domenica 15 gennaio 2017

Senza vittorie - 15 gennaio 2017

Un titolo-rebus che farebbe contento il mio amico Ennio. Per chi non lo avesse decrittato, mi riferisco alla casa editrice di questi quattro insufficienti romanzi (cioè …). Purtroppo di autori italiani, che, come i miei lettori sanno, sono una mia annosa debolezze. Qui ai livelli più bassi che si siano registrati nei miei quartetti, sebbene almeno tre abbiano vinto il ben noto Premio Tedeschi. L’ultimo, ed anche il più insoddisfacente, è frutto anche di un mio errore. Se volete, leggetene i miei sunti, astenendovi vi prego di leggerne.
Aldo Budriesi “Identità violate” Mondadori euro 4,90
[A: 06/01/2015 – I: 28/06/2016 – T: 30/06/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 244; anno 2015]
Il solito periodico premio delle edizioni Mondadori, il ben noto premio Alberto Tedeschi, di cui tante volte negli ultimi anni ho scritto, questa volta premio un autore romano, Aldo Budriesi. Autore di gialli per lo più usciti in edizioni minori, tipo le edizioni Delos, qui si presenta con un’opera più articolata, anche se, e si nota dei miei giudizi, non mi ha soddisfatto pienamente. Sapete anche la mia passione per gli autori italiani in generale, e per il loro uso delle modalità poliziesche per descrivere realtà locali. Ebbene, seppur non si può negare la capacità di reggere le più di 200 pagine con una scrittura discretamente coinvolgente, questo libro lascia insoddisfatti. Vengono infatti utilizzati molti stereotipi del genere, senza però che scatti quel meccanismo di identificazione con i personaggi e con la storia che fa la differenza tra un libro ed un buon libro. Siamo a Genova, dove spesso si svolgono per gli autori italici, anche non genovesi, fatti di sangue e di mistero. Penso ad una autrice mondadoriana doc come Annamaria Fassio o ad un cultore dei carruggi come Bruno Morchio. Budriesi ci fa seguire le indagini del commissario Santagata, tipico esempio di poliziotto con delle buone idee e delle pessime azioni. Ci viene detto (forse il nostro è protagonista di altre storie che non sappiamo) che fu coinvolto in indagini legate alla camorra, dove mise qualche piede in fallo, e dove il sistema lo salvò da conseguenze peggiori. Ovvio che questo lasci un debito, cui viene chiesto presto di saldare il conto. Quando, in un cascinale isolato viene ritrovato il corpo senza vita (e molto devastato) di un personaggio ben in vista della società genovese, il commendator Giacomo Meneghetti. Per tacitare i sospetti, Santagata viene convinto dai suoi superiori a spostare il corpo nella villa padronale. In modo da contenere un possibile scandalo di grandi dimensioni, trasformando così un omicidio efferato in un delitto passionale. Ovvio che la messa in scena, pur ben orchestrata, mostri qualche falla, che Santagata all’inizio tenta di rabberciare. Ma da buon commissario e servitore dello Stato, non può fare a meno di continuare ad indagare. Indagare sul commendatore, sulla sua strana vita ritirata, sulla famiglia dello stesso, sulla moglie, sulla madre, sui suoi affari. Scopre ben presto che qualcosa non torna. Perché Meneghetti ha liquidato molte delle sue attività prima di essere ucciso? Perché era pronto un aereo privato con destinazione ignota, cui Meneghetti non è mai arrivato? Santagata è soprattutto colpito dall’atteggiamento della moglie, e del suo strano servitore giapponese. Ovvio anche che, mentre indaga sui traffici del commendatore, il sistema politico gli metta continuamente bastoni tra le ruote, quasi ad indurlo a chiudere tutto al più presto come omicidio commesso da ignoti. La svolta avviene quando muore anche il segretario di Meneghetti. Indagando su questo secondo delitto, Santagata, aiutato dalla fedele assistente (e anche qualcosa in più) Carla Galletti, scopre (e ci fa scoprire) il mondo dello “shibari”. Un bondage raffinato, una sessualità ai limiti estremi, di cui si legge, e di cui mai ho avuto interesse ad approfondire. Una pratica che Kojima, il maggiordomo di casa Meneghetti, praticava con la moglie del commendatore. Io sono per una sana e diretta sessualità, per un uso altrettanto diretto del corpo, e tutte queste “impalcature” mi lasciano discretamente freddo e poco coinvolto. Da questa morte si scoprono a catena ricatti nonché la successiva morte dello stesso giapponese. Nonché viene alla luce la figura della madre di Meneghetti, avviata con il suo Alzheimer ad una morte prossima e straniante, e ricoverata in una clinica in territorio francese. Indagando presso di lei, Santagata viene a capo di molti misteri. E si palesano le violazioni del titolo. L’identità di Santagata come servitore dello Stato, più e più volte violata dallo stesso Stato. L’identità del segretario, omosessuale e guardone. L’identità della moglie di Meneghetti, piegata a giochi poco salubri dal giapponese. L’identità stessa infine di Meneghetti, che ci viene rivoltata come un calzino in un deciso colpo di scena, forse l’unico che in effetti mi ha lasciato sorpreso. Alla fine, per buona pace del sistema politico genovese e delle sue corruttele, Santagata riconduce tutto nel suo giusto ambito, dove finalmente i colpevoli pagheranno il fio. Ma tutta l’ultima parte si avvia troppo velocemente verso l’atteso finale, senza che il povero lettore riesca a “prenderne parte”. Si legge, si capisce, ma non si attua quello scatto felice che i migliori autori riescono a produrre a questo punto. Insomma, una buona capacità di scrittura, sorretta da una storia dalle premesse interessanti ma dalle conclusioni troppo “consolatorie”. Dovrei essere più selettivo verso questa massa di autori italiani che si affacciano al genere, ma a volte le passioni sono difficilmente selettive. Speriamo meglio in altro, che molti autori ho da leggere nella parte italiana della mia libreria. Infine, comunque, un grazie a Budriesi per questi versi di Caproni.
“Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai/ partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai. (Giorgio Caproni)” (54) 
Diego Lama “La collera di Napoli” Mondadori euro 5,90
[A: 03/10/2015 – I: 01/08/2016 – T: 03/08/2016] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 238; anno 2015]
Una buona famiglia di scrittori, questa dei Lama. Diana mi fece una buona impressione con un Noir di due anni fa uscito per la collana del Sole 24ore. Ora Diego, il fratello, scrive un giallo di discreto impatto, con il quale vince il periodico premio messo in palio dalla Mondadori, il ben noto, per chi mi segue, Premio Alberto Tedeschi. Una buona scrittura, anche, con la presenza di un nuovo personaggio, il commissario Veneruso. Che con le sue riflessioni, sempre un po’ nere, che ondeggiano tra il pessimismo e la depressione, dà una impronta a tutto il romanzo. Il suo rapporto con il sottoposto Serra, che lui maltratta ma che a lui serve da contraltare alle riflessioni per dipanare le intricate matasse. E che lascerà un’ultima vena di tristezza nel commissario, morendo anche lui di colera, come migliaia di napoletani. Perché, ovvio se si parla di così tante morti, siamo sì a Napoli, ma ci collochiamo nel 1884. Devo anche dare atto ad una buona ricostruzione dell’ambiente dell’epoca, con le descrizioni della città che ne riportano il carattere di allora, già degradato. Il porto, le passeggiate a mare, le discariche, la visita di re Umberto I (che per i soccorsi portati fu chiamato “Re Buono”, prima di essere coinvolto nel famoso scandalo della Banca Romana del 1898 e nella repressione guidata da Bava Beccaris, per cui il soprannome fu cambiato in “Re Mitraglia”). Ma torniamo al testo. L’altro lato di Veneruso è una buona dose di empatia verso i “malfattori casuali”, come il giovane falegname che, per una serie di ragioni che vi lascio leggere, uccide la matrigna e la sega in più pezzi pe disfarsene. Infine, c’è il rapporto assai conflittuale con la Chiesa, ma soprattutto con i suoi esponenti, preti e suore, che poi saranno l’ossatura della storia principale. Perché l’altro lato caratterizzante del romanzo è l’accavallarsi delle storie, una sorta di affabulazione, che si disperde in una serie di rivoletti. Del falegname si è detto. Così di Serra. Poi c’è anche il commercio dei neonati, che i meno abbienti vendono ai “signori”, ed alla scoperta della mezzana che gestisce il traffico. Niente di nuovo sotto il sole, comunque. Il filone principale però è dato dall’inchiesta, che stenta comunque a decollare, sul ritrovamento di cinque cadaveri di giovanette. Tutte portate a mare dalle fogne e difficilmente riconoscibili, per i morsi di topi ed altre bestie di cattivo gusto. Il tutto complicato dall’epidemia di colera di cui accennavo, e che portò alla morte di 7.994 persone nella città di Napoli (pari a circa il 2% della popolazione cittadina del tempo). Veneruso non sa che pesci prendere, dando spesso la colpa alle sue scarse capacità per non riuscire a trovare nessun appiglio. Che gli viene fornito quando suor Giuseppina, del convento di Santa Maria Vergine a Porta Capuana, denuncia la scomparsa di una giovinetta del convitto, la bella Linda. Da qui, pur con tutti i contorcimenti e le lentezze del caso, si comincia a risalire la china. Ben presto, aiutato anche se obtorto collo da suor Elvira e suor Angela Maria, Veneruso scopre che tutte le giovani erano ospitate dalle suore. Come ben presto (a noi) ed un po’ più lentamente a Veneruso viene in mente che ci sia un legame tra tutte. Infatti erano tutte, compresa Linda, parte di una consorteria che venerava come nume tutelare Saffo. Linda, tra tutte, era la più bella, e la più intraprendente. Tanto che cade anche nelle trame di don Tommasino con cui ha frequenti rapporti. Cosa che scandalizza le “sorelle” che la bandiscono. Soprattutto il capo della setta, che scopriamo essere proprio suor Elvira. Grandi scene melodrammatiche, confessioni estorte, storie a pioggia, che portano anche a scoprire che le giovani morte avevano anche torturato Linda con una candela. E che suor Angela Maria, in realtà, era anche la madre di Linda. C’è di tutto per farne un dramma “alla Carolina Invernizio”, e questa fa cadere molto il tono dell’ultima parte del libro, dove già sappiamo come andrà a finire, ed aspettiamo di capire solo come si muoverà il nostro commissario. In sintesi, una buona scrittura, un buon personaggio, una giusta dose di mescolanza tra le storie, che arricchiscono e rendono vivido il quadro della Napoli di allora. Uno sguardo non compassionevole sui personaggi al limite della società, laddove appunto si muove il commissario Veneruso. Che aspettiamo in altre e magari più stringate trame.
