robben Island in Sudafrica, Isla Dawson in
Cile o Goli Otok in Croazia, tanto per citarne le più famose (per i poco
attenti ricordo che Ilha Grande fu un penitenziario brasiliano sino al 1994,
l’Isola del Diavolo vide rinchiuso il capitano Dreyfus, Robben Island fu la
prigione di Mandela, a Isla Dawson fu rinchiuso Luis Corvalan, sodale di
Allende, e Goli Otok quella istituita da Tito). Significativo è il primo
assassinio che viene perpetrato a If, dato che poi, ogni successivo crimine
contempla la presenza di una citazione del “Conte di Montecristo” (una fantasia
sfrenata…). Il gruppo di Paul, pur con una discreta fatica, riesce a trovare un
fattore comune a tutti i morti: erano tutti comunisti. E qui l’autore si lancia
in una piccola polemica (messa in bocca al cattivo assassino) contro l’ideologia
che tanti morti ha causato nel secolo scorso. Polemica che risulta assai
sterile, in quanto nessuno ne discute con l’assassino, solo Arto dice qualche
frase, più che altro per giustificare i suoi scritti giovanili (era un convinto
marxista svedese) ed il suo successivo passaggio nella polizia. Mentre Dahl
cerca di convincerci che queste sono le morti che dobbiamo tenere in controllo
(invece sono elencate, decrittate, ed una volta capito il meccanismo,
facilmente isolate con le future vittime salvate o salvabili, ed il colpevole
arrestato), sono tutte le altre, che più intrigano e che sono di più difficile
comprensione. Anche perché sappiamo subito, dai rapporti che ogni tanto si
inseriscono nel testo (che fanno un pendant mentale con le lettere di Arianna
del primo libro), che l’autore è un certo W, intelligente, quasi geniale, e ben
presto scomparso. Tanto che gli autori dei rapporti stanno da tempo cercandone
le tracce. Capiamo presto, dall’analisi delle altre morti, che W è un prodotto
genetico modificato ante-litteram. Che vuole vendicarsi, e riesce anche a
farlo, di chi lo ha “costruito”. Nella seconda parte, quella meglio riuscita,
c’è tutta l’escalation sia delle componenti eugenetiche delle attività dei
malvagi, sia l’intelligenza di W, sia quella, misto di bravura e di coraggio,
del gruppo OpCop. Mescolando la fine di questo libro con le domande aperte alla
fine del precedente, Dahl costruisce la sua trama e la sua storia. Che
tuttavia, benché ben congeniata, non lascia una grande traccia di sé. Alla
fine, ripensando, il tentativo di Dahl è di dare un bel colpo di maglio a chi
voleva costruire “un uomo nuovo”. Chi lo faceva utilizzando la politica, chi
utilizzano la scienza. Tuttavia non riesce ad essere né coinvolgente né
convincente. Rimane solo il gruppo, con le sue personalità abbastanza
simpatiche (Corinne su tutti per me), e quel finale che cerca di mettere
qualche pulce nell’orecchio. Ma non vi dico né di che pulce si tratta né di
quale orecchio. Dahl continua a cercare di inserirsi nel solco della tradizione
gialla nordica, senza però raggiungere l’efficacia e le capacità empatiche di Sjöwall
e Wahlöö, di Mankell, di Stieg Larsson o di Håkan Nesser. Non credo, a meno di
altre casualità, che se ne leggerà ancora molto.
Visto che siamo a Natale, oltre a
questi scrittori vicini alle renne ed al circolo polare, ecco che vi regalo un
recupero di cure librarie come piccolo regalo di Natale.
Un Natale
in minore, se vogliamo, che siamo più tesi verso le saluti genitoriali che
verso le adunate conviviali. Ma visto che tra poco saremo in un anno “8”,
aspettiamo di far rima e di salutarci calorosamente.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NATALE
Come già detto, a volte prendo
qualche festa non domenicale per recuperare libri. O qualche festa anche più
complicata, come un Natale che viene di lunedì con gli auguri che vi mando il
giorno prima.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
DIARREA, I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE AL
GABINETTO
Non perdete un istante. Scegliete
un romanzo da questo elenco. Non importa se li leggerete a salti e frammenti durante
le vostre sedute, scegliendo, volta per volta, un capitolo breve o uno lungo.
Organizzate uno scaffale apposito, nella stanza più piccola della vostra casa.
Saul Bellow Il re della pioggia
Charles
Bukowski Post office
William
S. Burroughs Pasto nudo
Raymond Chandler Il grande sonno
J. M. Coetzee Diario di un anno difficile
Heimito von Doderer Le finestre illuminate
Ralph Ellison Uomo invisibile
Bjorn Larsson La
vera storia del pirata Long John Silver
Michael Ondaatje Le opere complete di Billy the Kid
Simon Vestdijk Il giardino dove suonavano gli
ottoni
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER
CURE PASSATE
DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, paura della
CURA: Ripensare il genere
Una delle assenze più comuni
nella galassia degli interessi di un lettore che altrimenti potremmo definire a
tutto tondo e quell’insieme di romanzi che di solito sono etichettati come «di
fantascienza». Per ragioni non del tutto chiare, questo termine riesce sempre a
mandare un brivido lungo la spina dorsale. Forse evoca immagini di alieni,
astronavi e guerre intergalattiche - e tutto senza nemmeno un essere umano.
