domenica 10 dicembre 2017

Ferrante e le altre - 10 dicembre 2017

Una doppia Elena Ferrante d’annata, recuperata dopo aver letto altro, che tuttavia continua a non convincermi sino in fondo. L’accompagnano l’italo-armena Arslan con una nuova e poco avvincente puntata della saga familiare ed una più interessante, anche se non eccelsa Gamberale, con uno dei suoi classici romanzi tra il racconto ed il lettino della psicologa. Una settimana di donne, purtroppo ancora poco sotto la sufficienza.
Chiara Gamberale “Per dieci minuti” Feltrinelli euro 9,90 (in realtà, scontato a 4,95 euro)
[A: 02/05/2017 – I: 14/07/2017 – T: 19/07/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187; anno 2013]
Quasi un metalibro, che mi ha accompagnato nella calda settimana omanita. Speravo in un romanzo più caldo, consono all’ambiente, e più rilassante. In realtà non è stato né l’uno né l’altro, eppur tuttavia, una lettura che ha avuto alcuni momenti di interesse. Diciamo soprattutto nella parte iniziale. Chiara è sempre stata attenta ai problemi psicologici dei suoi personaggi, tanto che rimando sempre a quel libro piccolo ma illuminante le mie personali esperienze nel campo che è stato “La zona cieca”. Anche qui, il suo personaggio, forse non a caso omonimo, ha di fronte una psicoterapeuta. Dalla quale va per affrontare una perdita, e la conseguente consapevolezza di aver fallito. La perdita è quella del suo matrimonio, quando il suo lui la lascia con una telefonata durante un viaggio di lavoro. Poco dopo, anche il lavoro, per il quale si era trasferita in un’altra città, le viene tolto. E Chiara si trova ad essere per la prima volta sola, in una nuova città, che non conosce bene, e senza lavoro. Senza punti di riferimento. Mi sembra il minimo che la vita vada in pezzi. Dopo varie sedute pregresse, che avvengono prima dell’inizio del libro, la psicoterapeuta le domanda se è disposta a fare un gioco, che riprende il pensiero pedagogico di Rudolf Steiner: per dieci minuti al giorno, per un mese dovrà fare una cosa mai fatta prima. L’obiettivo è quello di uscire dai classici schemi e combattere la paura. E Chiara non si tira indietro, decide di giocare, dopo tutto quello che sta passando le sembra una cosa semplice da fare. Nessuna azione eccezionale le viene chiesta, solo di sperimentare quelle che per lei sono delle novità, come cucinare i pancake, ballare l’hip-hop, mettersi uno smalto sgargiante, camminare di spalle per la città, ascoltare i problemi di sua madre; azioni semplici, ma che, poco alla volta, l’aiutano a cambiare sguardo sul mondo che la circonda e a capire che ricominciare è necessario. E per ricominciare, giocando in questo modo bizzarro, ogni volta si mette in discussione, prova ad essere meno egoista, prova ad aprirsi, cerca di capire di più sé stessa. Aprirsi significa anche condividere il proprio dolore, non negarlo. Non si vorrebbe mai provarlo, ma se c’è, se lo si affronta, può portarci qualcosa, può arricchirci. Affrontando i suoi dieci minuti altri, l’autrice ci fa scoprire anche chi sia, ora, Chiara. Come si sia sempre affidato al marito che si occupava di lei, in tutto. Senza, la sua vita non c’è più. Un momento illuminante del percorso e del suo scopo, lo abbiamo quando Chiara chiede alla psicoterapeuta, accettando il gioco: “Alla fine che cos si vince? Riavrò la mia vita indietro?” Ovvio che non ottiene risposta. Ovvio (per noi che capiamo i meccanismi) è che se Chiara gioca