Una doppia Elena Ferrante d’annata,
recuperata dopo aver letto altro, che tuttavia continua a non convincermi sino
in fondo. L’accompagnano l’italo-armena Arslan con una nuova e poco avvincente
puntata della saga familiare ed una più interessante, anche se non eccelsa Gamberale,
con uno dei suoi classici romanzi tra il racconto ed il lettino della
psicologa. Una settimana di donne, purtroppo ancora poco sotto la sufficienza.
Chiara Gamberale “Per dieci minuti” Feltrinelli euro 9,90 (in realtà,
scontato a 4,95 euro)
[A: 02/05/2017 – I: 14/07/2017 – T: 19/07/2017] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187;
anno 2013]
Quasi un metalibro,
che mi ha accompagnato nella calda settimana omanita. Speravo in un romanzo più
caldo, consono all’ambiente, e più rilassante. In realtà non è stato né l’uno
né l’altro, eppur tuttavia, una lettura che ha avuto alcuni momenti di
interesse. Diciamo soprattutto nella parte iniziale. Chiara è sempre stata
attenta ai problemi psicologici dei suoi personaggi, tanto che rimando sempre a
quel libro piccolo ma illuminante le mie personali esperienze nel campo che è
stato “La zona cieca”. Anche qui, il suo personaggio, forse non a caso omonimo,
ha di fronte una psicoterapeuta. Dalla quale va per affrontare una perdita, e
la conseguente consapevolezza di aver fallito. La perdita è quella del suo
matrimonio, quando il suo lui la lascia con una telefonata durante un
viaggio di lavoro. Poco dopo, anche il lavoro, per il quale si era trasferita
in un’altra città, le viene tolto. E Chiara si trova ad essere per la prima
volta sola, in una nuova città, che non conosce bene, e senza lavoro. Senza
punti di riferimento. Mi sembra il minimo che la vita vada in pezzi. Dopo varie
sedute pregresse, che avvengono prima dell’inizio del libro, la psicoterapeuta
le domanda se è disposta a fare un gioco, che riprende il pensiero pedagogico
di Rudolf Steiner: per dieci minuti al giorno, per un mese dovrà fare una cosa
mai fatta prima. L’obiettivo è quello di uscire dai classici schemi e
combattere la paura. E Chiara non si tira indietro, decide di giocare, dopo
tutto quello che sta passando le sembra una cosa semplice da fare. Nessuna
azione eccezionale le viene chiesta, solo di sperimentare quelle che per lei
sono delle novità, come cucinare i pancake, ballare l’hip-hop, mettersi uno
smalto sgargiante, camminare di spalle per la città, ascoltare i problemi di
sua madre; azioni semplici, ma che, poco alla volta, l’aiutano a cambiare
sguardo sul mondo che la circonda e a capire che ricominciare è necessario. E
per ricominciare, giocando in questo modo bizzarro, ogni volta si mette in
discussione, prova ad essere meno egoista, prova ad aprirsi, cerca di capire di
più sé stessa. Aprirsi significa anche condividere il proprio dolore, non
negarlo. Non si vorrebbe mai provarlo, ma se c’è, se lo si affronta, può
portarci qualcosa, può arricchirci. Affrontando i suoi dieci minuti altri, l’autrice
ci fa scoprire anche chi sia, ora, Chiara. Come si sia sempre affidato al
marito che si occupava di lei, in tutto. Senza, la sua vita non c’è più. Un
momento illuminante del percorso e del suo scopo, lo abbiamo quando Chiara
chiede alla psicoterapeuta, accettando il gioco: “Alla fine che cos si vince?