Forse chi non legge fantascienza non è in grado di capire come un mondo irreale
possa rapportarsi con quello che c’è fuori dalla porta.
O forse i lettori sono messi
fuori strada da un termine cosi generico che non riesce a comunicare la varietà
e la qualità di questo genere. Invece che fantascienza, provate a chiamarla
narrativa «speculativa», come la definì una volta Margaret Atwood - romanzi che
esplorano le direzioni in cui la razza umana potrebbe andare. Gli scrittori di
narrativa speculativa hanno spesso predetto il nostro presente: Ray Bradbury,
Arthur C. Clarke e William Gibson avevano immaginato certi gadget odierni con
cinquant’anni di anticipo. Altri, che scrivono adesso, prediranno e in un certo
senso contribuiranno a determinare il nostro futuro - e continueranno a servire
da sistema di preallarme. Considerate, ad esempio, come la letteratura abbia
evidenziato i pericoli dell'ingegneria genetica (“L’ultimo degli uomini”), della
bio-ingegneria (“Il giorno dei trifidi”) e dell'ingegneria sociale (“1984”).
Se, come lettori, siamo interessati a ciò che significa essere umani, non
dovremmo essere altrettanto interessati alla nostra identità futura?
Sotto molti punti di vista la
fantascienza e uno sviluppo naturale dei mondi magici in cui abbiamo abitato da
bambini (molti di noi, anzi, leggono con piacere narrativa speculativa da
tempo, senza accorgersene; ricordate quel romanzo su un uomo che poteva
viaggiare nel tempo, e su come la moglie viveva tutto questo? Se gli editor
avessero scelto di etichettare Audrev Niffenegger come scrittrice di
fantascienza, migliaia di lettori non l'avrebbero toccata nemmeno con una spada
laser). La narrativa speculativa apre universi paralleli nei quali possiamo
fuggire per dare sfogo alla nostra passione per tutte le cose che vanno oltre
la nostra comprensione. Se evitate questi universi, lo fate a vostro rischio e
pericolo.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER PRINCIPIANTI DELLA FANTASCIENZA
Questi libri trascendono i
confini del genere, e dunque non sono considerati dei classici. Quasi senza che
ve ne rendiate conto vi convertiranno a un mondo nuovo - come persone, oltre
che come lettori.
Douglas Adams Guida
galattica per gli autostoppisti
Isaac Asimov Io,
Robot
J. G. Ballard Deserto
d'acqua
J. G. Ballard Crash
Philip K. Dick Ma
gli androidi sognano pecore elettriche?
Stanislaw Lem Solaris
China Mieville Perdido Street station
Walter Tevis L'uomo che cadde sulla
terra
Kurt Vonnegut Mattatoio
n. 5 o La crociata dei bambini
H.G. Wells La
guerra dei mondi
DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, non leggere altro che
CURA: Scoprire il pianeta Terra
Lev Tolstoj Guerra
e pace
Frank Herbert Dune
Michel Faber Sotto
la pelle
Hermann Hesse Il gioco delle perle di vetro
Angela Carter Le
infernali macchine del desiderio
Jeanette Winterson Passione
Leggete solo fantascienza. Non
c’è una sola copertina in casa vostra che non splenda di un bagliore alieno. La
fantascienza è diventata un buco nero letterario, e voi ci siete caduti dentro.
Mentre vi facciamo i complimenti per la vostra immaginazione e la capacità di
mettere da parte le leggi della fisica, vi esortiamo a utilizzare una mente
così esercitata anche per le rappresentazioni artistiche del pianeta che avete
oltre la porta di casa. Ci sono altri universi letterari, là fuori. Vi
consigliamo di fare un giro in questo territorio inesplorato.
Cominciate con “Guerra e pace” di
Tolstoj, il grande romanzo epico russo che, come “Dune” di Frank Herbert,
abbraccia tre generazioni di guerra e politica, senza mai perdere di vista gli
individui. Passate poi a “II gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse, un
romanzo ambientato, e questo potrebbe rassicurarvi, nel venticinquesimo secolo,
ma che si occupa di questioni filosofiche e spirituali. Poi leggete “Sotto la
pelle” di Michel Faber, un romanzo che tocca vari generi e che vi assorbirà e
infine vi darà una bella scossa. Lasciate che “Le infernali macchine del
desiderio” di Angela Carter, un'esuberante stravaganza magico-realista, vi
faccia conoscere alcune macchine che distorcono la realtà e gettano lo
scompiglio nella vostra mente. “Passione” di Jeanette Winterson, un altro
romanzo che sfida le classificazioni di genere, vi farà sondare il ventre molle
della narrativa site-specific. Un altro piccolo passo, e avrete a vostra
disposizione tutti gli altri romanzi ambientati in regioni sconosciute del
nostro pianeta. Alla fine, potreste considerarvi ufficialmente guariti dalla
vostra ossessione per lo spazio.
