Un titolo-rebus che farebbe
contento il mio amico Ennio. Per chi non lo avesse decrittato, mi riferisco
alla casa editrice di questi quattro insufficienti romanzi (cioè …). Purtroppo
di autori italiani, che, come i miei lettori sanno, sono una mia annosa
debolezze. Qui ai livelli più bassi che si siano registrati nei miei quartetti,
sebbene almeno tre abbiano vinto il ben noto Premio Tedeschi. L’ultimo, ed
anche il più insoddisfacente, è frutto anche di un mio errore. Se volete, leggetene
i miei sunti, astenendovi vi prego di leggerne.
Aldo Budriesi “Identità violate” Mondadori euro 4,90
[A: 06/01/2015 – I: 28/06/2016 – T: 30/06/2016] - &&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244;
anno 2015]
Il
solito periodico premio delle edizioni Mondadori, il ben noto premio Alberto
Tedeschi, di cui tante volte negli ultimi anni ho scritto, questa volta premio
un autore romano, Aldo Budriesi. Autore di gialli per lo più usciti in edizioni
minori, tipo le edizioni Delos, qui si presenta con un’opera più articolata,
anche se, e si nota dei miei giudizi, non mi ha soddisfatto pienamente. Sapete
anche la mia passione per gli autori italiani in generale, e per il loro uso
delle modalità poliziesche per descrivere realtà locali. Ebbene, seppur non si
può negare la capacità di reggere le più di 200 pagine con una scrittura
discretamente coinvolgente, questo libro lascia insoddisfatti. Vengono infatti
utilizzati molti stereotipi del genere, senza però che scatti quel meccanismo
di identificazione con i personaggi e con la storia che fa la differenza tra un
libro ed un buon libro. Siamo a Genova, dove spesso si svolgono per gli autori
italici, anche non genovesi, fatti di sangue e di mistero. Penso ad una autrice
mondadoriana doc come Annamaria Fassio o ad un cultore dei carruggi come Bruno
Morchio. Budriesi ci fa seguire le indagini del commissario Santagata, tipico
esempio di poliziotto con delle buone idee e delle pessime azioni. Ci viene
detto (forse il nostro è protagonista di altre storie che non sappiamo) che fu
coinvolto in indagini legate alla camorra, dove mise qualche piede in fallo, e
dove il sistema lo salvò da conseguenze peggiori. Ovvio che questo lasci un
debito, cui viene chiesto presto di saldare il conto. Quando, in un cascinale
isolato viene ritrovato il corpo senza vita (e molto devastato) di un
personaggio ben in vista della società genovese, il commendator Giacomo
Meneghetti. Per tacitare i sospetti, Santagata viene convinto dai suoi
superiori a spostare il corpo nella villa padronale. In modo da contenere un
possibile scandalo di grandi dimensioni, trasformando così un omicidio efferato
in un delitto passionale. Ovvio che la messa in scena, pur ben orchestrata,
mostri qualche falla, che Santagata all’inizio tenta di rabberciare. Ma da buon
commissario e servitore dello Stato, non può fare a meno di continuare ad
indagare. Indagare sul commendatore, sulla sua strana vita ritirata, sulla
famiglia dello stesso, sulla moglie, sulla madre, sui suoi affari. Scopre ben
presto che qualcosa non torna. Perché Meneghetti ha liquidato molte delle sue
attività prima di essere ucciso? Perché era pronto un aereo privato con
destinazione ignota, cui Meneghetti non è mai arrivato? Santagata è soprattutto
colpito dall’atteggiamento della moglie, e del suo strano servitore giapponese.
