domenica 8 gennaio 2017

L’equilibrio di Biancaneve - 08 gennaio 2017

Riprendiamo le trame domenicali, dopo il turno epifanico straordinario. Dedicando il titolo ai due gialli che, in questo quartetto, si innalzano sugli altri. Il ritorno dell’avvocato Guerrieri di Carofiglio ed il bell’intreccio tedesco di Neuhaus. Dispiace per la Pastor, ma questa mia prima lettura non mi ha convinto. Ancor di più l’inutile libro del finto Castle (meglio la serie TV, e di molto).
Richard Castle “Heat Wave” Repubblica Agenda Noir 12 euro 7,90
[A: 14/09/2015– I: 30/06/2016 – T: 02/07/2016] - && e ½  
[tit. or.: Heat Wave; ling. or.: inglese; pagine: 253; anno 2009]
Molti di voi sanno che, non avendo televisione in casa, non seguo in modo particolare nessun fremito che esce dal tubo catodico. Pur tuttavia, spesso con Alessandra, mi capita di vedere alcuni episodi di qualche serial. In quest’ambito, uno dei due che tuttavia non disdegno (pur nella sua semplicità rispetto ad altri che mi dicono meglio realizzati) è la serie TV “Castle” (inciso, l’altro, di maggior interesse culturale, almeno per me, è “Elementary”, blandamente basato su una modernizzazione del vecchio caro Sherlock Holmes). In “Castle” c’è uno scrittore di gialli, Richard Castle, che si accoda ad un gruppo investigativo del NYPD per seguire dal vivo le indagini poliziesche e trarne spunti per i suoi libri. Castle è uno scrittore, e durante gli otto anni della serie scrive anche libri, e capita (nella fiction) che se ne parli, magari per farne promozione. Gli autori della serie, allora, per sfruttare la pubblicità indotta, ecco che riescono a produrre un divertente spin-off. Prendono un medio autore americano (pare che sia Tom Straw, anche se non ci sono notizie certe) e gli fanno scrivere dei libri che hanno il titolo di quelli che Castle cita in TV. Poiché poi Castle televisivo fa anche accenni di trama, ecco che una buona parte del libro risulta già scritta prima di cominciare. Come succede in questo “Heat Wave”, cioè “Ondata di calore”, riferita all’afa di un’estate newyorchese. Come sanno poi coloro che seguono la TV, nel libro sono riversati sotto altro nome i personaggi televisivi. Il personaggio principale si sposta sul detective Nikki Heat, basato sul personaggio di Kate Beckett, che si innamora di Castle (e poi lo sposerà) e qui ovviamente si incontra-scontra con l’avatar dello scrittore, il giornalista Jameson Rook. Tra i maggiori altri co-protagonisti abbiamo Margaret Rook (la madre di Castle Martha Rodgers) ed i due detective Miguel Ochoa (cioè Javier Esposito in TV) e Sean Raley (cioè Kevin Ryan in TV). Ma se la serie TV ha un suo piccolo fascino, questo libro indotto ne ha veramente meno. La trama è orecchiata da spunti diversi degli episodi, e, come detto, i personaggi fanno le mosse che ci si aspetta da chi conosce la serie. Da sottolineare però che questo è il primo libro della serie di Nikki Heat, quindi serve al Castle scrittore per mettere “in bella luce” la poliziotta di cui sappiamo essere innamorato. Ed ovviamente, forzando il passo, l’autore del libro farà in modo, ad un certo punto, anche senza troppi preliminari, che Nikki e Jameson finiscano a letto. Quasi che lo scrittore tenti di mandare messaggi al polizotto del film. Insomma, sarebbe carino se l’autore, cioè Tom Straw, sapesse barcamenarsi tra le varie strutture (film che rimanda al libro che rimanda al film). Purtroppo non ne ha le capacità, ed il libro in sé non ha un particolare interesse. Tanto che la quasi sufficienza mi viene solo perché mi sono piaciuti gli episodi televisivi. Mentre qui, entrando nel merito, c’è la morte violenta per defenestrazione (come direbbero i comunisti ungheresi del ’56) di un immobiliarista, Matthew Starr. Nikki, indagando sulla persona, scopre ben presto che: la giovane moglie Kimberly lo tradiva da tempo (e più di una volta), il