domenica 17 dicembre 2017

Anglosassoni 2 - 17 dicembre 2017

Seconda puntata dedicata ai Classici del Giallo di stampo anglosassone, che inizia molto in sordina con Wallace da cui speravo letture migliori e con un anonimo Bush (senza nessuna parentela, ovvio). Per fortuna che il finale è in salita anche perché Ferguson e soprattutto Van Dine mi consentono alcune divagazioni filologiche che riporto in allegato. Finiamo con il poco noto Kendrick, che ha il merito di mettere in scena un investigatore cieco.
Edgar Wallace “Maschera Bianca” Corriere della Sera Gialli 11 euro 6,90
[A: 04/04/2016– I: 21/07/2017 – T: 23/07/2017] - && ---
[tit. or.: White Face; ling. or.: inglese; pagine: 246; anno 1930]
Mi aspettavo di meglio da uno dei “maestri” del genere. Forse perché siamo nel suo “periodo americano”, ma ci sono salti notevoli tra un capitolo e l’altro, quasi che l’autore si perde o si dimentica cosa ha appena fatto un personaggio, o simili incongruità. Comunque, per fare un passo indietro, parliamo di periodo americano in quanto Wallace è in effetti inglese. Con una vita travagliata alle spalle. Figlio nato fuori dal matrimonio della madre attrice, allevato da una famiglia adottiva, uomo dai soliti mille mestieri, riesce a trovare la sua via nello scrivere, nel riversare sulla carta le mille piccole storie che ha incontrato nel suo girovagare. Quando comincia a scrivere, poi, è prolifico e pieno di successi. Ma non riuscirà mai a capitalizzarli, spendendo sempre più di quanto guadagna. Tanto che deve continuare a scrivere, a fumare, a minare la salute. Tanto che ad un certo punto si dà anche alla sceneggiatura, si trasferisce in America. Dove scrive questo ed altri libri. Ma dove soprattutto, confeziona alcune scenografie, in particolare la sua più famosa, “King Kong”. Proprio mentre lavora al film, la sua vita punteggiata da 80 sigarette e 40 tazze di tè al giorno viene stroncata a soli 57 anni. Ma se pensate alla saga del grande gorilla (ovviamente quella originale, non il remake con Jessica Lang) e ne avete visto o letto qualcosa, sarete d’accordo sulla grande confusione di situazioni collaterali, mentre la trama centrale procede. Questa è la stessa sensazione dei suoi libri. E di questo, in particolare, di cui si sta parlando. Dove per tutto il libro si succedono avvenimenti che sembrano avere delle spiegazioni immediate e concatenanti. Ma gli indizi si accumulano mescolando le carte, fino ad arrivare ad una soluzione finale che unisce ad elementi noti, altri che il lettore non poteva sapere. Un filo ingannevole, anche se, depennati i possibili colpevoli, la Maschera Bianca del titolo viene a galla quasi autonomamente. Tutto comincia con dei furti in locali alla moda effettuati da un individuo con la Maschera sulla faccia. Ad una di queste rapine assiste il giornalista Michael Quigley insieme alla sua ragazza. Il giornalista, colpito da alcune stranezze della rapina, comincia ad indagare. Nel contempo, ha un duro colpo che la sua ragazza sembra subire il fascino di un bellimbusto giramondo appena giunto dal Sudafrica, Donald. Lavorando su questi due fronti, si trova alle prese con un assassinio, che avviene nella zona malfamata di Tindal Basin. Due uomini litigano, poi uno si allontana e l’altro barcolla ma viene aiutato da un poliziotto di passaggio. Mentre si allontana, il tipo cade di nuovo a terra, un ladruncolo lo vede, gli si avvicina rubando il portafoglio. Inseguito dal poliziotto, viene preso, che chiama aiuto. Viene in soccorso il dottor Marford, che ha lo studio in zona. Intanto il ladro viene preso, ma si scopre che il tizio caduto è morto pugnalato. Non solo ma scopriamo anche che il morto è proprio il Donald di cui sopra, che il morto era un emerito truffatore di piccolo calibro ma aduso a trucchi vari in giro per il mondo (prima in Australia, poi in Sudafrica, ora a Londra). Che stava litigando con il tizio che si era allontanato per motivi di soldi. Che il tizio che si era allontanato viveva anche lui ai limiti della legge ed aveva un gruzzolo con cui pensava di partire per l’estero. Che una signora, Linda, che si avvicina alla scena, vedendo Donald sviene e cade in deliquio. Che Janice, la fidanzata del giornalista, lavora come infermiera volontaria nella clinica del dottor Marford. Che il sergente che va a recuperare il gruzzolo nascosto viene ferito nell’impresa ed il gruzzolo scompare. Che il dottore incaricato dell’autopsia, dopo averla eseguita, scompare prima di comunicarne i risultati alla polizia. Inoltre c’è un tassista che si vanta di avere la licenza da 55 anni, ma che, curato dal dottor Marford capisce di star diventando cieco, per cui offre in subappalto la sua licenza ad una persona che però, data la sua cecità non vede mai in volto. Che il tassì è spesso visto vicino alle scene dei furti. Infine, la stessa Linda pare sia piena di soldi, ma decide di continuare a vivere lì a Tindal, nel quartiere poco affidabile. E per colmo di complicazione e di gioia per il lettore avido, Linda conosceva senz’altro Donald, e si affidava alle cure del dottor Marford, essendo quindi anche nota a Janice, al ladruncolo arrestato, ed al litigioso cui rubano i soldi. Io personalmente, sin dalla scena del delitto avevo puntato il mio dito su chi ritenevo colpevole, anche se sembrava improbabile. Comunque, per buona pace del maestro S.S. Van Dine e del suo decalogo, di cui parlerò quando si tramerà un suo scritto, Wallace nel suo ultimo, lungo capitolo per bocca della Maschera Bianca, ricostruisce per filo e per segno la più che decennale storia che ha portato all’attuale conclusione. Inserendo, come dicevo con dispiacere, alcuni elementi che non potevamo sapere prima. In alcuni passi, sembra quasi un canovaccio cinematografico, che, trasposto sullo schermo, darebbe più informazioni di quelle scritte. D’altra parte Wallace si vantava di scrivere avendo già in mente il mistero su cui basare la trama, alcuni personaggi e la soluzione finale. Forse per questo forza alcuni passaggi e ne dimentica altri. Peccato quindi che sia uno scritto datato, e di certo non il migliore del nostro scrittore.
Christopher Bush “Omicidio a Capodanno” Corriere della Sera Gialli 18 euro 6,90
[A: 23/05/2016– I: 21/08/2017 – T: 28/08/2017] - &&
[tit. or.: Dancing Death; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1931]
Tornando in Inghilterra la nostra collana di gialli d’epoca, e per di più anglosassoni, ritorna ad aver qualche linea di gradimento in più. Anche se il libro è ben contorto, si muove come un diesel che stenta a carburare, e lo scioglimento finale dei misteri rimanda alla memoria del lettore, che deve ricordarsi ciò che è stato detto e scritto nel primo capitolo. Il professore Bush, fortunatamente solo cognomico dei pessimi presidenti americani, ha anche una sua piccola storia personale, è illegittimo, tanto che la data di nascita oscilla tra il 1885 ed il 1888 (solo il giorno è ben noto e vi dirò presto perché). Inoltre, vive e cresce in una famiglia quacchera che si è insediata fin dalla fondazione del movimento lì nell’East Anglia (che ricordo essere nota in quanto sede dell’Università di Cambridge). Non vi tedio sulle dottrine quacchere, anche se sarebbe interessante, in quanto, ad esempio, gli scritti del nostro sono pervasi di questo “calvinismo puro e duro”, per il quale ognuno di noi è un “amico di Gesù”, in quanto tale si deve comportare correttamente e deve intervenire se intorno a lui ci sono invece comportamenti non consoni. Ma tutto ciò potrebbe far parte di un saggio, non di un agile trama. Intanto, tornando al nostro Bush, diciamo per inciso che il suo vero nome era “Charlie Christmas”, motivo per cui capite come sia facile dedurre sia nato il 25 dicembre. Quando, poco più che quarantenne, comincia a scrivere di gialli e polizieschi, decide di modificarlo nel più agevole “Christopher” (che sempre legato alla religione poi