Ovvio anche che, mentre indaga sui traffici del commendatore, il sistema
politico gli metta continuamente bastoni tra le ruote, quasi ad indurlo a
chiudere tutto al più presto come omicidio commesso da ignoti. La svolta
avviene quando muore anche il segretario di Meneghetti. Indagando su questo
secondo delitto, Santagata, aiutato dalla fedele assistente (e anche qualcosa
in più) Carla Galletti, scopre (e ci fa scoprire) il mondo dello “shibari”. Un
bondage raffinato, una sessualità ai limiti estremi, di cui si legge, e di cui
mai ho avuto interesse ad approfondire. Una pratica che Kojima, il maggiordomo
di casa Meneghetti, praticava con la moglie del commendatore. Io sono per una
sana e diretta sessualità, per un uso altrettanto diretto del corpo, e tutte
queste “impalcature” mi lasciano discretamente freddo e poco coinvolto. Da
questa morte si scoprono a catena ricatti nonché la successiva morte dello
stesso giapponese. Nonché viene alla luce la figura della madre di Meneghetti,
avviata con il suo Alzheimer ad una morte prossima e straniante, e ricoverata
in una clinica in territorio francese. Indagando presso di lei, Santagata viene
a capo di molti misteri. E si palesano le violazioni del titolo. L’identità di
Santagata come servitore dello Stato, più e più volte violata dallo stesso
Stato. L’identità del segretario, omosessuale e guardone. L’identità della
moglie di Meneghetti, piegata a giochi poco salubri dal giapponese. L’identità
stessa infine di Meneghetti, che ci viene rivoltata come un calzino in un
deciso colpo di scena, forse l’unico che in effetti mi ha lasciato sorpreso.
Alla fine, per buona pace del sistema politico genovese e delle sue corruttele,
Santagata riconduce tutto nel suo giusto ambito, dove finalmente i colpevoli
pagheranno il fio. Ma tutta l’ultima parte si avvia troppo velocemente verso
l’atteso finale, senza che il povero lettore riesca a “prenderne parte”. Si
legge, si capisce, ma non si attua quello scatto felice che i migliori autori
riescono a produrre a questo punto. Insomma, una buona capacità di scrittura,
sorretta da una storia dalle premesse interessanti ma dalle conclusioni troppo
“consolatorie”. Dovrei essere più selettivo verso questa massa di autori italiani
che si affacciano al genere, ma a volte le passioni sono difficilmente
selettive. Speriamo meglio in altro, che molti autori ho da leggere nella parte
italiana della mia libreria. Infine, comunque, un grazie a Budriesi per questi
versi di Caproni.
“Se non dovessi tornare, / sappiate che non
sono mai/ partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove
non fui mai. (Giorgio Caproni)” (54)
Diego Lama “La collera di Napoli” Mondadori euro 5,90
[A: 03/10/2015 – I: 01/08/2016 – T: 03/08/2016] - &&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 238;
anno 2015]
Una
buona famiglia di scrittori, questa dei Lama. Diana mi fece una buona
impressione con un Noir di due anni fa uscito per la collana del Sole 24ore.
Ora Diego, il fratello, scrive un giallo di discreto impatto, con il quale
vince il periodico premio messo in palio dalla Mondadori, il ben noto, per chi
mi segue, Premio Alberto Tedeschi. Una buona scrittura, anche, con la presenza
di un nuovo personaggio, il commissario Veneruso. Che con le sue riflessioni,
sempre un po’ nere, che ondeggiano tra il pessimismo e la depressione, dà una
impronta a tutto il romanzo. Il suo rapporto con il sottoposto Serra, che lui
maltratta ma che a lui serve da contraltare alle riflessioni per dipanare le
intricate matasse. E che lascerà un’ultima vena di tristezza nel commissario,
morendo anche lui di colera, come migliaia di napoletani. Perché, ovvio se si
parla di così tante morti, siamo sì a Napoli, ma ci collochiamo nel 1884. Devo
anche dare atto ad una buona ricostruzione dell’ambiente dell’epoca, con le
descrizioni della città che ne riportano il carattere di allora, già degradato.