Ipocondria
Frances H. Burnett “Il giardino segreto”
Leggere “Il giardino segreto”
serve a ricordare che molti dei nostri disturbi sono, in realtà, immaginari.
Il giovane Colin, confinato nella
sua camera da letto fin dalla nascita, è convinto di avere un rigonfiamento
sulla schiena che, prima o poi, diventerà una gobba e lo porterà alla sua
prematura scomparsa. Ovviamente non c’è alcun nodulo, se non si contano le
vertebre della spina dorsale. Quelli che si occupano di lui lo hanno spinto a
credere di essere deforme, condannato a non diventare adulto, e che l’aria
aperta può avvelenargli il sangue. Mary, la cuginetta viziata, altrettanto
arrogante e scontrosa di lui, non vuole nemmeno sentirne parlare. È l’unica
persona abbastanza coraggiosa da dire al bambino che in lui non c’è niente di
sbagliato, e fa corrispondere alla propria rabbia per la sua inerzia quella di
Colin per il suo presunto destino. Solo una bambina dal carattere impetuoso,
decisa a trovare il suo giardino segreto, può rompere il guscio della paura di
Colin e mostrargli la verità.
La passione di Mary per il
giardino attira Colin fuori dalla camera e lo fa entrare in un mondo di
boccioli e di uccelli - un mondo dove abita anche l’irresistibile Dickon, pieno
di lentiggini, un vero ritratto della salute. Lasciatevi conquistare da questo
romanzo, alzatevi dal letto, trovate il vostro giardino segreto, forse anche il
vostro Dickon, e vi sentirete subito in perfetta salute.
Bugiardino
Diarrea, i dieci migliori romanzi da leggere al
gabinetto
Ho parlato di questa “malattia” in
una cura dell’aprile 2015, dove parlai di cinque tra questi dieci libri. Ora vi
aggiungo un sesto, l’ottimo romanzo dello svedese navigatore Bjorn Larsson.
Björn Larsson “La vera storia del pirata Long John Silver” Iperborea
euro 18,50
[trama pubblicata il 18
giugno 2017]
Eccoci
qua, allora, dopo una lunga cavalcata per i sette mari, a ritrovare la bella
scrittura di Larsson ed una storia che vale molte storie. Peccato solo non aver
mantenuto l’asciutto titolo originale, ed essersi dilungati nell’aggiungere
“vera storia” e “pirata”. Inutili e ridondanti simboli qualificativi, che
servono solo a cercare di attirare lettori ad una storia che, devo dire, si
attira e si commenta da sé. Anche se l’originale svedese, che i nostri traduttori
neanche riportano, implica un bel sottotitolo che val la pena menzionare: “Den
äventyrliga och sannfärdiga berättelsen om mitt liv och leverne som
lyckoriddare och mänsklighetens fiende” (cioè “La storia avventurosa e
veritiera della mia vita e delle mie avventure di uomo libero, di gentiluomo di
fortuna e di nemico dell’umanità”). Che, infatti, il nostro svedese Larsson è
uno scrittore di intriganti capacità complicative di trame e situazioni. Che è
solo cognonimo del compianto Stieg (quello di Millennium) e della giallista
Åsa. Che ho imparato a conoscere nel tempo per due caratteristiche: l’abilità
nell’ideare trame (come quella, cui rimando, del primo suo libro che ho letto,
un poliziesco letterario dal titolo “I poeti morti non scrivono gialli”) e
l’amore per il mare. Che traspare in molti suoi scritti (che consiglio al mio
amico Renato), e dalla sua vita, visto che passa la maggior parte del suo tempo
sulla sua barca, un Rustler 31 di nome “Rustica”. Dove, al largo delle coste
galiziane, ha anche ideato e scritto questo romanzo biografico su di un
personaggio inventato. Già questo me lo rende simpatico: prendere a prestito da
Robert L. Stevenson uno dei personaggi più emblematici de “L’isola del tesoro”,
e fargli ripercorrere in prima persona le tappe della sua vita. Mescolando,
sapientemente, vero e falso, facendo intervenire a lungo Daniel Defoe (coevo
delle vicende narrate) sia come scrittore sia come conoscitore di pirati. Anche
se l’opera cui si fa spesso riferimento (“Storia generale dei pirati”) è
scritta sotto la firma “Captain Johnson” che per molto tempo si pensò fosse uno
pseudonimo dello stesso Defoe (ma pare non lo sia). E facendo intervenire anche
altri pirati famosi, veri o letterari. Dal vero Edward England (sodale di
Silver) al falso capitano Flint (uscito dalla penna di Stevenson). Tutta la
finzione, tuttavia, è al servizio di un’idea di fondo del nostro Bjorn: parlare
degli uomini, dei loro sentimenti, del loro modo di vivere, in quei primi 40
anni del 1700. Gli anni che seguirono la grande guerra tra Inghilterra e
Spagna, laddove gli inglesi utilizzarono le navi da corsa per attaccare le
galee spagnole (da cui i famosi “corsari”). E dove questi, una volta assaporati
soldi e donne, non si tirano indietro, si impadroniscono di quel vessillo che
diventerà famoso (il teschio con le due tibia incrociate, chiamato in inglese
“Jolly Roger”). Larsson usa Silver per farlo diventare eponimo di quest’epoca.