Andrea Franco “L’odore dell’inganno” Mondadori euro 5,90
[A: 19/01/2016 – I: 07/11/2016 – T: 09/11/2016] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 177; anno 2016]
Avevo letto il primo libro (non i racconti che li ho saltati a piè pari) scritto da Franco quando uscì per i Gialli Mondadori in quanto vincitore del Premio Tedeschi. Ne parlai, trovandolo non eccelso ma sicuramente ben scritto e dosato. Ora esce una nuova puntata degli “odori” di Franco. Questa volta però, mi convince assai meno. Faccio un piccolo passo di lato, per dire appunto che Franco mette in piedi una sua saga, basata sulle gesta investigative di un monsignore, don Attilio Verzi, e svolgentesi intorno alla meta del 1800. La particolarità di don Verzi è, appunto, di sentire gli odori, e di usare questo fiuto per risolvere i misteri in cui viene coinvolto. Un’idea interessante (potremmo parlare del “fiuto dell’investigatore” con una facile battuta), anche se a me suona come un riecheggio di altri investigatori con altre particolarità. Mi viene infatti subito in mente l’ispettore Ricciardi di Maurizio de Giovanni ed il suo vedere le ombre dei morti ammazzati. Torniamo però nel solco narrativo, e nel mezzo del tempo di don Verzi. In queste vicende, infatti, siamo nel pieno dell’inizio (scusate il tentato ossimoro) del pontificato di papa Mastai, cioè Pio IX. Che, scoperte le doti di don Verzi, lo chiama alla guida dell’Ufficio delle Inchieste del Regno Vaticano (siamo, lo ricordo, nel 1846). Ma se nella prima storia tutto era funzionale e ben inserito, qui i personaggi, la storia, e soprattutto don Verzi sembrano servire solo alla descrizione di un clima, propedeutico ad altre avventure, come ci lascia intuire il sottofinale del libro, di cui non parlerò qui. Ciò rende questo libro un poco lento e di difficile appassionamento. I comprimari ci sono ancora, don Giani, con il suo ottimismo, suor Rebecca, che sa di pulito e serve sempre da ottimo contraltare quando contrasta i dubbi del nostro monsignore, il capitano Iacoangeli, capo della Milizia urbana, la mano operativa delle attività quando si svolgono fuori della cinta vaticana. Ma sono comprimari che non risaltano gran che. D’altra parte se tutto il libro è moscio, perché non loro? Purtroppo, poi, sparisce lo scrivano Attenni, che per motivi di blues mi aveva attirato. Dicevo la storia è un pretesto per farci entrare nel clima dei primi mesi del pontificato di Pio IX e nel mondo e nel modo di vivere della Roma bene. Sparisce misteriosamente la nipote di un conte, promessa sposa al nipote di un cardinale. Don Verzi è quindi costretto, suo malgrado, a visitare i luoghi alti dei benestanti romani. Dove, com’è ovvio, si trova male. E ce ne illustra i difetti. Alterigia, presupponenza, mania di grandezza. Il conte ed il Cardinale sanno di avere potere, e lo usano. A scapito di tutto e di tutti. Soprattutto verso il clero si scagliano le idee di don Verzi, che ha un altro, ed alto, concetto di cosa debba fare un prete in primis, ed un porporato, a maggior ragione. Eponimi poi della dabbenaggine dei potenti sono Demetrio, il figlio del conte, ed il promesso sposo Palmiro (che scelta infelice del nome, che a noi rimanda sempre a tutt’altro clima e tutt’altra persona). Che per sfuggire la noia, non trovano di meglio che uscire nottetempo, e mescolarsi alla “plebe”, giocando e bevendo. Dedicandosi, in particolare, a quella modo di bere tipico romano detto “passatella”. In cui c’è un caporione che comanda da bere a scapito di un malcapitato che viene sbeffeggiato da tutti. Per chi se ne ricorda, se ne parla nel “Rugantino”. Ovviamente, nelle loro scorribande notturne, Demetrio e Palmiro coinvolgono anche la bella Chiara, anche se poi nella notte ognuno fa per sé. Ed in quelle notti, Chiara viene a lungo corteggiata dal popolano Ernesto. Il quale, come capiamo subito, è scelto