venerdì 6 gennaio 2017

Vitali(tà) - 06 gennaio 2017

Molti dei miei pochi lettori sanno che ho coltivato nel tempo un’insana passione per Andrea Vitali, il medico di Bellano, e le sue storie “minime”. Purtroppo, con l’andar degli anni e degli scritti, la vena del nostro è andata calando, contraddicendo il fantasioso titolo che avevo pensato per questa quartina. Anche perché, pubblicare due o più libri l’anno se non si ha la scioltezza di un Simenon o quanto meno di un Camilleri, risulta assai faticoso. Tant’è che queste quattro letture non raggiungono la sufficienza, a volte allontanandosi assai.
Andrea Vitali “Di Ilde ce n’è una sola” Garzanti euro 9,90
[A: 07/05/2015 – I: 11/01/2016 – T: 16/01/2016] - &&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 151; anno 2013]
Chi mi segue ormai da anni sa che, ad un certo punto, ho preso una sbandata per Andrea Vitali. E con ragione direi. Il medico condotto di Bellano, che scrive nei ritagli di tempo tra un paziente e l’altro, mi aveva incuriosito e poi preso, per quel suo scrivere una grande epopea della gente che passa la propria vita intorno al suo lago. Con tutta una serie di proposte e di proposizioni di storie che saltabeccavano dalla fine dell’Ottocento ai gironi nostri. Ormai sono una ventina di titoli, quelli di questo autore entrati nella mia libreria. Come ho affermato qualche trama fa, c’è però una netta differenza tra gli scritti che si svolgono nel ventennio e gli altri. In quelli ambientati durante il fascismo, oltre alla ricostruzione storica, c’è ironia, arguzia, ed altri elementi che, di volta in volta, ne rendono gradevole la lettura. Ne fanno apprezzare questo modo sintetico di scrivere, per frasi brevi ed altrettanto brevi capitoletti. Invece quando, come in questo caso, ci si avvicina ai tempi moderni, non sempre la resa è altrettanto piacevole. Qui la storia è ambientata nel luglio del 1970. Un luglio caldo, un luglio dove si sta spesso di notte all’aperto per poter respirare, dove non ci sono condizionatori negli uffici, dove se si va in trattoria a mangiare è bene tenersi leggeri, che il troppo vino rosso rischia di provocare spiacevoli conseguenze. Nel solito territorio intorno a Bellano, s’intrecciano tre storie. Una di puro contorno, quella del piccolo Raffaele, spesa a cercare refrigerio al calore, con una madre poco attenta, nell’attesa dei pochi momenti passati con il padre che adora. Di contorno che serve solo ad introdurre lo schema: Raffaele trova nel fiume una carta d’identità senza foto, che, rocambolescamente, fa pervenire alla locale anagrafe, da dove, anche qui per vie traverse, arriverà nella casa della proprietaria, la Ilde del titolo. Seconda storia, che qui si innesta. Oscar, il marito di Ilde, è in cassa integrazione, e ne soffre, che i soldi a casa li porta ora solo la moglie. Lui fa la spesa, fa commissioni. E trovandosi la carta d’identità spuria in mano, cerca quella originale, trovando però quella del “giometra Aurelio Berghetti”. Comincia a questo punto l’odissea di Oscar che cerca di risalire ai motivi della sostituzione, ai comportamenti della moglie, a tutto quanto lui non controlla più, non portando soldi in casa e vivendo (e soffrendone) di ricasco. Con una serie di stratagemmi risalirà all’Aurelio, protagonista della terza storia. Che il “giometra” racconterà ad Oscar (non sapendo chi sia, in realtà) in quell’osteria di cui sopra, davanti ad un brasato, una bonarda e scaglie di grana. Aurelio è attempato, ma ancora pimpante. Afflitto purtroppo da una moglie già in menopausa e per questo molto “ondivaga”. La sua esuberanza lo porta quindi a cercare le sue distrazioni in altri lidi. Ed a trovarle. La storia si dipana tutta qui, tra una descrizione ed un pensiero, con i vari personaggi che assumono, pagina dopo pagina, caratteristiche più precise. Introverso e solitario Raffaele. Donnaiolo e bonario Aurelio. Triste e spaurito Oscar. Tra i tre, esce invece prepotente la figura di Ilde, che invece sa quello che vuole, lo ottiene, e lo mantiene, lottando per sé, calpestando tutti. Scontrosa per difesa. A me, in fondo, un po’ antipatichella proprio per quel suo mettersi avanti a tutto e tutti. In fondo è tutto qui, non ci sono grandi colpi di scena. Ci sono caratterizzazioni dell’Italietta post-boom, quando si soffre e ci si avvia nella buia china degli anni Settanta (e prima di entrare nel baratro degli Ottanta). Ripeto, Vitali scrive bene, scorrevole e piacevole. Ma la storia non morde, non sale di tono, non ci fa neanche sorridere con quel poco di ironia cui eravamo abituati. Certo, vediamo in controluce il mondo di quaranta anni fa, lo riconosciamo. Soprattutto, ne vediamo lo svolgersi lontano dalle grandi città, quella in cui io passai quegli anni, tra la fine del liceo e l’Università, in tutti altri contesti impensierito. Mi ha fatto piacere questa contro-rivisitazione e confronto tra il personale e un pubblico che non ho frequentato, ma la cui disamina ci dà una serie di strumenti per interpretare il mondo di oggi, e come ci siamo arrivati. Alla fine però, la resa è in minore, e la speranza è che Vitali torni ai suoi scritti migliori.
Andrea Vitali “Un bel sogno d’amore” Garzanti euro 9,90
[A: 01/11/2014 – I: 11/11/2016 – T: 13/11/2016] - && e ¾  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 371; anno 2013]