Riavrò la mia vita indietro?” Ovvio che non ottiene risposta. Ovvio (per noi
che capiamo i meccanismi) è che se Chiara gioca bene le sue carte non avrà
indietro la “sua” vita, ma una “nuova” vita. Perché nei suoi dieci minuti
privati, pian piano, capisce che sta passando dal “noi” che fino ad ora l’aveva
bloccata, ad un semplice, banale, fortissimo “io”. E solo dopo aver finalmente
sperimentato l’io Chiara riesce a pensare di nuovo al noi. Grazie a tutte le
nuove esperienze, agli esperimenti provati potrà finalmente dire un grande no e
un grande sì: con sé stessa scopre anche gli altri. Anche se non vi dico che no
e che si siano. La capacità della Gamberale è anche di far seguire alla sua
scrittura il percorso di Chiara. All’inizio, quando è confusa e spaesata, la
scrittura è nervosa e spezzettata. Poi si trasforma in una narrazione calma e
consapevole. Tuttavia, ed è questo il motivo che ci fermiamo a “soli” tre
librini è anche una scrittura che fatica a coinvolgere il lettore. Se ne legge,
si capisce gli accadimenti, ma non si diventa mai partecipi del romanzo. Io
lettore non mi sento Chiara che cammina di spalle (anche se ricordo, e con vera
gioia, quando facevamo il gioco dei ciechi, con Luisa, con Rosa, con Cristina).
Questa scrittura ondivaga, ha fatto balenare l’idea che l’autrice abbia
raccolto brani di suoi mini-racconti e li abbia cuciti una volta trovata l’idea
forte dei “dieci minuti”. Non sono talmente abile nel decifrare le trame altrui
da poter dare una risposta certa. Noto quello che c’è, non quello che ci poteva
essere e non c’è (una maggiore enfasi nel futuro di Chiara, per me, ad
esempio). E sono contento di averne letto.
“Purtroppo e per fortuna, bisogna essere in due a
voler essere in due.” (99)
“Gli altri, quando fanno qualcosa per noi, ci danno
o … ci tolgono un’occasione?” (113)
Elena Ferrante “L’amore molesto” E/O euro 9,90 (in realtà, scontato a
8,42 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 04/08/2017 – T: 07/08/2017] - &&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 171;
anno 1999]
Mi
piace discretamente Elena Ferrante, e, con calma e senza fretta, ne leggo e ne
leggerò. Mi piace soprattutto perché possiamo dedicarci alla scrittura, ai
contenuti, ai messaggi, senza nessun “sovra testo” ingombrante. Ufficialmente,
nulla sappiamo di lei. Personalmente, vorrei continuare a non saperne nulla.
Così posso parlarne bene o male a seconda delle emozioni che mi trasmettono le
sue parole. Per esempio in questo suo primo testo, ci sono cose che mi hanno
colpito, preso, ma ce ne sono anche altre che mi hanno respinto, in cui non
sono riuscito ad entrare. Alla fine, seppur letto, non mi ha fatto fare quei
balzi sulla sedia che tutti i commenti sono strasicuri che faccia. Così come
sono strasicuri della bellezza del film che ne trasse Mario Martone. Non parlo
del film, ma del libro sì. Un libro che, sicuramente, inizia in modo che sia
difficile staccarsene prima di un po’. Ricordate le prime righe? “Mia madre
annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di
fronte alla località che chiamano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno”.
Da queste righe parte tutto il rovello e l’indagine di Delia sulla figura della
madre. Una figura complessa, così come complessa è quella del padre. Entrambe
talmente “forti” che Delia appena può e riesce, fugge da Napoli, dal suo
contesto, andando a vivere sola, a Roma, con quel poco che guadagna del suo
lavoro. Ricevendo saltuariamente, non sempre gradite, le visite della madre.
Come questa, per il suo compleanno, che però non arriva, essendosi Amalia,
fermata a metà strada. Dalia accumula indizi, collega ricordi, ci a entrare ed
uscire dalla sua giovinezza, dalla strana vita familiare. Ma chi era stata
Amalia? Una femme fatale o una persona succube? Dalia, tra reale ed irreale,
ritrova le fila della sua memoria, ritrova un’Amalia per certi verti
sconosciuta, oggetto dell’ossessione d’un marito violento e sospettoso, che le
imponeva di chinarsi ai suoi ordini, di non ridere in presenza d’altri uomini,
di non vestirsi con cura, di non truccarsi, di dimenticare d’essere una donna,
una moglie, una madre. Una donna soffocata, che ha vissuto in punta di piedi
col terrore di insospettire un marito opprimente e violento. Una donna che ad
un certo punto, ma per vero o per scherzo non si sa, diventa l’oggetto di un
amore molesto, delle attenzioni del signor Caserta, amico di famiglia distinto
e carezzevole che continuerà a tallonarla negli anni fino alla vecchiaia,
quando il capriccio si sarà trasformato in una insana mitomania, in ossessione.