Il porto, le passeggiate a mare, le discariche, la visita di re Umberto I (che
per i soccorsi portati fu chiamato “Re Buono”, prima di essere coinvolto nel
famoso scandalo della Banca Romana del 1898 e nella repressione guidata da Bava
Beccaris, per cui il soprannome fu cambiato in “Re Mitraglia”). Ma torniamo al
testo. L’altro lato di Veneruso è una buona dose di empatia verso i “malfattori
casuali”, come il giovane falegname che, per una serie di ragioni che vi lascio
leggere, uccide la matrigna e la sega in più pezzi pe disfarsene. Infine, c’è
il rapporto assai conflittuale con la Chiesa, ma soprattutto con i suoi esponenti,
preti e suore, che poi saranno l’ossatura della storia principale. Perché l’altro
lato caratterizzante del romanzo è l’accavallarsi delle storie, una sorta di
affabulazione, che si disperde in una serie di rivoletti. Del falegname si è
detto. Così di Serra. Poi c’è anche il commercio dei neonati, che i meno
abbienti vendono ai “signori”, ed alla scoperta della mezzana che gestisce il
traffico. Niente di nuovo sotto il sole, comunque. Il filone principale però è
dato dall’inchiesta, che stenta comunque a decollare, sul ritrovamento di
cinque cadaveri di giovanette. Tutte portate a mare dalle fogne e difficilmente
riconoscibili, per i morsi di topi ed altre bestie di cattivo gusto. Il tutto
complicato dall’epidemia di colera di cui accennavo, e che portò alla morte di
7.994 persone nella città di Napoli (pari a circa il 2% della popolazione
cittadina del tempo). Veneruso non sa che pesci prendere, dando spesso la colpa
alle sue scarse capacità per non riuscire a trovare nessun appiglio. Che gli
viene fornito quando suor Giuseppina, del convento di Santa Maria Vergine a
Porta Capuana, denuncia la scomparsa di una giovinetta del convitto, la bella
Linda. Da qui, pur con tutti i contorcimenti e le lentezze del caso, si
comincia a risalire la china. Ben presto, aiutato anche se obtorto collo da
suor Elvira e suor Angela Maria, Veneruso scopre che tutte le giovani erano
ospitate dalle suore. Come ben presto (a noi) ed un po’ più lentamente a
Veneruso viene in mente che ci sia un legame tra tutte. Infatti erano tutte,
compresa Linda, parte di una consorteria che venerava come nume tutelare Saffo.
Linda, tra tutte, era la più bella, e la più intraprendente. Tanto che cade
anche nelle trame di don Tommasino con cui ha frequenti rapporti. Cosa che
scandalizza le “sorelle” che la bandiscono. Soprattutto il capo della setta,
che scopriamo essere proprio suor Elvira. Grandi scene melodrammatiche,
confessioni estorte, storie a pioggia, che portano anche a scoprire che le
giovani morte avevano anche torturato Linda con una candela. E che suor Angela
Maria, in realtà, era anche la madre di Linda. C’è di tutto per farne un dramma
“alla Carolina Invernizio”, e questa fa cadere molto il tono dell’ultima parte
del libro, dove già sappiamo come andrà a finire, ed aspettiamo di capire solo
come si muoverà il nostro commissario. In sintesi, una buona scrittura, un buon
personaggio, una giusta dose di mescolanza tra le storie, che arricchiscono e
rendono vivido il quadro della Napoli di allora. Uno sguardo non
compassionevole sui personaggi al limite della società, laddove appunto si
muove il commissario Veneruso. Che aspettiamo in altre e magari più stringate
trame.
Andrea Franco “L’odore dell’inganno” Mondadori euro 5,90
[A: 19/01/2016 – I: 07/11/2016 – T: 09/11/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 177;
anno 2016]
Avevo
letto il primo libro (non i racconti che li ho saltati a piè pari) scritto da
Franco quando uscì per i Gialli Mondadori in quanto vincitore del Premio
Tedeschi. Ne parlai, trovandolo non eccelso ma sicuramente ben scritto e
dosato. Ora esce una nuova puntata degli “odori” di Franco. Questa volta però,
mi convince assai meno. Faccio un piccolo passo di lato, per dire appunto che
Franco mette in piedi una sua saga, basata sulle gesta investigative di un
monsignore, don Attilio Verzi, e svolgentesi intorno alla meta del 1800. La
particolarità di don Verzi è, appunto, di sentire gli odori, e di usare questo
fiuto per risolvere i misteri in cui viene coinvolto. Un’idea interessante
(potremmo parlare del “fiuto dell’investigatore” con una facile battuta), anche
se a me suona come un riecheggio di altri investigatori con altre
particolarità. Mi viene infatti subito in mente l’ispettore Ricciardi di
Maurizio de Giovanni ed il suo vedere le ombre dei morti ammazzati. Torniamo
però nel solco narrativo, e nel mezzo del tempo di don Verzi. In queste
vicende, infatti, siamo nel pieno dell’inizio (scusate il tentato ossimoro) del
pontificato di papa Mastai, cioè Pio IX. Che, scoperte le doti di don Verzi, lo
chiama alla guida dell’Ufficio delle Inchieste del Regno Vaticano (siamo, lo
ricordo, nel 1846). Ma se nella prima storia tutto era funzionale e ben
inserito, qui i personaggi, la storia, e soprattutto don Verzi sembrano servire
solo alla descrizione di un clima, propedeutico ad altre avventure, come ci
lascia intuire il sottofinale del libro, di cui non parlerò qui. Ciò rende
questo libro un poco lento e di difficile appassionamento. I comprimari ci sono
ancora, don Giani, con il suo ottimismo, suor Rebecca, che sa di pulito e serve
sempre da ottimo contraltare quando contrasta i dubbi del nostro monsignore, il
capitano Iacoangeli, capo della Milizia urbana, la mano operativa delle
attività quando si svolgono fuori della cinta vaticana. Ma sono comprimari che
non risaltano gran che. D’altra parte se tutto il libro è moscio, perché non
loro? Purtroppo, poi, sparisce lo scrivano Attenni, che per motivi di blues mi
aveva attirato. Dicevo la storia è un pretesto per farci entrare nel clima dei
primi mesi del pontificato di Pio IX e nel mondo e nel modo di vivere della Roma
bene. Sparisce misteriosamente la nipote di un conte, promessa sposa al nipote
di un cardinale. Don Verzi è quindi costretto, suo malgrado, a visitare i
luoghi alti dei benestanti romani. Dove, com’è ovvio, si trova male. E ce ne
illustra i difetti. Alterigia, presupponenza, mania di grandezza. Il conte ed
il Cardinale sanno di avere potere, e lo usano. A scapito di tutto e di tutti.
