Molti dei miei pochi lettori
sanno che ho coltivato nel tempo un’insana passione per Andrea Vitali, il
medico di Bellano, e le sue storie “minime”. Purtroppo, con l’andar degli anni
e degli scritti, la vena del nostro è andata calando, contraddicendo il
fantasioso titolo che avevo pensato per questa quartina. Anche perché,
pubblicare due o più libri l’anno se non si ha la scioltezza di un Simenon o
quanto meno di un Camilleri, risulta assai faticoso. Tant’è che queste quattro
letture non raggiungono la sufficienza, a volte allontanandosi assai.
Andrea Vitali “Di Ilde ce n’è una sola” Garzanti euro 9,90
[A: 07/05/2015 – I: 11/01/2016 – T: 16/01/2016] - &&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 151;
anno 2013]
Chi
mi segue ormai da anni sa che, ad un certo punto, ho preso una sbandata per
Andrea Vitali. E con ragione direi. Il medico condotto di Bellano, che scrive
nei ritagli di tempo tra un paziente e l’altro, mi aveva incuriosito e poi
preso, per quel suo scrivere una grande epopea della gente che passa la propria
vita intorno al suo lago. Con tutta una serie di proposte e di proposizioni di
storie che saltabeccavano dalla fine dell’Ottocento ai gironi nostri. Ormai
sono una ventina di titoli, quelli di questo autore entrati nella mia libreria.
Come ho affermato qualche trama fa, c’è però una netta differenza tra gli
scritti che si svolgono nel ventennio e gli altri. In quelli ambientati durante
il fascismo, oltre alla ricostruzione storica, c’è ironia, arguzia, ed altri
elementi che, di volta in volta, ne rendono gradevole la lettura. Ne fanno
apprezzare questo modo sintetico di scrivere, per frasi brevi ed altrettanto
brevi capitoletti. Invece quando, come in questo caso, ci si avvicina ai tempi
moderni, non sempre la resa è altrettanto piacevole. Qui la storia è ambientata
nel luglio del 1970. Un luglio caldo, un luglio dove si sta spesso di notte all’aperto
per poter respirare, dove non ci sono condizionatori negli uffici, dove se si
va in trattoria a mangiare è bene tenersi leggeri, che il troppo vino rosso
rischia di provocare spiacevoli conseguenze. Nel solito territorio intorno a
Bellano, s’intrecciano tre storie. Una di puro contorno, quella del piccolo
Raffaele, spesa a cercare refrigerio al calore, con una madre poco attenta,
nell’attesa dei pochi momenti passati con il padre che adora. Di contorno che
serve solo ad introdurre lo schema: Raffaele trova nel fiume una carta
d’identità senza foto, che, rocambolescamente, fa pervenire alla locale
anagrafe, da dove, anche qui per vie traverse, arriverà nella casa della
proprietaria, la Ilde del titolo. Seconda storia, che qui si innesta. Oscar, il
marito di Ilde, è in cassa integrazione, e ne soffre, che i soldi a casa li porta
ora solo la moglie. Lui fa la spesa, fa commissioni. E trovandosi la carta
d’identità spuria in mano, cerca quella originale, trovando però quella del
“giometra Aurelio Berghetti”. Comincia a questo punto l’odissea di Oscar che
cerca di risalire ai motivi della sostituzione, ai comportamenti della moglie,
a tutto quanto lui non controlla più, non portando soldi in casa e vivendo (e
soffrendone) di ricasco. Con una serie di stratagemmi risalirà all’Aurelio,
protagonista della terza storia. Che il “giometra” racconterà ad Oscar (non
sapendo chi sia, in realtà) in quell’osteria di cui sopra, davanti ad un
brasato, una bonarda e scaglie di grana. Aurelio è attempato, ma ancora
pimpante. Afflitto purtroppo da una moglie già in menopausa e per questo molto
“ondivaga”. La sua esuberanza lo porta quindi a cercare le sue distrazioni in
altri lidi. Ed a trovarle. La storia si dipana tutta qui, tra una descrizione
ed un pensiero, con i vari personaggi che assumono, pagina dopo pagina,
caratteristiche più precise. Introverso e solitario Raffaele. Donnaiolo e
bonario Aurelio. Triste e spaurito Oscar. Tra i tre, esce invece prepotente la
figura di Ilde, che invece sa quello che vuole, lo ottiene, e lo mantiene,
lottando per sé, calpestando tutti. Scontrosa per difesa. A me, in fondo, un
po’ antipatichella proprio per quel suo mettersi avanti a tutto e tutti. In
fondo è tutto qui, non ci sono grandi colpi di scena. Ci sono caratterizzazioni
dell’Italietta post-boom, quando si soffre e ci si avvia nella buia china degli
anni Settanta (e prima di entrare nel baratro degli Ottanta). Ripeto, Vitali
scrive bene, scorrevole e piacevole. Ma la storia non morde, non sale di tono,
non ci fa neanche sorridere con quel poco di ironia cui eravamo abituati.
Certo, vediamo in controluce il mondo di quaranta anni fa, lo riconosciamo.
Soprattutto, ne vediamo lo svolgersi lontano dalle grandi città, quella in cui
io passai quegli anni, tra la fine del liceo e l’Università, in tutti altri
contesti impensierito. Mi ha fatto piacere questa contro-rivisitazione e
confronto tra il personale e un pubblico che non ho frequentato, ma la cui
disamina ci dà una serie di strumenti per interpretare il mondo di oggi, e come
ci siamo arrivati. Alla fine però, la resa è in minore, e la speranza è che Vitali
torni ai suoi scritti migliori.
Andrea Vitali “Un bel sogno d’amore” Garzanti euro 9,90
[A: 01/11/2014 – I: 11/11/2016 – T: 13/11/2016] - &&
e ¾
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 371;
anno 2013]
Essendo questo il 20° libro di
Vitali che leggo, penso che abbiate capito che, in fondo, con tutti gli alti e
bassi, è un autore che non mi dispiace. Purtroppo, ripeto, le ultime letture
sono più basse che alte. Soprattutto perché si ostina a venire sempre più vicino
al nostro presente, mentre le sue storie sono ben più incastrate nei periodi
ante 1940. Infatti, Vitali scrive sempre con lo stesso tipo di modalità, con
quel pizzico di nostalgia, con quella patina “d’antan”. Una scrittura che
avvolge Bellano e il lago di Como, ricoprendola con quelle atmosfere di
“vecchia signora di tanti anni fa”. Invece, quando si avvicina, e spesso
sorpassa, il miracolo economico degli anni Sessanta, la scrittura si incarta, e
le storie perdono mordente. Qui, ad esempio, il brodino si allunga fin quasi
alle 400 pagine, ma senza mordente, senza ironia, senza tutti quei risvolti che
fanno dei libri di Vitali un bel momento da passare insieme. Credo poi, che il
Vitali dei primi scritti, di questo ne avrebbe fatto almeno due se non tre libri.