è). Bush per quarant’anni poi, continua a scrivere di libri, prima continuando ad insegnare, poi dedicandosi pienamente alla scrittura. Ed in questa sua sarabanda editoriale, fa nascere un tipico (locale) esempio di investigatore, gentile e gentiluomo. Ludovic Travers, detto Ludo, timido e riservato, con dei grandi occhiali che pulisce con cura quando riflette, benestante, non è un solitario, ma preferisce collaborare, soprattutto con le forze dell’ordine, dove spesso si incontra-scontra con George Wharton, un suo contraltare ironico ma scorbutico. Ebbe un discreto successo all’epoca, proprio perché è un personaggio che dà fiducia, che non si pone intellettualmente sopra il lettore, schiacciandolo con le sue proverbiali capacità (non è né Holmes né Poirot), ma passo dopo passo arriva a smontare alibi intricati e decifrare situazioni di primo acchito (lo so, sembra strano ma si scrive con una sola “t”) indecifrabili. Bush è anche “onesto” verso il lettore: comincia infatti il libro presentando tre indizi che, benché criptici al momento, se ricordati quando servono, aiutano il lettore a seguire i ragionamenti e le ipotesi di Ludo. Magari riuscendo a prevenirne le conclusioni. La storia, come detto con inizio un po’ lento, ci presenta i personaggi, dilungandosi su ognuno, tanto che alla fine ci si perde un po’. Personaggi invitati alla festa di Capodanno dall’eccentrico Martin, ricco e scienziato-industriale, inventore (o possessore) di un brevetto di un terribile gas. Alla festa, che finirà tristemente data la neve, sono presenti Ludo ed il suo amico Franklin, Brenda e Dennis Fawne, la sorella di Brenda, Mirabel, di professione attrice, il suo impresario Challis, ed un suo presunto spasimante Tommy. Quando questi rimangono soli, va via la luce, si interrompono le comunicazioni telefoniche, ed i nostri rimangono isolati. La mattina si scopre che: molti sono stati derubati, Mirabel (che aveva scambiato la stanza con la sorella) morta pugnalata al petto, Dennis morto nella dependance in una posa scomposta. Le cose si complicano con l’arrivo di un fantomatico signor Crashaw che sostiene aver l’auto in panne per la neve. Travers si mette all’opera investigativa, inscenando lunghi e farraginosi stratagemmi verbali e non. E mentre Franklin va alla ricerca della polizia, muore anche la cameriera di Mirabel. Tra l’altro Dennis è uno scrittore squattrinato, anche se con un discreto successo del suo primo libro, ospitato da Martin per amicizia. Collegando tutti i fatti con quegli indizi iniziali, capiamo subito due cose: che Crashaw è il ladro (ma perché è rimasto sul luogo delle sue effrazioni?), che non era Mirabel che doveva morire (dato lo scambio di stanza), che Dennis è morto per il famoso gas (che Martin sostiene essergli stato sottratto dalla cassaforte), che la cameriera viene uccisa perché ricatta qualcuno. Dennis, tra l’altro, stava scrivendo le ultime pagine del suo nuovo libro, ma non riusciva a concluderle. Il colpo di genio di Bush è inventare un improbabile incidente che fa fare una agnizione ad uno dei personaggi, da cui si scatena tutta la catena degli avvenimenti che, alla fine, risultano tutti spiegabili, uno dopo l’altro. Però lo stile rimane legato agli anni Trenta, il povero Bush, per quanti sforzi faccia, non si innalza sopra un onesto scrivere. Solo la sua trama, forse se scritta ora e con più agilità, potrebbe essere ancora di interesse, soprattutto per quel colpo di ingegno del caso che mette le mani sulle vicende umane. Ah, se si è ferrati in esegesi bibliche, anche il poliziotto Wharton ci da una traccia, dicendo ad un certo punto a Ludo di ricordarsi di Uria l’ittita. Vediamo se anche a voi scatta la scintilla.
John Ferguson “Il mistero del villaggio” Corriere della Sera Gialli 20 euro 6,90
[A: 24/06/2016– I: 28/08/2017 – T: 30/08/2017] - &&&--
[tit. or.: Murder on the Marsh; ling. or.: inglese; pagine: 281; anno 1930]
Torniamo in Inghilterra, o meglio e più precisamente in Scozia, ed i toni dei gialli d’epoca risalgono decisamente. Certo, si sente il rumore di ferraglia di una macchina che impiega del tempo a carburare. Certo, si vede il fumo che il motore sporco d’olio lascia dietro di sé. Ma la lettura si fa godibile, con alcuni spunti di interesse, ed un impianto che non fa rimpiangere scrittori più celebrati. A parte il solito titolo, che potrebbe essere tradotto meglio con “Delitto nella palude”, anche se Marsh, oltre a palude, designa una regione tra il Kent e l’Essex, ed è il toponimo del luogo dove si svolge l’azione, Romney Marsh. Tra l’altro, per rimanere alla collocazione geografica menzioniamo che John Ferguson, dopo aver fatto il ferroviere per alcuni anni, ha una grande conversione religiosa, e si fa prete protestante. Prima in giro per l’Inghilterra, poi a 44 anni si trasferisce proprio nel Kent. E lì, tre anni dopo, inizia a scrivere una dei suoi dieci libri “gialli” (scusate le virgolette, ma i libri di Ferguson sono a volte spy-story a volte mystery). Benché quindi peripateticamente inglese, l’autore rimane scozzese nell’anima, tanto che la maggior parte dei suoi scritti ha per protagonista un criminologo scozzese, Francis McNab. Che non manca di rimarcare le sue radici, e che è decisamente astioso verso chi, pur avendone, le dimentica, magari scordandosi il nome proprio Ian a favore di più londinesi Percy o Cyril. McNab, come tutti il deus ex-machina di situazioni giallesche, ha l’ovvio difetto di risultare un po’ presupponente, anche se evita le messe in scena alla Holmes, in cui le sue azioni sono già volte ad un fine che noi non conosciamo, ma il criminologo sì. Ed è ovvio che, quando si ha un punto forte su cui poggiare, ma che può risultare antipatico, gli si affianca un “contraltare Watson”. In questo caso, come spesso avviene, il narratore delle gesta di McNab, il giornalista Geoffrey Chance. Giovane ed irruento, prende sempre la via sbagliata di ogni interpretazione, irritandosi di non capire i pensieri aulici che sgorgano nella mente di McNab. Per fortuna questi non gli si rivolge mai, quando smonta le sue ricostruzioni, con la formula “Non hai alcuna possibilità”. (Piccolo e personale calembour, che volevo veder tradotta una frase come “You’ve no chance, Chance”). Comunque le vicende del villaggio iniziano molto lentamente, a parte l’esaltazione che Chance tenta di comunicarci, senza purtroppo riuscirci. La signorina Alice chiede aiuto al grande McNab perché vede il padre comportarsi in modo strano (guardare spesso dentro le scarpe, chiudere le finestre prima di andare a letto anche d’estate). Ma prima che McNab possa intervenire, James Cardew muore. Un fattore assiste alla morte, avvenuta appunta nella palude dove per lunghi tratti spazia lo sguardo senza incontrare ostacoli. Il fattore dice che James si guardava intorno come se pensasse di essere seguito, poi si ferma in mezzo alla radura paludosa, quindi fa qualche passo barcollando, poi riprende a camminare, parla con il fattore, si avvia verso casa, ma sul prato della stessa, cade e muore. Infarto? Così dicono tutti. Ma McNab sospetta qualcosa. Ed anche la polizia non è serena, tanto che non archivia il caso. Soprattutto sotto la spinta del sergente Hackett, che alla fine si avvicina alla soluzione ed al colpevole, tanto da rimanere ucciso anche lui. McNab, pur se non in modo lineare (in fondo Ferguson è un onesto artigiano della penna, non uno scrittore di best-seller) ci fa vedere il quadro generale. Non linearmente, perché io l’ho ricostruito tirandone fuori i tratti maggiori dalla seconda parte del libro. Allora, c’è la famiglia Cardew, benestante possidente terriera, con il padre James, la prima figlia, Virginia, sposta al dr. Cyril Campbell, e la seconda, la nubile Alice. C’è il fattore della tenuta, il signor Todd, ultimamente ai ferri corti con James, che sembra averne scoperto qualche atteggiamento truffaldino, anche se, a detta di Todd, hanno fatto la pace proprio negli ultimi giorni. E c’è il signor Sneyd, che un tempo girellava intorno alla maggiore delle Cardew, benché osteggiato dal padre. Poi, dopo un periodo in India come soldato, in compagnia del fratello di Cyril, Percy, con lui torna nel Marsh, cominciando ad insediare la giovane Alice. La soluzione del mistero viene dalla scoperta della passione di uno dei sospettati per la pesca, dall’accenno all’India ed ai serpenti, da un bastone piantato nel prato con sotto un portasigarette d’argento. Proprio lì dove si era fermato James all’improvviso. Alla fine, McNab, con un buon colpo di scena, smonta l’alibi di qualcuno che con quell’alibi pensava di non poter essere sospettato, e smaschera il colpevole. Peccato che si serva anche di un pezzo di carta strappato dal taccuino di Hackett, che ha un senso in originale ma che perde di efficacia qui, quando se ne cerca la traduzione. Che se ne fa un po’ in italiano ed un po’ in inglese. Poca capacità inventiva, anche se confesso non era semplice, come riporto in allegato per gli amanti degli enigmi e delle traduzioni traditrici.