Dalia ricorda quando andava al cinema con la madre: ilare e scherzosa con tutti
quando erano da sole, avvinghiata teneramente al marito-despota quando c’era.
Quale delle due era Amelia? Forse, e lo scopriremo nella nostra testa solo ad
un certo punto, era tutte e due. E lo era nelle immagini che Dalia proietta
nella sua mente, proprio come in un film. Tanto che ci si domanda quanto
Caserta abbia fatto a suo tempo la corte ad Amelia, e quanto ne sia venuto
fuori per la gelosia innata che i bambini hanno verso i loro genitori.
Terribili ed illuminanti alcuni passaggi: il funerale, con la perdita mestruale
che sostituisce il pianto, il ritorno alla casa di Amelia. Dove vede i suoi
vestiti: quelli vecchi, rammendati dalla Singer immancabile, e quelli nuovi,
sexy (ma ricevuti da chi? Comperati o regalati? Indagine nell’indagine che
porta Delia anche a sordidi incontri con il venditore di reggiseni). Si segue
quasi un percorso di identificazione, come se Delia mettendosi il vestito di
Amelia, si cali anche nel personaggio si Amelia. Pensi con la testa di Amelia,
e con i suoi occhi percorre la sua città amata-odiata. Le tornano in mente le
parole dell’infanzia. Le tornano negli occhi le cose viste dalla madre, con gli
occhi della madre. Delia che voleva diventare diversa, che non voleva assomigliare
a quella madre di cui aveva sempre avuto paura dell’abbandono, si troverà alla
fine a guardare una foto della madre, scoprendo molte più uguaglianze che
diversità. Ritengo, a questo punto, che dobbiate, anche se non siete d’accordo,
leggere il libro. Io posso solo finire palesando le mie sempre presenti difficoltà
quando il romanzo, i romanzi che leggo, veleggiano sul fare onirico, quando non
si percepisce più il confine tra il vissuto ed il sognato. Come sono in
difficoltà a riconoscere Napoli nei pochi tratti che ne dà la Ferrante. Una
Napoli oscena ed urlata che, fortunatamente dico, non conosco. A questo
aggiungiamo altri elementi poco convincenti (forse proprio perché siamo nella
fase REM), del tipo la mancanza di una qualsivoglia indagine se Amalia si sia
uccisa o sia stata uccisa, e sul perché e sul per come dei fatti. In ultimo, lo
stesso personaggio di Delia non mi avvicina, non mi accoglie, lo trovo
antipatico e sgraziato. Forse è voluto, ma come sapete io ragiono di pancia,
oltre che di testa. E qui la pancia non mi porta oltre una quasi sufficienza
libresca. Come sapete, e vedete più avanti, ho letto e lessi altro, ed il mio
giudizio generale riprende quello delle prime righe: non mi entusiasma, ma ne
leggo.