Essendo questo il 20° libro di Vitali che leggo, penso che abbiate capito che, in fondo, con tutti gli alti e bassi, è un autore che non mi dispiace. Purtroppo, ripeto, le ultime letture sono più basse che alte. Soprattutto perché si ostina a venire sempre più vicino al nostro presente, mentre le sue storie sono ben più incastrate nei periodi ante 1940. Infatti, Vitali scrive sempre con lo stesso tipo di modalità, con quel pizzico di nostalgia, con quella patina “d’antan”. Una scrittura che avvolge Bellano e il lago di Como, ricoprendola con quelle atmosfere di “vecchia signora di tanti anni fa”. Invece, quando si avvicina, e spesso sorpassa, il miracolo economico degli anni Sessanta, la scrittura si incarta, e le storie perdono mordente. Qui, ad esempio, il brodino si allunga fin quasi alle 400 pagine, ma senza mordente, senza ironia, senza tutti quei risvolti che fanno dei libri di Vitali un bel momento da passare insieme. Credo poi, che il Vitali dei primi scritti, di questo ne avrebbe fatto almeno due se non tre libri. Diciamo due, va. La storia di Adelaide ed Alfredo da un lato. E quella di Ernesto Tagliaferri detto il Taglia dall’altra. È vero che un po’ le due storie si intrecciano, ma neanche tanto e neanche in modo avvincente. Per collocare la storia nel tempo, Vitali si costruisce un inizio “esterno” alle due vicende: la proiezione di un film scandaloso nell’unico cinema di Bellano. E per la precisione “Ultimo tango a Parigi”. Che tra anatemi della Chiesa, bigottismo ante-litteram e cinema d’autore, pochi lo vedono, pochi lo capiscono, se ne parla solo, ma per aspetti assolutamente diversi dalle intenzioni dell’autore. Ma è solo un modo di dare il via alla storia. Anzi alle storie. Quella di Adelaide, operaia in un cotonificio, un po’ blandita dal Taglia, che entra ed esce dalla prima parte della storia. Adelaide che tenta con ogni mezzo di fidanzarsi con Alfredo, un mammone della più bell’acqua. C’è agio per Vitali di descriverci il mondo dei primi anni ’70 in provincia, passeggiate sul lungolago, beute nelle osterie, il cinemino, la messa la domenica, i pranzi in famiglia. Alfredo è un meccanico capace, ma che, appunto, non riesce a staccarsi dalla madre Benvenuta “faccia da cane”, come viene bonariamente chiamata a sua insaputa. Adelaide, incastrata in un losco affare dal Taglia, perde il lavoro. Questo però fa sì che Alfredo si scuota, finalmente la chiede in sposa, e con il beneplacito anche di Benvenuta. Ma anche da sposati, i legami con la madre non consentono una vita serena. Anche se Benvenuta si imbarca in un amore senile, delicatamente descritto. Sarà solo quando Adelaide, un po’ alla Marlon Brando del film, prende l’iniziativa, che le cose si sbloccano. E nonostante i dubbi di Alfredo riusciranno a mettere in cantiere la sospirata prole. Che vedrà luce, purtroppo, dopo la morte di Benvenuta. L’altra storia è quella del Taglia, il balordo, lesto di mano con le ragazze, poco aduso a vivere sotto padrone, ma per questo sempre pronto ad imbarcarsi in truffe e piccoli furti. Che ovviamente vengono tutti scoperti, e lui ne ha sempre la peggio. Come la truffa della lotteria, quando va a giocarsi, perdendoli, i soldi delle promesse vincite nella vicina Svizzera. Come il furto degli orologi, cui fornisce alibi ai malfattori senza riuscire a trarne altro beneficio se non, ancora, altri mesi di carcere. Come il piccolo contrabbando di sigarette dalla Svizzera. Come il tentativo, in accordo con il magazziniere dell’ospedale, di fare la cresta sui viveri della casa di cura. Tutte le sue mosse sono seguite, da vicino o da lontano, dalla locale stazione dei Carabinieri. Comandata dal maresciallo Pezzati, “caramba” dal cuore d’oro che cerca tutte le volte di dare una via d’uscita al Taglia, senza mai riuscirci. Dove una grande mano investigativa viene data dal carabiniere scelto Salvatore Insoliti, calabrese ed ex-pescatore, che riesce a sventare l’ultima truffa del Taglia. Ma qui anche i balordi non sono mai cattivi, e se faranno mesi di carcere, ne usciranno sempre onesti seppur sbandati. Ne esce fuori questa Italia che sente da lontano cosa avviene nel mondo e nelle grandi città. Ma che è presa più da Sanremo che dalle rivolte studentesche. Dove anche gli scioperi arrivano solo come echi attutiti di un mondo che non cambia la realtà quotidiana del “campari” alle dieci, del riposino pomeridiano, del pesce al venerdì. È un Italia dall’anima pulita quella che ci riporta Vitali, e che ci fa riflettere, a noi grandi teoreti di rivoluzioni imminenti. Non a caso riporto una frase, a me ben nota da anni, che descrive quel mondo. Ma che a me riporta i tempi del mio lavoro sulle professioni d’aiuto, sull’altro. E sul complemento che ne fece una mia cara amica. Forse non quadrato, ma lavorando un po’ su di sé, almeno un poco ovale si può diventare.
“Chi nasce tondo non può morire quadrato.” (280)
Andrea Vitali “Biglietto, signorina” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,81 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 14/11/2016 – T: 16/11/2016] - && e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 393; anno 2014]
