Torniamo dopo qualche mese a
parlare di libri e di cucina, prendendo sempre spunto dalla collana del Corriere
della Sera, ma aggiungendovi un libro “extra”, che Vitali avrebbe diritto senza
alcun dubbio all’inserimento in questa collana, anche se il libro ha il
gradimento medio della collana stessa. Che un po’ si risolleva per le capacità
più descrittive che culinarie in sé di Nora Ephron e di Ruth Reichl, mentre
precipita (e con merito) verso il basso con il libro di Laurie Colwin.
Andrea Vitali “Le tre minestre” Mondadori euro 9
[A: 12/06/2015 – I: 22/03/2016 – T: 23/03/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 185;
anno 2013]
Un
pastiche di passaggio, tra un libro e l’altro dedicato all’amata Bellano. Qui Vitali
si butta nei ricordi, in un gioco d’infanzia. Tra l’altro, scegliendo l’uscita
con Mondadori, si butta (come altri autori ed autrici) verso la cucina e le
ricette. E tra i libri di cucina vi cucinerò questa trama. La cui prima parte
si gioca tutta sul filo della memoria, sul ricordo delle sue tre zie che lo
hanno allevato, accudito e sorretto. Tre zie con spiccate attitudini
complementari: Colomba, dedita all’approvvigionamento, Cristina, dedita alla
gestione della casa, Paolina, dedita ai rapporti con l’esterno. Diventano, per
il giovane Andrea, i tre ministri della gestione della vita: Ministro
dell’Agricoltura, Ministro degli Interni e Ministro degli Esteri. Se poi, come
tutti i bambini, ci si mette a giocare con i nomi, i ministri essendo donne diventano
ministre. E ci vuol poco che da ministre si passi a minestre. Ecco spiegato il
titolo. Ma anche l’impianto generale, perché, pur narrandoci delle zie, si
narra, e molto, del cibo. Del cibo contadino degli anni ’60, dell’usar molti
elementi non tanto e solo genuini, ma facenti parte dell’universo accessibile
al tempo. Purtroppo, seppur piacevoli le vicende del retroterra da cui nasce il
narratore Vitali che conosciamo, ci sono almeno due pecche, per il mio gusto di
lettore. Vitali ci ha abituato a periodi brevi, diretti, capitoli scarni ed
efficaci. Qui ci si sbrodola un po’, tanto che per narrare della vicenda di un
panino di farina bianca si va avanti per oltre quaranta pagine, tra notizie
digressioni e ritorni. Panino comprato da Colomba per la guarigione del padre,
che il padre dà a Paola, che Paola dà a Cristina, che Cristina ridà a Colomba,
che Colomba non mangia, lascia ammuffire, e con la muffa (e la penicillina
naturale) guarisce le galline. Da quattro righe a quaranta pagine ce ne vuole…
L’altro elemento è la scarsa attenzione temporale. Ora, è ben chiaro che una
serie di passaggi sul cibo e sul rapporto di Vitali con le zie, avvengano con
lo scrittore in età giovanile, preadolescenziale sicuramente. Poi, si corre, si
salta, si arriva agli studi universitari dove le zie spingono Vitali verso la
facoltà di Medicina (e medico diventerà Vitali, medico di base in quel di
Bellano e dintorni, dove avrà modo di sentire tutta la gente che passa per il
suo studio, dove ne annoterà le storie sui suoi foglietti, e da quelle storie
nasceranno i suoi libri migliori) ma rimanendo instaurata, tra lui e le zie una
modalità di rapporti che mal si connette con uno studente che, per essere
universitario, dovrebbe avere almeno vent’anni. Certo Vitali è bravo nel delineare
le caratteristiche delle persone, delle zie, dei suoi mondi “in riva al lago”.
Ma non riesce ad incidere in questo piccolo giro di giostra. Certo, si capisce
qualcosa del mondo contadino degli anni ’60, dato che il nostro è nato nel
febbraio del ’56, e che quindi saluto come da poco sessantenne (parlo del tempo
della scrittura mia, ovvio, che non so quando uscirà questa trama). Si capisce
il parente prete, il cugino pilota, gli armadi di legno che nascondono chissà
cosa. Si capiscono le tre zie, le loro paure e le loro piccole o grandi
vittorie. Poco altro. E poco, anche se con un piccolo interesse, nel ricettario
finale. Dove Vitali, o chi per e con lui, riporta un elenco di ricette
contadine. Nel senso di ricette che usano elementi, come dire il grande
Petrini, a chilometro zero, a volte irrimediabilmente perduti. Ottime tutte le elencate
polente, come la ripresa dei ravioli di San Vincenzo, una delle ricette che nel
corso della narrazione viene spiegata passo dopo passo, ingrediente dopo
ingrediente, con ogni personaggio dedito ad un elemento che compone il grande
risultato finale. Ma dopo averli preparati, andate a rileggere le pagine in cui
Vitali descrive il martirio di San Vincenzo, che nella fattispecie risulta
essere San Vincenzo di Saragozza, martirizzato dal turpe Daciano, prefetto in
Valencia di Diocleziano. Una bella elaborazione delle leggende agiografiche del
martirio del Santo. A me, tuttavia, rimangono solo impresse le ricette di
castagne, memore delle grandi mangiate sorianesi. Ed anche il rimpianto che tra
le ricette, Vitali non riporti quella della mela alla cannella, con quel tocco
in più che ne fa, nel racconto, un bel punto in favore delle zie. Ma, fatte le
somme, sono rimasto deluso, che mi aspettavo qualcosa più in linea con i
romanzi bellanesi, ed anche deluso dalla parte culinarie, che poco sugo
(scusate la facezia) ha un solo elenco di ricette.
Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera 19 euro 7,90
[A: 12/06/2015– I: 25/07/2016 – T: 01/08/2016] - &&&
e ½
[tit. or.: Heartburn; ling. or.: inglese; pagine: 216;
anno 1983]
Nora
è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di
lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho
venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non
c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti
presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò
nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire
proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel
1983. Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico
traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che
siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che
in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o,
meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la
storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la
pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo
marito, che nasce il libro, che nasce la storia. Un romanzo ricco di spunti
divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La
narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti
ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e
quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta
questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese
che scopre il tradimento del marito. Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl
Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta
che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli
Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si
è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una
figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di
Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle
class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti. Infarcita di
aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non
trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una
terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì
come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un
libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori
quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in
realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan).
Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è
affetta da malattie veneree). Punto nodale della trama è il furto di un
prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il
ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo
porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per
il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei,
nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New
York e riprendere la sua vita come prima del tradimento. Ma il bello non ci
sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di
far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha
portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegolezza su matrimoni e coppie
in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo
farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non
essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela
in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa. E noi sappiamo che ammiriamo
Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto
che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas
Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente
divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha
anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema
dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt
(“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse
questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra
quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.
Ruth Reichl “La parte più tenera” Corriere della Sera Cucina 1 euro
7,90
[A: 06/03/2015– I:
09/08/2016 – T: 13/08/2016] - &&& --
[tit. or.: Tender at the Bone; ling. or.: inglese; pagine: 334; anno 1998]
Questo
è il primo libro della serie dedicata alle storie di cucina edite dal Corriere
della Sera. Nelle intenzioni dei curatori, quindi, quello che dovrebbe dare
l’impronta alla collezione, che dovrebbe invogliare l’acquirente a continuare
ad investire i suoi soldi nella collana. Fortuna che ne ho letti altri prima,
che invece, pur se con delle punte di interesse, per me raggiunge una
sufficienza stiracchiata. Dovuta più ad alcune circostanze esterne, ed al fatto
che alcuni passi riportavano altro alla mente. La prima circostanza è stata il
luogo di lettura. Vacanze itineranti in Croazia, dove si trovò ogni volta
appartamentini con uso di cucina, così che si poteva cucinare in casa la sera,
per mantenere una dieta importante e rigorosa. E mentre ci si attardava con cibi
di base, si può anche sognare con il gigantesco “Boeuf à la Bourguignonne” (che
non sarà quello di Julia Child, ma ci va vicino). Inoltre, più che un vero e
proprio libro di storie di cucina, Ruth Reichl si concentra su sé stessa, e
sulla sua storia, dove da onesta e basilare conoscitrice del cibo elementare,
si andrà evolvendo, nel corso della sua vita, verso il ruolo di uno dei più
importanti critici gastronomici americani, direttrice per anni (purtroppo però
anche gli ultimi) di quella rivista cult che fu “Gourmet”. Ed allora lasciamo
un attimo da parte le ricette, e seguiamo Ruth ed i suoi rapporti con le altre
donne (certo ci sono uomini nel libro, ma marginali come dei contorni poco
riusciti). La madre, in primo luogo, sempre eccessiva, sempre dedita ad
esperimenti culinari azzardati (sarà un caso che lei la chiama “la regina della
muffa”?), che ha sempre altro da fare. Un esempio illuminante: la madre ha un
impegno, la bambinaia ha il suo giorno libero, allora la madre paga lei,
bambina e per di più impaurita, per farsi da sola la babysitter. Fortuna che c’è
Alice, la governante caraibica, che le insegna del cibo isolano, e le offre
quelle “mele con salsa dura” che saranno conforto per tutta la sua vita.