Mozzo in fuga dalla natia Bristol, girellando per i mari ad “imparare il
mestiere”. Sempre padrone del suo destino, per cui deciderà di non diventare
mai capitano di una nave, tuttalpiù quartiermastro (che è una specie di secondo
ufficiale, con il compito, importante per quelle imprese, di tenere anche la
contabilità). A lungo ancora in Scozia, per sfuggire ad una falsa accusa di
ammutinamento, a lungo in compagnia del suo primo grande amore, Elisa.
Scoperto, di nuovo in fuga, di qua e di là degli oceani. Coinvolto nella tratta
dei negri, ma di cui diventa amico. Soprattutto del capo Jack e di una mulatta
fiera che ritroverà dopo qualche anno, libererà dalla schiavitù e diventerà la
compagna dell’ultima parte della sua vita. Non la donna, che Dolores non
chinerà mai il capo a nessuno (tanto che aveva ucciso un capitano che voleva
violentarla), ma che deciderà di unire le sue forze alla declinante vecchiaia
di Silver. Larsson ci spiega anche l’origine del soprannome “Long”, non per
l’altezza, ma come pseudonimo per sfuggire alle guardie. Si fece chiamare John
Long, per un periodo, divenendo poi facilmente Long John, e finalmente Long
John Silver. Ci dice come perse la gamba, non per una palla nemica, ma per un
tiro mancino dell’invidioso Deval. Cui, per ripicca, farà tagliere dal medico
di bordo una gamba sana! E poi il lungo sodalizio con Edward England, un pirata
che realmente aveva poca voglia di uccidere i nemici sconfitti, tanto che alla
fine il suo equipaggio si ammutinò e lo lasciò su di un’isola deserta verso il
Madagascar. Infine, l’ultima parte, dove (grande momento di meta-letteratura)
scorre la storia del tesoro del capitano Flint scritta da … Jim Hawkins, ormai
gentiluomo in Londra con i soldi del Tesoro. Silver sa che quella storia
segnerà la sua fine, e si affretta a finire la sua e spedirla a Jim. Per poi
finire come tutti i pirati. O forse no? Larsson ci lascia un’ombra di mistero,
che non svela (né io a voi). Perché quello che piace, che rende godibile le 500
pagine non è solo la storia dei pirati sulle onde dei sette mari, ma la figura
stessa di Long John. Che Larsson prende da Stevenson ampliandone i lati
ambigui. Se ricordate, il grande scozzese aveva sempre messo su due binari il
pirata da una gamba sola. Un po’ con Jim e molto con sé stesso. Qui Larsson ci
presenta un pirata che, come dice sempre lui stesso, volendo “essere padrone
del mio destino”, usa tutti i mezzi per farlo. Sfrutta i suoi studi giovanili
(è uno dei pochi che sa leggere e scrivere). È empatico con gli schiavi negri
(che una volta liberati saranno con lui sino alla fine), è crudele con i
capitani inglesi, è tenero solo con due donne (Elisa e Dolores). Ruba,
tradisce, ed alla fine, come tutti, si ritrova solo. A cosa serve aver girato
tutta una vita, per poi essere lì, forse sui sessant’anni, con la pirateria che
è ormai morta da venti. Solo a pensare di non aver trovato, di non riuscire a
trovare, di non trovare mai, la sua posizione. Questa la riflessione personale
che poi tutte le belle pagine mi lasciano. Mentre io lascio ai miei amici che
amano il mare il godimento di seguire le navigazioni per i sette mari. Anche a
chi, purtroppo, le sentirà solo da queste righe. Ed a lui brindo con un colmo
bicchiere di rhum!
“Se tanta gente muore prima di aver imparato
a vivere, è perché vive come se non dovesse mai morire” (12)
“Mi dissi, in tutta onestà, che tra i milioni
e milioni di donne che popolano la nostra terra, dovevano pur essercene altre
come … Ma a incontrarne una, in tutta la mia lunga vita, che io sia dannato se
ci sono riuscito.” (141)
“Vi confesso dunque che, di tanto in tanto,
ho desiderato che … scrivere non fosse un’attività così dannatamente
solitaria.” (184)
“La mia vita non è stata che una navigazione
stimata, ma forse, chi lo sa, arriverò a trovare la mia posizione, prima di
affondare.” (220) [dicesi navigazione stimata quella tecnica di navigazione a
mezzo della quale è possibile determinare la posizione stimata della nave in
mare, utilizzando gli elementi del moto quali: la velocità, la direzione ed il
senso.]
“Se c’è una cosa da cui ci si deve tenere
lontani, se si vuole restare sani di mente, è … la scrittura.” (403)
DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, paura della
Non sono certo io a poter parlar male della fantascienza,
dati i miei ben noti trascorsi ambiguamente utopici.