bene le sue carte non avrà indietro la “sua” vita, ma una “nuova” vita. Perché nei suoi dieci minuti privati, pian piano, capisce che sta passando dal “noi” che fino ad ora l’aveva bloccata, ad un semplice, banale, fortissimo “io”. E solo dopo aver finalmente sperimentato l’io Chiara riesce a pensare di nuovo al noi. Grazie a tutte le nuove esperienze, agli esperimenti provati potrà finalmente dire un grande no e un grande sì: con sé stessa scopre anche gli altri. Anche se non vi dico che no e che si siano. La capacità della Gamberale è anche di far seguire alla sua scrittura il percorso di Chiara. All’inizio, quando è confusa e spaesata, la scrittura è nervosa e spezzettata. Poi si trasforma in una narrazione calma e consapevole. Tuttavia, ed è questo il motivo che ci fermiamo a “soli” tre librini è anche una scrittura che fatica a coinvolgere il lettore. Se ne legge, si capisce gli accadimenti, ma non si diventa mai partecipi del romanzo. Io lettore non mi sento Chiara che cammina di spalle (anche se ricordo, e con vera gioia, quando facevamo il gioco dei ciechi, con Luisa, con Rosa, con Cristina). Questa scrittura ondivaga, ha fatto balenare l’idea che l’autrice abbia raccolto brani di suoi mini-racconti e li abbia cuciti una volta trovata l’idea forte dei “dieci minuti”. Non sono talmente abile nel decifrare le trame altrui da poter dare una risposta certa. Noto quello che c’è, non quello che ci poteva essere e non c’è (una maggiore enfasi nel futuro di Chiara, per me, ad esempio). E sono contento di averne letto.
“Purtroppo e per fortuna, bisogna essere in due a voler essere in due.” (99)
“Gli altri, quando fanno qualcosa per noi, ci danno o … ci tolgono un’occasione?” (113)
Elena Ferrante “L’amore molesto” E/O euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 04/08/2017 – T: 07/08/2017] - && --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171; anno 1999]
Mi piace discretamente Elena Ferrante, e, con calma e senza fretta, ne leggo e ne leggerò. Mi piace soprattutto perché possiamo dedicarci alla scrittura, ai contenuti, ai messaggi, senza nessun “sovra testo” ingombrante. Ufficialmente, nulla sappiamo di lei. Personalmente, vorrei continuare a non saperne nulla. Così posso parlarne bene o male a seconda delle emozioni che mi trasmettono le sue parole. Per esempio in questo suo primo testo, ci sono cose che mi hanno colpito, preso, ma ce ne sono anche altre che mi hanno respinto, in cui non sono riuscito ad entrare. Alla fine, seppur letto, non mi ha fatto fare quei balzi sulla sedia che tutti i commenti sono strasicuri che faccia. Così come sono strasicuri della bellezza del film che ne trasse Mario Martone. Non parlo del film, ma del libro sì. Un libro che, sicuramente, inizia in modo che sia difficile staccarsene prima di un po’. Ricordate le prime righe? “Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno”. Da queste righe parte tutto il rovello e l’indagine di Delia sulla figura della madre. Una figura complessa, così come complessa è quella del padre. Entrambe talmente “forti” che Delia appena può e riesce, fugge da Napoli, dal suo contesto, andando a vivere sola, a Roma, con quel poco che guadagna del suo lavoro. Ricevendo saltuariamente, non sempre gradite, le visite della madre. Come questa, per il suo compleanno, che però non arriva, essendosi Amalia, fermata a metà strada. Dalia accumula indizi, collega ricordi, ci a entrare ed uscire dalla sua giovinezza, dalla