suo segretario Noah cercava di coprirne gli ammanchi finanziari con magie contabili (coprendo anche qualche buco che lui stesso creava), e lo stesso Matthew era in una situazione disperata. A corto di soldi, perseguitato da allibratori cui doveva cifre ragguardevoli, con un’unica arma a suo vantaggio: la sua collezione artistica, eterogena ma di valore. Sarà proprio questa però che lo porta alla rovina. Avendo necessità di contenti vuole venderla e la fa valutare da Sotheby’s. Ma la collezione è un falso, i quadri veri sono spariti da tempo. Per questo, viene prima ucciso l’esperto della casa d’aste, poi Matthew stesso, poi il sicario che avrebbe dovuto uccidere Matthew. C’è qualche momento d’azione (come nel film), c’è sempre Jameson-Richard che si mette nei guai ed è salvato da Nikki. C’è la soluzione del caso, che arriva nelle ultime pagine per chi voglia leggerlo tutto, ma che è già pronta sin dalla metà del libro stesso. Tutto il resto è contorno, che serve per far comprare il libro a chi vede la televisione. Insomma, la domanda reale è perché si sia voluto inserire questo episodio-libro in una collana di Noir. Non ne ha l’altezza, con quella scrittura un po’ stiracchiata, quegli ammiccamenti che vanno bene sul piccolo schermo, ma qui sono deludenti. Un esempio? Nelle prime pagine, quando Matthew cade dal cielo, Ochoa e Raley cominciano a cantare “It’s raining man” di Geri Halliwell (e già questo fa penare), per poi imbarcarsi con Rook sulla ricerca degli autori del brano. Per poi, alla fine, dimenticare di dirci la soluzione (per chi fosse curioso gli autori sono Paul Jabara e Paul Shaffer, e quella di Geri è una cover, che il brano fu lanciato da un gruppo denominato “Weather Girls”). Passiamo velocemente oltre, please.
Nele Neuhaus “Biancaneve deve morire” Repubblica Mondo Noir 13 euro 7,90
[A: 29/09/2014– I: 20/09/2016 – T: 23/09/2016] - &&& e ¾   
[tit. or.: Schneewittchen muss sterben; ling. or.: tedesco; pagine: 459; anno 2010]
Notizie false e tendenziose: gli scrittori tedeschi, da Goethe in poi, sono pallosi. O meglio gli scrittori che scrivono in tedesco, così che ci mettiamo anche gli svizzeri, gli austriaci e qualche altro sparso per il globo. Ecco poi che ti arriva questa donna, Cornelia Neuhaus detta “Nele” (con quel cognome che in italiano sarebbe Casanova), che scrive un bel noir, con una bella trama ed una bella scrittura. Tra l’altro, una scrittrice ostinata, visto che i primi due libri se li pubblica da sola poiché gli editori tedeschi si tiravano indietro. Poi, visto il successo, si piazza con una buona casa editrice, e comincia a sfornare altri libri, anch’essi d’interesse. Come questo, ovvio, che tuttavia ha un piccolo difetto che non lo fa svettare su più alti lidi. È il quarto libro che Nele dedica alla coppia di investigatori Oliver von Bodenstein e Pia Kirchhoff. Purtroppo, qualche parte delle loro storie irrompe anche in questa, e non è ben gestita. Non tanto la storia di Pia, che i suoi problemi di casa vengono ben affrontati da lei e dal suo compagno. Quanto la lunga storia di vita di Oliver e Cosima, che è giunta al capolinea ormai, dopo quanto? Venticinque anni ed una figlia grande. Ma l’intreccio di rabbia, gelosia ed altre componenti non pertinenti all’amore lo sentiamo esterno, non ne penetriamo i misteri, che forse erano presenti nei primi tre libri. Quindi ci rimane un elemento di fastidio, che poteva anche essere omesso dal corpo della trama senza recar danno. E noi li omettiamo, questi elementi storico-seriali, per rimanere sul filone principale della narrazione e sul sapiente intreccio che ne fa la scrittrice. Una trama che viene da lontano, che inizia dieci anni prima con la morte (presunta) di due ragazze diciassettenni. Della loro morte viene accusato Tobias, che prima stava con Laura, poi la lascia per Stefanie. Accusato e condannato senza prove (lui non ricorda nulla che quando si ubriaca perde conoscenza), ma è minorenne e fa solo dieci anni di prigione. Per tutto il libro, quando ogni tanto si va con la lente della scrittura vicino a Tobias, si sente la sua impotenza di non ricordare, di domandarsi se, d’altronde, fosse anche possibili che lui sia il colpevole. Tutta la storia deflagra quando Natascia, un tempo sodale dei ragazzi del paese ed ora diva di successo con il nome di Nadja, lo prende dal carcere e lo porta nella cittadina teatro delle tragedie. La cittadina di Altenhain, realmente esistente nella regione di Taunus, contornata dai due grandi fiumi tedeschi, il Reno ed il Meno, nonché vicina alle città di Francoforte e Wiesbaden. Ma che rimane cittadina di provincia, dove, come in tutte, sembra che ci sia molto da nascondere, che tutti sappiano tutto degli altri, anche cose che non si dovrebbero sapere, e che si faccia a gara di non aprirsi all’esterno. Che rimanga tutto tra noi, che ci si lava i panni in casa. Tanto che venne quasi fatta terra bruciata intorno alla famiglia di Tobias. Nessuno va più alla locanda del padre, che si riduce in miseria, tanto che la madre se ne separa. Ma all’arrivo di Tobias, casualmente, resti umani vengono scoperti vicino al vecchio aeroporto militare e la madre di Tobias viene fatta precipitare da un cavalcavia ed entra in coma. Qui entrano in gioco Oliver e Pia. Qui entra in gioco anche la giovane Amelie, stranamente somigliante a Stefanie, giovanottina simpatica, cameriera di una birreria locale, che entra presto in sintonia con Tobias. E con l’autistico Thies, un ragazzo che se potesse parlare saprebbe dire tante cose. Sa solo disegnare, e bene. Quando l’ostracismo locale si fa pressante, vengono messi in gioco i potenti locali: Claudius Terlinden (il padre di Thies e del suo gemello, normale, Lars) ricco e sembra gran filantropo, ma in realtà padrone di quasi tutta la città, Demetra Lauterbach, un tempo moglie del fratello di Claudius, poi, alla morte di questi, sposa il più giovane di venti anni Gregor, facendogli fare una grande carriera politica, sino alla nomina a ministro di qualche cosa. Poi ci sono i giovani ex-amici di Tobias. Infine c’è Natascia-Nadja, l’unica donna del vecchio gruppo, sin da giovane innamorata di Tobias, e macerantesi nelle scelte che questi fa verso tutte le donne del mondo, esclusa lei. Sono i disegni di Thies che fanno capire tutto il meccanismo perverso che c’è dietro le morti antiche. Sono questi disegni che costringono una delle persone implicate a vario titolo nella vecchia storia ad organizzare il sequestro di Amelie ed altre nefandezze. Seguiamo tutto con il fiato sospeso, che anche se lungo lo scritto non è prolisso. Arriveremo anche alla fine, dove, già sappiamo, ovvio, che Tobias non uccise le due dieci anni prima. Ma riuscirà ora a salvare Amelie? Riuscirà con Amelie, con Pia, con Oliver, a mettere la parola fine a tutto questo? Chi e quanti si salveranno? Non dispiace questa corsa finale, di cui non vi dico molto. Anche se alcune cose, alcuni dettagli, alcune ammissioni, avvengono un po’ in modo anodino. Quasi non dico inaspettato, che sappiamo, vediamo, capiamo. Ma, questo forse il secondo punto debole, che dico qui, dove pochi di voi arriveranno, Nele alcune “soluzioni” le lascia uscire un po’ troppo facilmente. Tuttavia, ripeto e sottolineo, è un bel noir con un ritmo intenso, con qualche pagina di troppo (le storie pregresse di Oliver, alcuni modi di restituirci le angosce di Tobias o di Amelie). Non è escluso che si cerchi altro di questa scrittrice. Finale disvelante: la storia cerca di avere un andamento fiabesco, con buoni e mostri come nelle fiabe dei fratelli Grimm, e come nelle fiabe, Stefanie era tanto bella che veniva chiamata Biancaneve. Ma c’era anche qualcosa d’altro, tanto che, come dice il titolo, “deve morire”. A voi la lettura.