James G. Ballard “Crash” Feltrinelli euro 8
[trama pubblicata l’8 febbraio
2015]
Nonostante
il piacevole salto che mi ha consentito la lettura di questo libro, e su cui si
ritornerà, devo dire che sono rimasto alquanto deluso. Dalla scrittura, dalla
storia, dal modo anche che se ne parla in giro (in rete e sui libri). Il salto
è stato il ritorno, almeno nella memoria, al tempo in cui le mie uniche letture
erano dedicate alla “fantascienza” (uso le virgolette che il termine mi è
rimasto sempre antipatico, essendo un tipo di scrittura variegato, e spesso per
nulla fantastico: ucronie, sociologie possibili, certo i robot di Asimov, ma
anche Bradbury, Farmer, la Le Guin e tanti altri, dove la scienza non sempre
era il fulcro della storia). Nella mia libreria “juvenilia” sono rimasti ancora
qualche migliaio di libri di genere, e Ballard aveva senz’altro un posto in
questo mondo, con la sua scrittura che ha aperto (proprio nei tempi a cavallo
degli anni ’70) la strada per un modo nuovo, anglosassone ma non solo, di
scrivere (che da lì si diparte la vena umoristica alla Douglas Adams ed il
cyber-punk alla Gibson). Fatto questo revival, mi sono messo in lettura,
pensando di ritrovare queste atmosfere, anche perché il libro viene etichettato
come fantascienza tecnologica di pochi anni avanti. Ed anche, perché spesso
Ballard è un gran provocatore, di pornografia tecnologica (fanta-pornografia mi
sembrerebbe un termine un po’ troppo forte). Ma letto ora, a quarant’anni dalla
scrittura, non ha nulla di anticipatorio, è solo un romanzo che sfrutta dei
meccanismi tecnologici (in questo caso le automobili) per portare avanti un suo
discorso sulla difficoltà dei rapporti umani, e sulle alienazioni che
l’innamoramento verso la tecnologia può portare. La storia, molto cruda in sé,
gira intorno al protagonista soggettivo, che scopriamo ben presto avere dei
seri problemi di rapporto con la moglie Catherine. Non riescono a fare l’amore
se non tradendosi continuamente a vicenda, e raccontandosi i loro tradimenti.
La svolta avviene quando il protagonista ha un grande incidente
automobilistico, dove uccide una persona che viene in senso opposto, ferendo
gravemente la di lui moglie al volante, nonché rimanendo lui stesso gravemente
ferito. Questo shock, dopo vari capitoli un po’ inutili, lo porta a contatto
con un certo Vaughan, adoratore di incidenti, e fotografo degli stessi. Lui
stesso, pluri-incidentato con cicatrici ovunque. Vaughan si aggira cercando
incidenti, fotografandoli, e tenendo dietro di sé una specie di scuderia fatta
da uno stuntman strafatto di coca, la di lui moglie cicatrizzata, un regista
fallito e la moglie di questi, in giro con stampelle sempre per incidenti vari.
Una corte dei miracoli, che il nostro però scopre terribilmente eccitata dal
pericolo e dalle sue conseguenze. Il nostro, tra l’altro, continua a scopare in
macchina ripensando all’incidente, e, tra un coito e l’altro, riesce anche a
rimorchiare sia la moglie del morto sia la stampellata. Ma quando comincia a
frequentare da vicino Vaughan, oltre ad avere un soprassalto di eccitazione
tecnologica, ha anche un soprassalto di passione omosessuale verso di lui.
Vaughan continua a studiare morti possibili, e Ballard ci maciulla un po’ i
“cabasisi” con queste storie di accartocciamenti di cruscotti ed altre menate.
Si vede che i due sono attratti e respinti da questa ordalia di sangue e sesso.
Niente di più facile quindi immaginarne la fine annunciata: strafatti di LSD il
protagonista e Vaughan fanno l’amore. E poi Vaughan si getta da un cavalcavia
(ovviamente con l'auto) e muore. Una fine ovviamente annunciata, e scoperta,
come se non resistesse più alla “vergogna” dell’atto consumato. Ma tutto ciò si
protrae per duecento inutili pagine. Continuiamo a vedere sesso e crude
descrizioni dello stesso, continuiamo ad avere descrizioni di incidenti. Tutto
senza un vero perché. Senza un briciolo di “anticipazione”, se non nel fatto
dell’uso della tecnologia. Ed alla fine, non ritengo sia un romanzo ascrivibile
al genere. Anche se bisogna riconoscere che Ballard si è sempre rifiutato di
considerarsi un fantascrittore, piuttosto pensava di sé essere un investigatore
dello spazio interiore. Tuttavia, quello che volevo sottolineare è il fatto che
non è un romanzo che mantiene il passo con i tempi: è datato, e leggibile solo
in una prospettiva storica. Per me, al contrario, un qualsiasi romanzo, di
qualsiasi natura, ha senso se riesce a mantenersi godibile (anche se può non
piacere, intento godibile nel senso intellettuale) con il passare degli anni.
Questo, ora, è solo un romanzo di pornografia pudica, come vedere le fotografie
delle donnine discinte che si facevano nell’Ottocento. Divertente vederne una,
palloso leggere tutto un romanzo.
DISTURBI DELLA LETTURA: Fantascienza, non leggere altro che
Ripeto quanto detto la pagina precedente, ovvio.