strana vita familiare. Ma chi era stata Amalia? Una femme fatale o una persona succube? Dalia, tra reale ed irreale, ritrova le fila della sua memoria, ritrova un’Amalia per certi verti sconosciuta, oggetto dell’ossessione d’un marito violento e sospettoso, che le imponeva di chinarsi ai suoi ordini, di non ridere in presenza d’altri uomini, di non vestirsi con cura, di non truccarsi, di dimenticare d’essere una donna, una moglie, una madre. Una donna soffocata, che ha vissuto in punta di piedi col terrore di insospettire un marito opprimente e violento. Una donna che ad un certo punto, ma per vero o per scherzo non si sa, diventa l’oggetto di un amore molesto, delle attenzioni del signor Caserta, amico di famiglia distinto e carezzevole che continuerà a tallonarla negli anni fino alla vecchiaia, quando il capriccio si sarà trasformato in una insana mitomania, in ossessione. Dalia ricorda quando andava al cinema con la madre: ilare e scherzosa con tutti quando erano da sole, avvinghiata teneramente al marito-despota quando c’era. Quale delle due era Amelia? Forse, e lo scopriremo nella nostra testa solo ad un certo punto, era tutte e due. E lo era nelle immagini che Dalia proietta nella sua mente, proprio come in un film. Tanto che ci si domanda quanto Caserta abbia fatto a suo tempo la corte ad Amelia, e quanto ne sia venuto fuori per la gelosia innata che i bambini hanno verso i loro genitori. Terribili ed illuminanti alcuni passaggi: il funerale, con la perdita mestruale che sostituisce il pianto, il ritorno alla casa di Amelia. Dove vede i suoi vestiti: quelli vecchi, rammendati dalla Singer immancabile, e quelli nuovi, sexy (ma ricevuti da chi? Comperati o regalati? Indagine nell’indagine che porta Delia anche a sordidi incontri con il venditore di reggiseni). Si segue quasi un percorso di identificazione, come se Delia mettendosi il vestito di Amelia, si cali anche nel personaggio si Amelia. Pensi con la testa di Amelia, e con i suoi occhi percorre la sua città amata-odiata. Le tornano in mente le parole dell’infanzia. Le tornano negli occhi le cose viste dalla madre, con gli occhi della madre. Delia che voleva diventare diversa, che non voleva assomigliare a quella madre di cui aveva sempre avuto paura dell’abbandono, si troverà alla fine a guardare una foto della madre, scoprendo molte più uguaglianze che diversità. Ritengo, a questo punto, che dobbiate, anche se non siete d’accordo, leggere il libro. Io posso solo finire palesando le mie sempre presenti difficoltà quando il romanzo, i romanzi che leggo, veleggiano sul fare onirico, quando non si percepisce più il confine tra il vissuto ed il sognato. Come sono in difficoltà a riconoscere Napoli nei pochi tratti che ne dà la Ferrante. Una Napoli oscena ed urlata che, fortunatamente dico, non conosco. A questo aggiungiamo altri elementi poco convincenti (forse proprio perché siamo nella fase REM), del tipo la mancanza di una qualsivoglia indagine se Amalia si sia uccisa o sia stata uccisa, e sul perché e sul per come dei fatti. In ultimo, lo stesso personaggio di Delia non mi avvicina, non mi accoglie, lo trovo antipatico e sgraziato. Forse è voluto, ma come sapete io ragiono di pancia, oltre che di testa. E qui la pancia non mi porta oltre una quasi sufficienza libresca. Come sapete, e vedete più avanti, ho letto e lessi altro, ed il mio giudizio generale riprende quello delle prime righe: non mi entusiasma, ma ne leggo.
