domenica 22 gennaio 2017

Libri e cucina - 22 gennaio 2017

Torniamo dopo qualche mese a parlare di libri e di cucina, prendendo sempre spunto dalla collana del Corriere della Sera, ma aggiungendovi un libro “extra”, che Vitali avrebbe diritto senza alcun dubbio all’inserimento in questa collana, anche se il libro ha il gradimento medio della collana stessa. Che un po’ si risolleva per le capacità più descrittive che culinarie in sé di Nora Ephron e di Ruth Reichl, mentre precipita (e con merito) verso il basso con il libro di Laurie Colwin.
Andrea Vitali “Le tre minestre” Mondadori euro 9
[A: 12/06/2015 – I: 22/03/2016 – T: 23/03/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 185; anno 2013]
Un pastiche di passaggio, tra un libro e l’altro dedicato all’amata Bellano. Qui Vitali si butta nei ricordi, in un gioco d’infanzia. Tra l’altro, scegliendo l’uscita con Mondadori, si butta (come altri autori ed autrici) verso la cucina e le ricette. E tra i libri di cucina vi cucinerò questa trama. La cui prima parte si gioca tutta sul filo della memoria, sul ricordo delle sue tre zie che lo hanno allevato, accudito e sorretto. Tre zie con spiccate attitudini complementari: Colomba, dedita all’approvvigionamento, Cristina, dedita alla gestione della casa, Paolina, dedita ai rapporti con l’esterno. Diventano, per il giovane Andrea, i tre ministri della gestione della vita: Ministro dell’Agricoltura, Ministro degli Interni e Ministro degli Esteri. Se poi, come tutti i bambini, ci si mette a giocare con i nomi, i ministri essendo donne diventano ministre. E ci vuol poco che da ministre si passi a minestre. Ecco spiegato il titolo. Ma anche l’impianto generale, perché, pur narrandoci delle zie, si narra, e molto, del cibo. Del cibo contadino degli anni ’60, dell’usar molti elementi non tanto e solo genuini, ma facenti parte dell’universo accessibile al tempo. Purtroppo, seppur piacevoli le vicende del retroterra da cui nasce il narratore Vitali che conosciamo, ci sono almeno due pecche, per il mio gusto di lettore. Vitali ci ha abituato a periodi brevi, diretti, capitoli scarni ed efficaci. Qui ci si sbrodola un po’, tanto che per narrare della vicenda di un panino di farina bianca si va avanti per oltre quaranta pagine, tra notizie digressioni e ritorni. Panino comprato da Colomba per la guarigione del padre, che il padre dà a Paola, che Paola dà a Cristina, che Cristina ridà a Colomba, che Colomba non mangia, lascia ammuffire, e con la muffa (e la penicillina naturale) guarisce le galline. Da quattro righe a quaranta pagine ce ne vuole… L’altro elemento è la scarsa attenzione temporale. Ora, è ben chiaro che una serie di passaggi sul cibo e sul rapporto di Vitali con le zie, avvengano con lo scrittore in età giovanile, preadolescenziale sicuramente. Poi, si corre, si salta, si arriva agli studi universitari dove le zie spingono Vitali verso la facoltà di Medicina (e medico diventerà Vitali, medico di base in quel di Bellano e dintorni, dove avrà modo di sentire tutta la gente che passa per il suo studio, dove ne annoterà le storie sui suoi foglietti, e da quelle storie nasceranno i suoi libri migliori) ma rimanendo instaurata, tra lui e le zie una modalità di rapporti che mal si connette con uno studente che, per essere universitario, dovrebbe avere almeno vent’anni. Certo Vitali è bravo nel delineare le caratteristiche delle persone, delle zie, dei suoi mondi “in riva al lago”. Ma non riesce ad incidere in questo piccolo giro di giostra. Certo, si capisce qualcosa del mondo contadino degli anni ’60, dato che il nostro è nato nel febbraio del ’56, e che quindi saluto come da poco sessantenne (parlo del tempo della scrittura mia, ovvio, che non so quando uscirà questa trama). Si capisce il parente prete, il cugino pilota, gli armadi di legno che nascondono chissà cosa. Si capiscono le tre zie, le loro paure e le loro piccole o grandi vittorie. Poco altro. E poco, anche se con un piccolo interesse, nel ricettario finale. Dove Vitali, o chi per e con lui, riporta un elenco di ricette contadine. Nel senso di ricette che usano elementi, come dire il grande Petrini, a chilometro zero, a volte irrimediabilmente perduti. Ottime tutte le elencate polente, come la ripresa dei ravioli di San Vincenzo, una delle ricette che nel corso della narrazione viene spiegata passo dopo passo, ingrediente dopo ingrediente, con ogni personaggio dedito ad un elemento che compone il grande risultato finale. Ma dopo averli preparati, andate a rileggere le pagine in cui Vitali descrive il martirio di San Vincenzo, che nella fattispecie risulta essere San Vincenzo di Saragozza, martirizzato dal turpe Daciano, prefetto in Valencia di Diocleziano. Una bella elaborazione delle leggende agiografiche del martirio del Santo. A me, tuttavia, rimangono solo impresse le ricette di castagne, memore delle grandi mangiate sorianesi. Ed anche il rimpianto che tra le ricette, Vitali non riporti quella della mela alla cannella, con quel tocco in più che ne fa, nel racconto, un bel punto in favore delle zie. Ma, fatte le somme, sono rimasto deluso, che mi aspettavo qualcosa più in linea con i romanzi bellanesi, ed anche deluso dalla parte culinarie, che poco sugo (scusate la facezia) ha un solo elenco di ricette.
Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera 19 euro 7,90
[A: 12/06/2015– I: 25/07/2016 – T: 01/08/2016] - &&& e ½  
[tit. or.: Heartburn; ling. or.: inglese; pagine: 216; anno 1983]
Nora è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983. Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che nasce la storia. Un romanzo ricco di spunti divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese che scopre il tradimento del marito. Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti. Infarcita di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan). Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è affetta da malattie veneree). Punto nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del tradimento. Ma il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegolezza su matrimoni e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa. E noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.
Ruth Reichl “La parte più tenera” Corriere della Sera Cucina 1 euro 7,90
[A: 06/03/2015– I: 09/08/2016 – T: 13/08/2016] - &&& --   
[tit. or.: Tender at the Bone; ling. or.: inglese; pagine: 334; anno 1998]
Questo è il primo libro della serie dedicata alle storie di cucina edite dal Corriere della Sera. Nelle intenzioni dei curatori, quindi, quello che dovrebbe dare l’impronta alla collezione, che dovrebbe invogliare l’acquirente a continuare ad investire i suoi soldi nella collana. Fortuna che ne ho letti altri prima, che invece, pur se con delle punte di interesse, per me raggiunge una sufficienza stiracchiata. Dovuta più ad alcune circostanze esterne, ed al fatto che alcuni passi riportavano altro alla mente. La prima circostanza è stata il luogo di lettura. Vacanze itineranti in Croazia, dove si trovò ogni volta appartamentini con uso di cucina, così che si poteva cucinare in casa la sera, per mantenere una dieta importante e rigorosa. E mentre ci si attardava con cibi di base, si può anche sognare con il gigantesco “Boeuf à la Bourguignonne” (che non sarà quello di Julia Child, ma ci va vicino). Inoltre, più che un vero e proprio libro di storie di cucina, Ruth Reichl si concentra su sé stessa, e sulla sua storia, dove da onesta e basilare conoscitrice del cibo elementare, si andrà evolvendo, nel corso della sua vita, verso il ruolo di uno dei più importanti critici gastronomici americani, direttrice per anni (purtroppo però anche gli ultimi) di quella rivista cult che fu “Gourmet”. Ed allora lasciamo un attimo da parte le ricette, e seguiamo Ruth ed i suoi rapporti con le altre donne (certo ci sono uomini nel libro, ma marginali come dei contorni poco riusciti). La madre, in primo luogo, sempre eccessiva, sempre dedita ad esperimenti culinari azzardati (sarà un caso che lei la chiama “la regina della muffa”?), che ha sempre altro da fare. Un esempio illuminante: la madre ha un impegno, la bambinaia ha il suo giorno libero, allora la madre paga lei, bambina e per di più impaurita, per farsi da sola la babysitter. Fortuna che c’è Alice, la governante caraibica, che le insegna del cibo isolano, e le offre quelle “mele con salsa dura” che saranno conforto per tutta la sua vita. Fortuna che c’è la signora Peavey, governante e cameriera, corpulenta plurilingue che la introduce nei meccanismi classici della cucina. Fortuna che, sulla parte affettiva, c’è zia Birdy, che appunto è l’unica cui rivolgersi, certo non per cucinare, visto che l’unica cosa che abbia mai cucinato in vita sua è l’insalata di patate. Fino alla fortunata coincidenza che la fa invitata alla mensa di una sua ricca compagna di classe, dove le viene servito un filetto di bue, che si scioglieva talmente dolcemente in bocca, che da quel punto in poi capì la cucina essere la sua strada. Certo la parte dell’infanzia è più intrigante, poi diventa storia personale come di molte donne americane di quegli anni. Un po’ hippie, un po’ no. Qualche esperienza tipo comune californiana, dove Ruth continua tuttavia ad esercitarsi con il cibo. E