Hermann Hesse “Il giuoco delle perle di vetro (Saggio biografico sul
Magister Ludi Josef Knecht pubblicato insieme con i suoi scritti postumi)”
Mondadori euro 12
[trama pubblicata il 4
dicembre 2016]
Un’opera
ponderosa, complessa, che mi ha impegnato per quasi un mese di lettura non
sempre agevole. Ma alla fine, mi ha lasciato con un po’ di delusione nel fondo
del cervello. Meno, sicuramente, del precedente Narciso. Lontanissimo,
tuttavia, dal mio ricordo di “Siddhartha”. Intanto, inizio subito
trasversalmente, che comprai questo libro su indicazione della bibliografia
delle libropeute che conoscete ormai bene. Collocandolo prima tra i libri che
devono leggere i cinquantenni. Mistero, ma ci si tornerà sopra. poi tra i libri
che gli amanti della fantascienza devono leggere per tornare sulla terra. È
vero, come dice l’ottima introduzione di Hans Mayer, che l’azione dovrebbe
svolgersi intorno al 2200, ma è tutt’altro il pregio ed il difetto di questo
libro. Mi permetto di parlare di difetto in senso personale, che non sempre
(anzi sempre più spesso) libri osannati e celebrati nell’universo mondo, ad un
mio approccio diretto mi forniscono meno stimoli di quanto speravo. Così anche
in questo caso, sebbene devo riconoscere che la scrittura, e le cose che Hesse
riesce a dire durante tutta la storia di Josef Knecht, sono da leggere e
soppesare ad una ad una. Intanto c’è l’impianto generale del libro, imperniato
sul giuoco del titolo e su di un Magister dello stesso. Con quattro divisioni
generali che ne fanno un’opera come sopra detto complessa. Una prima parte in cui,
con parole oscure, si cerca di spiegare l’inspiegabile: cosa sia mai “il giuoco
delle perle di vetro”. Una seconda ben ampia che percorre tutta la vita di
Knecht. Una breve esposizione di alcune sue poesie (di cui riporto sotto due
versi che mi hanno affascinato). Infine, un bellissimo gioco nel gioco. Gli
studenti del mondo di Knecht, a varie riprese nella loro vita, sono invitati a
scrivere una loro biografia fantastica. Un piccolo inciso: lo trovo un modo
bellissimo di esporre la propria personale visione di sé stessi; dovrebbe
essere presa come esempio in molte situazioni in cui bisogno presentare sé
stessi. Per tornare al libro, Knecht scriverà tre finte autobiografie, e sono
altrettanti momenti importanti per capire l’uomo, ma anche per capire Hesse, ed
il suo grande tentativo. Quello non solo e non tanto di scagliarsi contro le
brutture e le storture del mondo (non dimentichiamo che il libro vede la luce
nel 1943 in piena Guerra Mondiale), contro la guerra, contro la febbre del
denaro, contro i nazionalismi, ma con il tentativo di sostituirli con valori
etici altri. Purtroppo noi, oggi, siamo ancora lontani dalle utopie del tedesco
premio Nobel bandito in patria (tanto che prenderà la cittadinanza svizzera);
purtroppo i valori etici che ci descrive sono ancora di là da venire. E spero
di non dover aspettare anche io il 2200! Per chi non conoscesse (ancora) il
complicato incastro di Hesse, la sua finzione si basa su di una sorta di
consorteria (Castalia) dove giovani dotati vengono educati al meglio (e non è
un caso che nel meglio siano in primo piano la musica e la matematica). Ogni
elemento di Castalia, eccellendo, cresce in qualche arte, e l’andrà insegnando
ad altri. L’arte suprema è, poi, il giuoco delle perle di vetro (indescrivibile
momento di vita) che governa Castalia e (forse) il mondo intero, e, come tutti
i giuochi, deve essere guidato da un grande Maestro, il Magister Ludi. La
Castalia è comunque inserita nel mondo (la Provincia), debole e fallace, dove
vivono tutti gli altri umani. Ci sono i seminaristi castali che vivono solo per
questi ideali e i seminaristi provinciali che torneranno a governare la
Provincia (e il Mondo). Knecht, in base a circostanze descritte nel libro ma
ininfluenti, viene scelto per far parte dei seminaristi castali. L’ignoto
biografo futuro ci descrive tutto il suo percorso di crescita, da umile
seminarista a grande (o forse ultimo dei grandi) Magister. Il suo percorso,
così come il modo di Hesse di porci le sue idee, si imbatte sin dall’infanzia
in una sorta di alter-ego provinciale, tal Designori, con il quale entra in
discussione alta e forte, ognuno dei due cercando di portare avanti le giuste
ragioni e di Castalia e della Provincia. Designori andrà nel mondo, e Knecht
proseguirà nella sua ascesa. Fino a diventare uno dei più giovani e promettenti
Magister Ludi. Finalmente, in questa veste, oltre ad insegnare, girerà per la
Provincia, capendo che Castalia è un’isola forse felice, ma slegata dalla
realtà del mondo. Incontrerà di nuovo Designori, la sua famiglia, la moglie ed
il figlio. Perché, scordavo, ma lo avete ovviamente capito, i Castali sono
dedicati allo studio, quindi niente sesso per favore. Riprende nella parte
finale della sua vita il dibattito acerrimo con Designori, dove però le parti
si sono smussate alquanto. Il provinciale, vivendo nel mondo, capisce la
bellezza dell’isolamento castalio. Knecht, dalla “torre di vetro”, comprende la
bellezza e la necessità della Provincia. La comprende talmente che capisce che
solo un gesto estremo potrà dare una scossa alla cristallizzazione castalia.