Antonia Arslan “La strada di Smirne” BUR euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 12/05/2015 – I: 20/08/2017 – T: 23/08/2017] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286; anno 2009]
Torniamo, anche se solo con il pensiero, nelle terre anatoliche e nelle tormentate vicende degli anni Venti che laggiù si svolsero. L’archeologa nonché letterata Antonia Arslan (o forse ancora Arslanian?) continua a farci viaggiare in quell’epoca tormentata, anche se non ha più l’impatto emotivo de “La masseria delle allodole”. Che quasi quindici anni fa riaprì, con forza e partecipazione, una ferita che mai si chiuderà. Ricordo ancora, in una delle tante visite a Gerusalemme, uno scontro feroce tra armeni, ebrei e mussulmani, proprio in occasione di una ricorrenza del ricordo del genocidio armeno (era infatti un 25 aprile). Un triplice scontro, che la parte islamica fomentava non riconoscendo il genocidio e la parte ebrea perché era una manifestazione che si stava svolgendo di sabato. Poi, che ebrei e mussulmani si accapigliassero era comunque nelle cose del luogo. Ma questo riporta solo ai miei ricordi. Accesi dalla masseria, ed ora fomentati da questa strada per Izmir. Che anch’essa accende piacevoli momenti (e qualche riflessione). Momenti della mia ultima visita a Smirne, al lungomare, all’andamento lento delle giornate turche, ed alla piacevole compagnia. Pensieri che vanno ancora, stimolati dal ricordo di altre letture, ai quei giorni del 1922, ai modi ed ai momenti di affronto e non di confronto tra turchi e “resto del mondo”. Su cui torneremo, mentre ripasso le parole della scrittrice. Che questa volta si fanno leggere e meno graffianti. I parenti, quelli vicini, quelli stretti, sappiamo subito che sono bellamente riparati in Italia, dallo zio medico. Ed in qualche siparietto veneto ne seguiamo alcune gesta: la morte della madre, il collegio delle due maggiori in attesa di rifugiarsi in America, l’isolamento di Henriette che mai si riprenderà, rimanendo per sempre la “zia bambina”, la giovinezza che tutto cancella di Nubar. Ma vediamo anche i due figli del medico ormai italiano, il maggiore, ribelle e dedito all’arte, il minore, sempre docile, che nolente segue le orme mediche paterne. Nell’ultimo libro della trilogia, penso, che vedremo meglio l’intreccio di queste vicende, ed il loro collegamento con la narratrice dei fatti (che ricordo, nascerà a Padova nel 1938, cioè 16 anni dopo i fatti di questo secondo volume). L’altra parte del libro, che vuole essere dolente, cerca invece di darci il senso e le vicende che si svolgono nella contesa città di Smirne. Dove converge la “truppa” degli amici dei nostri armeni, la greca Ismene, il prete Isacco, l’arabo Nazim, e tutti quei bambini abbandonati che i tre sono riusciti in qualche modo a preservare dallo sterminio. Tuttavia la narrazione non decolla, non ci sono “eroi” cui attaccare il nostro cuore, per farlo battere all’unisono. Ne vediamo gli sforzi per ricreare un ambiente normale in una situazione che normale non è, e non sarà per molto tempo. L’aiuto che sparuti benefattori (o meglio benefattrici) danno loro. L’infermiera tedesca, la signorina americana, e pochi altri. Vediamo anche la lotta e l’angoscia quotidiana per tirarsi fuori dal brutto passato. Gli sforzi di Isacco con il suo coro. Nazim che prima rimane ad Aleppo, ma non resiste al richiamo dell’amicizia, prima cercando di aiutare il cugino Aris a riprendere la masseria (sforzo destinato ad essere ben presto vanificato). Poi nel cercare di salvare il salvabile degli orfani di Ismene. Sforzi che né lui, né Ismene, né Isacco riusciranno a portare a compimento in maniera positiva. Qualcuno (troppi forse) non riusciranno nell’intento. Ma questa narrazione non suscita empatia. D’altra parte, come la stessa Arslan ci dice, il suo è un narrare da romanziera e non da storica. Ma a noi lettori mancano le premesse e le conseguenze dei fatti smirnioti. Sappiamo, dalle fonti altre, che in realtà, dal 1919 al 1922 si svolge una guerra greco-turca come trascinamento della Prima Guerra Mondiale. Con i Greci che rivendicano il territorio anatolico, in contrasto con le altre potenze (in particolare l’Italia). E con i turchi, che, dal profondo est asiatico, si ricostruiscono un’ossatura sotto la spinta nazionalista di Mustafa Kemal, il futuro Ataturk, che, per i turchi, diventerà “Padre della patria”. Kemal, lavorando di fino a livello diplomatico, riesce ad isolare i greci, a sconfiggerli militarmente, ed a dare il via ad un’ultima fase di genocidio, in cui sono coinvolti sia i pochi armeni rimasti, sia i greci di Smirne, che saranno costretti a rifugiarsi (quelli che sopravvivono) nella vicina patria. Ma tutta la fase “politica” non viene sfiorata dal romanzo, e ce ne dispiace. Un romanzo che rimane decisamente al di sotto delle aspettative, anche se apprezzo fino in fondo il tentativo personale di Antonia Arslan di ritrovare le proprie radici, e di dare una voce al bistrattato popolo armeno. Ora che anche papa Francesco ha unito la sua voce nel centenario dei massacri armeni. Consiglio a chi ne ha voglia di cercare il poco noto e forse mai ripubblicato libro “Il martirio di un popolo” di Henry Barby pubblicato a Milano negli anni Trenta.