Diciamo due, va. La storia di Adelaide ed Alfredo da un lato. E quella di
Ernesto Tagliaferri detto il Taglia dall’altra. È vero che un po’ le due storie
si intrecciano, ma neanche tanto e neanche in modo avvincente. Per collocare la
storia nel tempo, Vitali si costruisce un inizio “esterno” alle due vicende: la
proiezione di un film scandaloso nell’unico cinema di Bellano. E per la
precisione “Ultimo tango a Parigi”. Che tra anatemi della Chiesa, bigottismo
ante-litteram e cinema d’autore, pochi lo vedono, pochi lo capiscono, se ne
parla solo, ma per aspetti assolutamente diversi dalle intenzioni dell’autore.
Ma è solo un modo di dare il via alla storia. Anzi alle storie. Quella di
Adelaide, operaia in un cotonificio, un po’ blandita dal Taglia, che entra ed
esce dalla prima parte della storia. Adelaide che tenta con ogni mezzo di
fidanzarsi con Alfredo, un mammone della più bell’acqua. C’è agio per Vitali di
descriverci il mondo dei primi anni ’70 in provincia, passeggiate sul
lungolago, beute nelle osterie, il cinemino, la messa la domenica, i pranzi in
famiglia. Alfredo è un meccanico capace, ma che, appunto, non riesce a
staccarsi dalla madre Benvenuta “faccia da cane”, come viene bonariamente
chiamata a sua insaputa. Adelaide, incastrata in un losco affare dal Taglia,
perde il lavoro. Questo però fa sì che Alfredo si scuota, finalmente la chiede
in sposa, e con il beneplacito anche di Benvenuta. Ma anche da sposati, i
legami con la madre non consentono una vita serena. Anche se Benvenuta si
imbarca in un amore senile, delicatamente descritto. Sarà solo quando Adelaide,
un po’ alla Marlon Brando del film, prende l’iniziativa, che le cose si
sbloccano. E nonostante i dubbi di Alfredo riusciranno a mettere in cantiere la
sospirata prole. Che vedrà luce, purtroppo, dopo la morte di Benvenuta. L’altra
storia è quella del Taglia, il balordo, lesto di mano con le ragazze, poco
aduso a vivere sotto padrone, ma per questo sempre pronto ad imbarcarsi in
truffe e piccoli furti. Che ovviamente vengono tutti scoperti, e lui ne ha
sempre la peggio. Come la truffa della lotteria, quando va a giocarsi,
perdendoli, i soldi delle promesse vincite nella vicina Svizzera. Come il furto
degli orologi, cui fornisce alibi ai malfattori senza riuscire a trarne altro
beneficio se non, ancora, altri mesi di carcere. Come il piccolo contrabbando
di sigarette dalla Svizzera. Come il tentativo, in accordo con il magazziniere
dell’ospedale, di fare la cresta sui viveri della casa di cura. Tutte le sue
mosse sono seguite, da vicino o da lontano, dalla locale stazione dei
Carabinieri. Comandata dal maresciallo Pezzati, “caramba” dal cuore d’oro che
cerca tutte le volte di dare una via d’uscita al Taglia, senza mai riuscirci.
Dove una grande mano investigativa viene data dal carabiniere scelto Salvatore
Insoliti, calabrese ed ex-pescatore, che riesce a sventare l’ultima truffa del
Taglia. Ma qui anche i balordi non sono mai cattivi, e se faranno mesi di
carcere, ne usciranno sempre onesti seppur sbandati. Ne esce fuori questa
Italia che sente da lontano cosa avviene nel mondo e nelle grandi città. Ma che
è presa più da Sanremo che dalle rivolte studentesche. Dove anche gli scioperi
arrivano solo come echi attutiti di un mondo che non cambia la realtà
quotidiana del “campari” alle dieci, del riposino pomeridiano, del pesce al
venerdì. È un Italia dall’anima pulita quella che ci riporta Vitali, e che ci
fa riflettere, a noi grandi teoreti di rivoluzioni imminenti. Non a caso
riporto una frase, a me ben nota da anni, che descrive quel mondo. Ma che a me
riporta i tempi del mio lavoro sulle professioni d’aiuto, sull’altro. E sul
complemento che ne fece una mia cara amica. Forse non quadrato, ma lavorando un
po’ su di sé, almeno un poco ovale si può diventare.
“Chi nasce tondo non può morire quadrato.”