Soprattutto verso il clero si scagliano le idee di don Verzi, che ha un altro,
ed alto, concetto di cosa debba fare un prete in primis, ed un porporato, a
maggior ragione. Eponimi poi della dabbenaggine dei potenti sono Demetrio, il
figlio del conte, ed il promesso sposo Palmiro (che scelta infelice del nome,
che a noi rimanda sempre a tutt’altro clima e tutt’altra persona). Che per
sfuggire la noia, non trovano di meglio che uscire nottetempo, e mescolarsi
alla “plebe”, giocando e bevendo. Dedicandosi, in particolare, a quella modo di
bere tipico romano detto “passatella”. In cui c’è un caporione che comanda da
bere a scapito di un malcapitato che viene sbeffeggiato da tutti. Per chi se ne
ricorda, se ne parla nel “Rugantino”. Ovviamente, nelle loro scorribande
notturne, Demetrio e Palmiro coinvolgono anche la bella Chiara, anche se poi
nella notte ognuno fa per sé. Ed in quelle notti, Chiara viene a lungo
corteggiata dal popolano Ernesto. Il quale, come capiamo subito, è scelto dai
potenti come capro espiatorio, a ragione o a torto. Il dilemma di don Verzi nel
coinvolgere Ernesto, è l’amicizia di questi con il capopopolo romano Angelo
Brunetti, detto Ciceruacchio (che in romano vuol dire “grassottello”). Dopo
essersi dibattuto in un grande nulla per circa 150 pagine che si trascinano
stancamente, con il “basso continuo” di don Verzi sul profumo di inganno che
tutta la vicenda emana, nelle ultime venti pagine, finalmente, il prete decide
di agire. Risolve quindi a suo modo la vicenda, con l’inganno anche lui.
Convocando tutti i potenti, conti, cardinali e loro parenti, ed esibendo una
finta prova. Che farà cadere il colpevole in trappola, che salverà l’onore di
Ernesto, ma che lascerà la decisione sulle pene e quant’altro ad altri che
questo poco interessa al prete. Preso da quel sottofinale cui accennavo. C’è
simpatia in me verso l’autore, la sua scrittura, e l’ambiente romano a pochi
anni dalla Repubblica Romana di mazziniana e garibaldina memoria. Tuttavia c’è
poco altro, che il giallo non appassiona ed il libro si trascina senza infamia
verso la fine. Dove arriva, purtroppo, anche senza lode.