dai potenti come capro espiatorio, a ragione o a torto. Il dilemma di don Verzi nel coinvolgere Ernesto, è l’amicizia di questi con il capopopolo romano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio (che in romano vuol dire “grassottello”). Dopo essersi dibattuto in un grande nulla per circa 150 pagine che si trascinano stancamente, con il “basso continuo” di don Verzi sul profumo di inganno che tutta la vicenda emana, nelle ultime venti pagine, finalmente, il prete decide di agire. Risolve quindi a suo modo la vicenda, con l’inganno anche lui. Convocando tutti i potenti, conti, cardinali e loro parenti, ed esibendo una finta prova. Che farà cadere il colpevole in trappola, che salverà l’onore di Ernesto, ma che lascerà la decisione sulle pene e quant’altro ad altri che questo poco interessa al prete. Preso da quel sottofinale cui accennavo. C’è simpatia in me verso l’autore, la sua scrittura, e l’ambiente romano a pochi anni dalla Repubblica Romana di mazziniana e garibaldina memoria. Tuttavia c’è poco altro, che il giallo non appassiona ed il libro si trascina senza infamia verso la fine. Dove arriva, purtroppo, anche senza lode.
“Ne approfitterò per fare una passeggiata e riflettere un po’. Sai bene quanto mi piace camminare.” (81)
“Ma dove sta scritto che non si debbano mai commettere errori?” (142)
“La risposta più importante è già nel domandare … nel momento in cui capiamo di non potercela fare solo con le nostre forze.” (160)
Alberto Marini “Bed Time” Mondadori euro 5,90
[A: 07/11/2014 – I: 19/11/2016 – T: 21/11/2016] – ½
[tit. or.: Mientras duermes; ling. or.: spagnolo; pagine: 272; anno 2011]
Lettura frutto di un errore e di una incomprensione. Non dovevo leggerlo, infatti. Ed è risultato uno dei peggiori libri entrati nella mia biblioteca. L’errore deriva dal fatto che, essendo un fan dei gialli italiani, visto il nome dell’autore, l’ho comperato ad occhi chiusi. Per scoprire poi, ora che mi apprestavo a leggerlo, che l’autore è sì italiano, ma vive da sempre a Barcellona, e scrive in spagnolo, come certifica il titolo originale (che significa “Durante il sonno”). L’incomprensione deriva dal titolo inglese, che è poi il titolo non da cui è tratto il film (del regista cult horror spagnolo Jaume Balagueró) ma il contrario: Marini scrive la sceneggiatura e poi la “allarga” in un libro. Già sono difficili i rapporti tra film e libri, quando vanno nella direzione “normale”. Nella direzione inversa si rivelano in genere deludenti. Ora non ho visto, né credo vedrò mai il film, ma posso confermare che il libro è deludente. Tanto da meritare il voto più basso dei quasi 2000 libri che ho recensito. Intanto, non è un giallo, un poliziesco o qualcosa che gli si possa avvicinare. Secondo i recensori del film (non del libro che fortunatamente non ne ho trovati) è un “thriller psicologico”. Che intanto, e sfortunatamente, il buon Marini decide di spostare dall’originale Barcellona, ad una improbabile New York. Scelta poco felice, che l’ambientazione catalana poteva dare un tocco di intimismo alla strana vicenda del portiere dello stabile (César nel film e Cillian nel libro, che tra l’altro è un nome irlandese, traducibile in italiano con riferimento a certo San Chiliano martire a Wurzburg nel 689). Detto portiere è convinto di non poter mai essere felice, viene assalito ogni notte da pulsioni suicide, e per sopportarle e continuare a vivere, decide che l’unico modo è rendere infelici gli altri. In questo suo squarcio di vita fa per l’appunto il portiere, avendo quindi la possibilità di prendere contatto con i numerosi inquilini dello stabile, e cercare di rovinare loro la vita. Fa così con l’anziano signor Samuelson, cui nasconde le lettere che una sua vecchia fiamma gli invia da un ospizio. Così con l’italo-americano Alessandro, ex fanatico di “parkour”, ora paralizzato in seguito