Dispiace un po’ vedere scendere il gradimento di Vitali, libro dopo libro. Tuttavia, mi pare che ci sia poco da scusarsi. La scrittura rimane la stessa, gli spunti sono sempre abbastanza piacevoli. La trama e gli scioglimenti, al contrario, risentono come di un momento di stanchezza. Manca l’ironia che risolve (molto) con un sorriso. Mancano le piccole o grandi sorprese. Insomma, si inizia bene, poi ci si incarta e si finisce così così. Per questo, continuo a diminuire il mio indice di gradimento, libro dopo libro. Sperando tuttavia in una bella risalita. Pima o poi. Del resto, in questo romanzone (ormai anche Vitali viaggia verso le 400 pagine, anche se, ripeto, suoi scritti più concisi andavano meglio a segno), siamo già nel 1949 (quindi dopo la guerra e dopo il ventennio), e già comincia la china del “modernismo”. Come spesso negli ultimi libri, l’attacco dà il via al testo, ed al titolo, che poi si sviluppa in un modo suo proprio. L’attacco è appunto dato da una signorina, trovata sul treno che viene da Milano, senza biglietto. Che differenza con l’oggi, dove l’avrebbero fatto a bordo (se si poteva), o fatta scendere con multa alla prima stazione. Allora, la fanno scendere, poi (visto che la signorina fa finta di non capire l’italiano), la portano ai carabinieri di Bellano, e con questi addirittura in comune. Dove c’è il vicesindaco Torelli. Fin qui il prologo, l’inizio un po’ diesel. Da qui partono e si intrecciano le storie, che questo è l’intento di Vitali: intrecciare storie in un lasso di tempo del mondo di Bellano. C’è la storia di Marta, la profuga. Che sembra croata, in realtà dovrebbe essere albanese o kosovara. Presa in ostaggio da sbandati titini durante la guerra (dove incontra il Vaninetti), da loro risparmiata, poi sbandata essa stessa, con fuga finale a Milano per entrare nella scuderia di un mafioso che gestisce donne e traffici vari. Qui incontra Torelli (anche lui in loschi traffici col mafioso) che millanta soldi e benessere. E quando il mafioso viene fatto fuori, fugge per raggiungere Torelli. Che ovviamente, una volta riconosciuta, non può darle case e soldi, che è già infelicemente sposato. Prima la piazza in casa, poi, dopo vicissitudini varie, dal droghiere Santommaso che gli deve favori e soldi. Qui Marta un po’ fa da badante alla moglie del droghiere, un po’ fa il suo mestiere con il droghiere stesso. E quando questi, per i dispiaceri vari, si uccide, cerca, con le sorelle rimaste a Milano e costituitesi in una nuova banda mafiosa di prendere l’attività del Santommaso. La moglie però non muore, e nel tentativo di accelerarne la dipartita, Marta e le sorelle commettono passi falsi che… C’è il Torelli, con i suoi sempre falliti tentativi di diventare sindaco di Bellano, con i suoi traffici loschi che rischiano di essere scoperti dall’arrivo di Marta, con il tentativo di salvare capra e cavoli utilizzando il notaio Delabré. Ma Torelli è un incapace di fondo, e finirà per perdere i soldi. Non la faccia, che, da buon democristiano, ha sempre una riserva di possibilità, anche se di tono minore. C’è il Vaninetti, sbandato anche lui, il dropout di Bellano. Che però smaschera i traffici di Marta e delle sue sodali, ed avrà, lui sì, un finale positivo. C’è Filiberto, figliastro di Santommaso, che si trova immerso nelle beghe familiari suo malgrado, ma che, con l’aiuto del prevosto e del maresciallo dei carabinieri, darà una svolta positiva alla vicenda. C’è infine la locale sezione dei carabinieri, dove (ricordo siamo nel ’49) il comando è in mano al maresciallo Pezzati. Lo stesso che, nell’episodio precedente che si colloca 23 anni dopo, finalmente sarà promosso maresciallo capo. Questa è una costante in molti libri di Vitali, dove tornano personaggi, anche a distanza di anni e di libri. Tanto che mi riprometto, un giorno o l’altro, di farne una cronistoria legata alle persone più che ai libri. Ho detto molto della trama, pur non dicendo tutto. La cosa che poco mi convince è ancora una volta la mancanza di ironia e, se vogliamo, di personaggi positivi. Come se, andando avanti nella scrittura, Vitali avesse dei ripensamenti. Per un lungo tratto sembra infatti che Marta possa prendere il posto dell’eroina non dico buona ma redenta. Per poi ricadere nella malvagia mafiosità. Poi sembra che Torelli, pur non positivo, possa prendere lui un ruolo ironicamente centrale. Ma le sue beghe alla fine ci lasciano discretamente indifferenti. Certo, il Vaninetti è simpatico, la sua storia interessante, ma resta sempre un personaggio marginale. Così come lo resta Filiberto che avrei visto ad esempio intrecciare una tresca con Speranza Sezzadio, ma quest’ultima appare come una meteora e presto scompare. Non ho nominato, perché ha un ruolo secondario, la compagine medica. Ma c’è il dottor Lesti, da anni condotto a Bellano (che un po’ ricalca la figura stessa di Vitali) che vorrebbe andare in pensione. E c’è il suo possibile sostituto, il dottor Cantamerlo, con un nome così “ridanciano” per il paese che nessuno gli dà credito e che finirà per fuggire con il circo di passaggio (e con la bella Mariedda). Quindi, tutta una ridda di personaggi, di situazioni, intrecciate ed unite dal teatro della vicenda (Bellano ed il lago), ma senza che ne esca fuori una storia convincente ed ironicamente appassionante, come altrove ci aveva abituati Vitali. Forse perché riprende (ampliandola e riscrivendola) una storia del 2001 (inclusa nella raccolta “L’aria del lago”). Chissà, io non ho letto la prima, questa è un po’ sotto la media.
Andrea Vitali “Quattro sberle benedette” Garzanti euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,41 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 17/11/2016 – T: 20/11/2016] - & e ½  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 369; anno 2014]