tante persone che si incontrano durante il corso della propria vita, e con le quali si condivide la tavola. Se poi a quella tavola si porta il proprio cibo, la propria sapienza culinaria, allora i piaceri sono moltiplicati in modo esponenziale. Come quando riesco a mangiare le torte al cioccolato o le quiche di Ale. Ma Ruth continua, continua ad essere aperta alle esperienze diverse che le si presentano, passa diversi stadi di consapevolezza culinaria: cameriera pronta a seguire consigli e suggerimenti di chi ne sa più di lei, cuoca per i propri amici, cuoca in alcuni ristoranti, fino a diventare, casualmente se si vuole ma di certo consapevolmente, una critica gastronomica attenta e tenace. Un viaggio di vita, un’autobiografia certo, dove il cibo aiuta Ruth a capire le persone che incontra, le persone che la circondano, le persone che la sostengono. Quel che ne esce, di Ruth come figura, è quello di una donna che, con tutte le difficoltà che ognuno ha, nel cibo trova una via e nel suo trattamento il modo di camminare per la propria strada. Capisce le persone vedendo cosa mangiano. Capisce come si possa e si debba cambiare il modo di gestire un ristorante per mantenersi equidistanti tra il successo economico ed il rigore alimentare. Tuttavia, non è un libro che mi ha soddisfatto pienamente. Perché ho trovato le ricette presentate di difficile esecuzione, perché non ho trovato un indice delle ricette stesse (che invece sarebbe stato utile), perché come “memoir” ha dei punti di interesse, ma altri che, forse, interessano solo a chi la conosce meglio di me. Credo (spero) che la collana mi riservi elementi di maggior interesse e coinvolgimento.
Laurie Colwin “Home cooking” Corriere della Sera 20 euro 7,90
[A: 06/07/2015– I: 21/12/2016 – T: 24/12/2016] - & e ½ 
[tit. or.: Home Cooking. A writer in the Kitchen; ling. or.: inglese; pagine: 248; anno 1988]
Ecco un esempio di come NON dovrebbe essere confezionato non dico un libro di cucina (ognuno lo confeziona come può e vuole), ma un libro inserito in una collana di libri di cucina. O meglio di “Storie di cucina”, come recita sapientemente la manchette di questa collana edita dal Corriere della Sera. Ho detto in altre critiche ed uscite di questa collana, che se parliamo di storie di cucina mi aspetto racconti, romanzi ed anche mini-saggi che si leghino, si armonizzino e girino intorno al cibo. Penso ad “Affari di cuore” di Nora Ephron o “Dolce come il cioccolato” di Laura Esquivel (di cui ho già parlato qui ed altrove). Poi ci sono libri di ricette, ma non è questa la sede di fare un libro di ricette, altrimenti avremmo comperato altro. Se invece NON abbiamo un racconto, NON abbiamo un romanzo, ma dei pensieri sparsi o si ha la capacità di un Julian Barnes (“Il pedante in cucina”) di prendere pezzi sparsi, e poi amalgamarli in una grande unica ricetta, oppure si dovrebbe mettere a corredo del libro qualche articolo esplicativo per chi non è nato “sapiente tuttologo”. Cosa appunto che NON succede qui (mi dispiace mettere tutti questi maiuscoli forzati che stanno a sottolineare il mio dispiacere per una collana ed un libro che avrebbero potuto essere meglio letti e gustati). Se infatti prendiamo il testo in sé, è slegato, e non si capisce perché l’autrice ammicchi tanto come se fossimo amici da anni. Stiamo imparando a conoscerci, quindi cominciamo con un po’ di formalismo. Perché Laurie Colwin, ignota praticamente al pubblico italiano (pare che solo 5 persone abbiano avuto il coraggio di dire di possedere questo libro), è stata, al contrario, un personaggio importante della scena culturale americana. Stata perché benché giovane (nata nel 1944) muore a soli 48 anni di infarto. In questi men che cinquant’anni scrive 5 libri di racconti, e raccoglie in due libri i suoi trafiletti dedicati al cibo e pubblicati sul magazzino americano “Gourmet”. Ora se qualcuno ne avesse scritto un minimo, probabilmente avremmo meglio apprezzato anche il sottotitolo dell’edizione originale (“Uno scrittore in cucina”), e avremmo sorvolato appunto su tutti quegli aspetti che, leggendo “senza paracadute” mi hanno storto alquanto durante la lettura. Quel continuo riandare ad americanismi (libri di cucina americani d’antan, ingredienti americani difficilmente recuperabili altrove, gusto americano di stare insieme, bere drink, fare barbecue) anche criticandoli, e ci sta tutto, ma che si vede che sono prettamente “localizzati” e quindi se decontestualizzati lasciano il tempo che trovano. Si apprezza lo sforzo di Laurie di non spaventare i neofiti che si avventurano in cucina con quelle “barriere architettoniche” che, a noi improvvisatori, fanno sembrare i nostri tentativi di “uova fritte” come un video di disabili proiettato affinché luminari della medicina ne possano discutere. Sono d’accordo, ma l’enfasi è senza dubbio eccessiva, che non c’è bisogno di batterie enormi di utensili per avere una cucina in grado di funzionare. Sono d’accordo che bisogna saper leggere le ricette, ed adattarle a sé stessi, all’occasione, ed alle successive uscite e riuscite. D’altra parte, Alessandra è una grande maestra, capace di cucinare “ordinary food” per la famiglia o imbastire cene “da ricevimento”. Guardarla organizzare e gestire il cibo, la spesa, la cucina è una grande lezione (peccato solo sia astemia, e io debba pensare alla sezione vini, ma ci sta, ne sono comunque contento e gratificato). Ma torniamo brevemente al testo. È piacevole svolazzare con Laurie nelle sue accennate vicende familiari, la sua origine ebrea (è stata traduttrice di Singer dall’yiddish), il marito di origine lettone (favolosa la torta lettone di compleanno), i suoi amici, le sue cene massimo per sei persone (altrimenti non si riesce a parlare). Meno le sue accennate ricette. Un po’ perché anche se descritte usano quei termini che tanto avevo sottolineato della loro inusabilità con Barnes (quant’è grande una cipolla media?), un po’ perché utilizza ingredienti che non conosco o di cui non conosco la reperibilità. Fagioli neri fermentati. Lattuga Iceberg o Libbs. Bologna di Lebanon. Patate di Minorca o Patate dell’Idaho. Ricette difficili da replicare senza di loro. E ricette con un uso smodato, per me eccessivo, di cetrioli. Divertenti, ma poco di più. Una lettura veloce, non impegnativa, ma molto sotto la sufficienza. Con un errore che non mi aspettavo, anche se sfuggito ai molti che non sono rimasti come me incuriositi da un “Suffolk Pond Pudding”. Come pensare di mangiare un dolce in cui: si fodera una bacinella da budino con pasta sfoglia al grasso di rognone; si taglia a pezzettini il burro mescolato con lo zucchero; si prende un limone intero, lo si punzecchia, lo si ficca sopra la miscela di burro e zucchero, lo si riveste con altro burro e zucchero, si copre con il coperchio fatto di pasta, si avvolge tutto in uno strofinaccio per budini e si fa cuocere a bagnomaria per quattro ore. A parte il sapore che deve essere tremendo, il piatto, come ho scoperto su Internet, in realtà si chiama “Sussex Pond Pudding”. Peccato!
“Cenare da soli costituisce uno dei piaceri della vita.” (44)
“Perfino di domenica sera, nella maggior parte delle case si possono trovare un po’ di burro, un po’ di olio di oliva e in genere delle uova.” (118) [falso!!]
“Conosco una coppia che tiene una sorta di registro delle cene: segna chi è venuto, chi ha fatto amicizia con chi e che cosa è stato servito.” (135) [vero!!]
“Un sandwich alla bistecca fredda è qualcosa di disgustoso, ma è al contempo qualcosa di meraviglioso … con una grossa tazza di caffè.” (190) [ne vogliamo parlare?]
Per una serie incresciosa di concomitanze pensavo di saltare la trama di questa settimana. Ma la futura e prolungata assenza, nonché l’omaggio che alcune di queste righe portano ad una provetta “cucinera”, mi hanno forzato ad uscire anche questa settimana. Sperao che gli strascichi del 16 si arenino quanto prima regalandoci un luminoso 17.

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