ad una caduta fatale. Inciso, per chi non lo sapesse, il “parkour” Consiste nell'eseguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente circostante, naturale o urbano, attraverso volteggi, salti, equilibrio, scalate, arrampicate, ecc. Il portiere spinge Alessandro a muoversi (centimetri alla volta) per arrivare ad una finestra e suicidarsi. Così con la signora Norman, cui prima fa disperdere un cane, poi cerca di uccidere con la cioccolata gli altri tre. Così con altri inquilini, su cui sorvoliamo. Che tutto è più incentrato nel suo rapporto con la solare Clara. Rapporto unidirezionale, che Clara non sospetta nulla, ma il portiere si introduce nel suo appartamento, e quando dorme le aumenta il sonno con il cloroformio, per poi dedicarsi alla ricerca di un modo, come dice lui, “per toglierle quel sorriso dalla faccia”. Le prova tutte. Prima soft, bagni schiuma sbagliati, indumenti intimi strofinati con l’ortica. Poi sempre più hard, mosche della frutta, topi, scarafaggi. Ovviamente, Clara è terrorizzata dagli animaletti (come scopre il portiere leggendo degli appunti). Ma anche così, non scompare il sorriso ed il buonumore. Allora i giochi si fanno pesanti. Prima mentre lei dorme ne abusa sessualmente. Poi ha uno scontro con Mark, che ha scoperto i suoi traffici. Tanto che, durante una colluttazione, lo uccide. Per poi riuscire a fuggire senza essere incolpato di nulla. Si pensa ad un suicidio, avendo Mark scoperto che Clara è incinta ma non di lui. Finalmente Cillian può finire la sua roulette russa, ha raggiunto il suo scopo, ma prima fa un ultimo orrido scherzo alla suddetta ed ormai distrutta Clara. Tutto ciò si trascina, senza suspense e senza coinvolgimento per tutte le quasi trecento pagine del libro. Che ho continuato a leggere sperando in una svolta. Sperando nella comparsa di un personaggio cui appassionarsi. Poi ho continuato nella speranza che Cillian prendesse qualche batosta. Tutto inutile. Tutto si avvia verso la sua già scontata fine. Tutti i personaggi avranno solo cattiverie da Cillian. Anche Cillian stesso. Finalmente allora l’ho finito e posso dedicarmi a qualcosa di più umano, di più poliziesco, di meno thrilling, di meno falsamente psicologico.
“Ce l’ho in testa tutto il giorno, ogni singolo istante. Non mi abbandona mai. Lei e il suo … sorriso.” (62)
Siamo già alla terza domenica del mese, ed abbiamo quindi anche lo spazio per dedicarci ai libri che ci aiutano a vivere felici, ponendo mano ad un arguto intreccio terapeutico- culinario.
Ancora a combattere con gli asiatici, dove ogni volta penso di trovare una chiave interpretativa dei loro modi di vita (non a caso ho letto molto di Banana ed Haruki) ed ogni volta mi sorprendono con il loro modo sfuggente di reagire alle situazioni complicate. Non sopporto chi, invece di rispondere ad una critica, preferisce non rispondere del tutto, isolandosi in un silenzio inattaccabile. Spero che i miei contatti indocinesi la smettano di farmi impazzire, ed allora mi consolo con voci amici e lettori, mandandovi un abbraccio.

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni

GENNAIO 2017
I libri felici non hanno paura di andare su e giù per le pagini, ed ecco quindi, che prima di procedere con altre malattie, torno ad occuparmi delle terapie per i mali d’amore, magari perché mangiare è sempre un’attività che aiuta.

TERAPIE D’AMORE (V)
AFFARI DI CUORE di NORA EPHRON (1983)

Pillole di trama
Rachel è soddisfatta della sua vita, pienamente realizzata come donna (è una cuoca provetta e i suoi libri di cucina vanno forti), come madre (è in attesa del secondo figlio) e come moglie (è felicemente sposata con un giornalista in carriera). Rachel è realizzata finché non realizza che Mark la tradisce con una «spilungona» di sua conoscenza. A quel punto mette tutto in discussone, ma con ironia, una spietata e catartica ironia.