S.S. Van Dine “L’enigma dell’alfiere” Corriere della Sera Gialli 1 euro 6,90
[A: 25/01/2016– I: 31/08/2017 – T: 05/09/2017] - &&& -
[tit. or.: The Bishop Murder Case; ling. or.: inglese; pagine: 316; anno 1929]
Anche se non letto per primo, giustamente questo libro è stato posto, dai curatori, come primo libro di questa ambigua collana di gialli. Ambigua, ovvio, nella riuscita più che nelle intenzioni. Voleva mostrare, negli anni del giallo “classico” (più o meno tra le due guerre mondiali) la nascita e l’affermarsi di un genere che si consolida proprio nei paesi di lingua anglosassone. E sebbene alcuni libri, tra cui questo, hanno un po’ di interesse, altri sono datati e poco piacevoli per una lettura non filologica. Van Dine, in quest’ambito, rappresenta un punto focale: seppure non il primo nella lista dei “padri della detective story” così come localmente chiamata (c’erano già stati ad esempio il primo Poirot nel ’20 e il primo libro di Dorothy L. Sayers nel ’23, con Lord Wimpsy quale anticipazione di Vance), l’autore porta all’esasperazione il giallo da ragionamento, ne è il primo autore americano, ed inserisce nei suoi saggi sui libri gialli (che anche questo scrisse) un “catalogo di comportamento” che sarà pietra di paragone per tutto il genere. Sia per chi segue le regole, sia per chi, ma lo farà con coscienza e bravura, le stravolge. Sarebbe interessante entrare nella discussione delle famose “venti regole”, ma forse ci porterebbe troppo lontano. Ma non posso esimermi da citarne due (anche se le trovate tutte in allegato), che ritengo fondamentali. La prima: il lettore deve avere le stesse opportunità dell’investigatore di risolvere il mistero. La dodici: ci deve essere un solo colpevole, indipendentemente dal numero degli omicidi. D’altra parte, Van Dine non è solo un giallista ed un estimatore di gialli. Lui nasce Willard Huntignton Wright da una famiglia agiata (il fratello, Stanton Macdonald-Wright diventerà un celebrato pittore con quadri esposti nei maggiori musei americani), ed è un critico d’arte, un filologo, un critico letterario abbastanza stimato, ma irruento e dalla vita complicata (mogli, divorzi, ed altre americane amenità). Stremato dai vizi (morfina, oppio, alcool) per non dichiarare bancarotta, viene convinto da un amico a dedicarsi ai mysteries. Durante la malattia (quasi due anni a letto), legge molto, accumula idee. E nel 1926 fa boom con il suo primo caso (“La strana morte del signor Benson”). Da lì, solo successi su successi, anche economici, che però non lo faranno deflettere dall’abuso di alcool, dato che morirà appena cinquantenne). I suoi libri più famosi sono chiusi tutti dall’aggettivo “case” (“caso”). Tutti casi studiati e risolti dal suo intelligente ed un po’ dandy investigatore, Philo Vance (memorabile ne fu l’interpretazione in uno sceneggiato della RAI interpretato da Giorgio Albertazzi). Vance ha un po’ la puzza sotto il naso, ma non si perita di sporcarsi (metaforicamente) le mani in casi complicati, che il suo sodale procuratore distrettuale Markham non riesce a risolvere. Il tutto redatto per noi dal suo amico e sodale S.S. Van Dine. Non entro nella psicologia di Vance, nei suoi rapporti con l’amico e con la polizia, che sarebbero anche essi degli di altre e più approfondite scritture. Qui ci occupiamo alla fine di un solo caso. Che pur rispettando tutte le regole scritte dall’autore, ha alcuni punti di non facile rese. Innanzi tutto, il “Bishop” del titolo. Perché una parte non secondaria del libro è dedicata ad uno scacchista, ed in inglese i pezzi degli scacchi sono così chiamati: king (re), queen (regina), pawn (pedone), knight (cavallo), rook (torre) e bishop (alfiere). Per questo in italiano viene normalmente tradotto come “l’enigma dell’alfiere”. Ma i biglietti che dopo ogni morte vengono fatti trovare pur essendo firmati “Bishop”, vengono resi nella traduzione con “Vescovo” (significato letterale). Ed i sospetti ad un certo punto convergono verso una persona che ha lo stesso nome di un personaggio di una commedia, che di professione fa … il vescovo. Capisco la difficoltà, ma qualche nota esplicativa in più sarebbe stata utile. Inoltre io avrei firmato i biglietti “l’Alfiere”. Secondo elemento di complicazione per la rese in italiano è il meccanismo che sottende le morti. Tutte legate ad una qualche frase di filastrocche infantili, ma di puro stampo inglese. Ne riporto una breve analisi in allegato per chi volesse dilettarsi. Sono inoltre molto congeniali alla trama, tanto che l’autore voleva intitolare il libro “Gli omicidi di Mamma Oca” (cioè “Mother Goose Murder Case”), da ciò distolto dall’editore che non voleva si confondessero con appunto racconti infantili. Dopo tutto questo girare cerchiamo di arrivare al punto. Nel corso di un mite mese di aprile si succedono, intorno ad un caseggiato della 75^ strada di Manhattan morti misteriose. Nel caseggiato sono presenti: il professor Dillard, fisico-matematico in pensione, ancora decentemente in gamba, anche se arrugginito e con le facoltà intellettuali che a volte si arenano; la figlia Belle, bella, sportiva, ricercata, appassionata di tiro con l’arco, tanto da installare un campo di gara in giardino, il figlio adottivo Sigurd Arnesson, matematico e docente universitario, ironico e caustico, pensa di risolvere tutto con formule matematiche, da sempre innamorato di Belle; il vicino Pardee, scacchista di valore, che inventa un gambetto (figura scacchistica particolare) che però viene sbeffeggiato dai grandi del tempo, tanto che ne rimarrà addolorato e ricercherà una rivincita in qualche modo; l’altro vicino Drukker, storpio per una tubercolosi infantile, ma dalla grande mente scientifica, sta lavorando ad una modifica ed aggiornamento delle teorie della relatività di Einstein. Intorno alla casa poi gravitano tiratori con l’arco nonché pretendenti a Belle, in particolare tal Cochrane Robin, e studenti universitari, tra cui il brillante che potrebbe oscurare sia Sigurd che il professore, Jack Sprigg. Come imposto dalle filastrocche, uno dopo l’altro muoiono Robin (“Chi ha ucciso il pettirosso”), Sprigg (“e colpì Johnny Sprigg nel mezzo della sua parrucca”) e Drukker (“Humpty Dumpty sul muro sedeva / Humpty Dumpty dal muro cadeva”, ricordo ai non addetti che Humpty Dumpty era gobbo). Vance monta e smonta migliaia di ipotesi, ma tutte che coinvolgono una mente matematica (e questo ci fa dispiacere, che noi matematici siamo di fondo buoni). Quando i sospetti si riducono a tre, Vance spiega i motivi della colpevolezza di uno dei tre, che ovviamente subito dopo muore avendo davanti a sé un castello costruito con le carte (“Questo è l’uomo lacero e stracciato / che baciò la fanciulla dal cuor disperato / … / che sta nella casa che Jack costruì”). Io fin dall’inizio avevo puntato su uno dei due rimanenti in vita. Purtroppo per le mie capacità deduttive, era l’altro. Che solo l’acume di Vance ed il suo spirito di iniziativa (nonché la conoscenza delle filastrocche, che salavano da sicura morte una bambina, “La piccola Miss Muffet / … / cadde nella morsa del ragno”) riescono a salvare. Insomma, un libro da leggere e meditare perché mette, insieme agli altri libri di Van Dine, i punti fermi a tutto un genere che per l’appunto negli Anni Venti era solo agli albori della sua nascita. Non c’erano i risvolti sociali ed umani che abbiamo ora in queste storie (ovvio nelle migliori, come quelle degli svedesi alla Sjowall o alla Mankell), ma sono le bandierine perimetrali che ne faranno una lettura sempre avvincente.