Elena Ferrante “La figlia oscura” E/O euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,08 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 24/08/2017 – T: 26/08/2017] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 141; anno 2006]
Sicuramente meglio del precedente e tanto acclamato libro, non riesce tuttavia a convincermi fino in fondo. Non mi interessa anche qui, come ho già detto sopra e altrove, entrare nel dibattito su chi sia “Elena Ferrante”. È una persona che sa usare la penna e le parole, sa comunicare sensazioni, sa descrivere stati d’animo e moti del pensiero. E tanto basta per poterne leggere e parlare. Inoltre, rende per me molto bene momenti ed attitudini dell’universo femminile, che, a me uomo, ritornano e consentono di imbastire riflessioni. Questo intanto è il terzo libro edito, l’ultimo prima dell’inizio della grande saga de “L’amica geniale”. Un libro in cui si intravedono alcune tematiche che poi saranno presente nella grande saga napoletana. A partire dai nomi. La protagonista, l’io-narrante, si chiama Leda. La bimba, al centro della vicenda senza essere centrale, si chiama Elena detta Lenù. Già questo ci fa capire come poi l’amica sia un punto di collasso di diverse e sovrapposte tematiche di chi ha preso in mano la penna per scriverne. Come alcuni altri grandi temi che sottendono tutta la vicenda: il rapporto-conflitto tra una Napoli bassa, paesana, a volte pesante e volgare, e chi da questa Napoli tenta di tirarsene fuori, con onestà e caparbietà. Il rapporto tra donne, che fanno scelte diverse, che (forse) si confrontano (o forse no). La ricerca della propria via nel mondo. Il rapporto con i figli (ma soprattutto con le figlie). Un rapporto che a me, ora, sta a cuore, vivendo un difficile momento di confronto con la malattia di mia madre. Ma questo è tema di altri discorsi. Qui abbiamo Leda che in un profluvio di 150 pagine ci fa immergere nel suo mondo e nelle sue contraddizioni. Tra salti temporali (ma solo nel pensiero della narratrice, per fortuna) e momenti di comprensione (anche se a volte annegati in momenti di buio assoluto), vediamo Leda ed il suo rapporto con la madre. Non risolto, forse affrontato male. Una madre popolare, che usa tutti i ricatti del cuore per tenere al loro posto i figli. E soprattutto Leda. Che non ne accetta i ricatti, che va a studiare a Firenze, si laurea, si sposa. Presa dal vortice della vita, fa una prima figlia, voluta, coccolata nella pancia per nove mesi. Bianca. Poi, intellettualmente coinvolta dal marito nella vita quotidiana, nelle prospettive a breve, decide di farne una seconda. Non voluta, non amata (almeno da subito), che farà scoppiare tutte le contraddizioni che Bianca, sola, aveva nascosta. Ecco allora Marta. Ecco Leda che per seguire le figlie, e dar spazio alla carriera del marito, si nega il diritto di avere una propria via, si dilania nelle contraddizioni del quotidiano. Per cinque, lunghissimi, anni. Poi scoppia, trova qualcuno che crede nelle sue potenzialità, e fugge, lasciando Bianca, Marta e il marito Gianni. Va a lavorare in una prestigiosa università inglese, vive un’intensa storia d’amore, riesce ad occupare un suo ruolo nel mondo accademico. Ma dopo tre anni si accorge che comunque qualcosa manca. Manca il sorriso delle figlie sopra il tavolo, e tante piccole, quotidiane follie. Torna. Ma allora