Antonia Arslan “La strada di Smirne” BUR euro 11 (in realtà, scontato a
9,35 euro)
[A: 12/05/2015 – I: 20/08/2017 – T: 23/08/2017] - &&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 286;
anno 2009]
Torniamo,
anche se solo con il pensiero, nelle terre anatoliche e nelle tormentate
vicende degli anni Venti che laggiù si svolsero. L’archeologa nonché letterata
Antonia Arslan (o forse ancora Arslanian?) continua a farci viaggiare in
quell’epoca tormentata, anche se non ha più l’impatto emotivo de “La masseria
delle allodole”. Che quasi quindici anni fa riaprì, con forza e partecipazione,
una ferita che mai si chiuderà. Ricordo ancora, in una delle tante visite a
Gerusalemme, uno scontro feroce tra armeni, ebrei e mussulmani, proprio in
occasione di una ricorrenza del ricordo del genocidio armeno (era infatti un 25
aprile). Un triplice scontro, che la parte islamica fomentava non riconoscendo
il genocidio e la parte ebrea perché era una manifestazione che si stava
svolgendo di sabato. Poi, che ebrei e mussulmani si accapigliassero era
comunque nelle cose del luogo. Ma questo riporta solo ai miei ricordi. Accesi
dalla masseria, ed ora fomentati da questa strada per Izmir. Che anch’essa
accende piacevoli momenti (e qualche riflessione). Momenti della mia ultima
visita a Smirne, al lungomare, all’andamento lento delle giornate turche, ed
alla piacevole compagnia. Pensieri che vanno ancora, stimolati dal ricordo di
altre letture, ai quei giorni del 1922, ai modi ed ai momenti di affronto e non
di confronto tra turchi e “resto del mondo”. Su cui torneremo, mentre ripasso
le parole della scrittrice. Che questa volta si fanno leggere e meno
graffianti. I parenti, quelli vicini, quelli stretti, sappiamo subito che sono
bellamente riparati in Italia, dallo zio medico. Ed in qualche siparietto
veneto ne seguiamo alcune gesta: la morte della madre, il collegio delle due
maggiori in attesa di rifugiarsi in America, l’isolamento di Henriette che mai
si riprenderà, rimanendo per sempre la “zia bambina”, la giovinezza che tutto
cancella di Nubar. Ma vediamo anche i due figli del medico ormai italiano, il
maggiore, ribelle e dedito all’arte, il minore, sempre docile, che nolente
segue le orme mediche paterne. Nell’ultimo libro della trilogia, penso, che
vedremo meglio l’intreccio di queste vicende, ed il loro collegamento con la
narratrice dei fatti (che ricordo, nascerà a Padova nel 1938, cioè 16 anni dopo
i fatti di questo secondo volume). L’altra parte del libro, che vuole essere
dolente, cerca invece di darci il senso e le vicende che si svolgono nella
contesa città di Smirne. Dove converge la “truppa” degli amici dei nostri
armeni, la greca Ismene, il prete Isacco, l’arabo Nazim, e tutti quei bambini
abbandonati che i tre sono riusciti in qualche modo a preservare dallo
sterminio. Tuttavia la narrazione non decolla, non ci sono “eroi” cui attaccare
il nostro cuore, per farlo battere all’unisono. Ne vediamo gli sforzi per
ricreare un ambiente normale in una situazione che normale non è, e non sarà
per molto tempo. L’aiuto che sparuti benefattori (o meglio benefattrici) danno
loro. L’infermiera tedesca, la signorina americana, e pochi altri. Vediamo
anche la lotta e l’angoscia quotidiana per tirarsi fuori dal brutto passato. Gli
sforzi di Isacco con il suo coro. Nazim che prima rimane ad Aleppo, ma non
resiste al richiamo dell’amicizia, prima cercando di aiutare il cugino Aris a
riprendere la masseria (sforzo destinato ad essere ben presto vanificato). Poi
nel cercare di salvare il salvabile degli orfani di Ismene. Sforzi che né lui,
né Ismene, né Isacco riusciranno a portare a compimento in maniera positiva.
Qualcuno (troppi forse) non riusciranno nell’intento. Ma questa narrazione non
suscita empatia. D’altra parte, come la stessa Arslan ci dice, il suo è un
narrare da romanziera e non da storica. Ma a noi lettori mancano le premesse e
le conseguenze dei fatti smirnioti. Sappiamo, dalle fonti altre, che in realtà,
dal 1919 al 1922 si svolge una guerra greco-turca come trascinamento della
Prima Guerra Mondiale. Con i Greci che rivendicano il territorio anatolico, in
contrasto con le altre potenze (in particolare l’Italia). E con i turchi, che,
dal profondo est asiatico, si ricostruiscono un’ossatura sotto la spinta
nazionalista di Mustafa Kemal, il futuro Ataturk, che, per i turchi, diventerà
“Padre della patria”. Kemal, lavorando di fino a livello diplomatico, riesce ad
isolare i greci, a sconfiggerli militarmente, ed a dare il via ad un’ultima
fase di genocidio, in cui sono coinvolti sia i pochi armeni rimasti, sia i
greci di Smirne, che saranno costretti a rifugiarsi (quelli che sopravvivono)
nella vicina patria. Ma tutta la fase “politica” non viene sfiorata dal
romanzo, e ce ne dispiace. Un romanzo che rimane decisamente al di sotto delle
aspettative, anche se apprezzo fino in fondo il tentativo personale di Antonia
Arslan di ritrovare le proprie radici, e di dare una voce al bistrattato popolo
armeno. Ora che anche papa Francesco ha unito la sua voce nel centenario dei
massacri armeni. Consiglio a chi ne ha voglia di cercare il poco noto e forse
mai ripubblicato libro “Il martirio di un popolo” di Henry Barby pubblicato a
Milano negli anni Trenta.