Baynard Kendrick “I due ciechi” Corriere della Sera Gialli 29 euro 6,90
[A: 24/08/2016– I: 08/09/2017 – T: 11/09/2017] - &&&
[tit. or.: Blind Man’s Bluff; ling. or.: inglese; pagine: 234; anno 1943]
Prima di entrare nel merito del libro e dell’autore, mi domando seriamente perché un titolo traducibilissimo in italiano venga sostituito con un altro titolo di scarsa rilevanza. Ora, vero è che non tutti hanno avuto un’infanzia serena, ma credo che quasi tutti abbiano giocato a “mosca cieca”. Di cui non vi dico certo le regole. Ora, se sei un traduttore dall’inglese, dovresti sapere che “mosca cieca” in inglese si dice “blind man’s bluff”. Allora perché non titolare il libro con il nome esatto, che ha un senso in molti risvolti del libro stesso? Perché sostituirlo con “I due ciechi”, anche se, nell’intreccio, è vero che ci sono due persone “non vedenti”? non riuscirò mai a capire le strategie editoriali… Fatta questa doverosa premessa, torniamo al libro in sé. Ed all’autore, che, stranamente, è americano pur lavorando nell’ambito di quello che in gergo poliziesco viene chiamato “giallo deduttivo”. Cioè un racconto in cui, nel corso della descrizione degli avvenimenti, c’è un personaggio che indaga, raccoglie indizi, li elabora, e deduce la successione degli avvenimenti, scoprendo il colpevole. Nella tradizione delle “regole Van Dine” di cui ho parlato. Qui, l’autore ha il suo colpo di genio, derivante dalla sua storia personale, di basare una serie di romanzi sul personaggio di Duncan Maclain, ex-capitano durante la I^ Guerra Mondiale, dove diviene cieco in seguito alle ferite riportate. Storia personale perché Kendrick partecipò alla suddetta Guerra (tra l’altro, pur essendo americano, si arruolò nell’esercito canadese per partire subito verso il fronte europeo), dove incontra un sergente divenuto cieco che lo sorprende per l’acutezza delle osservazioni che fa, descrivendo scenari e situazioni a volte meglio di persone normo-vedenti. Da questa esperienza, Kendrick fu talmente colpito che si occupò sempre di persone non vedenti, sia fino agli anni ’30, durante la sua carriera manageriale, sia dal ’30 in poi quando cominciò a dedicarsi alla scrittura. Tanto che divenne un sostengo per gli ipo-vedenti durante la II^ Guerra Mondiale, e, benché lui fosse normo-vedente, fu insignito della medaglia come “Blind Veterans”. Da qui, appunto, nasce il personaggio dell’investigatore cieco Duncan Maclain, che, proprio per la vicinanza di Kendrick con quel mondo, risulta oltremodo credibile. Sono 25 anni, al momento di questo romanzo, che Duncan ive la sua cecità, sviluppando una sensibilità in tutti gli altri sensi. In particolare tatto e udito, anche se l’olfatto non è da meno. Inoltre, la barriera di tenebre che lo separa dal resto del mondo gli consente di isolarsi nei suoi ragionamenti, ed alla fine di “vedere” là dove i poliziotti annaspano. Ha due cani-guida, una femmina per la normale guida, ed un maschio molto cattivo nel caso di azioni potenzialmente violente. Inoltre, per concentrarsi, si dedica alla risoluzione di puzzle “al tatto”. In questo quarto romanzo (che tuttavia è il primo uscito in Italia) Duncan si trova di fronte ad una serie di suicidi di cui però non è particolarmente convinto. Tra l’altro, il primo che ci viene descritto (anche se non il primo in assoluto) coinvolge a sua volta una persona cieca (da cui, appunto, il poco appropriato titolo dei due ciechi). Blake è un manager cinico, a capo di varie società di investimenti, tramite le quali ha anche fatto fallire diverse società e ridotto in povertà molti investitori. Blake è diventato cieco in seguito ad un colpo di pistola sparato a bruciapelo da Jack, uno di questi investitori falliti, che subito dopo rivolge la stessa pistola verso di sé, uccidendosi. Blake ha un figlio che si innamora della figlia del suicida, creando una potenziale situazione conflittuale. Blake stesso precipita dall’ottavo piano della sede della società di investimenti. Quando nel palazzo sono presenti solo la moglie divorziata (che lo vede cadere), il figlio (che è ubriaco) ed il guardiano. Sembra a tutti gli effetti un suicidio. Le cose si complicano quando a “suicidarsi” è uno strano avvocato che tenta di ricattare i vari componenti del mondo di Blake (in particolare Lawson, l’avocato che ne cura il patrimonio, e Courtney, ex-socio di Blake, nonché innamorato della ex-moglie di Blake, e Bentley, il revisore dei conti della società che sta da anni cercando di mettere ordine al patrimonio degli investitori). Duncan ipotizza di trovare un filo conduttore interrogando il guardiano notturno del palazzo, presente in tutte le circostanze mortifere. Peccato che anche lui caschi dall’ottavo piano. A questo punto, Duncan intuisce che deve esserci un meccanismo “a scoppio ritardato”, che consenta all’assassino di inscenare tutti questi suicidi, per poi allontanarsi creandosi un alibi. Non potendolo dimostrare, Duncan tende una trappola all’assassino, e, rischiando la pelle, si trova nella stessa situazione che ha portato alle morti violente. Che l’assassino era qualcuno che aveva in prima persona creato i presupposti della bancarotta, cercando di uccidere Blake (non riuscendo) e dovendo uccidere Jack in quanto testimone. Uccide poi l’avvocatucolo, per distogliere i sospetti su di sé, e la guardia notturna, l’unica che aveva la chiave di tutto, anche se non lo sapeva. Perché il palazzo dei suicidi era comunque ben controllato, e qualcuno doveva conoscere chi e come ne varcava la soglia. Anche se il meccanismo usato dall’assassino p un filo complicato, la deduzione finale di Duncan, dopo che aveva ristretto le possibilità ai tre di cui sopra, pur se dotati da alibi, è in puro stile “Van Dine”, e risulta discretamente soddisfacente. Insomma, un giallo ben congeniato, solo a volte un filo macchinoso nei rimandi, ed un tantino poco agile nello sfruttare le possibili convergenze. Ma Duncan ha una sua bella personalità, ed una resa che ne varrebbe una ripresa anche in tempi moderni. Tant’è vero che è stato tre volte portato sullo schermo, anche se, ironia di Hollywood, la prima volta non da cieco, cosa che mi sembra un’eresia. Inciso finale (ma forse non è propriamente un inciso in quanto non riprenderò poi a parlare del libro), mentre leggevo il libro, sono andati a vedere il film “Il colore nascosto delle cose”, che non è certo un capolavoro mondiale, ma, dietro l’accorta regia di Soldini, racconta la storia di una persona non-vedente e del suo rapporto con il mondo. Personaggio ben interpretato da una attenta Valeria Golino, che invece altre volte non mi aveva convinto particolarmente.
Terza trama del mese, e come non capita spesso ultimamente abbiamo spazio per un allegato di felicità, che, data la prossimità, non può non essere legato al Natale.
Ebbene sì, siamo già a Natale, siamo già ad un altro anno che scorre via. Un anno che si spera vada presto in soffitta senza portare altri guasti, che quest’anno sono stati tanti e dolorosi. Si diceva della sfortuna degli anni bisestili. Io rilancio con la sfortuna degli anni “primi” (e fortuna che il prossimo sarà solo il 2027…).