Evidentemente la super-produzione del 2014 non fa molto a Vitali ed ai suoi scritti, che sono andati calando fino a raggiungere uno dei punti più bassi della sua produzione pluriennale. A maggior ragione, che c’erano le premesse di una più coinvolgente storia, visto che ci siamo ricollocati nel Ventennio, e per la precisione proprio nel 1929. Epoca in cui Vitali ha ambientato le sue riuscite migliori. Invece in questa prova un po’ svogliata si sommano tutti i tic negativi che altrove fanno la fortuna della scrittura di Vitali. Che dove c’è un’idea, il modo di porgere la storia risulta ironicamente divertente. Capitoli brevi, alternanza di dialoghi punteggiati o solo riferiti, salti temporali avanti e indietro nella storia e nel tempo, a volte di poche ore, a volte di qualche giorno. Ma dove la storia latita, questi “vezzi” risultano pesanti, non fanno procedere spediti, non si riesce a farsi cullare da loro, come se le onde del lago su cui si affaccia Bellano invece di spumeggiare piano per un refolo gentile, si inarcassero e premessero sulle sponde, rendendo il cielo grigio e poco invitante. Come sembra appunto in questa fine d’ottobre in cui si svolge il romanzo. Che come detto è fatto di niente. Certo ritroviamo alcune “vecchie” conoscenze, nella fattispecie la brigata dei carabinieri: il maresciallo Maccadò, il brigadiere Mannu e l’appuntato Misfatti. Già presenti ne “La signorina Tecla Manzi”, “La mamma del sole” e in “Galeotto fu il collier”. Dopo tante vicende quasi da comprimari, qui i tre, con le rispettive caratteristiche, salgono sul palcoscenico principale e sono il motore principale della storia. Insieme al prevosto e al dottor Lesti (che ritroveremo venti anni dopo nel libro precedente in attesa di andare in pensione). La famiglia Maccadò fa il primo figlio, e ci sorbiamo prima una tiritera perché non nasce, poi una seconda sul sesso, che il primo figlio deve essere maschio, e poi un’ultima su possibili trasferimenti d’ufficio che sappiamo non avverranno, dato che il maresciallo sarà ancora lì nel ’49, per diventare poi capo solo nel ’72 (ma dopo 43 anni di servizio, ed essendo già maresciallo, ne dovrebbe avere sulla settantina; un po’ improbabile, Vitali!). Mannu e Misfatti continuano la loro guerra sotterranea, visto che uno (indovinate quale) è sardo e l’altro (per esclusione) è siciliano. Inoltre Mannu è più alto in grado di Misfatti. Quindi l’uno si appoggia alla gerarchia, l’altro alle furberie spicciole del quotidiano. Tuttavia anche la loro schermaglia ha il fiato corto. Infine ha il fiato cortissimo la storia delle famose lettere anonime che arrivano prima ai Carabinieri, poi anche al parroco. Certo, innestano un bel trambusto (ma solo perché Vitali vuole ingarbugliare le acque). Quello che traspare subito è il bersaglio delle stesse. Che si vuole mettere in cattiva luce il coadiutore del parroco, don Sisto, sostenendone una improvvida presenza presso la casa di piacere di via Ovidio in quel di Lecco. Casa gestita da tal Odalisca (soprannome banalotto), madre del Terranova, uomo “di altra sponda” come si diceva allora, e che gestisce un bel bar di periferia. E quando in quel di via Ovidio scoppia un’epidemia di morbillo, questa si dilaga prima al Terranova, poi al bar, poi ai frequentatori del bar. Facendo confusione, nell’ignoranza provincialotta, tra morbillo ed orecchioni. A grandi passi si avvia verso la confusa schermaglia finale. Noi si era già capito che don Sisto, dal modo di agire, era in cerca d’altro. Comprensione rafforzata dalle quattro sberle che lui appunto usa per cercare di ridurre alla ragione tal Agrippina (altro soprannome poco fantasioso), e che si intuisce che altro è il rapporto tra i due. Mannu e Malfatti riportano la calma nel paese agitato, svelando chi sia il latore delle quartine infamanti. E chi ne sia lo scrittore (vista la mano tremolante). Si farcisce con un po’ di retorica fascista (soprattutto per le feste del IV novembre e dintorni), si punzecchiano i Patti Lateranensi del febbraio precedente. E tutto finisce in cavalleria. Unico mistero banalmente divertente, la ricerca di chi sia colui che nella prima pagina bussa al casino chiuso. Devo dire che la sua rivelazione a pagina 360 mi ha sorpreso, per cui ho dato quel mezzo libretto in più. Tuttavia, gli ultimi libri letti confermano la crisi dell’ispirazione e dell’inventiva che attraversa il simpatico medico lariano. Spero che possa ritrovare la verve e l’entusiasmo de “La figlia del podestà” o di “Almeno il cappello”. Per ora veleggia molto in fondo alla classifica.
Poiché siamo in una uscita straordinaria, essendo un venerdì festivo, come da mia consuetudine, in queste situazioni recupero qualche cura delle mie ormai anche un po’ datate libropeute. Ed in particolare questa volta ci dedichiamo a curare la depressione (compito direi improbo) e ad indicare libri per chi avesse raggiunto la svolta del secolo (che forse qualche nostro parente sta tentando di raggiungere).
Ritornando dalla interessante anche se non completamente riuscita mostra di Treviso (dove faceva un freddo da tagliare il viso), abbiamo diligentemente contornato Venezia godendoci invece una sempre gradevole passeggiata nel Palazzo Venier e nella mostra della Collezione Guggenheim. Un inizio d’anno “di cultura”, in attesa di completare itinerari, armi e bagagli per l’Indocina febbrile. Allora un augurio di Buona Befana, magari con qualche premio da lotteria.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