“Ne approfitterò per fare una passeggiata e
riflettere un po’. Sai bene quanto mi piace camminare.” (81)
“Ma dove sta scritto che non si debbano mai
commettere errori?” (142)
“La risposta più importante è già nel
domandare … nel momento in cui capiamo di non potercela fare solo con le nostre
forze.” (160)
Alberto Marini “Bed Time” Mondadori euro 5,90
[A: 07/11/2014 – I: 19/11/2016 – T: 21/11/2016] – ½
[tit. or.: Mientras duermes; ling. or.: spagnolo; pagine: 272;
anno 2011]
Lettura
frutto di un errore e di una incomprensione. Non dovevo leggerlo, infatti. Ed è
risultato uno dei peggiori libri entrati nella mia biblioteca. L’errore deriva
dal fatto che, essendo un fan dei gialli italiani, visto il nome dell’autore,
l’ho comperato ad occhi chiusi. Per scoprire poi, ora che mi apprestavo a
leggerlo, che l’autore è sì italiano, ma vive da sempre a Barcellona, e scrive
in spagnolo, come certifica il titolo originale (che significa “Durante il
sonno”). L’incomprensione deriva dal titolo inglese, che è poi il titolo non da
cui è tratto il film (del regista cult horror spagnolo Jaume Balagueró) ma il
contrario: Marini scrive la sceneggiatura e poi la “allarga” in un libro. Già
sono difficili i rapporti tra film e libri, quando vanno nella direzione
“normale”. Nella direzione inversa si rivelano in genere deludenti. Ora non ho
visto, né credo vedrò mai il film, ma posso confermare che il libro è
deludente. Tanto da meritare il voto più basso dei quasi 2000 libri che ho
recensito. Intanto, non è un giallo, un poliziesco o qualcosa che gli si possa
avvicinare. Secondo i recensori del film (non del libro che fortunatamente non
ne ho trovati) è un “thriller psicologico”. Che intanto, e sfortunatamente, il
buon Marini decide di spostare dall’originale Barcellona, ad una improbabile
New York. Scelta poco felice, che l’ambientazione catalana poteva dare un tocco
di intimismo alla strana vicenda del portiere dello stabile (César nel film e
Cillian nel libro, che tra l’altro è un nome irlandese, traducibile in italiano
con riferimento a certo San Chiliano martire a Wurzburg nel 689). Detto
portiere è convinto di non poter mai essere felice, viene assalito ogni notte
da pulsioni suicide, e per sopportarle e continuare a vivere, decide che
l’unico modo è rendere infelici gli altri. In questo suo squarcio di vita fa
per l’appunto il portiere, avendo quindi la possibilità di prendere contatto
con i numerosi inquilini dello stabile, e cercare di rovinare loro la vita. Fa
così con l’anziano signor Samuelson, cui nasconde le lettere che una sua
vecchia fiamma gli invia da un ospizio. Così con l’italo-americano Alessandro,
ex fanatico di “parkour”, ora paralizzato in seguito ad una caduta fatale.
Inciso, per chi non lo sapesse, il “parkour” Consiste nell'eseguire un
percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior
efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente
circostante, naturale o urbano, attraverso volteggi, salti, equilibrio,
scalate, arrampicate, ecc. Il portiere spinge Alessandro a muoversi (centimetri
alla volta) per arrivare ad una finestra e suicidarsi. Così con la signora
Norman, cui prima fa disperdere un cane, poi cerca di uccidere con la
cioccolata gli altri tre. Così con altri inquilini, su cui sorvoliamo. Che
tutto è più incentrato nel suo rapporto con la solare Clara. Rapporto
unidirezionale, che Clara non sospetta nulla, ma il portiere si introduce nel
suo appartamento, e quando dorme le aumenta il sonno con il cloroformio, per
poi dedicarsi alla ricerca di un modo, come dice lui, “per toglierle quel
sorriso dalla faccia”. Le prova tutte. Prima soft, bagni schiuma sbagliati,
indumenti intimi strofinati con l’ortica. Poi sempre più hard, mosche della
frutta, topi, scarafaggi. Ovviamente, Clara è terrorizzata dagli animaletti
(come scopre il portiere leggendo degli appunti). Ma anche così, non scompare
il sorriso ed il buonumore. Allora i giochi si fanno pesanti. Prima mentre lei
dorme ne abusa sessualmente. Poi ha uno scontro con Mark, che ha scoperto i
suoi traffici. Tanto che, durante una colluttazione, lo uccide. Per poi
riuscire a fuggire senza essere incolpato di nulla. Si pensa ad un suicidio,
avendo Mark scoperto che Clara è incinta ma non di lui. Finalmente Cillian può
finire la sua roulette russa, ha raggiunto il suo scopo, ma prima fa un ultimo
orrido scherzo alla suddetta ed ormai distrutta Clara. Tutto ciò si trascina,
senza suspense e senza coinvolgimento per tutte le quasi trecento pagine del
libro. Che ho continuato a leggere sperando in una svolta. Sperando nella
comparsa di un personaggio cui appassionarsi. Poi ho continuato nella speranza
che Cillian prendesse qualche batosta. Tutto inutile. Tutto si avvia verso la
sua già scontata fine. Tutti i personaggi avranno solo cattiverie da Cillian.