Appendici ai Gialli Anglosassoni

Piccolo assaggio di problematiche nelle traduzioni

Per spiegare meglio lo svelarsi delle soluzioni del libro di Ferguson, dobbiamo fare una piccola analisi del frammento trovato, e di come sia difficile rendere lo stesso “mistero” in una lingua diversa.

Versione originale
Versione tradotta
dew was murderd
eyd as I thought. First the soft
ell gave me a clue.
g line, but take care
e at the eight in
ew there was death
odd my torch
Take care
se or shoes
150 feet
dew è stato assassinato
eyd, come pensavo. Prima il morbido
ell mi ha dato un indizio.
esca, ma attenzione.
o all’ottava
vo che c’era la morte
odd la mia torcia
Attenzione
te o delle scarpe
150 piedi.

Ora, mentre le prime due righe, le parole spezzate hanno senso siano rimaste in inglese in quanto designano il morto (Cardew) ed uno dei sospettati (Sneyd), la terza lasciata “ell” cerca di convincerci che Campbell mi ha dato un indizio, ma se volesse indicare “inferno” o “guscio” (hell o shell)? Forse si poteva inventare un cognome diverso, che facesse rima con la finale aspettata. Si poteva perdere qualcosa, ma rimestare intorno ad un “ell” che non lo è, lascia molte perplessità. Non è facile fare il traduttore, in ogni caso. Tra l’altro, la bravura di Ferguson, nel libro originale, è di riuscire a riprodurre il foglio come se fosse stato strappato in diagonale, come ho visto in una foto che sono riuscito a trovare di in una copia del libro posseduta da una libreria australiana.

Filastrocche e traduzioni


I delitti di casa Dillard e dintorni come detto sono scandite da filastrocche infantili. Van Dine, e i suoi critici ed esegeti, fanno riferimenti ai “Racconti di Mamma Oca”, che a me lasciano perplesso. Da noi in Italia con questo nome ci si riferisce solo alle favole imbastite da Charles Perrault, e che sono i fondamenti storici delle favole a tutti note. Ricordo per coloro di poca memoria che nella raccolta di Perrault ci sono: “La bella addormentata nel bosco”, “Cappuccetto Rosso”, “Il gatto con gli stivali” e “Cenerentola”). Ma nel mondo anglosassone, con il solito spirito campanilistico, un secolo e mezzo dopo Perrault, si comincia a raccogliere, sotto il cappello di Mother Goose (Mamma Oca) non solo delle fiabe, ma anche filastrocche. Ed è a questo libro che si riferisce Van Dine nel suo giallo intorno al “vescovo/alfiere”).
Ecco allora i punti di riferimento degli omicidi.
Il primo vede la morte di Chocrane Robin che viene trovato nel campo di tiro con l’arco di Belle Dillard con una freccia infissa nel cuore.

WHO KILLED COCK ROBIN
Who killed Cock Robin?
Chi ha ucciso il pettirosso?
I, said the Sparrow,
Io, ha detto il passero,
with my bow and arrow,
Con il mio arco ed una freccia,
I killed Cock Robin.
Io ho ucciso il pettirosso.

Il secondo omicidio è perpetrato su Jack Sprigg (che potrebbe anche essere Johnny in una diversa versione), ucciso da un colpo di pistola di piccolo calibro sparato a bruciapelo sulla testa.

THERE WAS A LITTLE MAN
There was a little man and he had a little gun,
C'era un piccolo uomo con una piccola pistola,
and his bullet were made of lead, lead, lead;
e la sua pallottola era fatta di piombo, piombo, piombo;
he shot Johnny Sprigg through the middle of his wig,
ha sparato a Johnny Sprigg in mezzo alla parrucca,
and knocked it right off his head, head, head.
e lo colpì proprio in testa, testa, testa.

Il terzo coinvolge la morte dello storpio che cade da un muretto.

HUMPTY DUMPTY
Humpty Dumpty sat on a wall
Humpty Dumpty sul muro sedeva.
Humpty Dumpty had a great fall
Humpty Dumpty dal muro cadeva.
all the king's horses and all the king's men
Tutti i cavalli e i soldati del Re,
Couldn't put Humpty together again.
non riusciranno a rimetterlo in piè.


L’ultimo omicidio, e non vi dico di chi, prevede un uomo che si spara alla testa (finto suicidio), cui dopo la morte pongono davanti una ricostruzione fatta con le carte della zona degli omicidi, con tutte le indicazioni dei nomi, delle posizioni, e degli avvenimenti.

THE HOUSE THAT JACK BUILT
This is the man all tattered and torn,
Questo è l’uomo lacero e stracciato
That kissed the maiden all forlorn,
che baciò la fanciulla dal cuor disperato
That lay in the house that Jack built.
che sta nella casa che Jack costruì.

Infine, il tentato omicidio, sventato da Vance, avviene in seguito al rapimento della bimba di cinque anni Madeleine Muffet, ritrovata sola e spaventata in una soffitta, prima che potesse morire di paura e stenti.

MISS MUFFET
Little Miss Muffet
Piccola Miss Muffet
Along came a spider
Cadde nella morsa del ragno
Who sat down beside her
Chi si sedette accanto a lei
And frightened Miss Muffet away.
E spaventò la signorina Muffet.

Sperando che abbiate apprezzato gli sforzi filologici, mando a tutti un saluto.