“Per quanto riguardava il sesso era ancora un novellino. Rispetto a ciò che aveva fatto con lei, le esperienze del passato sembravano piuttosto infantili.” (109)
“L’ho fatto solo perché voglio vivere con te … Sappi che non ti libererai di me tanto facilmente.” (454)
Gianrico Carofiglio “La regola dell’equilibrio” Repubblica Agenda Noir 5 euro 7,90
[A: 27/07/2015 – I: 26/09/2016 – T: 28/09/2016] - &&&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 2014]
Eccoci di nuovo alle prese con l’avvocato Guerrieri, protagonista dei primi, entusiasmanti romanzi di Gianrico Carofiglio, che, letti ben prima dell’inizio di queste trame, mi avevano fatto innamorare del personaggio e dell’autore. Dopo un lungo intermezzo ne uscì un quarto (“Le perfezioni provvisorie”) di cui parlai sei anni fa. Poi Guerrieri scompare nei meandri di altre cose scritte, dette e fatte dall’autore. Ne ho letto ora, in questa dignitosa collana di Repubblica, con un sentimento ambivalente. Mi aspettavo qualcosa di più dalla storia, che invece è debole ed in alcuni punti scontata. Anche se mette al centro una domanda etica di non facile risposta, almeno per un avvocato. Tuttavia il libro, i libri di Carofiglio hanno sempre qualcosa d’altro. Che invece mi è piaciuto, pur negli incisi lunghi, pur nelle seppur poche scivolate in dotti riporti. Forse è quel sentimento del passare degli anni, del capire che passano, e del tentativo, non velleitario, di opporre una barriera al tempo. Magari con la musica, magari con i libri, magari, forse meglio, con l’amore. La storia, quella dell’equilibrio, come detto è lineare, attuale, un po’ scontata a tratti. C’è un giudice noto per la severità delle sue sentenze che viene indagato per probabile corruzione, concussione o altro di tutte quelle possibili accuse che si hanno in questi periodi. Il giudice Larocca è amico dell’avvocato Guerrieri e chiede a quest’ultimo di assumere le sue difese. Tutta la prima parte è un po’ di reminiscenza di attività dell’avvocato, di sentenze, e di altre diavolerie giudiziarie. Torniamo pian pianino nel mondo di Guerrieri, però con dolenza, che gli anni passano anche per lui. Ed assistiamo alla costruzione della strategia difensiva per le disavventure del giudice. Poi, una voce qua, una parola là, qualche zeppa si mette nel meccanismo, Guerrieri si comincia ad interrogare su alcune incongruenze, e farà presto ad arrivare a rispondersi che bisogna vederci chiaro. I suoi collaboratori, Carmelo Tancredi il poliziotto ed Annapaola l’investigatrice gli forniscono il materiale di supporto. Ora sta a lui decidere come agire. Ci sono una decina di pagine nel finale che sono un po’ pompose e ridondanti, quasi un eco di quello che Carofiglio probabilmente (o almeno così immagino io) ha sentito durante la sua esperienza in Parlamento. Così fan tutti, è il sistema generale, non faccio male a nessuno, e via dicendo stupidaggini che servono solo a dire bugie a sé stessi (come da ultima frase sotto riportata). Guerrieri tenta con le buone ed immagina le cattive. Cosa userà per mettere all’angolo Larocca? Non è una metafora, che ricordiamo che per scaricarsi, il nostro avvocato usa i guantoni ed un sacco da boxe (anzi Mr. Sacco, come lo chiama lui). Questo ve lo lascio volentieri scoprire quando avrete tempo di leggere questo libro che comunque merita. Per gli altri punti che dicevo prima. Per quell’ipocondria che prende ad una certa età, quando ci si sente attenti ai segnali