Anche Cillian stesso. Finalmente allora l’ho finito e posso dedicarmi a
qualcosa di più umano, di più poliziesco, di meno thrilling, di meno falsamente
psicologico.
“Ce l’ho in testa tutto il giorno, ogni
singolo istante. Non mi abbandona mai. Lei e il suo … sorriso.” (62)
Siamo già alla terza domenica del
mese, ed abbiamo quindi anche lo spazio per dedicarci ai libri che ci aiutano a
vivere felici, ponendo mano ad un arguto intreccio terapeutico- culinario.
Ancora a
combattere con gli asiatici, dove ogni volta penso di trovare una chiave
interpretativa dei loro modi di vita (non a caso ho letto molto di Banana ed
Haruki) ed ogni volta mi sorprendono con il loro modo sfuggente di reagire alle
situazioni complicate. Non sopporto chi, invece di rispondere ad una critica,
preferisce non rispondere del tutto, isolandosi in un silenzio inattaccabile.
Spero che i miei contatti indocinesi la smettano di farmi impazzire, ed allora
mi consolo con voci amici e lettori, mandandovi un abbraccio.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GENNAIO 2017
I libri felici non hanno paura di andare su e giù per le
pagini, ed ecco quindi, che prima di procedere con altre malattie, torno ad
occuparmi delle terapie per i mali d’amore, magari perché mangiare è sempre
un’attività che aiuta.
TERAPIE D’AMORE (V)
AFFARI DI CUORE
di NORA EPHRON (1983)
Pillole
di trama
Rachel è soddisfatta della sua vita, pienamente realizzata
come donna (è una cuoca provetta e i suoi libri di cucina vanno forti), come
madre (è in attesa del secondo figlio) e come moglie (è felicemente sposata con
un giornalista in carriera). Rachel è realizzata finché non realizza che Mark
la tradisce con una «spilungona» di sua conoscenza. A quel punto mette tutto in
discussone, ma con ironia, una spietata e catartica ironia.
Supposta-saggezza
«Il primo giorno non mi è sembrato molto buffo. Non mi è
sembrato molto buffo nemmeno il terzo giorno, ma ho cercato ugualmente di
scherzarci su». Nell’incipit di Affari di
cuore c’è già tutto lo spirito di questo gustosissimo romanzo con ricette
fortemente autobiografico. Quando si scopre che il marito numero due ti
tradisce (ma anche se fosse il numero uno o un fidanzato nuovo di zecca le cose
cambierebbero di poco) non c’è davvero niente di buffo, eppure ci può essere da
ridere, può essere una cosa seria da prendere in giro e Affari di cuore ne è la prova. Lungi dal diventare una palla di
rabbia e rancore, schiacciata dal peso delle reiterate coma ramificate a mo’ di
selva oscura sulla sua ignara testa, tra dubbi, paure, fragilità, spigolosità e
nevrosi, Rachel non perde la diritta via ma inizia una spassosissima e
intelligente riflessione sulle relazioni sentimentali, i matrimoni, gli amori,
le amicizie, gli uomini, le donne, il cibo e la cucina, su tutta la sua vita
insomma, che guarda con echi nuovi, ovvero con gli occhi aperti. Senza privarsi
del gusto, sacrosanto e lecito, di infierire sul marito fedifrago impenitente,
Rachel mette in discussione, con implacabile autocritica, prima di tutto sé
stessa; perché se lui è senza dubbio un bastardo traditore e privo di coraggio,
anche lei ha le sue colpe. La verità è che «il problema dell’infedeltà diventa
irrilevante di fronte al danno cerebrale che subiamo nello scoprire che una
grossa parte della nostra vita è tutt’altra cosa da quello che pensavamo». Si
tratta della presa di coscienza di quel fenomeno piuttosto diffuso che in gergo
esistenziale si chiama “avere sugli occhi due fette di prosciutto di montagna tagliato
a mano”. A essere ferito da un tradimento non è solo il cuore, ma anche il
cervello e proprio i danni subiti dall’intelligenza sono spesso causa di insane
reazioni e gesti inconsulti che hanno tutto il sapore (spesso molto appetitoso,
ad essere sinceri) della vendetta ma che, dopo una iniziale sensazione di
apparente soddisfazione, non fanno altro che mortificare ulteriormente
l’autostima. Allora è meglio fare come Rachel-Nora Ephron che sotto i colpi
implacabili di battute irresistibili, riflessioni intelligenti e constatazioni
fortemente condivisibili seppellisce affanni e rancori verso l’intera categoria
maschile, mettendoci una pietra, o una torta, sopra. Noi mettiamoci un libro.