(280)
Andrea Vitali “Biglietto, signorina” Garzanti euro 9,90 (in realtà,
scontato a 8,81 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 14/11/2016 – T: 16/11/2016] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 393;
anno 2014]
Dispiace
un po’ vedere scendere il gradimento di Vitali, libro dopo libro. Tuttavia, mi
pare che ci sia poco da scusarsi. La scrittura rimane la stessa, gli spunti
sono sempre abbastanza piacevoli. La trama e gli scioglimenti, al contrario,
risentono come di un momento di stanchezza. Manca l’ironia che risolve (molto)
con un sorriso. Mancano le piccole o grandi sorprese. Insomma, si inizia bene,
poi ci si incarta e si finisce così così. Per questo, continuo a diminuire il
mio indice di gradimento, libro dopo libro. Sperando tuttavia in una bella
risalita. Pima o poi. Del resto, in questo romanzone (ormai anche Vitali
viaggia verso le 400 pagine, anche se, ripeto, suoi scritti più concisi
andavano meglio a segno), siamo già nel 1949 (quindi dopo la guerra e dopo il
ventennio), e già comincia la china del “modernismo”. Come spesso negli ultimi
libri, l’attacco dà il via al testo, ed al titolo, che poi si sviluppa in un
modo suo proprio. L’attacco è appunto dato da una signorina, trovata sul treno
che viene da Milano, senza biglietto. Che differenza con l’oggi, dove
l’avrebbero fatto a bordo (se si poteva), o fatta scendere con multa alla prima
stazione. Allora, la fanno scendere, poi (visto che la signorina fa finta di
non capire l’italiano), la portano ai carabinieri di Bellano, e con questi
addirittura in comune. Dove c’è il vicesindaco Torelli. Fin qui il prologo,
l’inizio un po’ diesel. Da qui partono e si intrecciano le storie, che questo è
l’intento di Vitali: intrecciare storie in un lasso di tempo del mondo di
Bellano. C’è la storia di Marta, la profuga. Che sembra croata, in realtà
dovrebbe essere albanese o kosovara. Presa in ostaggio da sbandati titini
durante la guerra (dove incontra il Vaninetti), da loro risparmiata, poi
sbandata essa stessa, con fuga finale a Milano per entrare nella scuderia di un
mafioso che gestisce donne e traffici vari. Qui incontra Torelli (anche lui in
loschi traffici col mafioso) che millanta soldi e benessere. E quando il
mafioso viene fatto fuori, fugge per raggiungere Torelli. Che ovviamente, una
volta riconosciuta, non può darle case e soldi, che è già infelicemente
sposato. Prima la piazza in casa, poi, dopo vicissitudini varie, dal droghiere
Santommaso che gli deve favori e soldi. Qui Marta un po’ fa da badante alla
moglie del droghiere, un po’ fa il suo mestiere con il droghiere stesso. E quando
questi, per i dispiaceri vari, si uccide, cerca, con le sorelle rimaste a
Milano e costituitesi in una nuova banda mafiosa di prendere l’attività del
Santommaso. La moglie però non muore, e nel tentativo di accelerarne la
dipartita, Marta e le sorelle commettono passi falsi che… C’è il Torelli, con i
suoi sempre falliti tentativi di diventare sindaco di Bellano, con i suoi
traffici loschi che rischiano di essere scoperti dall’arrivo di Marta, con il
tentativo di salvare capra e cavoli utilizzando il notaio Delabré. Ma Torelli è
un incapace di fondo, e finirà per perdere i soldi. Non la faccia, che, da buon
democristiano, ha sempre una riserva di possibilità, anche se di tono minore.
C’è il Vaninetti, sbandato anche lui, il dropout di Bellano. Che però smaschera
i traffici di Marta e delle sue sodali, ed avrà, lui sì, un finale positivo.
C’è Filiberto, figliastro di Santommaso, che si trova immerso nelle beghe
familiari suo malgrado, ma che, con l’aiuto del prevosto e del maresciallo dei
carabinieri, darà una svolta positiva alla vicenda. C’è infine la locale
sezione dei carabinieri, dove (ricordo siamo nel ’49) il comando è in mano al
maresciallo Pezzati. Lo stesso che, nell’episodio precedente che si colloca 23
anni dopo, finalmente sarà promosso maresciallo capo. Questa è una costante in
molti libri di Vitali, dove tornano personaggi, anche a distanza di anni e di
libri. Tanto che mi riprometto, un giorno o l’altro, di farne una cronistoria
legata alle persone più che ai libri. Ho detto molto della trama, pur non
dicendo tutto. La cosa che poco mi convince è ancora una volta la mancanza di
ironia e, se vogliamo, di personaggi positivi. Come se, andando avanti nella
scrittura, Vitali avesse dei ripensamenti. Per un lungo tratto sembra infatti
che Marta possa prendere il posto dell’eroina non dico buona ma redenta. Per
poi ricadere nella malvagia mafiosità. Poi sembra che Torelli, pur non
positivo, possa prendere lui un ruolo ironicamente centrale. Ma le sue beghe
alla fine ci lasciano discretamente indifferenti. Certo, il Vaninetti è
simpatico, la sua storia interessante, ma resta sempre un personaggio
marginale. Così come lo resta Filiberto che avrei visto ad esempio intrecciare
una tresca con Speranza Sezzadio, ma quest’ultima appare come una meteora e presto
scompare. Non ho nominato, perché ha un ruolo secondario, la compagine medica.
Ma c’è il dottor Lesti, da anni condotto a Bellano (che un po’ ricalca la
figura stessa di Vitali) che vorrebbe andare in pensione. E c’è il suo
possibile sostituto, il dottor Cantamerlo, con un nome così “ridanciano” per il
paese che nessuno gli dà credito e che finirà per fuggire con il circo di
passaggio (e con la bella Mariedda). Quindi, tutta una ridda di personaggi, di
situazioni, intrecciate ed unite dal teatro della vicenda (Bellano ed il lago),
ma senza che ne esca fuori una storia convincente ed ironicamente
appassionante, come altrove ci aveva abituati Vitali. Forse perché riprende
(ampliandola e riscrivendola) una storia del 2001 (inclusa nella raccolta “L’aria
del lago”). Chissà, io non ho letto la prima, questa è un po’ sotto la media.
Andrea Vitali “Quattro sberle benedette” Garzanti euro 9,90 (in realtà,
scontato a 8,41 euro)
[A: 21/09/2016 – I: 17/11/2016 – T: 20/11/2016] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 369;
anno 2014]
Evidentemente
la super-produzione del 2014 non fa molto a Vitali ed ai suoi scritti, che sono
andati calando fino a raggiungere uno dei punti più bassi della sua produzione
pluriennale. A maggior ragione, che c’erano le premesse di una più coinvolgente
storia, visto che ci siamo ricollocati nel Ventennio, e per la precisione
proprio nel 1929. Epoca in cui Vitali ha ambientato le sue riuscite migliori.