del corpo, quando il medico ci chiede delle analisi, quando possiamo passare dal bianco al nero senza che ce ne accorgiamo. D’altra parte, per quella parte di amore che mai ci abbandona. Ci sarà pure differenza di età ed atteggiamenti della vita, tra Guido e Annapaola, ma quando qualcuno decide di mettersi in gioco, niente resiste. Questa la lezione che ci manda Carofiglio. Non è questione di salute, non è questione di età, è tutta una questione di volontà. Se ne potrà morire, ma avendo scelto la strada. Ovvio che poi noi si sta più dalla parte di Guido, perché noi, io cioè, mi ricordo di “Bella” cantata da Umberto Balsamo, e delle sue criniere di cavalli. Come ricordo l’empatia che ho provato a pagina 44, quando Carofiglio cita i titoli assurdi (così li definisce Guido) della sua infinta raccolta di libri. Quanti siamo a conoscere le “Meditazioni per la stanza da bagno. Massime di saggezza per la vita di tutti i giorni” di Michelle Heller o le “101 cose che devi sapere per combattere l'insonnia” di Elena Barbàra? Ma soprattutto io posseggo ed ho letto “Come Proust può cambiarvi la vita” di Alain de Botton. Quanti punti ho vinto? Spero almeno quanti me ne riserverà qualche prossima lettura del nostro avvocato, magari al ritorno da una gita in moto in Valdichiana.
“Quando entro in una libreria i miei freni inibitori si disattivano. Posso acquistare di tutto.” (44)
“Mi sembra di essere nel mezzo di un movimento centrifugo. Cose e persone si allontanano da me mentre io resto fermo.” (138)
“Era stata una bella serata, era piaciuta ad entrambi, ma non poteva avere un seguito … Era stata una piacevole digressione, nulla di più.” (195)
“La regola dell’equilibro morale consiste … nel non mentire a noi stessi sul significato e sulle ragioni di quello che facciamo e di quello che non facciamo. Consiste nel non cercare giustificazioni, nel non manipolare il racconto che facciamo di noi a noi stessi e agli altri.” (251)
Ben Pastor “Luna bugiarda” Repubblica Agenda Noir 16 euro 7,90
[A: 10/10/2015– I: 14/10/2016 – T: 16/10/2016] - &&+  
[tit. or.: Liar Moon; ling. or.: inglese; pagine: 267; anno 2001]
Dato il mio vizio di evitare di leggere risvolti e quarte di copertina, mi sono sorbito tutto questo libro pensando ad un Ben(iaminio) magari amante delle guerre ed altri ammennicoli. Alla fine, leggendo la postfazione scopro invece che Ben Pastor è una signora italo-americana che all'anagrafe fa Maria Verbena (Ben) Volpi (nome del padre) Pastor (nome del marito), ed è docente di Scienze Sociali oltreoceano. Non è che questo stravolga il giudizio complessivo su un’opera che ha degli spunti interessanti, ma che non risulta avvincente e coinvolgente come dovrebbe essere. Comunque, dati gli interessi dell’autrice, è una storia ben collocata nella realtà italiana, anche se datata e incastonata in una memoria collettiva descritta in mille e mille storie (anche se forse dei lati non chiariti sono sempre presenti). Il protagonista dei questa (e di molte storie della Pastor) è l’ufficiale tedesco di stanza in Italia, Martin Bora. Il cui nome completo in realtà è Martin-Heinz Douglas Wilhelm Friederick von Bora. Quindi un nobile, come verremo a sapere da questa ed altre storie, nato nel 1913 ad Edimburgo da padre direttore d’orchestra e madre scozzese. Alla lontana, Pastor modella il nostro Martin sulle sembianze del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg (quello che nel 1944 fu autore del fallito