Le venti regole per poter scrivere un buon romanzo poliziesco


Il romanzo poliziesco è un tipo di gioco intellettuale. Anzi, è qualcosa di più - una gara sportiva. Ed esistono leggi ben precise che governano la scrittura di romanzi polizieschi: leggi non scritte, forse, ma ugualmente vincolanti, con le quali si deve misurare ogni rispettabile inventore di misteri letterari che sia anche onesto con sé stesso. Ecco di seguito, quindi, una sorta di Credo, basato in parte sull'esperienza di tutti i grandi autori di romanzi polizieschi e in parte sulle sollecitazioni della coscienza dell'autore onesto. Vale a dire:
1       Il lettore deve avere le stesse opportunità del detective di risolvere il mistero. Tutti gli indizi devono essere presentati e descritti con chiarezza.
2       Al lettore non possono essere rifilati altri trucchi o inganni oltre a quelli con i quali il criminale tenta legittimamente di buggerare il detective.
3       Non dev'essere posta eccessiva enfasi sull'elemento amoroso. Lo scopo è quello di assicurare un criminale alla giustizia, non quello di condurre una coppia innamorata all'altare.
4       Né il detective né uno degli investigatori ufficiali possono risultare colpevoli. Questo vuol dire giocare sporco; è come offrire a qualcuno una moneta da un centesimo in cambio di cinque dollari d'oro. È frode bella e buona.
5       Al colpevole si deve arrivare attraverso deduzioni basate sulla logica, non per caso o coincidenza o confessione senza motivo. Risolvere un problema di detection in questo modo equivale a spedire deliberatamente il lettore su di una falsa pista e poi dirgli, dopo che è tornato con le pive nel sacco, che la cosa che lo avevate mandato a cercare ce l'avevate nascosta voi nella manica fin dall'inizio. Un autore di questa fatta è poco più di un buffone.
6       Nel romanzo poliziesco ci deve essere un investigatore; e un investigatore non può dirsi tale se non indaga. La sua funzione è quella di raccogliere gli indizi che, in fondo al libro, condurranno all'identità di colui che ha commesso il crimine di cui al primo capitolo; e se l'investigatore non arriva alle sue conclusioni grazie all'analisi di codesti indizi, non ha risolto il suo problema alla stessa stregua dello scolaro che copia il compito di aritmetica.
7       Ci dev'essere un cadavere nel romanzo poliziesco, e più è cadavere meglio è. Nessun reato minore dell'assassinio può essere considerato sufficiente. Trecento pagine sono troppe per un reato diverso dall'assassinio. Dopo tutto, la fatica e lo sforzo del lettore devono essere ricompensati.
8       Il problema presentato dal delitto dev'essere risolto con metodi rigorosamente scientifici. Metodi di scoperta della verità che si basano su lavagnette e tavolette parlanti, lettura del pensiero, sedute spiritiche, sfere di cristallo e simili, sono assolutamente vietati. Un lettore può competere con un detective raziocinante, ma se deve gareggiare col mondo degli spiriti e rincorrere la quarta dimensione della metafisica, allora è battuto in partenza.
9       Ci dev'essere un solo investigatore autorizzato a trarre le conclusioni, un solo deus ex machina. Impiegare i cervelli di tre o quattro o un'intera banda di investigatori per trovare la soluzione al problema, non solo disperde l'interesse e spezza il filo della logica, ma dà all'autore un vantaggio scorretto sul lettore. Se c'è più di un investigatore, allora il lettore non è più in grado di distinguere chi è il suo avversario. Gli tocca correre da solo contro una staffetta.
10    Il colpevole deve essere una persona che ha avuto un ruolo più o meno significativo nella vicenda; ovvero, una persona che è divenuta familiare al lettore e per la quale egli ha provato interesse.
11    Il colpevole non deve essere scelto tra il personale di servizio. È assolutamente una questione di principio. È una soluzione troppo semplicistica. Il colpevole deve essere una persona che ha giocato un ruolo significativo, una persona della quale non si dovrebbe sospettare.
12    Ci deve essere un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. È ovvio che il colpevole può essersi servito di complici o aiutanti, ma la colpa e l'indignazione del lettore devono cadere su una sola ed unica anima nera.
13    Società segrete, camorra, mafia e così via non hanno spazio in un romanzo poliziesco. Un assassinio affascinante e ben riuscito è guastato senza remissione da una colpevolezza all'ingrosso. È certo che anche all'assassino debba essere offerta una scappatoia, ma concedergli addirittura una società segreta con cui spartire le colpe è un po' troppo. Nessun assassino di classe e consapevole dei propri mezzi accetterebbe di giocare contro queste probabilità.
14    I metodi impiegati nell'assassinio, e i sistemi usati per scoprirlo, devono essere razionali e scientifici. Vale a dire, la pseudo scienza e i congegni di pura e semplice immaginazione non possono essere tollerati in un romanzo poliziesco. Una volta che l'autore è partito verso il regno della fantasia, alla maniera di Jules Verne, si è posto definitivamente fuori dai confini della narrativa poliziesca e si è messo a fare capriole in una zona dell'avventura che non è segnata sulle carte geografiche.
15    La rivelazione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che il lettore sia abbastanza sveglio da individuarla. Con questo intendo che se il lettore, appresa la spiegazione del crimine, decide di rileggersi il libro da capo, deve accorgersi che, in un certo senso, la soluzione giusta era sempre stata lì, a portata di mano, che tutti gli indizi portavano al colpevole e che, se solo fosse stato astuto come l'investigatore, anche lui avrebbe potuto risolvere il mistero prima dell'ultimo capitolo. Va da sé che il lettore intelligente risolve spesso l'enigma in questo modo.
16    Un romanzo poliziesco non dovrebbe contenere descrizioni troppo lunghe, divagazioni letterarie su argomenti secondari, studi di caratteri troppo insistiti, preoccupazioni di creare un'atmosfera: Questi elementi non hanno spazio in quello che sostanzialmente è il resoconto di un crimine e di una deduzione. Tali passaggi bloccano l'azione e introducono argomenti di scarso rilievo per l'obiettivo finale, che è quello di esporre un problema, analizzarlo e condurlo ad una conclusione soddisfacente. È chiaro, comunque, che ci debba essere sufficiente materia descrittiva e studio di carattere per dare verosimiglianza al romanzo.
17    Il colpevole di un romanzo poliziesco non deve mai essere un criminale di professione. Scassinatori e banditi appartengono alla pratica quotidiana dei dipartimenti di polizia, non degli autori e dei loro brillanti investigatori dilettanti. Un crimine davvero affascinante è quello commesso da un vero baciapile, o da una zitella dedita ad attività benefiche.
18    Un crimine, in un romanzo giallo, non può mai essere derubricato in incidente o suicidio. Far finire un'autentica odissea di detection in questo modo così banale significa voler infinocchiare a tutti i costi il fiducioso e gentile lettore.
19    I moventi dei crimini nei romanzi polizieschi devono essere esclusivamente personali. Complotti internazionali e azioni di guerra fanno parte di un'altra categoria di romanzi, quelli di spionaggio, ad esempio. Ma un romanzo giallo deve mantenere un carattere intimo, per così dire. Deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, ed offrire uno sfogo ai suoi desideri ed emozioni represse.
20    E, per dare al mio Credo un numero pari di regole, ecco una serie di stratagemmi che nessuno scrittore di gialli degno di questo nome potrà più permettersi di adoperare. Sono già stati troppo sfruttati, e sono molto familiari a tutti i cultori dei crimini di carta. Avvalersene equivale a confessare la propria incapacità e mancanza di originalità.
a.      Scoprire l'identità del colpevole mettendo a confronto la cicca di sigaretta trovata sulla scena del crimine con la marca fumata da un sospetto.
b.      La seduta spiritica fasulla che terrorizza il colpevole e lo spinge a confessare.
c.      Impronte digitali manipolate.
d.      L'alibi costruito mediante un fantoccio.
e.      Il cane che non abbaia e quindi rivela che l'intruso gli è familiare.
f.       L'attribuzione del crimine a un gemello, a un parente troppo somigliante al presunto colpevole.
g.      La siringa ipodermica e il sonnifero.
h.      L'assassinio commesso in una stanza chiusa, ma dopo che la polizia vi ha fatto irruzione.
i.       Il test delle associazioni di parole che indicano il colpevole.
j.       Il codice cifrato la cui soluzione viene alla fine trovata dall'investigatore.

 I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

DICEMBRE 2017
Visto che siamo quasi a Natale, eccovi allora un nuovo speciale dedicato al fausto giorno.