Elena Ferrante “La figlia oscura” E/O euro 9,50 (in realtà, scontato a
8,08 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 24/08/2017 – T: 26/08/2017] - &&&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 141;
anno 2006]
Sicuramente
meglio del precedente e tanto acclamato libro, non riesce tuttavia a
convincermi fino in fondo. Non mi interessa anche qui, come ho già detto sopra
e altrove, entrare nel dibattito su chi sia “Elena Ferrante”. È una persona che
sa usare la penna e le parole, sa comunicare sensazioni, sa descrivere stati
d’animo e moti del pensiero. E tanto basta per poterne leggere e parlare.
Inoltre, rende per me molto bene momenti ed attitudini dell’universo femminile,
che, a me uomo, ritornano e consentono di imbastire riflessioni. Questo intanto
è il terzo libro edito, l’ultimo prima dell’inizio della grande saga de
“L’amica geniale”. Un libro in cui si intravedono alcune tematiche che poi
saranno presente nella grande saga napoletana. A partire dai nomi. La protagonista,
l’io-narrante, si chiama Leda. La bimba, al centro della vicenda senza essere
centrale, si chiama Elena detta Lenù. Già questo ci fa capire come poi l’amica
sia un punto di collasso di diverse e sovrapposte tematiche di chi ha preso in
mano la penna per scriverne. Come alcuni altri grandi temi che sottendono tutta
la vicenda: il rapporto-conflitto tra una Napoli bassa, paesana, a volte
pesante e volgare, e chi da questa Napoli tenta di tirarsene fuori, con onestà
e caparbietà. Il rapporto tra donne, che fanno scelte diverse, che (forse) si
confrontano (o forse no). La ricerca della propria via nel mondo. Il rapporto
con i figli (ma soprattutto con le figlie). Un rapporto che a me, ora, sta a
cuore, vivendo un difficile momento di confronto con la malattia di mia madre.
Ma questo è tema di altri discorsi. Qui abbiamo Leda che in un profluvio di 150
pagine ci fa immergere nel suo mondo e nelle sue contraddizioni. Tra salti
temporali (ma solo nel pensiero della narratrice, per fortuna) e momenti di
comprensione (anche se a volte annegati in momenti di buio assoluto), vediamo
Leda ed il suo rapporto con la madre. Non risolto, forse affrontato male. Una
madre popolare, che usa tutti i ricatti del cuore per tenere al loro posto i
figli. E soprattutto Leda. Che non ne accetta i ricatti, che va a studiare a
Firenze, si laurea, si sposa. Presa dal vortice della vita, fa una prima
figlia, voluta, coccolata nella pancia per nove mesi. Bianca. Poi,
intellettualmente coinvolta dal marito nella vita quotidiana, nelle prospettive
a breve, decide di farne una seconda. Non voluta, non amata (almeno da subito),
che farà scoppiare tutte le contraddizioni che Bianca, sola, aveva nascosta.