BEFANA 2017
Quando decido di inviare trame in giorni festivi non domenicali (e succede) li “addobbo” con questi florilegi che vengono dal libro del titolo e sono commentati dalle “mie” controdeduzioni. Come sapete, chiamo queste riprese “recupero di libri letti”.

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE

Di queste prime due cure nei parlai nel febbraio e marzo 2015, ed ora vi aggiungo due libri letti posteriormente.

Depressione, i dieci migliori romanzi per tirarsi su

1.         Jorge Amado                            Dona Flor e i suoi due mariti      
2.         Jurek Becker                            Jakob il bugiardo   
3.         Andrea Camilleri                        Il birraio di Preston
4.         Gianni Celati                             Le avventure di Guizzardi 
5.        Patrick Dennis                              Zia Mame   
6.         Fannie Flagg                             Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop     
7.         Carlo Lucentini e Franco Fruttero La donna della domenica  
8.         Nick Hornby                             Febbre a 90°        
9.         Stendhal                                  La certosa di Parma        
10.      Winifred Watson                        Un giorno di gloria per Miss Pettigrew   

Depressione, i dieci migliori romanzi per chi è molto triste

1.    Guillermo Cabrera Infante     Tre tristi tigri        
2.    Javier Marias                      Un cuore così bianco       
3.    Gabriel Garcia Màrquez         La incredibile storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata
4.    Carson McCullers                 La ballata del caffè triste  
5.    Arturo Pérez-Reverte           Capitano Alatriste
6.   Françoise Sagan                   Bonjour tristesse
7.    José Saramago                   L'anno della morte di Ricardo Reis
8.    Osvaldo Soriano                  Triste, solitario y final      
9.    Edward St. Aubyn                I Melrose/Speranza
10. Richard Yates                      Revolutionary Road

RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
Cent’anni, i dieci migliori romanzi per chi ha più di cent’anni

Questo l’ho saltato, forse in omaggio a Kirk Douglas, ed ora ve lo ripropongo 
1.      Thomas Bernhard                      Estinzione
2.      Andrew Sean Greer                   Le confessioni di Max Tivoli
3.     Jonas Jonasson                           Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve
4.      Yasunari Kawabata                    La casa delle belle addormentate
5.      Milan Kundera                          L'immortalità
6.      Cormac McCarthy                      Oltre il confine
7.      A. A. Milner                              Winnie the Pooh
8.      Georges Perec                          La disparition
9.     Osvaldo Soriano                          Un'ombra ben presto sarai
10.   Giuseppe Tomasi di Lampedusa   Il gattopardo