MALANNI STAGIONALI (II)

SPECIALE NATALE

Durante il periodo delle festività natalizie si verifica un acutizzarsi di malumori, malanimi, tristezze, depressioni e varie malattie psicosomatiche. Può sembrare un fenomeno bizzarro dal momento che dovrebbe essere il periodo più felice dell’anno, ma si tratta di un meccanismo psicopatologico più che giustificabile clinicamente. Studi approfonditi hanno dimostrato che, a partire da quel traumatico evento identificabile con la sconcertante scoperta che Babbo Natale non esiste, da una certa età in poi (vi auguro il più tardi possibile) il Natale diventa generalmente fonte di stress e origine di vere e proprie psicosi. Ansia da regali, apnea da pranzi pantagruelici, panico da cenoni infiniti, fobia da parenti e depressione post euforia si possono combattere con alcune letture che consentono di sopravvivere, più o meno indenni, alle festività, aiutando il lettore a entrare nel giusto “mood” e alleviando il “bad mood”. Perché la cura abbia effetto, però, è fondamentale crederci, proprio come a Babbo Natale.
Avvertenza: si consiglia di somministrare i seguenti rimedi, con ben celata nonchalance, anche ad amici e parenti. Altrimenti si rischia di arrivare ai giorni X con il cuore gonfio di spirito natalizio che gli altri potrebbero estirpare a mani nude.
[tralascio per ora di citare altri notevoli libri dedicati al 25 dicembre come “Canto di Natale” di Dickens, “Il Grinch” del dr. Seuss o “Piccole donne” di Louisa May Alcott, su cui magari si tornerà]

FUGA DAL NATALE di JOHN GRISHAM (2001)

Pillole di trama
Un pensiero malefico s’insinua nella mente di Luther Krank. Approfittando dell’assenza della figlia e calcolata la cifra esorbitante spesa l’anno precedente per tutto l’ambaradan natalizio, Luther decide di fare una follia: partire con sua moglie per una crociera ai Caraibi. Ma è possibile fuggire dal Natale? Il sogno di evasione si trasforma in un incubo e stravolti da una girandola di incidenti, complicanze e maldestri tentativi di raffazzonare una festa last minute, Luther e Nora si rendono conto che è impossibile (e poco augurabile) scampare alla tradizione.
Supposta-saggezza
Con “Fuga dal Natale” il re del legal thriller John Grisham si prende una vacanza con un racconto divertente in cui mette in scena il sogno di molti: saltare le feste. “Come sarebbe stato bello evitare il Natale, cominciò a pensare. Uno schiocco delle dita ed è il due gennaio. Niente albero, niente compere, niente regali inutili, niente mance, niente confusione e niente impacchettamenti, niente traffico e folla... niente spreco di soldi”. Ammettiamolo, chi non è mai stato sfiorato da questo pensiero (degno del perfido Grinch) ogni volta che si avvicina dicembre?
Con il suo stile asciutto, incisivo e scorrevole, Grisham si dimostra abilissimo anche nella commedia brillante con l’ironica provocazione di una disincantata, ma mai cinica, descrizione di un tipico natale americano. In America, infatti, è notoriamente tutto amplificato, tutto è in versione extra large e tutto diventa spettacolare, e anche questa festa spesso si trasforma in una gara a chi ha l’albero più alto e sovraccarico, le luminarie più scintillanti, il tacchino più obeso e i regali più voluminosi. Prendendo di mira il consumismo folle e il moralismo bigotto della provincia (i vicini si ribellano alla legittima decisione dei Krank di partire e vivono come un affronto l’assenza del canonico pupazzo di neve sul tetto della loro casa), l’autore si interroga sul senso di una tradizione che rischia di diventare un obbligo da assolvere, un dovere più che un piacere, un lavoro più che una festa. Ma non si può rinunciare al Natale, dice Grisham. Non si può rinunciare a Santa Claus, alle canzoni di Bing Crosby, al tacchino e alla cannella (che da noi diventano Babbo Natale, la poesia davanti al presepe, i tortellini, il panettone o forse il pandoro, magari tutti e due, ma pure il torrone... abbondiamo. Al posto della cannella, bicarbonato come se nevicasse). Come Frosty sul tetto dei Krank, nel libro non può mancare l’happy ending con il ritrovato e redivivo spirito natalizio che, ripulito dal consumismo, dall’ostentazione e dalle falsità, trionfa in un rassicurante finale degno di un film di Frank Capra. E, come in quell’intramontabile classico che è “La vita è meravigliosa”, anche qui l’autore mostra con ironia l’effetto che ogni nostra decisione provoca nelle vite degli altri. Avrebbero mai pensato Luther e Nora che l’innocua idea di partire in crociera avrebbe sconvolto la vita della comunità? E che proprio quei vicini ficcanaso e rompiscatole li avrebbero aiutati ad allestire il loro Natale last minute quando la figlia decide di piombare a casa per partecipare alla tradizionale festa di famiglia? Nessun uomo è nato per essere solo (anche se a molti la solitudine piace) e il Natale con la sua abbuffata forzata di feste, amici e parenti ci obbliga a ricordarlo. Sta a noi coglierne il lato positivo.
Modificando una frase celebre dal film “Magnolia”, “noi possiamo chiudere col passato ma il passato non chiude con noi”, potremmo dire che: “Noi possiamo chiudere con il Natale ma il Natale non chiude con noi”. Tradizione da onorare o obbligo da assolvere, fa indiscutibilmente parte di noi. Bisogna farsene una ragione: si può saltare il pranzo ma non si può saltare il pranzo di Natale. Questo divertente romanzo dimostra che fuggire da questa festa è impossibile e, soprattutto, è molto più faticoso che festeggiarla.
Posologia
Amanti del Natale o suoi detrattori, sempre e comunque si arriva tutti alla sera della vigilia stressati. Questa piccola vacanza letteraria in compagnia di John Grisham può essere utile per ritrovare calma e serenità. Se tocca sempre a voi ospitare, addobbare casa e preparare pranzi e cene mentre gli altri arrivano (magari in ritardo), arraffano (magari facendo anche qualche appunto sul menu) e poi si dileguano (magari sbuffando e troppo tardi), troverete consolazione perché in confronto a un comune Natale americano come quello dei Krank il vostro sembrerà uno scherzo, un picnic, una passeggiata di salute contro una maratona. Alla fine, più che fuggire, potrebbe verificarsi un inaspettato incremento di voglia di festeggiare.
“Fuga dal Natale” consente anche di curare eventuali tristezze stagionali tipiche delle festività reintegrando la quota fisiologia di buonumore.
Effetti collaterali
La morale conclusiva di Grisham potrebbe non avere effetto su soggetti che già in passato hanno mostrato episodi di ipersensibilità al principio attivo delle feste e a tutti i suoi eccipienti. Nei casi più gravi potrebbe anche manifestarsi la decisione di saltare il Natale, fare le valigie e scappare in qualche località esotica dove niente ricordi la festa (vana illusione perché anche ai Caraibi c’è il rischio di trovare le palme decorate che, scusate, sono immensamente tristi oltre che kitsch). Se le disponibilità economiche non lo permettono, la fuga potrebbe essere sostituita dalla scelta di chiudersi in casa fingendo di essere partiti. Secondo gli studi condotti, però, nessuna di queste opzioni garantisce una copertura antibiotica da rimpianti e sensi di colpa causati dai mancati festeggiamenti.
Terapia cinematografica sostitutiva
La satira di John Grisham è arrivata al cinema in versione edulcorata in un film con Tim Allen (che in America è il re Mida dei Christmas movie) e Jamie Lee Curtis. Leggero ma divertente, è perfetto per una serata spensierata da trascorrere sprofondati in poltrona con in piedi all’aria, magari dopo uno stressante pomeriggio passato a preparare addobbi, pacchetti e manicaretti.
Visto che l'ho nominato, per ragioni di salute (mentale e fisica) consiglio anche “La vita è meravigliosa”. È il più classico dei classici, il film di Natale per eccellenza, uno dei capolavori del cinema di tutti i tempi, diretto da Frank Capra nel 1946 con uno straordinario James Stewart. Storia sul Natale e sulla vita, favola dolce e amara, racconta la vicenda di un uomo che per tutta la vita si è sempre sacrificato, anteponendo i bisogni degli altri ai propri desideri. La vigilia di Natale, in preda a una crisi di sconforto dovuto alla somma delle sue frustrazioni, decide di suicidarsi. Ma in suo aiuto interviene un angelo in rodaggio che gli mostra come sarebbe stato il mondo senza di lui. Il film è ideale per riflettere su come sarebbe il Natale senza di voi qualora decideste di partire per la famosa crociera. “La vita è meravigliosa” è un film perfetto, commovente, divertente, tragico, romantico, tenero e amaro proprio come Natale che può essere allo stesso tempo il giorno più crudele e dolce.
Un paio di consigli
A proposito di angeli anticonvenzionali, se volete una lettura natalizia divertente e cattivella quanto basta, prescrivo al volo “Uno stupido angelo. Storia commovente di un Natale di terrore” di Christopher Moore. Avrete di che ridere con lo scompiglio che il tonto arcangelo Raziel porta alla festa di Natale di una tranquilla cittadina.
Se anche il vostro si preannuncia un commovente Natale di terrore, i romanzi di John Grisham potrebbero essere un rimedio efficace per compensare le eventuali tensioni familiari con la tensione di ottimi thriller. Tenendo presente che quasi tutti i suoi best seller, da “Il Socio” a “Il rapporto Pelican”, da “Il Cliente” a “L’uomo della pioggia” possono essere assunti anche per via cinematografica (si tratta di trasposizioni d’autore firmate da registi di mestiere come Sydney Pollack, Alan J. Pakula, Joel Schumacher e Francis Ford Coppola), si rivelano utili nel trattamento dei postumi da bagordi natalizi grazie alla loro capacità di riscuotere, con abbondanti scariche di adrenalina, dal torpore delle feste. Potrebbe essere una buona idea iniziare i piccoli lettori ai piaceri della logica e dell’investigazione somministrandogli sotto forma di regalo natalizio la serie di romanzi noir che Grisham ha scritto appositamente per i ragazzi. Con “La prima indagine di Theodore Boone” il re (Mida) dei legai thriller si è concesso un’altra vacanza dalla sua tradizionale produzione, questa volta formulando un thriller con protagonista un tredicenne che sogna di fare l’avvocato (nel frattempo fornisce consulenze legali ai suoi compagni), che si ritrova coinvolto nel processo del secolo. Linguaggio immediato e trama intrigante per il primo di una serie di libri con protagonista Theodore che si rivelano, come tutti i gialli, un rimedio utile nei ragazzi in fase di crescita per stimolarne l’attività cerebrale impegnandoli nella risoluzione di intricati casi (attività che gli tornerà utile nella vita).