Invece in questa prova un po’ svogliata si sommano tutti i tic negativi che
altrove fanno la fortuna della scrittura di Vitali. Che dove c’è un’idea, il
modo di porgere la storia risulta ironicamente divertente. Capitoli brevi,
alternanza di dialoghi punteggiati o solo riferiti, salti temporali avanti e
indietro nella storia e nel tempo, a volte di poche ore, a volte di qualche
giorno. Ma dove la storia latita, questi “vezzi” risultano pesanti, non fanno
procedere spediti, non si riesce a farsi cullare da loro, come se le onde del
lago su cui si affaccia Bellano invece di spumeggiare piano per un refolo
gentile, si inarcassero e premessero sulle sponde, rendendo il cielo grigio e
poco invitante. Come sembra appunto in questa fine d’ottobre in cui si svolge
il romanzo. Che come detto è fatto di niente. Certo ritroviamo alcune “vecchie”
conoscenze, nella fattispecie la brigata dei carabinieri: il maresciallo
Maccadò, il brigadiere Mannu e l’appuntato Misfatti. Già presenti ne “La
signorina Tecla Manzi”, “La mamma del sole” e in “Galeotto fu il collier”. Dopo
tante vicende quasi da comprimari, qui i tre, con le rispettive
caratteristiche, salgono sul palcoscenico principale e sono il motore
principale della storia. Insieme al prevosto e al dottor Lesti (che ritroveremo
venti anni dopo nel libro precedente in attesa di andare in pensione). La
famiglia Maccadò fa il primo figlio, e ci sorbiamo prima una tiritera perché
non nasce, poi una seconda sul sesso, che il primo figlio deve essere
maschio, e poi un’ultima su possibili trasferimenti d’ufficio che sappiamo non
avverranno, dato che il maresciallo sarà ancora lì nel ’49, per diventare poi
capo solo nel ’72 (ma dopo 43 anni di servizio, ed essendo già maresciallo, ne
dovrebbe avere sulla settantina; un po’ improbabile, Vitali!). Mannu e Misfatti
continuano la loro guerra sotterranea, visto che uno (indovinate quale) è sardo
e l’altro (per esclusione) è siciliano. Inoltre Mannu è più alto in grado di
Misfatti. Quindi l’uno si appoggia alla gerarchia, l’altro alle furberie
spicciole del quotidiano. Tuttavia anche la loro schermaglia ha il fiato corto.
Infine ha il fiato cortissimo la storia delle famose lettere anonime che
arrivano prima ai Carabinieri, poi anche al parroco. Certo, innestano un bel
trambusto (ma solo perché Vitali vuole ingarbugliare le acque). Quello che
traspare subito è il bersaglio delle stesse. Che si vuole mettere in cattiva
luce il coadiutore del parroco, don Sisto, sostenendone una improvvida presenza
presso la casa di piacere di via Ovidio in quel di Lecco. Casa gestita da tal
Odalisca (soprannome banalotto), madre del Terranova, uomo “di altra sponda”
come si diceva allora, e che gestisce un bel bar di periferia. E quando in quel
di via Ovidio scoppia un’epidemia di morbillo, questa si dilaga prima al
Terranova, poi al bar, poi ai frequentatori del bar. Facendo confusione,
nell’ignoranza provincialotta, tra morbillo ed orecchioni. A grandi passi si
avvia verso la confusa schermaglia finale. Noi si era già capito che don Sisto,
dal modo di agire, era in cerca d’altro. Comprensione rafforzata dalle quattro
sberle che lui appunto usa per cercare di ridurre alla ragione tal Agrippina
(altro soprannome poco fantasioso), e che si intuisce che altro è il rapporto
tra i due. Mannu e Malfatti riportano la calma nel paese agitato, svelando chi
sia il latore delle quartine infamanti. E chi ne sia lo scrittore (vista la
mano tremolante). Si farcisce con un po’ di retorica fascista (soprattutto per
le feste del IV novembre e dintorni), si punzecchiano i Patti Lateranensi del
febbraio precedente. E tutto finisce in cavalleria. Unico mistero banalmente
divertente, la ricerca di chi sia colui che nella prima pagina bussa al casino
chiuso. Devo dire che la sua rivelazione a pagina 360 mi ha sorpreso, per cui
ho dato quel mezzo libretto in più. Tuttavia, gli ultimi libri letti confermano
la crisi dell’ispirazione e dell’inventiva che attraversa il simpatico medico
lariano. Spero che possa ritrovare la verve e l’entusiasmo de “La figlia del
podestà” o di “Almeno il cappello”. Per ora veleggia molto in fondo alla
classifica.
Poiché siamo in una uscita straordinaria,
essendo un venerdì festivo, come da mia consuetudine, in queste situazioni
recupero qualche cura delle mie ormai anche un po’ datate libropeute. Ed in
particolare questa volta ci dedichiamo a curare la depressione (compito direi
improbo) e ad indicare libri per chi avesse raggiunto la svolta del secolo (che
forse qualche nostro parente sta tentando di raggiungere).
Ritornando dalla interessante
anche se non completamente riuscita mostra di Treviso (dove faceva un freddo da
tagliare il viso), abbiamo diligentemente contornato Venezia godendoci invece
una sempre gradevole passeggiata nel Palazzo Venier e nella mostra della
Collezione Guggenheim. Un inizio d’anno “di cultura”, in attesa di completare
itinerari, armi e bagagli per l’Indocina febbrile. Allora un augurio di Buona
Befana, magari con qualche premio da lotteria.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
BEFANA 2017
Quando decido di inviare trame in
giorni festivi non domenicali (e succede) li “addobbo” con questi florilegi che
vengono dal libro del titolo e sono commentati dalle “mie” controdeduzioni.
Come sapete, chiamo queste riprese “recupero di libri letti”.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
Di queste prime due cure nei
parlai nel febbraio e marzo 2015, ed ora vi aggiungo due libri letti
posteriormente.
Depressione, i dieci migliori romanzi per tirarsi su
1.
Jorge Amado Dona
Flor e i suoi due mariti
2.
Jurek Becker Jakob
il bugiardo
3.
Andrea Camilleri Il
birraio di Preston
4.
Gianni Celati Le
avventure di Guizzardi
5.
Patrick Dennis Zia Mame
6.
Fannie Flagg Pomodori
verdi fritti al caffè di Whistle Stop
7.
Carlo Lucentini e Franco Fruttero La donna della domenica
8.
Nick Hornby Febbre
a 90°
9.
Stendhal La
certosa di Parma
10. Winifred Watson Un giorno di gloria per
Miss Pettigrew
Depressione, i dieci migliori romanzi per chi è molto triste
1.
Guillermo Cabrera Infante Tre tristi tigri
2.
Javier Marias Un
cuore così bianco
3.
Gabriel Garcia Màrquez La incredibile storia della candida Erendira e della sua
nonna snaturata
4.
Carson McCullers La
ballata del caffè triste
5.
Arturo Pérez-Reverte Capitano Alatriste
6. Françoise Sagan Bonjour tristesse
7.
José Saramago L'anno
della morte di Ricardo Reis
8. Osvaldo Soriano Triste, solitario y final
9. Edward St. Aubyn I Melrose/Speranza
10. Richard
Yates Revolutionary
Road
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
Cent’anni, i dieci migliori romanzi per chi ha
più di cent’anni
Questo l’ho saltato, forse in
omaggio a Kirk Douglas, ed ora ve lo ripropongo
1.
Thomas Bernhard Estinzione
2.