Supposta-saggezza
«Il primo giorno non mi è sembrato molto buffo. Non mi è sembrato molto buffo nemmeno il terzo giorno, ma ho cercato ugualmente di scherzarci su». Nell’incipit di Affari di cuore c’è già tutto lo spirito di questo gustosissimo romanzo con ricette fortemente autobiografico. Quando si scopre che il marito numero due ti tradisce (ma anche se fosse il numero uno o un fidanzato nuovo di zecca le cose cambierebbero di poco) non c’è davvero niente di buffo, eppure ci può essere da ridere, può essere una cosa seria da prendere in giro e Affari di cuore ne è la prova. Lungi dal diventare una palla di rabbia e rancore, schiacciata dal peso delle reiterate coma ramificate a mo’ di selva oscura sulla sua ignara testa, tra dubbi, paure, fragilità, spigolosità e nevrosi, Rachel non perde la diritta via ma inizia una spassosissima e intelligente riflessione sulle relazioni sentimentali, i matrimoni, gli amori, le amicizie, gli uomini, le donne, il cibo e la cucina, su tutta la sua vita insomma, che guarda con echi nuovi, ovvero con gli occhi aperti. Senza privarsi del gusto, sacrosanto e lecito, di infierire sul marito fedifrago impenitente, Rachel mette in discussione, con implacabile autocritica, prima di tutto sé stessa; perché se lui è senza dubbio un bastardo traditore e privo di coraggio, anche lei ha le sue colpe. La verità è che «il problema dell’infedeltà diventa irrilevante di fronte al danno cerebrale che subiamo nello scoprire che una grossa parte della nostra vita è tutt’altra cosa da quello che pensavamo». Si tratta della presa di coscienza di quel fenomeno piuttosto diffuso che in gergo esistenziale si chiama “avere sugli occhi due fette di prosciutto di montagna tagliato a mano”. A essere ferito da un tradimento non è solo il cuore, ma anche il cervello e proprio i danni subiti dall’intelligenza sono spesso causa di insane reazioni e gesti inconsulti che hanno tutto il sapore (spesso molto appetitoso, ad essere sinceri) della vendetta ma che, dopo una iniziale sensazione di apparente soddisfazione, non fanno altro che mortificare ulteriormente l’autostima. Allora è meglio fare come Rachel-Nora Ephron che sotto i colpi implacabili di battute irresistibili, riflessioni intelligenti e constatazioni fortemente condivisibili seppellisce affanni e rancori verso l’intera categoria maschile, mettendoci una pietra, o una torta, sopra. Noi mettiamoci un libro. Accettando che nella vita si sbaglia, abituandosi con rassegnazione al caos sentimentale e venendo a patti con le nevrosi e le inevitabili complicazioni e delusioni che la vita comporta, l’autrice suggerisce la ricetta per essere donne intelligenti, autoironiche e vulnerabili, dimostrando che è possibile trasformare un fatto tragico in una commedia, basta continuare a usare il cervello quando il cuore va in tilt. Come dice Nora Ephron «preferisco che si rida di me piuttosto che mi si compianga». Vietato piangersi addosso, quindi, meglio riderci su. Ridere è liberatorio, fa bene al cuore e all’umore. Ridere è la migliore medicina. E comunque è sempre meglio ridere che farsi rodere.
Posologia
Il titolo originale di Affari di cuore è Heartburn che alla lettera può essere inteso come “bruciore di cuore”. Pertanto il romanzo è indicato soprattutto nel trattamento del bruciore di stomaco provocato da dispiaceri sentimentali e stress emotivi che, notoriamente, si somatizzano a livello gastrico. Consente di digerire tradimenti e delusioni amorose contrastando efficacemente il reflusso gastroesofageo correlato all’acidità che viene neutralizzata grazie all’alta percentuale di autocritica e autoironia, la cui azione combinata evita il rischio che la condizione di donna tradita degeneri in quella di erinni rancorosa.
Per attenuare il mal di testa (le corna pesano, il che si ripercuote anche sulla cervicale) e l’infiammazione del cuore, il romanzo è un’aspirina effervescente due volte più veloce contro il dolore. Grazie alla sua formulazione a base di simpatia e arguzia si assorbe più rapidamente di un’aspirina classica ed è facilmente digeribile L’alta percentuale di serotonina, “l’ormone del buonumore”, diluita tra le righe lo rende un utile alleato per rimediare ai danni cerebrali causati dal tradimento.
Si consiglia di assumere Affari di cuore a stomaco vuoto perché stimola l’appetito. All’efficacia catartica del divertimento, infatti, Nora Ephron unisce quella confortante e terapeutica del cibo. Sono tante le ricette che la protagonista condivide con i lettori mentre racconta la sua storia perché, come in tutta la produzione letteraria e cinematografica dell’autrice il cibo è sempre un modo per raccontare le persone, le situazioni, la vita. Per Rachel (e Nora) cucinare è una confortante sicurezza alla fine di giornate dure: sapere che la farina e il brodo caldo, aggiunti al burro fuso, si amalgano formando un composto cremoso, consente di poter essere certi di qualcosa in un mondo privo di certezze. Certo questo non funziona in caso di allergia ai fornelli, quando anche un bicchiere di latte e Nesquik viene fuori con i grumi, ma un momento di crisi potrebbe essere l’occasione per imparare una buona volta a stare in cucina oltre che al mondo (vedi a proposito anche i pancake con la Nutella).