Fortuna che c’è la signora Peavey, governante e cameriera, corpulenta
plurilingue che la introduce nei meccanismi classici della cucina. Fortuna che,
sulla parte affettiva, c’è zia Birdy, che appunto è l’unica cui rivolgersi,
certo non per cucinare, visto che l’unica cosa che abbia mai cucinato in vita sua
è l’insalata di patate. Fino alla fortunata coincidenza che la fa invitata alla
mensa di una sua ricca compagna di classe, dove le viene servito un filetto di
bue, che si scioglieva talmente dolcemente in bocca, che da quel punto in poi
capì la cucina essere la sua strada. Certo la parte dell’infanzia è più
intrigante, poi diventa storia personale come di molte donne americane di
quegli anni. Un po’ hippie, un po’ no. Qualche esperienza tipo comune
californiana, dove Ruth continua tuttavia ad esercitarsi con il cibo. E tante
persone che si incontrano durante il corso della propria vita, e con le quali
si condivide la tavola. Se poi a quella tavola si porta il proprio cibo, la
propria sapienza culinaria, allora i piaceri sono moltiplicati in modo esponenziale.
Come quando riesco a mangiare le torte al cioccolato o le quiche di Ale. Ma
Ruth continua, continua ad essere aperta alle esperienze diverse che le si
presentano, passa diversi stadi di consapevolezza culinaria: cameriera pronta a
seguire consigli e suggerimenti di chi ne sa più di lei, cuoca per i propri
amici, cuoca in alcuni ristoranti, fino a diventare, casualmente se si vuole ma
di certo consapevolmente, una critica gastronomica attenta e tenace. Un viaggio
di vita, un’autobiografia certo, dove il cibo aiuta Ruth a capire le persone
che incontra, le persone che la circondano, le persone che la sostengono. Quel
che ne esce, di Ruth come figura, è quello di una donna che, con tutte le
difficoltà che ognuno ha, nel cibo trova una via e nel suo trattamento il modo
di camminare per la propria strada. Capisce le persone vedendo cosa mangiano.
Capisce come si possa e si debba cambiare il modo di gestire un ristorante per
mantenersi equidistanti tra il successo economico ed il rigore alimentare.
Tuttavia, non è un libro che mi ha soddisfatto pienamente. Perché ho trovato le
ricette presentate di difficile esecuzione, perché non ho trovato un indice
delle ricette stesse (che invece sarebbe stato utile), perché come “memoir” ha
dei punti di interesse, ma altri che, forse, interessano solo a chi la conosce
meglio di me. Credo (spero) che la collana mi riservi elementi di maggior
interesse e coinvolgimento.
Laurie Colwin “Home cooking” Corriere della Sera 20 euro 7,90
[A: 06/07/2015– I:
21/12/2016 – T: 24/12/2016] - & e ½
[tit. or.: Home Cooking. A writer in the Kitchen; ling. or.: inglese; pagine: 248; anno 1988]
Ecco
un esempio di come NON dovrebbe essere confezionato non dico un libro di cucina
(ognuno lo confeziona come può e vuole), ma un libro inserito in una collana di
libri di cucina. O meglio di “Storie di cucina”, come recita sapientemente la
manchette di questa collana edita dal Corriere della Sera. Ho detto in altre
critiche ed uscite di questa collana, che se parliamo di storie di cucina mi
aspetto racconti, romanzi ed anche mini-saggi che si leghino, si armonizzino e
girino intorno al cibo. Penso ad “Affari di cuore” di Nora Ephron o “Dolce come
il cioccolato” di Laura Esquivel (di cui ho già parlato qui ed altrove). Poi ci
sono libri di ricette, ma non è questa la sede di fare un libro di ricette,
altrimenti avremmo comperato altro. Se invece NON abbiamo un racconto, NON
abbiamo un romanzo, ma dei pensieri sparsi o si ha la capacità di un Julian
Barnes (“Il pedante in cucina”) di prendere pezzi sparsi, e poi amalgamarli in
una grande unica ricetta, oppure si dovrebbe mettere a corredo del libro
qualche articolo esplicativo per chi non è nato “sapiente tuttologo”. Cosa
appunto che NON succede qui (mi dispiace mettere tutti questi maiuscoli forzati
che stanno a sottolineare il mio dispiacere per una collana ed un libro che
avrebbero potuto essere meglio letti e gustati). Se infatti prendiamo il testo
in sé, è slegato, e non si capisce perché l’autrice ammicchi tanto come se
fossimo amici da anni. Stiamo imparando a conoscerci, quindi cominciamo con un
po’ di formalismo. Perché Laurie Colwin, ignota praticamente al pubblico
italiano (pare che solo 5 persone abbiano avuto il coraggio di dire di
possedere questo libro), è stata, al contrario, un personaggio importante della