Andrew Sean Greer Le confessioni di Max Tivoli
3. Jonas Jonasson Il centenario che saltò dalla finestra e
scomparve
4.
Yasunari Kawabata La casa delle belle addormentate
5.
Milan Kundera L'immortalità
6.
Cormac McCarthy Oltre
il confine
7. A. A. Milner Winnie the Pooh
8.
Georges Perec La
disparition
9. Osvaldo Soriano Un'ombra ben presto sarai
10.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il gattopardo
Bugiardino
In
questo recupero epifanico, vi rimetto in lista quattro libri inseriti in tre
liste delle nostre ormai ben note dottoresse dei libri. Tra depressioni varie,
compresa, secondo me, quella di essere arrivati ai cento anni.
Patrick Dennis “Zia Mame” Adelphi euro 12
[trama del 02 ottobre 2016]
Ne
avevo sentito parlare, e non mi ero mai deciso ad affrontarlo. Spinte
eterogenee mi ci hanno finalmente portato, e, come al solito, devo dire che
dovrei più spesso cedere a questi impulsi. Non è un libro bellissimo. Si sente
il passare degli anni (in fondo, ha quasi la mia età…). Se poi dovessi solo
giudicare dal testo, prenderebbe qualcosa in meno. Risale grazie ad un contesto
degno, e ad una post-fazione magistralmente condotta sul filo dell’ironia
dall’ottimo Matteo Codignola. Scopro quindi che Dennis in realtà si chiama Edward
Everett Tanner III, che è un toro (18 maggio), che il padre lo chiamava Patrick
in omaggio al pugile Pat Sweeney, che ha scritto 16 romanzi, di cui 4 con il
diverso pseudonimo di Virginia Rowans, che si sposa nel 1948 (a 27 anni), ha
due figli, poi verso la seconda metà degli anni Cinquanta, scopre che è più
attratto dagli uomini, va a vivere in Messico con un suo preteso amante, che in
Messico viene derubato di tutti i suoi averi, che torna in America dove spende
gli ultimi anni della sua vita usando il suo nome reale, e facendo il
maggiordomo per Ray Kroc, l’allora capo indiscusso e amministratore delegato
della McDonald’s, che muore a 55 nel 1976 di cancro alla prostata. Benché il
grande successo dei Cinquanta, e benché il suo personaggio – icona di zia Mame
sia portato sulle scene teatrali (ed in modo magistrale) da Rosalind Russell,
libro (e commedia e film) caddero nel dimenticatoio, per essere ripresi solo
negli ultimi anni, grazie agli sforzi del figlio di Patrick in patria e di
Adelphi da noi in Italia. Da questo mini excursus si capisce appunto il
contesto frizzante da cui sorge il testo, inizialmente non molto ben visto
neanche dall’editoria americana. Erano una decina di racconti legati insieme
dalla figura di zia Mame, ricalcata sulla figura reale della zia di Edward,
Marion Tanner. Fu solo un non meglio noto curatore editoriale della casa
Vanguard ad avere la brillante idea, che ha portato prima alla pubblicazione,
poi al successo inaspettato (per due anni nella classifica dei best-seller del
New York Times): legare i vari racconti da una specie di filo rosso legato ad
oscure pagine pubblicate da “Selezione del Reader's Digest” relative ad una
improbabile signorina del New England. Questa finzione permette al nostro
Patrick di scatenarsi nel racconto di una sua finta autobiografia, punteggiata
dalla vita e dalle opere della mirabolante zia Mame Dennis. Racconto che inizia
nel 1928, con Patrick decenne e con il padre che inopinatamente muore,
lasciandolo ricco ereditiere (quando maggiorenne) ed affidato alle cure
dell’unica parente vivente, appunto la zia Mame. Fin dalle prime battute si
instaura il plot generale del racconto: zia Mame è rutilante, si impegna in
attività senza capo né coda e Patrick tenta di mitigarne la “dolce pazzia”.
Ovvio che per rendere il tutto appetibile per quasi quattrocento pagine, poi,
ogni tanto la trama si inverte, ed è zia Mame che “salva” l’incauto nipote.
Vediamo Mame affascinata dalle teorie didattiche d’avanguardia, coinvolgendo
Patrick in una scuola sperimentale. Di certo dal respiro corto, tanto che
Patrick sarà preso costretto alle più classiche scuole scelte dal suo tristo
tutore (che ha l’unico pregio di salvare i beni del giovane dalla catastrofe
del ’29). Il ’29 invece vede intaccare ben presto gli averi della zia, che
seguiamo agli inizi degli anni Trenta doversi dedicare a qualche mestiere. Da
antologia il suo apprendistato da Macy’s, dove non riesce a vendere nulla non
sapendo usare le casse. Fortuna vuole che lì in contri Franck, un gentiluomo
del Sud, che, affascinato dalle sue grazie, provvede a sposarla ed a sistemarla
economicamente. Per poi coinvolgere, zia e nipote, in una discesa nelle sue
terre del profondo Sud, dove zia Mame si destreggia in una mitica caccia alla
volpe. Passati i guai, Franck gentilmente muore lasciandola di nuovo
possidente. Consigliata dai suoi amici fuori di testa, decide di scrivere la
storia della sua vita, riuscendo in un nuovo disastroso flop, dove Patrick la
salva da un irlandese che mira ai suoi soldi, e che riesce solo a mettere in
cinta la sua segretaria. Zia Mame, allora, diventa l’angelo delle sventure di
Patrick, salvandolo da una cameriera esilarante nel suo inglese sconnesso, poi
dalle mire di una razzista signorina che mira anche lei solo al patrimonio. Ci
sarà la guerra a far da cesura ai racconti, e Patrick (come l’autore) ne passa
quasi indenne, tornando a casa leggermente ferito, e dovendo aiutare la zia in
una bislacca opera filantropica. Ma ormai anche il nipote è cresciuto, e la zia
pensa suo dovere trovare una moglie al trentenne nipote. Ultima avventura, che
per fortuna porta Patrick a conoscere una simpatica ragazza che finalmente
sposerà. Chiusura alcuni anni dopo, dove la zia, visto che non ha più il potere
su Patrick, affascina ed ammali Mick il giovane nipote di sette anni. Ecco
appunto che ogni storia nasce con un punto affascinante e mirabolante, si
svolge andando verso catastrofi annunciate, e salvate per miracolo all’ultimo
istante. Schema leggermente ripetitivo, che rende prevedibile l’andamento.