sarà il marito a partire, a trasferirsi per lavoro in Canada. Ora, a 48 anni, si ritrova ancora una volta sola, che Bianca e Marta decidono di proseguire i loro studi (scientifici come il padre e non letterari come Leda) in Canada. Tuttavia, pur se non risolto, il rapporto madre-figlie migliora. Ognuno ha un suo ruolo, e anche se Leda può soffrire di momenti d’ansia, accetta che ciascuno di loro abbia la propria strada. Certo si vogliono bene, si cercano, i legami (un tempo forse spezzati) sono fragilmente ricostruiti. E se Leda non telefona, sarà Marta a farlo. In tutto questo coacervo di sensazioni, che già hanno un lor peso per costruire la storia, si inzeppa la vicenda parallela dell’incontro al mare con la giovane Nina e la figlia di tre anni Lenù. Popolani, sanguigni (soprattutto il marito e la cognata), ma, in particolare Nina, con qualche sensazioni di star sprecando la propria vita. Ne esce un confronto a distanza, mai risolto direttamente, perché mai Leda riesce ad essere diretta. Non lo era con le figlie, difficile esserlo con estranei. Nina ammira l’indipendenza e la volontà di Leda (almeno da lontano). Ma è sommersa dal non saper gestire l’impossibile Lenù. E soprattutto la perdita della bambola della piccola. Che inavvertitamente proprio Leda le sottrae. Non riuscendo, per pagine e pagine, a trovare il modo di restituirla. O di sbarazzarsene. La bambola diventa quasi un simbolo, un totem che permette a Leda di ricostruire tutto quello che vi ho narrato in modo continuo e non con i salti del libro. Ma quando Nina chiede aiuto a Leda per sue faccende private (che vi leggerete perché non posso certo riscrivere il libro), Leda trova il modo peggiore per chiudere questo strano rapporto. E restituendo la bambola distrugge con un solo gesto tutti i castelli di Nina, tutte le sue speranze (mal risposte, ovvio, in una persona che, intelligente e bella, è tuttavia fragile ed irrisolta). Spaccato di vita, finisce come finiscono i racconti lunghi di Alice Munro. Senza una vera fine, lasciando l’agio di continuare le storie nella nostra testa. Ma lasciandoci anche la sensazione che chi scrive ha scritto tutto quello che sentiva di poter scrivere. E seppur riprendendo tutti i temi che ho sopra accennato, seppur facendo in modo che ci si possa ragionare sopra, non posso non sentire una mancanza. Una mancanza di forza, di ragionamento. Ovvio che tutti siamo imperfetti, e Leda non può sottrarsi alle sue imperfezioni. Ma io soffro quando vedo vie d’uscita positive che l’eroe del libro si rifiuta ostinatamente di percorrere. Mio limite certo, ma anche io, per quanto quasi, non sono veramente perfetto.
“Le cose più difficili da raccontare sono quelle che noi stessi non riusciamo a capire.” (8)
Seconda trama del mese, ed ecco che vi allego un tema d’attualità (mia) anche se non mi piace il modo in cui viene trattato.
Mentre non posso che salutarvi in modo felice dopo alcuni bellissimi giorni passati a Gerusalemme. Giorni difficili per una città complessa che va vista e rivista negli anni, fornendoci sempre spunti interessanti. Anche ora, al centro di qualcosa che forse prescinde dalla città stessa. Ma non è questo il luogo di parlarne.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

DICEMBRE 2017
Anche questo mese la ventura dei libri ci porta vicini a situazioni che vorremmo al più presto superare.