Bugiardino

In questo recupero epifanico, vi rimetto in lista quattro libri inseriti in tre liste delle nostre ormai ben note dottoresse dei libri. Tra depressioni varie, compresa, secondo me, quella di essere arrivati ai cento anni.
Patrick Dennis “Zia Mame” Adelphi euro 12
[trama del 02 ottobre 2016]
Ne avevo sentito parlare, e non mi ero mai deciso ad affrontarlo. Spinte eterogenee mi ci hanno finalmente portato, e, come al solito, devo dire che dovrei più spesso cedere a questi impulsi. Non è un libro bellissimo. Si sente il passare degli anni (in fondo, ha quasi la mia età…). Se poi dovessi solo giudicare dal testo, prenderebbe qualcosa in meno. Risale grazie ad un contesto degno, e ad una post-fazione magistralmente condotta sul filo dell’ironia dall’ottimo Matteo Codignola. Scopro quindi che Dennis in realtà si chiama Edward Everett Tanner III, che è un toro (18 maggio), che il padre lo chiamava Patrick in omaggio al pugile Pat Sweeney, che ha scritto 16 romanzi, di cui 4 con il diverso pseudonimo di Virginia Rowans, che si sposa nel 1948 (a 27 anni), ha due figli, poi verso la seconda metà degli anni Cinquanta, scopre che è più attratto dagli uomini, va a vivere in Messico con un suo preteso amante, che in Messico viene derubato di tutti i suoi averi, che torna in America dove spende gli ultimi anni della sua vita usando il suo nome reale, e facendo il maggiordomo per Ray Kroc, l’allora capo indiscusso e amministratore delegato della McDonald’s, che muore a 55 nel 1976 di cancro alla prostata. Benché il grande successo dei Cinquanta, e benché il suo personaggio – icona di zia Mame sia portato sulle scene teatrali (ed in modo magistrale) da Rosalind Russell, libro (e commedia e film) caddero nel dimenticatoio, per essere ripresi solo negli ultimi anni, grazie agli sforzi del figlio di Patrick in patria e di Adelphi da noi in Italia. Da questo mini excursus si capisce appunto il contesto frizzante da cui sorge il testo, inizialmente non molto ben visto neanche dall’editoria americana. Erano una decina di racconti legati insieme dalla figura di zia Mame, ricalcata sulla figura reale della zia di Edward, Marion Tanner. Fu solo un non meglio noto curatore editoriale della casa Vanguard ad avere la brillante idea, che ha portato prima alla pubblicazione, poi al successo inaspettato (per due anni nella classifica dei best-seller del New York Times): legare i vari racconti da una specie di filo rosso legato ad oscure pagine pubblicate da “Selezione del Reader's Digest” relative ad una improbabile signorina del New England. Questa finzione permette al nostro Patrick di scatenarsi nel racconto di una sua finta autobiografia, punteggiata dalla vita e dalle opere della mirabolante zia Mame Dennis. Racconto che inizia nel 1928, con Patrick decenne e con il padre che inopinatamente muore, lasciandolo ricco ereditiere (quando maggiorenne) ed affidato alle cure dell’unica parente vivente, appunto la zia Mame. Fin dalle prime battute si instaura il plot generale del racconto: zia Mame è rutilante, si impegna in attività senza capo né coda e Patrick tenta di mitigarne la “dolce pazzia”. Ovvio che per rendere il tutto appetibile per quasi quattrocento pagine, poi, ogni tanto la trama si inverte, ed è zia Mame che “salva” l’incauto nipote. Vediamo Mame affascinata dalle teorie didattiche d’avanguardia, coinvolgendo Patrick in una scuola sperimentale. Di certo dal respiro corto, tanto che Patrick sarà preso costretto alle più classiche scuole scelte dal suo tristo tutore (che ha l’unico pregio di salvare i beni del giovane dalla catastrofe del ’29). Il ’29 invece vede intaccare ben presto gli averi della zia, che seguiamo agli inizi degli anni Trenta doversi dedicare a qualche mestiere. Da antologia il suo apprendistato da Macy’s, dove non riesce a vendere nulla non sapendo usare le casse. Fortuna vuole che lì in contri Franck, un gentiluomo del Sud, che, affascinato dalle sue grazie, provvede a sposarla ed a sistemarla economicamente. Per poi coinvolgere, zia e nipote, in una discesa nelle sue terre del profondo Sud, dove zia Mame si destreggia in una mitica caccia alla volpe. Passati i guai, Franck gentilmente muore lasciandola di nuovo possidente. Consigliata dai suoi amici fuori di testa, decide di scrivere la storia della sua vita, riuscendo in un nuovo disastroso flop, dove Patrick la salva da un irlandese che mira ai suoi soldi, e che riesce solo a mettere in cinta la sua segretaria. Zia Mame, allora, diventa l’angelo delle sventure di Patrick, salvandolo da una cameriera esilarante nel suo inglese sconnesso, poi dalle mire di una razzista signorina che mira anche lei solo al patrimonio. Ci sarà la guerra a far da cesura ai racconti, e Patrick (come l’autore) ne passa quasi indenne, tornando a casa leggermente ferito, e dovendo aiutare la zia in una bislacca opera filantropica. Ma ormai anche il nipote è cresciuto, e la zia pensa suo dovere trovare una moglie al trentenne nipote. Ultima avventura, che per fortuna porta Patrick a conoscere una simpatica ragazza che finalmente sposerà. Chiusura alcuni anni dopo, dove la zia, visto che non ha più il potere su Patrick, affascina ed ammali Mick il giovane nipote di sette anni. Ecco appunto che ogni storia nasce con un punto affascinante e mirabolante, si svolge andando verso catastrofi annunciate, e salvate per miracolo all’ultimo istante. Schema leggermente ripetitivo, che rende prevedibile l’andamento. Fortuna vuole che la verve innata di zia Mame, ben descritta dall’agile penna del nostro, renda comicamente appetibili le più matte (dis)avventure. Incongruamente, poi, zia Mame diventa nei pochi anni di auge della metà degli anni Cinquanta, anche una icona dei gay americani. Alla fine, tuttavia, un libro che mette allegria, anche se risente, in modo assai pesante, i suoi sessanta anni.
Françoise Sagan “Bonjour tristesse” Mondadori euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[scritta il 19 settembre 2016, non pubblicata]