Fortuna vuole che la verve innata di zia Mame, ben descritta dall’agile penna
del nostro, renda comicamente appetibili le più matte (dis)avventure.
Incongruamente, poi, zia Mame diventa nei pochi anni di auge della metà degli
anni Cinquanta, anche una icona dei gay americani. Alla fine, tuttavia, un
libro che mette allegria, anche se risente, in modo assai pesante, i suoi
sessanta anni.
Françoise Sagan “Bonjour tristesse” Mondadori euro 9 (in realtà,
scontato a 7,65 euro)
[scritta il 19 settembre
2016, non pubblicata]
Ero
sempre stato tra l’incudine ed il martello verso la Sagan ed i suoi libri. Mi
dicevo che valeva forse la pena leggerne, poi me ne allontanavo spinto dalle
polemiche da lei suscitate in vita, e in cui non volevo, mentalmente essere
coinvolto. Spinto alfine dalla biblioterapia che ne consiglia la lettura a chi
sia molto triste, ed acquistato in un periodo che, fortunatamente, triste non
era, ne ho letto con una cura premonitiva, sgomberando la mente da preconcetti,
evitando anche di leggere il bel commento che ne fa Valeria Parrella (una
scrittrice che io amo). Il risultato è una buona lettura, un libro
interessante, che, se poi lo inquadriamo nel periodo di scrittura e nel mondo
in cui nasce, assume anche altri significati trasversali. Era la Francia del
poco dopo guerra. Quella dei Sarte, dei Camus, dei bistrò con Boris Vian e
Juliette Greco. Françoise è una diciannovenne sveglia, irrequieta, che con
difficoltà (più volte rimandate) riesce a diplomarsi e ad entrare in
università. E scrive di getto questo libro, che si presenta come contraltare di
quel mondo. Che descrive una modalità inquieta sì ma spensierata (forse anche
troppo) dedita ai piaceri della vita, anche se non (almeno nell’apparenza)
fatua. Di certo ingenua, anche se qualcuno direbbe volutamente. Come quando
Françoise fa dire alla sua alter-ego Cécile: "Avevo spiegato a mio
padre che volevo iscrivermi a Lettere, frequentare gente colta e diventare
famosa e pedante”. La storia, narrata da Cécile in prima persona, e che ce ne
presenta i turbamenti, i segni che la storia stessa le lascerà addosso,
comincia con un inno a Paul Éluard, ed alla sua poesia, riproposta in esergo, che
inizia con “Addio tristezza / Buongiorno tristezza”. E sarà questo buongiorno
che diverrà il marchio di fabbrica di Françoise-Cécile. Che ci racconta la
storia di questa estate trascorsa sulla Costa Azzurra. Con il gaudente padre
Raymond, imperterrito donnaiolo, e la sua ultima amante, Elsa, di poco più
grande di Cécile. Seppur sul filo della noia, anche se con qualche punto di
batticuore, dovuta alla presenza di tal Cyril, ventenne studente di legge più
grande di lei; Cecile non è innamorata di lui, lei è innamorata del contatto
fisico e del piacere che ne ricava. I giorni trascorrano così, lenti e mondani.
Il tutto si rompe con l’arrivo di una vecchia amica di famiglia, Anne.
Aristocratica, raffinata, colta e sensibile. Che cerca di fare la vice-madre alla
nostra giovane (la cui madre è mora da qualche anno). Ma che soprattutto (e
bene risalta nella scrittura) fa fare delle figure barbine alla povera Elsa.
Questa si brucia al sole, Anne si abbronza. Quella si sbronza, questa regge
l’alcool e le situazioni difficili. Raymond, com’è ovvio, ben presto si
sbarazza di Elsa, e propone addirittura ad Anne di sposarla. Ovvio che Cécile
diventi super gelosa. vedersi portare via il padre è già un trauma, e vederselo
portare via da una donna che si ammira, non può che centuplicare il già latente
complesso di Elettra (in psicoanalisi il complesso di Elettra è una sorta di
analogo femminile del complesso di Edipo; secondo la definizione di Carl Gustav
Jung tale complesso si definisce come il desiderio della bambina di possedere
il padre e della competizione con la propria madre per il possesso del genitore).
Cécile quindi mette in scena un teatrino micidiale. Convince Cyril a
corteggiare Elsa pubblicamente, certa che il padre ne diventi geloso. Cosa che
puntualmente accade, dove Raymond tenta un nuovo approccio con Elsa, e con Anne
che li scopre, vedendo anche lei che l’uomo non cambierà mai. Delusa e
disillusa, parte in macchina per Parigi, ed avrà (o lascerà avere) un incidente
mortale. Qui finalmente arriva la tristezza in fondo al cuore (e che con il
grande Lucio ripetiamo “come la neve, non fa rumore”). Qui arrivano le domande
di Cécile-Françoise sia stata lei la causa del tutto, quasi a credersi Dio essa
stessa, fattrice e disfattrice della vita di tutti. Poi la vita prosegue, come
era prima di Anne, quasi che fosse un solo piccolo intoppo nel corso della
vita. E nel futuro, pur rimanendo la tristezza, se ne potrà parlare come una
cara amica che ci è stata strappata. Come qualcuno ha notato, io non sono
riuscito ad entrare in empatia con nessun personaggio, e la scrittura denota i
nostri sessanta anni. Pur tuttavia è un libro importante, anche al di là di
questo. Per quello che ha rappresentato, per le capacità della scrittrice, per
il bando che ne fece il Vaticano (troppo licenzioso, ma se lo leggete vi
domanderete a lungo il perché). Mi è quindi piaciuto a metà, forse solo per
quella rabbia che ha dentro e che noi non si riesce a tirare fuori. O forse
perché, incongruamente, dalla tristezza del poeta di Françoise è emerso il mio
analogo poeta francese, quel Jacques Prévert di cui mi venivano in mente quelle
righe meravigliose dei “Trois allumettes” (Tre fiammiferi accesi uno per uno
nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti gli
occhi / L'ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi
queste cose / Mentre ti stringo fra le braccia). Ma si sa che io sono un
incorreggibile francofilo.