OSPEDALE, ESSERE RICOVERATI IN

Quando siamo in ospedale vorremmo un angelo custode che si occupasse di noi, con dolcezza – ma anche poter fuggire in un luogo selvaggio e avventuroso. Per questo vi proponiamo due serie di libri: “angeli” e “avventure”.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE IN OSPEDALE
Don DeLillo                    “Underworld”
Cecil Scott Forester        “La regina d’Africa”
David Grossman             “Che tu sia per me il coltello”
Jack Kerouac                 “I sotterranei”
Barbara Kingsolver          “L’albero dei fagioli”
Jack London                   “Il richiamo della foresta”
Daniel Pennac                “Il paradiso degli orchi”
Jo Soares                      “L’uomo che uccise Getulio Vargas”
Osvaldo Soriano             “Futbol – Pensare con i piedi”
Bruno Traven                 “Il tesoro della Sierra Madre”

Bugiardino

Non so se per fortuna o casualità, di questi dieci libri ne ho letti solo quattro, anche se di un quinto ho visto il film. Anzi di film ne ho visti due, entrambi con il mio grande Humphrey. Parlo ovviamente de “Il tesoro della Sierra Madre” e de “La regina d’Africa”. Inoltre, anni luce fa, lessi e rilessi le avventure di London. Rimangono un lontano Pennac (ben letto più di dieci anni or sono, al tempo in cui le mie trame spesso si riducevano a poche e scarne righe di commento) ed un abbastanza recente Soriano dedicato alla palla rotonda.
Daniel Pennac Il paradiso degli orchi Feltrinelli 7
[trama pubblicata il 25 dicembre 2006]
Uno dei fondamenti della saga del capro espiatorio. Chi lo ha letto (vero Luana?), lo rilegga. Chi non lo ha letto lo DEVE leggere. Chi può, lo legga in francese, meditando sull’equazione “tradurre = tradire”.
Osvaldo Soriano “Pensare con i piedi” Repubblica – Pallone euro 6,90
[trama pubblicata il 22 novembre 2015]
Due valutazioni per questo libro di racconti, che non è riuscito completamente, anche se mi riporta sulla pagina del grande argentino, cui ho voluto tanto bene per una serie lunga di motivi, e che sono ormai 18 anni che ci ha inconsolabilmente lasciati. La votazione bassa è sul complesso del lavoro, ma anche sulle scelte editoriali che non condivido. Questi racconti furono pubblicati anni fa da Einaudi con il loro titolo originario (“I racconti degli anni felici”), e con questo titolo da me inserito nelle ricerche future, aspettandone una versione economica che quando ne uscì traccia su Repubblica - Libri costava ben 16 euro. I racconti derivavano da tre mini raccolte: “Nel nome del padre”, “L’altra storia” e “Pensare con i piedi”. Ora, sapendo che Soriano era un grande appassionati di calcio (e tra l’altro tifoso del San Lorenzo de Almagro, come papa Francesco) i curatori di questa collana di Repubblica che continua a convincermi poco ne hanno fortemente voluto l’inserimento, utilizzando l’ultimo come titolo “da richiamo”. Ed è vero che in quel pezzo di raccolta ci sono 6 brani dedicati al calcio, ma sono tutto altro rispetto all’equilibrio complessivo del libro. Soprattutto a quella bellissima prima parte, dove in 17 piccoli elzeviri Osvaldo ricorda e ci ripropone la storia di Valentin Alberto Soriano, suo padre, ispettore delle acque nell’Argentina del Sud. Visionario e vagabondo. È seguendo il padre, che l’azienda delle acque mando in giro per venti anni in molta Argentina, ed in particolare in molta Patagonia, che si forma il nostro Osvaldo. Che incontra personaggi strani e tristi, che popoleranno la sua opera migliore (“Un’ombra ben presto sarai”). Ed è in questi bozzetti, non racconti ma ricordi, che Soriano riesce a dipingere la figura paterna, dato che è sempre difficile fare i conti e conciliarsi con qualcuno di così