Accettando che nella vita si sbaglia, abituandosi con rassegnazione al caos
sentimentale e venendo a patti con le nevrosi e le inevitabili complicazioni e
delusioni che la vita comporta, l’autrice suggerisce la ricetta per essere
donne intelligenti, autoironiche e vulnerabili, dimostrando che è possibile
trasformare un fatto tragico in una commedia, basta continuare a usare il
cervello quando il cuore va in tilt. Come dice Nora Ephron «preferisco che si
rida di me piuttosto che mi si compianga». Vietato piangersi addosso, quindi,
meglio riderci su. Ridere è liberatorio, fa bene al cuore e all’umore. Ridere è
la migliore medicina. E comunque è sempre meglio ridere che farsi rodere.
Posologia
Il titolo originale di Affari
di cuore è Heartburn che alla
lettera può essere inteso come “bruciore di cuore”. Pertanto il romanzo è indicato
soprattutto nel trattamento del bruciore di stomaco provocato da dispiaceri
sentimentali e stress emotivi che, notoriamente, si somatizzano a livello
gastrico. Consente di digerire tradimenti e delusioni amorose contrastando
efficacemente il reflusso gastroesofageo correlato all’acidità che viene
neutralizzata grazie all’alta percentuale di autocritica e autoironia, la cui
azione combinata evita il rischio che la condizione di donna tradita degeneri
in quella di erinni rancorosa.
Per attenuare il mal di testa (le corna pesano, il che si
ripercuote anche sulla cervicale) e l’infiammazione del cuore, il romanzo è
un’aspirina effervescente due volte più veloce contro il dolore. Grazie alla
sua formulazione a base di simpatia e arguzia si assorbe più rapidamente di
un’aspirina classica ed è facilmente digeribile L’alta percentuale di
serotonina, “l’ormone del buonumore”, diluita tra le righe lo rende un utile
alleato per rimediare ai danni cerebrali causati dal tradimento.
Si consiglia di assumere Affari
di cuore a stomaco vuoto perché stimola l’appetito. All’efficacia catartica
del divertimento, infatti, Nora Ephron unisce quella confortante e terapeutica
del cibo. Sono tante le ricette che la protagonista condivide con i lettori
mentre racconta la sua storia perché, come in tutta la produzione letteraria e
cinematografica dell’autrice il cibo è sempre un modo per raccontare le
persone, le situazioni, la vita. Per Rachel (e Nora) cucinare è una confortante
sicurezza alla fine di giornate dure: sapere che la farina e il brodo caldo,
aggiunti al burro fuso, si amalgano formando un composto cremoso, consente di
poter essere certi di qualcosa in un mondo privo di certezze. Certo questo non
funziona in caso di allergia ai fornelli, quando anche un bicchiere di latte e
Nesquik viene fuori con i grumi, ma un momento di crisi potrebbe essere
l’occasione per imparare una buona volta a stare in cucina oltre che al mondo
(vedi a proposito anche i pancake con la Nutella).
Effetti
collaterali
Come tutti i medicinali anche Affari di cuore può causare effetti indesiderati, sebbene non tutte
le persone li manifestino. Tra questi è stato riscontrato il forte impulso di
emulare il liberatorio lancio della torta in faccia al traditore, una pratica
sportiva che dovrebbe essere inserita nelle Olimpiadi della sopravvivenza
amorosa. È il modo in cui Rachel comunica al manto che il matrimonio è finito.
Nonostante ne sia innamorata decide che non può fare finta di niente (perché a
lui andrebbe bene lasciare tutto com’è, ovvero non dover rinunciare né alla
moglie né all’amante), non vuole più stare zitta e sceglie di lasciarlo in modo
estremamente teatrale. Nonostante sappia che probabilmente resterà sola e che
sarà dura, non vuole vivere nell’incubo di doversi tenere stretto il marito frugando
nel suo cassetti e domandandosi dove sia ogni volta che non c’è, non vuole
avere sul cuore una bomba inesplosa di rabbia, sofferenza e lacrime. Meglio
esplodere, magari lanciando una torta. Da notare la forma patologica
tipicamente femminile manifestata dalla protagonista quando, nel momento in cui
sta compiendo il gesto più coraggioso e avventato di tutta la sua vita, si
rallegra che il lancio avvenga in cucina dove il pavimento è di linoleum, che è
più facile da lavare. Ai primi sintomi di prurito alle mani si consiglia di
compiere il folle gesto (oh, io non vi ho detto niente e non mi assumo nessuna
responsabilità) con la torta al limone di Rachel (trovate la ricetta nel
libro), conservandone una fetta per celebrare l’evento. Se pensate che il vostro
ex non meriti neanche il tempo necessario a preparare un dolce, compratene uno
già fatto, ma che sia farcito con panna, crema o cioccolato. Anzi, meglio se
con tutti e tre.