attentato a Hitler). Quindi ufficiale integerrimo verso le gerarchie militari, ma non supino alle ordinanze nazi-fasciste. Tanto che capiamo che ha fatto e che fa fuggire ebrei per non doverli deportare nei campi di concentramento. Ma da soldato combatte, con tutte le forze, contro partigiani e lealisti, considerandoli “banditi”. Certo, non ha simpatia verso i fascisti d’accatto, in particolare quelli che poi si riuniranno sotto le bandiere di Salò. Ma si trova di stanza vicino Verona, ha risolto altri casi complicati in Polonia (almeno a quanto traspare da alcune frasi), quindi lo stato maggiore tedesco lo invia alla ricerca di una spiegazione e della ricerca di un colpevole per la morte violenta di tal Vittorio Lisi, maggiorente fascista locale. Il tutto complicato dal fatto che, proprio nelle prime pagine, Martin subisce un attentato con la conseguente asportazione della mano sinistra, ed uno stato di non perfetta lucidità dovuta alle schegge di granata nella gamba. Certo, è comunque Martin-Superman, visto che solo due settimane dopo il “taglio”, prende in mano l’inchiesta (ovviamente con la mano rimasta) e si comporta come se avesse da sempre avuto una mano in meno. In vero, poco credibile. Comunque, il “nostro” Martin viene da subito affiancato da un ispettore di polizia locale, Sandro Guidi, che agisce un po’ da “mano” di Martin, anche se, rispetto all’impassibile tedesco, si lascia coinvolgere dalla trama. Dalla “povera” Clara, moglie da poco separata da Vittorio, bella e indiziata del delitto. Martin invece non è convinto, ed indaga sulla personalità di Lisi, fascista dalla marcia su Roma, dove venne investito, perde l’uso delle gambe, viaggia su di una sedia a rotelle, ma non per questo perde la sua virilità. Vitalità che invece preoccupa Martin, non perché con una mano in meno…, ma la lontananza dalla moglie Benedikta induce pensieri necrofori. Intanto vediamo che oltre ad aver messo incinta signore e signorine qua e là, con conseguenti aborti e talvolta morti sui tavoli operatori, Lisi non si peritava di fare l’usuraio, mettendo nella sua rete sia il caporione locale, il fascista-macchietta De Rosa, sia il notabile di campagna, tal Moser, nella cui villa avita, la “Villa della Mezzaluna”, nel Settecento, passò e suonò il giovane Mozart. Anche Clara non disdegna la bella vita, magari con qualche suo ex, e via straziando cuori, tanto che, in carcere, scoprirà di essere incinta. Alla fine, a pochi si ridurranno i sospetti: l’ex di Clara, tal Carlo, la suddetta Clara ed il nobile Moser. Il tutto legato ad una “C” che Lisi graffia sul selciato. O era qualche cosa d’altro come parrebbe suggerire il titolo? Intanto imperiamo anche il detto latino “Luna Mendax”, dove si discetta di lune crescenti e calanti e delle lettere che le indicano. Alla fine, sarà ovviamente Bora a tirare le fila di tutto, portandoci alla soluzione. Un po’ moscia, ma comprensibile. Come capibile (ma fin dalle prime righe) l’atteggiamento anti-hitleriano del maggiore, e la sua sospettabilità verso le gerarchie. Capibile l’atteggiamento un po’ da “galletto” di Guidi, che ne rimarrà scottato. Con un contorno macchiettistico della madre di Guidi e del suo sottoposto siculo. Però sempre in tono minore, come, appunto, un Mozart con la sordina. Si, abbastanza ben scritto, con una buona conoscenza della storia italica. Ma non tale da creare una spasmodica voglia di leggerne altro. Alla prossima Verbena, ma non sappiamo quando.