preponderante nella propria vita. E riesce anche a darci un quadro, fuggevole e pur tuttavia intenso, dell’Argentina degli anni Cinquanta. Di quella Argentina lontano dai facili bagliori di Buenos Aires. Lì nel profondo Sud, povero e desolato, sono lontani i miti patriottici, è lontana l’agiatezza possibile. Si lotta per l’acqua, si spera nel petrolio. Si incontra gente, si parla. Lì Osvaldo nasce come seguace di Peron, come molti, tanti, in quegli anni, per il populismo di maniera che il dittatore evocava. Lì Osvaldo diventa un fervente idolatra di Evita, la “Santa Madre” degli Argentini. E come non andare a quell’intenso film di ormai venti anni fa, con Madonna nella parte di Eva Duarte (senza dimenticare Banderas come Ernesto Guevara). Un’immagine su tutti, la multa che il padre non riesce a dare ad un prepotente che consuma troppa acqua, ed il padre con la fionda di Osvaldo, gli rompe il vero di una finestra. Ecco, bastano dei tocchi così per dare senso e misura ad un rapporto che, come molti, troppi, non si è riusciti in vita a trasformare in dialogo. La seconda parte, invece, non mi ha preso quasi per nulla, troppo legata alla storia argentina, ai suoi miti, a cose che per loro sono importanti e vitali, ma che non conosciamo da qui, ed a volte ci sembrano sterili. Gli avvenimenti del 1810, San Martin ed altro. Peccato anche quel refuso di stampa che fa morire il rivoluzionario della Primera Junta nel 1881 invece che nel 1811! Fin a quel piccolo “pastiche” su Robespierre poco intrigante. Si risale con l’ultima parte, quella dedicata alla palla rotonda. Al bellissimo rigore più lungo del mondo, fischiato all’ultimo minuto di una partita intensa, sospesa per intemperanze, ripresa in quell’ultimo minuto una settimana dopo. E se noi si ricorda quel “Prima del calcio di rigore” di Peter Handke, qui, in poche righe, Soriano ci riporta all’ansia dei tifosi, alla paura del portiere, ed a tutto quello che si condensa in pochi minuti in un rigore, dilatandolo in una lunghissima settimana. O il lungo viaggio della squadretta di giovani locali che va a sfidare la guarnigione inglese di stanza alle Malvinas, senza mai riuscire ad arrivarci per una serie infinita di intoppi. O la figura del mister Pellegrini, duro, implacabile, che avrebbe potuto fare di lui un calciatore, che si inventava ruoli e situazioni prima che la figura dell’allenatore diventasse un emblema quasi totemico. Nonché la figura del figlio di Butch Cassidy (che sappiamo fuggì in Patagonia insieme a Sundance Kid, come se ne trova traccia nelle belle pagine patagoniche di Chatwin o cilene di Sepúlveda), rimasto lì in Argentina e diventato cow-boy ed arbitro per necessità di vita. Una chicca che lui stesso racconta di aver buttato di getto dopo aver visto palleggiare Maradona a Trigoria. Sono scritti, questi, che pubblicò sparsi a suo tempo su “Il Manifesto”, servendo come antidoto ad uno sport che già cominciava a drogarsi e che ormai è diventato un qualcosa di alieno, rispetto alla purezza filosofica delle partite del secolo scorso. Ho sempre voluto bene a questo tristo argentino, scrittore, esule e poi a quarant’anni finalmente di ritorno nell’amata Baires. Hasta siempre, Osvaldo!

Conclusioni

Non so dirvi se possono aiutare gli allettati ospedalieri, ma ne dubito alquanto. Non mi convince leggere del capro espiatorio mentre vengo trattato rudemente (anche se in modo corretto) da energici infermieri. Né mi viene da mitigare dolore e pene pensare alla palla rotonda, ed alle sue odierne e poco convincenti evoluzioni. Forse rimangono solo evasioni su terre lontane, ma questa volta siamo su due binari diversi, care dottoresse.

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