Consigli
Cimentarsi in cucina, magari provando una delle ricette
della protagonista, potrebbe aiutare a stare meglio. Se vi sentite
particolarmente giù di morale, preparatevi un purè perché, a detta di Nora
Ephron «non c’è niente come un purè quando ci si sente a terra» (effettivamente
anche la sua consistenza assomiglia allo stato semidenso e “spappolone” in cui
versa l’umore di chi è sentimentalmente depresso). Sembra che le patate siano
ottime per fare da contorno alle varie fasi dell’innamoramento. Se crude sono
un vecchio e noto rimedio casalingo contro le bruciature, cotte a dovere
riducono l’infiammazione e calmano il dolore anche in caso di scottature
amorose. Sotto forma di purè, al forno, fritte, lesse o al cartoccio (tanto
sono buone comunque) s’invita a consumarle rigorosamente a letto, leggendo il
libro o guardando il film che ne è stato tratto.
Terapia
cinematografica sostitutiva
Sceneggiato dalla stessa Nora Ephron, Heartburn - Affari di cuore è diretto da Mike Nichols, regista
estremamente sensibile nel raccontare il mondo femminile. Meryl Streep è
un’allibita e disorientata Rachel mentre Jack Nicholson, con la sua aria
furfantesca da irresistibile canaglia (per la sua alzata di sopracciglio
ci vorrebbe il porto d’armi), rende più comprensibile quella
forma di perversione per la quale una donna intelligente perde la testa per un
uomo che, sentimentalmente parlando, è un gran bastardo (il vero marito di Nora
Ephron, a cui il personaggio è dichiaratamente ispirato, era Carl Bernstein,
uno dei giornalisti del caso Watergate, quindi non il primo babbeo di
passaggio) perché chi è brillante nel lavoro non lo è necessariamente anche in
amore, che della vita è un capitolo a parte per il quale serve intelligenza ma
anche sensibilità. E purtroppo le due qualità non sempre vanno d'accordo. Nel
passaggio al grande schermo l’incontenibile ironia delle riflessioni della
protagonista sfuma in una maggiore malinconia dovuta alla scelta di Mike
Nichols di insistere sulla dolorosa presa di coscienza che a volte non può
esistere una seconda possibilità. In questo modo il film diventa soprattutto
un'amara riflessione sul matrimonio e sulla fragilità delle illusioni su cui
poggia la vita di coppia.
Suggerisco di allietare, la proiezione con una fetta di
torta al limone (magari quella conservata prima del lancio), purè di patate o
budino di riso, seguendo ovviamente la ricetta di Nora.
Nora Ephron è la sceneggiatrice di un film cult come Harry ti presento Sally nonché la
regista di Insonnia d'amore, C'è posta
per te, Julie & Julia. La visione di questi film è sempre consigliata
in qualsiasi percorso di ricerca della felicità.
Commenti
Pur avendo letto solo questo libro, ho visto tutti i maggior
film diretti e sceneggiati da Nora Ephron, e li ricordo tutti per lo stato di
gentile allegria che mi hanno trasmesso.
Nora Ephron “Affari
di cuore” Corriere della Sera Cucina 19 euro 7,90
[trama scritta il 1 agosto 2016 e non
pubblicata]
Nora è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983. Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che nasce la storia. Un romanzo ricco di spunti divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese che scopre il tradimento del marito. Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti. Infarcita di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan). Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è affetta da malattie veneree). Punto nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del tradimento. Ma il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegolezza su matrimoni e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa. E noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.Finalino
Ovvio che Nora ed i suoi mi mettano il buonumore, anche se a
Rachel e Mark preferisco Meryl e Jack. E soprattutto vorrei l’indirizzo del
ristorante per prenotare un’insalata “alla Sally”. Quella sì che fa passare
tutti i mali…
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