Ecco allora Marta. Ecco Leda che per seguire le figlie, e dar spazio alla carriera
del marito, si nega il diritto di avere una propria via, si dilania nelle
contraddizioni del quotidiano. Per cinque, lunghissimi, anni. Poi scoppia,
trova qualcuno che crede nelle sue potenzialità, e fugge, lasciando Bianca,
Marta e il marito Gianni. Va a lavorare in una prestigiosa università inglese,
vive un’intensa storia d’amore, riesce ad occupare un suo ruolo nel mondo
accademico. Ma dopo tre anni si accorge che comunque qualcosa manca. Manca il
sorriso delle figlie sopra il tavolo, e tante piccole, quotidiane follie.
Torna. Ma allora sarà il marito a partire, a trasferirsi per lavoro in Canada.
Ora, a 48 anni, si ritrova ancora una volta sola, che Bianca e Marta decidono
di proseguire i loro studi (scientifici come il padre e non letterari come Leda)
in Canada. Tuttavia, pur se non risolto, il rapporto madre-figlie migliora.
Ognuno ha un suo ruolo, e anche se Leda può soffrire di momenti d’ansia,
accetta che ciascuno di loro abbia la propria strada. Certo si vogliono bene,
si cercano, i legami (un tempo forse spezzati) sono fragilmente ricostruiti. E
se Leda non telefona, sarà Marta a farlo. In tutto questo coacervo di
sensazioni, che già hanno un lor peso per costruire la storia, si inzeppa la
vicenda parallela dell’incontro al mare con la giovane Nina e la figlia di tre
anni Lenù. Popolani, sanguigni (soprattutto il marito e la cognata), ma, in
particolare Nina, con qualche sensazioni di star sprecando la propria vita. Ne
esce un confronto a distanza, mai risolto direttamente, perché mai Leda riesce
ad essere diretta. Non lo era con le figlie, difficile esserlo con estranei.
Nina ammira l’indipendenza e la volontà di Leda (almeno da lontano). Ma è
sommersa dal non saper gestire l’impossibile Lenù. E soprattutto la perdita
della bambola della piccola. Che inavvertitamente proprio Leda le sottrae. Non riuscendo,
per pagine e pagine, a trovare il modo di restituirla. O di sbarazzarsene. La
bambola diventa quasi un simbolo, un totem che permette a Leda di ricostruire
tutto quello che vi ho narrato in modo continuo e non con i salti del libro. Ma
quando Nina chiede aiuto a Leda per sue faccende private (che vi leggerete
perché non posso certo riscrivere il libro), Leda trova il modo peggiore per
chiudere questo strano rapporto. E restituendo la bambola distrugge con un solo
gesto tutti i castelli di Nina, tutte le sue speranze (mal risposte, ovvio, in
una persona che, intelligente e bella, è tuttavia fragile ed irrisolta). Spaccato
di vita, finisce come finiscono i racconti lunghi di Alice Munro. Senza una vera
fine, lasciando l’agio di continuare le storie nella nostra testa. Ma
lasciandoci anche la sensazione che chi scrive ha scritto tutto quello che
sentiva di poter scrivere. E seppur riprendendo tutti i temi che ho sopra
accennato, seppur facendo in modo che ci si possa ragionare sopra, non posso
non sentire una mancanza. Una mancanza di forza, di ragionamento. Ovvio che
tutti siamo imperfetti, e Leda non può sottrarsi alle sue imperfezioni. Ma io
soffro quando vedo vie d’uscita positive che l’eroe del libro si rifiuta
ostinatamente di percorrere. Mio limite certo, ma anche io, per quanto quasi,
non sono veramente perfetto.
“Le cose più difficili da raccontare sono
quelle che noi stessi non riusciamo a capire.” (8)
Seconda trama del mese, ed ecco
che vi allego un tema d’attualità (mia) anche se non mi piace il modo in cui
viene trattato.
Mentre non posso che salutarvi in
modo felice dopo alcuni bellissimi giorni passati a Gerusalemme. Giorni
difficili per una città complessa che va vista e rivista negli anni, fornendoci
sempre spunti interessanti. Anche ora, al centro di qualcosa che forse
prescinde dalla città stessa. Ma non è questo il luogo di parlarne.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
DICEMBRE 2017
Anche questo mese la ventura dei
libri ci porta vicini a situazioni che vorremmo al più presto superare.