Ero sempre stato tra l’incudine ed il martello verso la Sagan ed i suoi libri. Mi dicevo che valeva forse la pena leggerne, poi me ne allontanavo spinto dalle polemiche da lei suscitate in vita, e in cui non volevo, mentalmente essere coinvolto. Spinto alfine dalla biblioterapia che ne consiglia la lettura a chi sia molto triste, ed acquistato in un periodo che, fortunatamente, triste non era, ne ho letto con una cura premonitiva, sgomberando la mente da preconcetti, evitando anche di leggere il bel commento che ne fa Valeria Parrella (una scrittrice che io amo). Il risultato è una buona lettura, un libro interessante, che, se poi lo inquadriamo nel periodo di scrittura e nel mondo in cui nasce, assume anche altri significati trasversali. Era la Francia del poco dopo guerra. Quella dei Sarte, dei Camus, dei bistrò con Boris Vian e Juliette Greco. Françoise è una diciannovenne sveglia, irrequieta, che con difficoltà (più volte rimandate) riesce a diplomarsi e ad entrare in università. E scrive di getto questo libro, che si presenta come contraltare di quel mondo. Che descrive una modalità inquieta sì ma spensierata (forse anche troppo) dedita ai piaceri della vita, anche se non (almeno nell’apparenza) fatua. Di certo ingenua, anche se qualcuno direbbe volutamente. Come quando Françoise fa dire alla sua alter-ego Cécile: "Avevo spiegato a mio padre che volevo iscrivermi a Lettere, frequentare gente colta e diventare famosa e pedante”. La storia, narrata da Cécile in prima persona, e che ce ne presenta i turbamenti, i segni che la storia stessa le lascerà addosso, comincia con un inno a Paul Éluard, ed alla sua poesia, riproposta in esergo, che inizia con “Addio tristezza / Buongiorno tristezza”. E sarà questo buongiorno che diverrà il marchio di fabbrica di Françoise-Cécile. Che ci racconta la storia di questa estate trascorsa sulla Costa Azzurra. Con il gaudente padre Raymond, imperterrito donnaiolo, e la sua ultima amante, Elsa, di poco più grande di Cécile. Seppur sul filo della noia, anche se con qualche punto di batticuore, dovuta alla presenza di tal Cyril, ventenne studente di legge più grande di lei; Cecile non è innamorata di lui, lei è innamorata del contatto fisico e del piacere che ne ricava. I giorni trascorrano così, lenti e mondani. Il tutto si rompe con l’arrivo di una vecchia amica di famiglia, Anne. Aristocratica, raffinata, colta e sensibile. Che cerca di fare la vice-madre alla nostra giovane (la cui madre è mora da qualche anno). Ma che soprattutto (e bene risalta nella scrittura) fa fare delle figure barbine alla povera Elsa. Questa si brucia al sole, Anne si abbronza. Quella si sbronza, questa regge l’alcool e le situazioni difficili. Raymond, com’è ovvio, ben presto si sbarazza di Elsa, e propone addirittura ad Anne di sposarla. Ovvio che Cécile diventi super gelosa. vedersi portare via il padre è già un trauma, e vederselo portare via da una donna che si ammira, non può che centuplicare il già latente complesso di Elettra (in psicoanalisi il complesso di Elettra è una sorta di analogo femminile del complesso di Edipo; secondo la definizione di Carl Gustav Jung tale complesso si definisce come il desiderio della bambina di possedere il padre e della competizione con la propria madre per il possesso del genitore). Cécile quindi mette in scena un teatrino micidiale. Convince Cyril a corteggiare Elsa pubblicamente, certa che il padre ne diventi geloso. Cosa che puntualmente accade, dove Raymond tenta un nuovo approccio con Elsa, e con Anne che li scopre, vedendo anche lei che l’uomo non cambierà mai. Delusa e disillusa, parte in macchina per Parigi, ed avrà (o lascerà avere) un incidente mortale. Qui finalmente arriva la tristezza in fondo al cuore (e che con il grande Lucio ripetiamo “come la neve, non fa rumore”). Qui arrivano le domande di Cécile-Françoise sia stata lei la causa del tutto, quasi a credersi Dio essa stessa, fattrice e disfattrice della vita di tutti. Poi la vita prosegue, come era prima di Anne, quasi che fosse un solo piccolo intoppo nel corso della vita. E nel futuro, pur rimanendo la tristezza, se ne potrà parlare come una cara amica che ci è stata strappata. Come qualcuno ha notato, io non sono riuscito ad entrare in empatia con nessun personaggio, e la scrittura denota i nostri sessanta anni. Pur tuttavia è un libro importante, anche al di là di questo. Per quello che ha rappresentato, per le capacità della scrittrice, per il bando che ne fece il Vaticano (troppo licenzioso, ma se lo leggete vi domanderete a lungo il perché). Mi è quindi piaciuto a metà, forse solo per quella rabbia che ha dentro e che noi non si riesce a tirare fuori. O forse perché, incongruamente, dalla tristezza del poeta di Françoise è emerso il mio analogo poeta francese, quel Jacques Prévert di cui mi venivano in mente quelle righe meravigliose dei “Trois allumettes” (Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti gli occhi / L'ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi queste cose / Mentre ti stringo fra le braccia). Ma si sa che io sono un incorreggibile francofilo.
“Avevamo … le risate e l’amore; li ritroveremo mai come erano in quell’estate, con quello splendore, con quella intensità?” (114)
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” Bompiani s.p. (regalo di Ale)
[trama del 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una scoperta di un autore (di 13 giorni più piccolo di mio fratello) che non conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43 anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il dialogo in cui i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos. Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov, ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così. Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)
Osvaldo Soriano “Un’ombra ben presto sarai” Einaudi euro 11,50
[trama del 01 maggio 2015]