scena culturale americana. Stata perché benché giovane (nata nel 1944) muore a
soli 48 anni di infarto. In questi men che cinquant’anni scrive 5 libri di
racconti, e raccoglie in due libri i suoi trafiletti dedicati al cibo e
pubblicati sul magazzino americano “Gourmet”. Ora se qualcuno ne avesse scritto
un minimo, probabilmente avremmo meglio apprezzato anche il sottotitolo
dell’edizione originale (“Uno scrittore in cucina”), e avremmo sorvolato
appunto su tutti quegli aspetti che, leggendo “senza paracadute” mi hanno
storto alquanto durante la lettura. Quel continuo riandare ad americanismi
(libri di cucina americani d’antan, ingredienti americani difficilmente
recuperabili altrove, gusto americano di stare insieme, bere drink, fare barbecue)
anche criticandoli, e ci sta tutto, ma che si vede che sono prettamente
“localizzati” e quindi se decontestualizzati lasciano il tempo che trovano. Si
apprezza lo sforzo di Laurie di non spaventare i neofiti che si avventurano in
cucina con quelle “barriere architettoniche” che, a noi improvvisatori, fanno
sembrare i nostri tentativi di “uova fritte” come un video di disabili
proiettato affinché luminari della medicina ne possano discutere. Sono
d’accordo, ma l’enfasi è senza dubbio eccessiva, che non c’è bisogno di
batterie enormi di utensili per avere una cucina in grado di funzionare. Sono
d’accordo che bisogna saper leggere le ricette, ed adattarle a sé stessi,
all’occasione, ed alle successive uscite e riuscite. D’altra parte, Alessandra
è una grande maestra, capace di cucinare “ordinary food” per la famiglia o
imbastire cene “da ricevimento”. Guardarla organizzare e gestire il cibo, la
spesa, la cucina è una grande lezione (peccato solo sia astemia, e io debba
pensare alla sezione vini, ma ci sta, ne sono comunque contento e gratificato).
Ma torniamo brevemente al testo. È piacevole svolazzare con Laurie nelle sue
accennate vicende familiari, la sua origine ebrea (è stata traduttrice di
Singer dall’yiddish), il marito di origine lettone (favolosa la torta lettone
di compleanno), i suoi amici, le sue cene massimo per sei persone (altrimenti
non si riesce a parlare). Meno le sue accennate ricette. Un po’ perché anche se
descritte usano quei termini che tanto avevo sottolineato della loro
inusabilità con Barnes (quant’è grande una cipolla media?), un po’ perché
utilizza ingredienti che non conosco o di cui non conosco la reperibilità.
Fagioli neri fermentati. Lattuga Iceberg o Libbs. Bologna di Lebanon. Patate di
Minorca o Patate dell’Idaho. Ricette difficili da replicare senza di loro. E
ricette con un uso smodato, per me eccessivo, di cetrioli. Divertenti, ma poco
di più. Una lettura veloce, non impegnativa, ma molto sotto la sufficienza. Con
un errore che non mi aspettavo, anche se sfuggito ai molti che non sono rimasti
come me incuriositi da un “Suffolk Pond Pudding”. Come pensare di mangiare un
dolce in cui: si fodera una bacinella da budino con pasta sfoglia al grasso di
rognone; si taglia a pezzettini il burro mescolato con lo zucchero; si prende un
limone intero, lo si punzecchia, lo si ficca sopra la miscela di burro e
zucchero, lo si riveste con altro burro e zucchero, si copre con il coperchio
fatto di pasta, si avvolge tutto in uno strofinaccio per budini e si fa cuocere
a bagnomaria per quattro ore. A parte il sapore che deve essere tremendo, il
piatto, come ho scoperto su Internet, in realtà si chiama “Sussex Pond
Pudding”. Peccato!
“Cenare da soli costituisce uno dei piaceri
della vita.” (44)
“Perfino di domenica sera, nella maggior
parte delle case si possono trovare un po’ di burro, un po’ di olio di oliva e
in genere delle uova.” (118) [falso!!]
“Conosco una coppia che tiene una sorta di
registro delle cene: segna chi è venuto, chi ha fatto amicizia con chi e che
cosa è stato servito.” (135) [vero!!]
“Un sandwich alla bistecca fredda è
qualcosa di disgustoso, ma è al contempo qualcosa di meraviglioso … con una
grossa tazza di caffè.” (190) [ne vogliamo parlare?]
Per una serie incresciosa di
concomitanze pensavo di saltare la trama di questa settimana. Ma la futura e
prolungata assenza, nonché l’omaggio che alcune di queste righe portano ad una
provetta “cucinera”, mi hanno forzato ad uscire anche questa settimana. Sperao
che gli strascichi del 16 si arenino quanto prima regalandoci un luminoso 17.
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