Effetti collaterali
Come tutti i medicinali anche Affari di cuore può causare effetti indesiderati, sebbene non tutte le persone li manifestino. Tra questi è stato riscontrato il forte impulso di emulare il liberatorio lancio della torta in faccia al traditore, una pratica sportiva che dovrebbe essere inserita nelle Olimpiadi della sopravvivenza amorosa. È il modo in cui Rachel comunica al manto che il matrimonio è finito. Nonostante ne sia innamorata decide che non può fare finta di niente (perché a lui andrebbe bene lasciare tutto com’è, ovvero non dover rinunciare né alla moglie né all’amante), non vuole più stare zitta e sceglie di lasciarlo in modo estremamente teatrale. Nonostante sappia che probabilmente resterà sola e che sarà dura, non vuole vivere nell’incubo di doversi tenere stretto il marito frugando nel suo cassetti e domandandosi dove sia ogni volta che non c’è, non vuole avere sul cuore una bomba inesplosa di rabbia, sofferenza e lacrime. Meglio esplodere, magari lanciando una torta. Da notare la forma patologica tipicamente femminile manifestata dalla protagonista quando, nel momento in cui sta compiendo il gesto più coraggioso e avventato di tutta la sua vita, si rallegra che il lancio avvenga in cucina dove il pavimento è di linoleum, che è più facile da lavare. Ai primi sintomi di prurito alle mani si consiglia di compiere il folle gesto (oh, io non vi ho detto niente e non mi assumo nessuna responsabilità) con la torta al limone di Rachel (trovate la ricetta nel libro), conservandone una fetta per celebrare l’evento. Se pensate che il vostro ex non meriti neanche il tempo necessario a preparare un dolce, compratene uno già fatto, ma che sia farcito con panna, crema o cioccolato. Anzi, meglio se con tutti e tre.
Consigli
Cimentarsi in cucina, magari provando una delle ricette della protagonista, potrebbe aiutare a stare meglio. Se vi sentite particolarmente giù di morale, preparatevi un purè perché, a detta di Nora Ephron «non c’è niente come un purè quando ci si sente a terra» (effettivamente anche la sua consistenza assomiglia allo stato semidenso e “spappolone” in cui versa l’umore di chi è sentimentalmente depresso). Sembra che le patate siano ottime per fare da contorno alle varie fasi dell’innamoramento. Se crude sono un vecchio e noto rimedio casalingo contro le bruciature, cotte a dovere riducono l’infiammazione e calmano il dolore anche in caso di scottature amorose. Sotto forma di purè, al forno, fritte, lesse o al cartoccio (tanto sono buone comunque) s’invita a consumarle rigorosamente a letto, leggendo il libro o guardando il film che ne è stato tratto.
Terapia cinematografica sostitutiva
Sceneggiato dalla stessa Nora Ephron, Heartburn - Affari di cuore è diretto da Mike Nichols, regista estremamente sensibile nel raccontare il mondo femminile. Meryl Streep è un’allibita e disorientata Rachel mentre Jack Nicholson, con la sua aria furfantesca da irresistibile canaglia (per la sua alzata di sopracciglio
ci vorrebbe il porto d’armi), rende più comprensibile quella forma di perversione per la quale una donna intelligente perde la testa per un uomo che, sentimentalmente parlando, è un gran bastardo (il vero marito di Nora Ephron, a cui il personaggio è dichiaratamente ispirato, era Carl Bernstein, uno dei giornalisti del caso Watergate, quindi non il primo babbeo di passaggio) perché chi è brillante nel lavoro non lo è necessariamente anche in amore, che della vita è un capitolo a parte per il quale serve intelligenza ma anche sensibilità. E purtroppo le due qualità non sempre vanno d'accordo. Nel passaggio al grande schermo l’incontenibile ironia delle riflessioni della protagonista sfuma in una maggiore malinconia dovuta alla scelta di Mike Nichols di insistere sulla dolorosa presa di coscienza che a volte non può esistere una seconda possibilità. In questo modo il film diventa soprattutto un'amara riflessione sul matrimonio e sulla fragilità delle illusioni su cui poggia la vita di coppia.
Suggerisco di allietare, la proiezione con una fetta di torta al limone (magari quella conservata prima del lancio), purè di patate o budino di riso, seguendo ovviamente la ricetta di Nora.
Nora Ephron è la sceneggiatrice di un film cult come Harry ti presento Sally nonché la regista di Insonnia d'amore, C'è posta per te, Julie & Julia. La visione di questi film è sempre consigliata in qualsiasi percorso di ricerca della felicità.

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Pur avendo letto solo questo libro, ho visto tutti i maggior film diretti e sceneggiati da Nora Ephron, e li ricordo tutti per lo stato di gentile allegria che mi hanno trasmesso.