Decide allora di dimettersi dal suo ruolo e tornare nel mondo. Gesto che
metterà in crisi tutto l’edificio delle perle di vetro, facendo capire come
l’etica senza la pratica possa diventare un momento sterile di vita. Knecht
decide di insegnare al figlio di Designori, ma deve, moralmente, pagare il fio
del suo abbandono. Morirà quindi annegando in un lago che ha tutte le
caratteristiche di un lago di montagna elvetico, e che ricorda, nel sacrifico,
la morte di Empedocle (almeno quella leggendaria di una sua caduta nel fuoco
etneo). Difficile, complicato ed irrappresentabile per me è tutto il percorso
delle onerose pagine. Mi ha coinvolto, cerebralmente, il discorso etico. Ho
cercato di seguirne i risvolti, i voli pindarici di Hesse scrittore. E di Hesse
travestito in un “Faber Ludi” che vuole insegnarci questa via verso un’etica
diversa, ma che, senile ma non invecchiato (in fondo pubblica questo ritenuto
uno dei suoi capolavori a 66 anni; ho ancora speranza), non riesce a portarmici
dentro fino in fondo. Ci vuole personale più filosofico, più erudito di me. Io
mi accontento di sentire la mia testa (spesso) e la mia pancia (sempre). Ed è
quest’ultima che non mi porta molto più in là di un apprezzamento formale. E di
una sostanziale stanchezza verso tutta l’opera del grande svizzero. È giusto,
quanto abbiamo lottato e lotteremo per avere davanti una vita che spazzi via
(tanto per fare nomi alla rinfusa) i Berlusconi, i Trump, i Putin. Ma dobbiamo
avere accanto, noi uomini e donne fallaci, i nostri amici, i nostri amori, i
nostri sostegni reciproci. Insomma, mi mancano dei pezzi verso la felicità, e
non riesco ad incollarli a me. Ed Hesse non riesce a farmeli sostituire con
altro. Quindi, essendo confuso, finisco qui, facendo l’ipotesi di riuscire, un
dì, a scrivere anche io una mia biografia fantastica, dove fare convergere in
pace ed armonia tutti i pezzi del me stesso diverso e diviso.
“Studiare storia significa abbandonarsi al
caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno.” (172)
“Quanto più invecchiava, tanto più lo
attirava la gioventù.” (246)
“Knecht, che in quei mesi si era sentito
talvolta molto vecchio, si persuase di essere giovane e forte.” (251)
“Vide che l’altro … non ascoltava come si
ascolta una chiacchierata o magari un racconto interessante, ma con quella
dedizione assoluta con la quale ci si concentra nel meditare.” (307)
“Ogni inizio contiene una magia / che ci
protegge e a vivere ci aiuta.” (465)
“Si racconta di santi e di esseri celesti
che, affascinati da una donna deliziosa, la tennero abbracciata per giorni,
mesi e anni fondendosi con lei, tutti compresi del piacere, dimentichi di ogni
altra preoccupazione.” (556)
Ipocondria
Avevo
già parlato di questo libro quando si parlava di adozione, ma non vedo perché
non ripeterlo in questo scorcio fakekiano.
Frances Hodgson Burnett “Il giardino segreto” DeAgostini euro 10,90 (in
realtà, scontato a 1,64 euro)
[trama pubblicata il 3
settembre 2017]
Non
poteva mancare di essere letto, prima o poi, questo libro. Pietra miliare dei
libri per l’infanzia, anche se poco diffuso in Italia. Dove, ad esempio,
l’autrice è forse più nota per “Il piccolo Lord”. Sia i libri felici che i
libri curativi ne consigliavano la visione. Ed io sapevo, nelle pieghe della
mia memoria, che ne avevo scorso dei pezzi in qualche edizione “antica” ed ero,
moderatamente, curioso di leggerne. Cosa dire a valle della lettura? Pur avendo
più di 100 anni, se preso nella sua giusta visione filologica ed educativa, è
ben congeniato, e discretamente utile ad un pubblico giovane. Dirò di più: può
essere un’utile lettura anche ad un pubblico adulto che non voglia chiudere gli
occhi alla magia dell’adolescenza (o dell’infanzia) e che può prendere spunto
per rapportarsi alle giovani generazioni in modo comprensivo ed empatico.