Commenti

Avendo letto (quasi) tutti i libri di Grisham, ma non “Fuga dal Natale”, ed essendo, come sapete, cattivissimo, andrò a riproporvi la trama del libro per ragazzi, che considero comunque un’utile lettura per grandi e piccini.
John Grisham “La prima indagine di Theodore Boone” Repubblica Noir Junior 1 euro 6,90
[trama scritta il 27 giugno 2016]
Non è il primo libro di questa collana che leggo, e devo dire che, pur con alti e bassi, ne ho letti di migliori. Sia della collana che di Grisham. Certo, è stato fatto uscire come primo per attirare pubblico dalle consuete strategie di marketing. Pur essendo un libro discreto, non ha però le solite attrattive dei libri di Grisham. Un buon racconto, buoni spunti legali (che di certo non possono mancare in uno dei maestri del genere), ed anche un mix capace di attrare i ragazzi alla lettura. Tuttavia rimane irrisolto nel finale, che arriva sì ad uno scioglimento della trama, ma non alla sua completa conclusione. Come se ci si aspettasse subito dei seguiti. Cosa avvenuta puntualmente, tant’è che dal 2010 l’autore ha fatto uscire un libro all’anno dedicato alle peripezie di questo tredicenne in un certo qual modo figlio d’arte: padre avvocato immobiliarista e madre avvocato divorzista. C’è anche un battitore libero, zio Ike, avvocato radiato dall’albo per qualcosa che, ad ora, rimane un po’ avvolto nelle nebbie del mistero. Theo (cosi viene chiamato sempre il “giovane avvocato”) ha anche una grande amica, April, sicuramente innamorata di lui (con la passione dei tredicenni), ma che ovviamente Theo sembra ignorare attratto com’è da Hallie la ragazza più carina della scuola. Cui risolve un piccolo dilemma, e che gli fa subito gli occhi dolci. Perché. Imbevuto com’è delle dottrine familiari, Theo è già un piccolo avvocato, offrendosi come consulente legale sia per i compagni di scuola sia per la segretaria del preside. Riesce così a far evitare uno sfratto, suggerendo di dichiarare bancarotta (potenza delle legislazioni d’oltre oceano). Oppure a svolgere indagine e modalità di avvicinamento al tribunale degli Animali, in modo da recuperare un cane sorpreso senza guinzaglio e trattato da randagio (cosa che ovviamente non è, essendo solo sfuggito di mano). Nella solita routine regolata dalle tabelle di marcia della madre (il martedì si fa questo, il mercoledì tutti al ristorante cinese), Theo trova il modo anche di frequentare assiduamente il Palazzo di Giustizia della fittizia cittadina di Strattenburg, in particolare andando spesso a trovare il giudice Henry Gantry, figura di legislatore integerrimo che Theo prende ad esempio quando pensa di fare il giudice invece che l’avvocato (e non a caso ha un cane di nome “Giudice”). Qui, entriamo nel vivo della famosa prima indagine, come dice il titolo italiano (mentre in inglese si riporta solo il termine “ragazzo avvocato”). Perché Gantry presiede il processo intento ad un golfista, Peter Duffy, accusato dell’omicidio della moglie, morta per strangolamento in uno che sembra un tentativo di rapina andato a male (scompaiono infatti alcuni gioielli dalla villa lussuosa dove abitano i due immersa nel verde che contorna il magnifico campo da golf della cittadina). Non si riesce a trovare prove convincenti contro Duffy, che sembra avviato ad un’assoluzione per mancanza di prove. Ma Theo finisce ben dentro il processo, all’improvviso. Julio, un immigrato regolare che lui aiuta in algebra e che frequenta la sua stessa scuola, gli confessa che suo cugino ha visto tutto. Lavora in nero al campo da golf, ed ha visto chi ha ucciso la signora Duffy. C’è però un problema: Roberto è immigrato clandestinamente, quindi se si presenta alla polizia dovrebbe essere rispedito immediatamente a El Salvador. Qui la situazione si incarta un po’, e sarà il giudice Gantry a trovare una soluzione. Per poi lasciarci tutti un po’ sospesi. Non vi dico né come né perché, ma la fine è la parte che meno mi è piaciuta. Non è, e non poteva essere, il Grisham del “Rapporto Pelican” (che ricordo soprattutto per il film con Julia Roberts, ovvio), ma c’è il messaggio positivo che ci si aspetta di poter dare ai ragazzi: bisogna avere fiducia nella giustizia 8e non è poco, di questi tempi). Sono d’accordo anche con chi ha trovato degno di nota il rapporto di Theo con i suoi compagni di scuola, sempre di aiuto e mai di prevaricazione. Meno convincente è la vita familiare di questa famiglia che, se non fosse per Theo, sembrerebbe più una “Mulino Bianco” con Banderas. Alla fine, una prova dignitosa di un autore che sa usare molte frecce al suo arco polifonico.
“Aveva scelto … anni prima e restava fedele alla squadra con una testardaggine che veniva messe alla prova per tutto il campionato.” (38)

Finalino

Non torno su queste righe a celebrare Natale e festività, auguro solo un sereno nuovo 2018!

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