OSPEDALE, ESSERE RICOVERATI IN
Quando
siamo in ospedale vorremmo un angelo custode che si occupasse di noi, con
dolcezza – ma anche poter fuggire in un luogo selvaggio e avventuroso. Per
questo vi proponiamo due serie di libri: “angeli” e “avventure”.
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE IN OSPEDALE
Don
DeLillo “Underworld”
Cecil
Scott Forester “La regina d’Africa”
David
Grossman “Che tu sia per me il
coltello”
Jack
Kerouac “I sotterranei”
Barbara
Kingsolver “L’albero dei fagioli”
Jack
London “Il richiamo
della foresta”
Daniel
Pennac “Il paradiso degli
orchi”
Jo
Soares “L’uomo che
uccise Getulio Vargas”
Osvaldo
Soriano “Futbol – Pensare con
i piedi”
Bruno
Traven “Il tesoro della
Sierra Madre”
Bugiardino
Non so se per fortuna o
casualità, di questi dieci libri ne ho letti solo quattro, anche se di un
quinto ho visto il film. Anzi di film ne ho visti due, entrambi con il mio
grande Humphrey. Parlo ovviamente de “Il tesoro della Sierra Madre” e de “La
regina d’Africa”. Inoltre, anni luce fa, lessi e rilessi le avventure di
London. Rimangono un lontano Pennac (ben letto più di dieci anni or sono, al
tempo in cui le mie trame spesso si riducevano a poche e scarne righe di
commento) ed un abbastanza recente Soriano dedicato alla palla rotonda.
Daniel Pennac Il
paradiso degli orchi Feltrinelli 7
[trama pubblicata il 25 dicembre
2006]
Uno dei fondamenti della saga del
capro espiatorio. Chi lo ha letto (vero Luana?), lo rilegga. Chi non lo ha
letto lo DEVE leggere. Chi può, lo legga in francese, meditando sull’equazione
“tradurre = tradire”.
Osvaldo Soriano “Pensare con i piedi” Repubblica – Pallone euro 6,90
[trama pubblicata il 22 novembre
2015]
Due
valutazioni per questo libro di racconti, che non è riuscito completamente,
anche se mi riporta sulla pagina del grande argentino, cui ho voluto tanto bene
per una serie lunga di motivi, e che sono ormai 18 anni che ci ha
inconsolabilmente lasciati. La votazione bassa è sul complesso del lavoro, ma
anche sulle scelte editoriali che non condivido. Questi racconti furono
pubblicati anni fa da Einaudi con il loro titolo originario (“I racconti degli
anni felici”), e con questo titolo da me inserito nelle ricerche future,
aspettandone una versione economica che quando ne uscì traccia su Repubblica -
Libri costava ben 16 euro. I racconti derivavano da tre mini raccolte: “Nel nome
del padre”, “L’altra storia” e “Pensare con i piedi”. Ora, sapendo che Soriano
era un grande appassionati di calcio (e tra l’altro tifoso del San Lorenzo de
Almagro, come papa Francesco) i curatori di questa collana di Repubblica che
continua a convincermi poco ne hanno fortemente voluto l’inserimento,
utilizzando l’ultimo come titolo “da richiamo”. Ed è vero che in quel pezzo di
raccolta ci sono 6 brani dedicati al calcio, ma sono tutto altro rispetto
all’equilibrio complessivo del libro. Soprattutto a quella bellissima prima
parte, dove in 17 piccoli elzeviri Osvaldo ricorda e ci ripropone la storia di
Valentin Alberto Soriano, suo padre, ispettore delle acque nell’Argentina del
Sud. Visionario e vagabondo. È seguendo il padre, che l’azienda delle acque mando
in giro per venti anni in molta Argentina, ed in particolare in molta
Patagonia, che si forma il nostro Osvaldo. Che incontra personaggi strani e
tristi, che popoleranno la sua opera migliore (“Un’ombra ben presto sarai”). Ed
è in questi bozzetti, non racconti ma ricordi, che Soriano riesce a dipingere
la figura paterna, dato che è sempre difficile fare i conti e conciliarsi con
qualcuno di così preponderante nella propria vita. E riesce anche a darci un
quadro, fuggevole e pur tuttavia intenso, dell’Argentina degli anni Cinquanta.