“Avevamo … le risate e l’amore; li
ritroveremo mai come erano in quell’estate, con quello splendore, con quella
intensità?” (114)
Jonas Jonasson “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve”
Bompiani s.p. (regalo di Ale)
[trama del 13 maggio 2012]
Un libro divertente per una
scoperta di un autore (di 13 giorni più piccolo di mio fratello) che non
conoscevo. Ingredienti di un ottimo regalo. Ed è anche scritto in modo che ti
prende un po’ tutte le parti del corpo, e ti si piazza là, finché non vai
avanti. Cervello, gambe, stomaco sono coinvolti, forse solo il cuore rimane un
po’ fuori, anche se di lato e di lontano fa le sue comparse. Un Forrest Gump
dall’intelligenza di Zelig attraversa le oltre 400 pagine portandoci in un
turbine di avvenimenti che riescono a non stancare e a non essere neanche
ripetitivi (rischio che poteva esserci). Seguiamo così Allan il centenario che
fugge dall’ospizio il giorno del suo centesimo compleanno, ed avventurandosi
per il mondo con le sue forze limitate ma con quell’acume che scopriremo ben
presto ha, si incarta in una serie di vicende che potrebbero portarlo presto
fuori strada. Ed invece… Invece si ritrova in fuga con una valigia piena di
milioni, inseguito da una banda di spacciatori scalcagnati. E trova man mano
l’aiuto di Julius un ladro sessantenne, di Benny un quaranta-cinquantenne che
si è quasi laureato in dieci discipline diverse e di Bella una signora di 43
anni, con cane ed elefante (una delle tante invenzioni di Jonas, farci trovare
una fattoria nella profonda Svezia dove si rifugia un elefante in fuga da un
circo). E questa banda di svitati riesce a mettere in scacco i malviventi della
banda “Never Again” (cioè mai più… dietro le sbarre di una prigione). Ed anche
a prendere in giro la polizia svedese, ed il pubblico ministero incaricato
delle indagini sulla morte dei malviventi. Da ricordare tutto il dialogo in cui
i 4 mettono sotto scacco il GIP, con un dialogo che sembra essere il contro
esempio di un manuale di comunicazione di Paul Grice, dove tutto è
consequenziale, ma interpretato fuori dal contesto, in modo che per il GIP
diventa assurdo ma farà in modo che la nostra banda esca vincente dalla
contesa. Già questo sarebbe un bel romanzo, ma lo scrittore – giornalista Jonas
lo inframmezza con la storia della vita del nostro centenario. E qui vengono
fuori gli altri momenti da un lato esilaranti, dall’altro che, coinvolgendo
tutti i grandi attori del secolo, ne tratteggiano tutto il possibile di modo
che ne esce un ritratto della storia del Ventesimo secolo, disincantato ed un
po’ anarchico. Cominciando dal padre di Allan, comunista sfegatato, che fugge
in Russia, dove conosce Fabergé e si mette in contrasto con Lenin quando questi
sale al potere. Allan, rimasto solo ed orfano, si dedica allo studio degli
esplosivi (d’altra parte siamo nella patria di Nobel), e questo lo porterà in
giro per il mondo, e per le sue vicende, nel corso degli anni. Nella fabbrica
di esplosivi conosce un rifugiato spagnolo, e con lui decide di andare in
Spagna quando scoppia la Rivoluzione. Per la sua esperienza viene reclutato nel
far saltare i ponti, cosa che fa con coscienza, ma cercando di non uccidere
nessuno. Tanto che quando qualcuno sta per saltare in aria con il ponte lo
salva. Peccato che sia il generalissimo Franco. E questo lo imbarca in una
serie di improbabili avventure. Franco gli fa una lettera di encomio e lo
imbarca su una nave spagnola, che arrivata a New York viene sequestrata. Ma lui
non è spagnolo ed è esperto di esplosivi, per cui viene mandato a Los Alamos.
Lì, suggerisce ad Oppenheimer il modo di far funzionare la fissione con
l’esplosivo. Quindi si ubriaca con il presidente Truman, che lo invia in
missione “esplosiva” in Cina con Chiang Kai-shek. Ma Allan non sopporta i
boriosi e presupponenti. Quindi abbandono il Kuomintang, salvando nel contempo
la moglie di Mao Tse-Tung. Vuole tornare a casa, e si avvia a piedi dalla Cina
verso l’Europa. Ma in Iran viene coinvolto in altri attentati, e per salvare la
pelle (sua) salva anche quella di Winston Churchill. Tornato in patria, viene
reclutato dai russi per fabbricare la bomba atomica russa. Aiuta il buon Popov,
ma entra in urto con l’antipatico Stalin, che lo spedisce in Siberia. Dove
fugge dopo 5 anni verso la Corea. Per trovare il modo di tornare a casa, riesce
ad avere un colloquio con Kim Il-Sung, che vorrebbe però ucciderlo, ma viene
salvato da Mao, presente al colloquio, quando questi scopre che lui salvò la
moglie. E così si ritrova a passare 15 anni di ozio a Bali a spese della Cina
comunista. E tanto altro, in modo che sarà a Parigi nel maggio del ’68 ed a
Mosca nell’89. Per finire chiudendo il cerchio, centenario recalcitrante nella
moderna Svezia. Il bello della scrittura di Jonas è l’uso del paradossale come
se fosse normale. Con il nostro Allan - Forrest Gump che non si meraviglia di
nulla, basta che non lo opprimiamo con lunghe discussioni su politica e
religione e che gli facciamo avere un po’ d’acquavite. Non ci chiediamo qui se
il verosimile delle storie sia anche plausibile, perché ne godiamo il lato
ironico pensando che, anche se non fosse così, sarebbe carino fosse stato così.
Alla fine un libro che merita il successo che ha avuto. E che mi ha fatto
piacere leggere, tanto che riusciva a farmi ridere fra me e me come non
succedeva da tempo. Un piccolo appunto all’editore che ha lasciato un refuso
nell’indicazione del titolo originale (certe attenzioni ormai sono fuori dalle
logiche di chi stampa libri, peccato).
“Lei è un pensionato …. Particolare che gli fece capire che, contro
tutte le previsioni e senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente
invecchiato. E lo attendevano ancora molti, molti, molti anni di vita.” (435)
Osvaldo Soriano “Un’ombra ben presto sarai” Einaudi euro 11,50
[trama del 01 maggio 2015]
Una
sorta di Jack Keruac in salsa argentina. Si poteva chiamare “En la ruta”, ma
senza gli eccessi nordamericani. Riprendo ancora una volta in mano Soriano,
dopo il lontano “Triste, solitario y final”, ed ancora una volta ritrovo i
motivi per cui mi piacciono gli argentini più di altri scrittori sudamericani.