Nora Ephron “Affari di cuore” Corriere della Sera Cucina 19 euro 7,90
[trama scritta il 1 agosto 2016 e non pubblicata]
Nora è stata (purtroppo è morta di leucemia 4 anni fa a 71 anni) una donna di lettere che in una delle sue incarnazioni, quella di sceneggiatrice, ho venerato per l’arguzia e la comicità che sapeva infondere alle sue trame. Non c’è bisogno certo di ricordare che il suo più grande successo fu “Harry ti presento Sally” (“When Harry Met Sally”). Ma prima di questo picco, sceneggiò nel 1986 il film “Heartburn” con Meryl Streep e Jack Nicholson, a partire proprio da questo saggio – romanzo – nonsocomeclassificarlo, che scrisse nel 1983. Perché questa è in realtà una “novel”, una novella, un ricordo autobiografico traslato, punteggiato di momenti di vita, ed infarcito, giustamente visto che siamo nel lato “Storie di cucina”, con qualche ricetta. Intanto, il titolo, che in realtà “Heartburn” sta ad indicare in inglese “bruciori di stomaco” o, meglio “indigestione”. Ed anche se si parla, se ne è il filo conduttore, la storia di vita e d’amore della stessa Nora, è per l’indigestione, per la pesantezza di stomaco che le viene dalla difficoltà di vita con il suo secondo marito, che nasce il libro, che nasce la storia. Un romanzo ricco di spunti divertenti, a metà strada tra romanzo di vita e libro gastronomico. La narratrice, Rachel Samsat (Nora) è un’esperta di cibo e nel libro sono presenti ricette (quindici per l’esattezza) a metà strada tra la tradizione americana e quella ebraica (dal cheesecake ai russli). Ma tutto questo cibo, anche tutta questa dolcezza non fa diminuire il dolore di una donna incinta al settimo mese che scopre il tradimento del marito. Rachel è sposata con Mark Feldman (Carl Bernstein nella realtà, uno dei due giornalisti che condusse l'inchiesta che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, spingendo il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni). Rachel, newyorchese, si è trasferita a Washington per sostenere la carriera del marito. Hanno una figlia e Rachel è incinta del loro secondo figlio. La capacità narrativa di Nora ci fa viaggiare all’interno di questa coppia intellettuale della middle class americana, con tutte le sue nevrosi e tutti i suoi tormenti. Infarcita di aneddoti che ce la rendono cara e divertente. Mark che si tormenta perché non trova i calzini. Rachel che, per superare i suoi momenti di crisi, affronta una terapia di gruppo. Contrappuntando la narrazione con quelle ricette buttate lì come se niente fosse, un po’ per prendersi in giro (come dovrebbe scrivere un libro di ricette) un po’ per prendere ogni tanto le distanze dai dolori quotidiani. Fatto sta che Rachel scopre la tresca di Mark con Thelma Rice (in realtà, Margaret Jay figlia dell'ex primo ministro britannico James Callaghan). Facendo scattare i suoi primi veleni (Rachel va dicendo in giro che Thelma è affetta da malattie veneree). Punto nodale della trama è il furto di un prezioso anello di Rachel al termine di una seduta della terapia di gruppo. Il ladro viene preso, l’anello restituito, ma ha le pietre allentate. Rachel lo porta al gioielliere di famiglia dove scopre che mentre lei era in ospedale per il parto Mark aveva comperato una costosa collana per Thelma. Allora lei, nascostamente, vende l’anello e con i soldi si può permettere di tornare a New York e riprendere la sua vita come prima del tradimento. Ma il bello non ci sarebbe se non arrivassimo alla scena madre, al modo per Rachel di capire e di far capire che il matrimonio è finito. Sono ad una cena da amici e Rachel ha portato una torta di lime fatta da lei. Si spettegolezza su matrimoni e coppie in crisi e Rachel capisce che Mark l’ha tradita anche prima di Thelma e che lo farà ancora. Non riesce a convivere con l’idea di stare con Mark sapendo di non essere rispettata. Se lui non la ama, lei deve prendere la torta e gettargliela in faccia. Lo farà? Chi ha visto il film lo sa. E noi sappiamo che ammiriamo Rachel-Nora perché saprà ricostruirsi una vita a partire da queste ceneri. Tanto che cinque anni dopo finalmente troverà il partner definitivo in Nicholas Pileggi, che sarà con lei fino alla fine. Il libro l’ho trovato discretamente divertente, anche se nessuna delle ricette mi ha veramente incuriosito. Mi ha anche dato un nuovo pilastro alla costruzione della visione femminile sul tema dell’infedeltà, costruzione che poggia sulle altre gambe con Siri Hustvedt (“L’estate senza uomini”) e Elena Ferrante (“I giorni dell’abbandono”). Forse questo, oltre la simpatia per l’autrice, l’ha fatto lievitare un po’ sopra quella sufficienza che da solo forse non avrebbe raggiunto.

Finalino


Ovvio che Nora ed i suoi mi mettano il buonumore, anche se a Rachel e Mark preferisco Meryl e Jack. E soprattutto vorrei l’indirizzo del ristorante per prenotare un’insalata “alla Sally”. Quella sì che fa passare tutti i mali…

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