Una sorta di Jack Keruac in salsa argentina. Si poteva chiamare “En la ruta”, ma senza gli eccessi nordamericani. Riprendo ancora una volta in mano Soriano, dopo il lontano “Triste, solitario y final”, ed ancora una volta ritrovo i motivi per cui mi piacciono gli argentini più di altri scrittori sudamericani. C’è quella tristezza di fondo che non guasta (che serve a mitigare i facili entusiasmi), c’è un sano realismo (contrapposto a quelle figure immaginifiche che tanto vanno di moda nel periplo brasil-messicano). Insomma, pur dove c’è fantasia, io intravedo in controluce la realtà del mondo. Fu così con Borges (e con i suoi epigoni alla Bioy-Casares) ed è così con Soriano (ed aspetto di leggere i suoi scritti sul calcio per avere un panorama completo, che con il primo libro si era nel cinema e qui nella letteratura). Per questo, inoltre, ritengo questo libro anche un libro intrinsecamente argentino, un libro che è strettamente legato al tango e al truco. Il secondo (più brevemente) è un gioco di carte di cui sono malati i porteñi, che poco conosco, ma che è legato anche a scommesse su quello che si può vincere e sulle quantità. E non solo, poiché una parte del libro è dedicata all’ipotesi di un tentativo di truffa che mettono in piedi il protagonista con il sodale Coluccini proprio con il gioco del “truco”. Ma c’è anche una specie di balletto ideale, dove si usano le parole del “truco”, solo per sottolineare dei momenti del romanzo. Ci sono diversi “envido” (inviti, nel truco, per aumentare la posta) e ci sono alcuni “falta” (dove ci si tira indietro). Probabilmente un esperto di “truco” potrebbe decifrarlo meglio. Il primo è strettamente legato al titolo ed all’andamento della storia. Perché la storia è triste come un tango (dove c’è sempre qualcuno che si lascia, a volte per riprendersi ma anche no), e come un tango si avvolge su sé stessa. Come una specie di libro circolare, che inizia con il protagonista che scende da un treno in un imprecisato punto dell’Argentina, e che finisce, dopo balli e peripezie, con il nostro che si mette seduto in una stazione che forse non esiste più, ad aspettare un treno che forse non passerà mai. Ed è un tango già nel titolo, legato ad uno dei tre tanghi più famosi al mondo “Caminito”. Talmente bello e famoso, che mi sono sentito in dovere di aggiungere un’appendice a questa trama, solo per parlare di “Caminito”. Un tango dove si parla di una stradina (caminito) e per tutto il libro (come detto all’inizio) siamo “en la ruta”. Un tango dove qualcuno si è lasciato e qualcuno, presto, si metterà in viaggio verso altrove. Nel libro non si parla di un amore in senso stretto (anche se la scena di sesso nella Citroen che va alla deriva nel corso d’acqua è da antologia), ma certo di un amore filiale, che il nostro ha lasciato in Europa una figlia, con cui comunica tramite assurdi fermo-posta nel mezzo del nulla. Il protagonista, poi, è sempre in viaggio. Perché lascia l’Europa da tecnico informatico per tornare in patria, ora che sono stati cacciati i militari, ora che (forse) si potrebbe respirare un’aria nuova, un nuovo modo di essere “todos juntos”, e non sempre in lotta. L’illusione è breve, ed allora si fugge da Baires, così come suggerisce anche il Caminito, ci si avvia nella pampa. Benché qualcuno parli di Commedia, dantesizzando il nostro Osvaldo, i vari Virgili che incontra sono comunque degli esempi classici e puntuali di mondi e di situazioni. C’è Lem che cerca la fortuna da avventuriero, convincendo il nostro che c’è la possibilità di sbancare un casinò, che vince e perde somme ingenti, ma che, lasciato da affetti momentanei, perso dentro la sua Jaguar, prenderà subito la via del caminito (ed ascoltate il tango per aver più chiarezza). C’è Nadia, la cartomante che inventa le storie, ma che le azzecca ad ogni richiedente, e si allontana dai posti con la sua Citroen stravecchia e piena di alimenti con i quali i rustici la pagano, che solidarizza con il nostro, a cui da (ed a lui anche a Lem) dritte per i loro futuri. Indovinate chi li segue e chi no! C’è Coluccini, l’improbabile imbonitore, l’uomo che ha venduto il suo circo, che ha lasciato andare moglie e figli con un altro che avrà senz’altro miglior fortuna, il funambolo dei fili dai quali casca sempre alla fine, quello che organizza truffe, ma che finisce truffato, deriso e solo. Ma lui è il clown, quello triste dalla faccia allegra, quello che poi, alla fine, risorge da tutte le cadute. E se ne andrà, sulla sua Gordini, lasciando il nostro solo, alla fine, in quella stazione del treno che non passerà mai. Faccio un inciso “colto” come son io: Coluccini chiama il nostro con il soprannome di Zàrate, che è anche la città di un grande pilota automobilistico argentino, Onofre Agustín Marimón, che correva in formula 1 nei primi anni ’50, quando una delle macchine di punta, anche se non sorretta da una grande casa, era appunto la Gordini. Tornando allo scrittore, anche qui c’è la grande metafora di tutti noi, sconfitti dalla vita, ma irriducibili nell’andare avanti. Anche noi siamo come il protagonista. In fondo, non cerchiamo facili vie d’uscita come Lem, né cerchiamo di imbrogliare come Coluccini. No, noi si cerca di andare avanti, rimanendo sempre fedeli a noi stessi, forse sconfitti, ma mai, ripeto, mai, con dei rimpianti per aver negato il nostro essere, per esserci piegati alle altrui volontà, per aver vissuto una vita denaturata. Non tutto Soriano è bello, non tutto avvince, ma ne ho gradito la lettura, spinto dalle dottoresse libropeute, per leggere questo libro consigliato a chi raggiunge le soglie del secolo.
“Non sapevo dove stessi andando ma almeno volevo capire il senso del mio viaggio.” (3)
“C’è un momento per ritirarsi prima che lo spettacolo diventi grottesco… Quando uno è sulla pista lo capisce. Magari il pubblico applaude come impazzito ma uno, se è un vero artista, lo sa.” (204)

Conclusioni

Sicuramente, leggere il libro di Dennis consente qualche risata, anche se datata. Sicuramente, essere depressi e leggere di Françoise Sagan può spingere i migliori all’immediato suicidio. Infine, sarei felice di poter commentare gli ultimi due libri avendo raggiunto l’età lì auspicata (ed ovviamente essendo in forma e non “acciaccato” come sembra che siamo un po’ tutti).

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