C’è quella tristezza di fondo che non guasta (che serve a mitigare i facili
entusiasmi), c’è un sano realismo (contrapposto a quelle figure immaginifiche
che tanto vanno di moda nel periplo brasil-messicano). Insomma, pur dove c’è
fantasia, io intravedo in controluce la realtà del mondo. Fu così con Borges (e
con i suoi epigoni alla Bioy-Casares) ed è così con Soriano (ed aspetto di
leggere i suoi scritti sul calcio per avere un panorama completo, che con il
primo libro si era nel cinema e qui nella letteratura). Per questo, inoltre,
ritengo questo libro anche un libro intrinsecamente argentino, un libro che è
strettamente legato al tango e al truco. Il secondo (più brevemente) è un gioco
di carte di cui sono malati i porteñi, che poco conosco, ma che è legato anche
a scommesse su quello che si può vincere e sulle quantità. E non solo, poiché
una parte del libro è dedicata all’ipotesi di un tentativo di truffa che
mettono in piedi il protagonista con il sodale Coluccini proprio con il gioco
del “truco”. Ma c’è anche una specie di balletto ideale, dove si usano le
parole del “truco”, solo per sottolineare dei momenti del romanzo. Ci sono
diversi “envido” (inviti, nel truco, per aumentare la posta) e ci sono alcuni
“falta” (dove ci si tira indietro). Probabilmente un esperto di “truco”
potrebbe decifrarlo meglio. Il primo è strettamente legato al titolo ed
all’andamento della storia. Perché la storia è triste come un tango (dove c’è
sempre qualcuno che si lascia, a volte per riprendersi ma anche no), e come un
tango si avvolge su sé stessa. Come una specie di libro circolare, che inizia
con il protagonista che scende da un treno in un imprecisato punto
dell’Argentina, e che finisce, dopo balli e peripezie, con il nostro che si
mette seduto in una stazione che forse non esiste più, ad aspettare un treno
che forse non passerà mai. Ed è un tango già nel titolo, legato ad uno dei tre
tanghi più famosi al mondo “Caminito”. Talmente bello e famoso, che mi sono
sentito in dovere di aggiungere un’appendice a questa trama, solo per parlare
di “Caminito”. Un tango dove si parla di una stradina (caminito) e per tutto il
libro (come detto all’inizio) siamo “en la ruta”. Un tango dove qualcuno si è
lasciato e qualcuno, presto, si metterà in viaggio verso altrove. Nel libro non
si parla di un amore in senso stretto (anche se la scena di sesso nella Citroen
che va alla deriva nel corso d’acqua è da antologia), ma certo di un amore
filiale, che il nostro ha lasciato in Europa una figlia, con cui comunica
tramite assurdi fermo-posta nel mezzo del nulla. Il protagonista, poi, è sempre
in viaggio. Perché lascia l’Europa da tecnico informatico per tornare in
patria, ora che sono stati cacciati i militari, ora che (forse) si potrebbe
respirare un’aria nuova, un nuovo modo di essere “todos juntos”, e non sempre
in lotta. L’illusione è breve, ed allora si fugge da Baires, così come
suggerisce anche il Caminito, ci si avvia nella pampa. Benché qualcuno parli di
Commedia, dantesizzando il nostro Osvaldo, i vari Virgili che incontra sono
comunque degli esempi classici e puntuali di mondi e di situazioni. C’è Lem che
cerca la fortuna da avventuriero, convincendo il nostro che c’è la possibilità
di sbancare un casinò, che vince e perde somme ingenti, ma che, lasciato da
affetti momentanei, perso dentro la sua Jaguar, prenderà subito la via del
caminito (ed ascoltate il tango per aver più chiarezza). C’è Nadia, la
cartomante che inventa le storie, ma che le azzecca ad ogni richiedente, e si
allontana dai posti con la sua Citroen stravecchia e piena di alimenti con i
quali i rustici la pagano, che solidarizza con il nostro, a cui da (ed a lui
anche a Lem) dritte per i loro futuri. Indovinate chi li segue e chi no! C’è
Coluccini, l’improbabile imbonitore, l’uomo che ha venduto il suo circo, che ha
lasciato andare moglie e figli con un altro che avrà senz’altro miglior fortuna,
il funambolo dei fili dai quali casca sempre alla fine, quello che organizza
truffe, ma che finisce truffato, deriso e solo. Ma lui è il clown, quello
triste dalla faccia allegra, quello che poi, alla fine, risorge da tutte le
cadute. E se ne andrà, sulla sua Gordini, lasciando il nostro solo, alla fine,
in quella stazione del treno che non passerà mai. Faccio un inciso “colto” come
son io: Coluccini chiama il nostro con il soprannome di Zàrate, che è anche la
città di un grande pilota automobilistico argentino, Onofre Agustín Marimón,
che correva in formula 1 nei primi anni ’50, quando una delle macchine di
punta, anche se non sorretta da una grande casa, era appunto la Gordini.
Tornando allo scrittore, anche qui c’è la grande metafora di tutti noi, sconfitti
dalla vita, ma irriducibili nell’andare avanti. Anche noi siamo come il
protagonista. In fondo, non cerchiamo facili vie d’uscita come Lem, né
cerchiamo di imbrogliare come Coluccini. No, noi si cerca di andare avanti,
rimanendo sempre fedeli a noi stessi, forse sconfitti, ma mai, ripeto, mai, con
dei rimpianti per aver negato il nostro essere, per esserci piegati alle altrui
volontà, per aver vissuto una vita denaturata. Non tutto Soriano è bello, non
tutto avvince, ma ne ho gradito la lettura, spinto dalle dottoresse libropeute,
per leggere questo libro consigliato a chi raggiunge le soglie del secolo.
“Non sapevo dove stessi andando ma almeno
volevo capire il senso del mio viaggio.” (3)
“C’è un momento per ritirarsi prima che lo
spettacolo diventi grottesco… Quando uno è sulla pista lo capisce. Magari il
pubblico applaude come impazzito ma uno, se è un vero artista, lo sa.” (204)
Conclusioni
Sicuramente, leggere il libro di
Dennis consente qualche risata, anche se datata. Sicuramente, essere depressi e
leggere di Françoise Sagan può spingere i migliori all’immediato suicidio.
Infine, sarei felice di poter commentare gli ultimi due libri avendo raggiunto
l’età lì auspicata (ed ovviamente essendo in forma e non “acciaccato” come
sembra che siamo un po’ tutti).
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