Di quella Argentina lontano dai facili bagliori di Buenos Aires. Lì nel
profondo Sud, povero e desolato, sono lontani i miti patriottici, è lontana
l’agiatezza possibile. Si lotta per l’acqua, si spera nel petrolio. Si incontra
gente, si parla. Lì Osvaldo nasce come seguace di Peron, come molti, tanti, in
quegli anni, per il populismo di maniera che il dittatore evocava. Lì Osvaldo
diventa un fervente idolatra di Evita, la “Santa Madre” degli Argentini. E come
non andare a quell’intenso film di ormai venti anni fa, con Madonna nella parte
di Eva Duarte (senza dimenticare Banderas come Ernesto Guevara). Un’immagine su
tutti, la multa che il padre non riesce a dare ad un prepotente che consuma
troppa acqua, ed il padre con la fionda di Osvaldo, gli rompe il vero di una
finestra. Ecco, bastano dei tocchi così per dare senso e misura ad un rapporto
che, come molti, troppi, non si è riusciti in vita a trasformare in dialogo. La
seconda parte, invece, non mi ha preso quasi per nulla, troppo legata alla
storia argentina, ai suoi miti, a cose che per loro sono importanti e vitali,
ma che non conosciamo da qui, ed a volte ci sembrano sterili. Gli avvenimenti
del 1810, San Martin ed altro. Peccato anche quel refuso di stampa che fa morire
il rivoluzionario della Primera Junta nel 1881 invece che nel 1811! Fin a quel
piccolo “pastiche” su Robespierre poco intrigante. Si risale con l’ultima
parte, quella dedicata alla palla rotonda. Al bellissimo rigore più lungo del
mondo, fischiato all’ultimo minuto di una partita intensa, sospesa per
intemperanze, ripresa in quell’ultimo minuto una settimana dopo. E se noi si
ricorda quel “Prima del calcio di rigore” di Peter Handke, qui, in poche righe,
Soriano ci riporta all’ansia dei tifosi, alla paura del portiere, ed a tutto
quello che si condensa in pochi minuti in un rigore, dilatandolo in una
lunghissima settimana. O il lungo viaggio della squadretta di giovani locali
che va a sfidare la guarnigione inglese di stanza alle Malvinas, senza mai
riuscire ad arrivarci per una serie infinita di intoppi. O la figura del mister
Pellegrini, duro, implacabile, che avrebbe potuto fare di lui un calciatore,
che si inventava ruoli e situazioni prima che la figura dell’allenatore
diventasse un emblema quasi totemico. Nonché la figura del figlio di Butch
Cassidy (che sappiamo fuggì in Patagonia insieme a Sundance Kid, come se ne
trova traccia nelle belle pagine patagoniche di Chatwin o cilene di Sepúlveda),
rimasto lì in Argentina e diventato cow-boy ed arbitro per necessità di vita.
Una chicca che lui stesso racconta di aver buttato di getto dopo aver visto
palleggiare Maradona a Trigoria. Sono scritti, questi, che pubblicò sparsi a
suo tempo su “Il Manifesto”, servendo come antidoto ad uno sport che già
cominciava a drogarsi e che ormai è diventato un qualcosa di alieno, rispetto
alla purezza filosofica delle partite del secolo scorso. Ho sempre voluto bene
a questo tristo argentino, scrittore, esule e poi a quarant’anni finalmente di
ritorno nell’amata Baires. Hasta siempre, Osvaldo!
Conclusioni
Non so dirvi se possono aiutare
gli allettati ospedalieri, ma ne dubito alquanto. Non mi convince leggere del
capro espiatorio mentre vengo trattato rudemente (anche se in modo corretto) da
energici infermieri. Né mi viene da mitigare dolore e pene pensare alla palla
rotonda, ed alle sue odierne e poco convincenti evoluzioni. Forse rimangono
solo evasioni su terre lontane, ma questa volta siamo su due binari diversi,
care dottoresse.
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