Certo, confrontandolo con l’originale, si nota che la versione “per ragazzi”
della DeAgostini qualcosa taglia. Ma rimane la freschezza e lo spirito con cui
fu scritto. Seppur quindi con occhio adulto, non possiamo far meno di seguire
la piccola, viziata e non amata Mary Lennox, dall’India natia sino al veloce
ritorno in patria. Perché nella guarnigione del padre scoppia un’epidemia di
colera, e solo Mary si salva, venendo mandata dallo zio Archibald. Uno zio che
vive in un castello isolato, e che è colpito dal grande dolore della morte
improvvisa della giovane ed amata moglie. Per questo passa la maggior parte del
suo tempo in giro per il mondo, lasciando le cura della giovane Mary ai famigli
della casa. Sarà soprattutto Martha a prendersi cura di Mary, a farle tornare
il sorriso, a narrare delle buone cose di casa sua (povera ma onesta), a
presentarle il fratello ecologo e bucolico Dickon. Le parla inoltre del famoso
giardino segreto, quello curato dalla moglie morta, cui a tutti è vietato
l’accesso. Ovvio che Mary comincia a cercarlo. Ovvio che lo trova, lo apre, se
ne innamora. Condividendolo con Dickon, con le sue piante e i suoi animali. Ma
un nuovo mistero attanaglia i giorni della nostra signorina, che diventa a poco
a poco, un po’ più simpatica. Le grida notturne, che al fine si scopre essere
quelle del cugino Colin. Malato di incerta malattia, poco curato o mal curato.
Sicuramente poco amato dal padre, che gli rimprovera, anche se non
esplicitamente, la morte della moglie. Mary comincia un’azione di
coinvolgimento alla vita di Colin. Narrando del giardino, narrando degli
animali, narrando di Dickon. Tanto che l’altrettanto viziato Colin decide di
seguire le orme della cugina. Uscendo di casa nella sedia a rotelle. Andando in
giardino. Cominciando a muovere i primi passi. Sino a che, ignota la malattia,
ma sicuramente giovandogli aria aperta e compagnia, anche lui si integra nella
cura del giardino e nell’inno alla vita. Tanto che la madre di Martha non si
perita di richiamare sir Archibald dai suoi giri lontani. Il vecchio (ma credo
che non arrivi ai cinquanta!) torna a casa, scopre le “malefatte” della nipote,
ma scopre anche i benefici che ne porta il figlio. Così che, curando le piante
si cura anche il cuore. E tutti quanti, alla fine, saranno contenti, e ne
usciranno vittoriosi. Quante piccole zeppe di insegnamento in così poche
pagine. Certo ingenue, certo senza nessun infingimento, subito lì, dirette.
Mary non amata, unica che sopravvive (quindi anche chi sembra poco simpatico è
meglio di chi è realmente antipatico). Martha e la sua famiglia (cioè il cuore
aperto, il sorriso sulle labbra, il lavoro anche umile non possono che portare
serenità). Martha e Dickon (quando l’amicizia travalica ogni confine). Martha e
Colin (quando l’empatia vince ogni malattia, vera o presunta). Martha e lo zio
Archibald (come non aver paura dei grandi quando si ha una grande idea in
testa). La “pedagogica” Frances inzeppa il libro di buoni sentimenti. In
particolare, l’ultima grande metafora è il collegamento tra i ragazzi ed il
giardino: in entrambi i casi, i buoni semi, oltre ad essere piantati, devono
essere difesi e coltivati. Ed il giardino, così come il bambino, potrà al fine
crescere e diventare una pianta, un uomo o una donna. Ignorando Freud e tutta
la psicologia, il bello (seppur limitato) del libro è proprio in questa
immediatezza senza barriere. Un’ultima lancia la spezzerei sulla rivoluzione
che all’epoca portò il libro. La convinzione nel mondo occidentale dell’inizio
del XX° secolo era che solo la guida, l'insegnamento e la vigilanza costante
degli adulti potevano garantire l'educazione di bambini e adolescenti, che
l'amicizia tra ragazzi poteva essere pericolosa e andava sempre vigilata dagli
adulti e che l'amicizia tra giovani di sesso opposto era molto pericolosa e
andava controllata e limitata dagli adulti. Tutte e tre queste posizioni
vengono confutate da Frances. Che apre vie nuove che hanno portato a noi.
Perché allora non cominciamo anche noi a tracciarne altre? Forse è tutto troppo
facile. Ma che dire se si riesce a togliere le barriere, i pensieri, gli
attaccamenti a comportamenti troppo ingessati. Per comunicare. Questo, in
fondo, è quello che insegna Mary: parlare, chiedere, è sempre meglio che stare
zitti. Un NO è sempre meglio di non sapere la risposta. Tanto che spesso, il NO
diventa un magico, bellissimo, giurassico SI. Quindi, salvando un po’ di
ingenuità, perché non leggerlo ai Tommaso, ai Matteo, e a tutti gli altri?
Conclusioni
Non torno sulla diarrea, né tanto
vorrei aggiungere qualcosa di ipocondriaco alla giusta citazione. Dirò soltanto
che, per la fantascienza, avrei citato molto altro, e soprattutto altro di
Ballard. Mentre per staccare dalla stessa, basta aver voglia di non
nascondersi, di aprirsi al mondo ed alla lettura. E tutto vi sembrerà possibile
(anche se niente vi apparirà chiaro).
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