Essendo la seconda domenica del mese, ecco che vi propino una nuova puntata di trame e malattie, dedicata questa volta al mal d’auto ed a come evitarlo andando in treno.
Per il resto dobbiamo solo registrare l’avanzante freddo che ci taglia il viso e rallenta le azioni, anche se non si demorde per l’attesa e la programmazione dei viaggi. Si salutano amici che si spostano (bye Vito, see you in London), amici che transitano (un forte abbraccio a Raoul e Viviana), amici che tornano (magari dal Senegal…). 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

GENNAIO 2017
Iniziamo il nuovo anno con una ripassata ad un nuovo malore come ci suggeriscono le nostre ormai usuali libropeute. Come dicono subito, se soffrite in auto, prendete il treno. Magari soffrite anche lì ma avrete tempo e modo di leggere.

MAL D’AUTO

Se soffrite di mal d’auto, scendete e prendete il treno. I viaggi su rotaie offrono opportunità senza precedenti per immergersi in un libro. Quando, altrimenti, si avrebbero a disposizione, e senza sensi di colpa, alcune ore in cui non fare altro che leggere in anonima compagnia di altri lettori, e con un panorama sempre diverso fuori dal finestrino? Anche gli scrittori, a quanto pare, adorano i treni, che usano per lanciare i personaggi verso un futuro sconosciuto. Inoltre, lungo il tragitto sarà sempre possibile allacciare qualche inatteso legame...
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE SU UN TRENO

 Agatha Christie           Assassinio sull’Orient Express
 Michael Crichton          La grande rapina al treno
 Graham Greene          Il treno d'Istanbul
 Patricia Highsmith        Sconosciuti in treno
 Bohumil Hrabal           Treni strettamente sorvegliati
 Ben Lerner                 Un uomo di passaggio
 Edith Nesbit               I figli della ferrovia
 Philip Roth                 Pastorale americana
 Georges Simenon        L’uomo che guardava passare i treni
 Mario Vargas Llosa      Chi ha ucciso Palomino Molero

Bugiardino

Guà cominciamo bene, che anche io sono un estimatore della lettura in treno. Inoltre, di questi dieci libri, ne ho letti sette, ma ve ne propongo “solo” cinque. Infatti, Hrabal lo lessi sulla soglia dei quaranta, in un periodo di passione per le letterature dell’Est (e compravo E/O a spron battuto). Mentre la Highsmith lo avevo letto ancora prima, sull’onda del magistrale film che ne trasse l’inarrivabile Hitchcock (che in Italia passò sotto il titolo “Delitto per delitto”!!!). Gli altri treni ne ho letto in tempo di trama, e ve li propongo in ordine di lettura.
Agatha Christie “Assassinio sull’Orient-Express” Repubblica/CSGM euro 3,90
[trama pubblicata il 15 novembre 2009]
Dopo aver visto non so quante volte il film, finalmente ho il tempo e la possibilità di leggere il libro. Che maestria. Quanti anni ha? Circa 75, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è perfetta, l’intreccio singolare, e la soluzione di Poirot magistrale. Il plot è stupendo: un omicidio in un vagone dell’Orient-Express bloccato tra i monti jugoslavi dalla neve. Una dozzina i possibili sospetti con l’aggiunta della presenza casuale di Poirot, che comincia ad indagare. Un’indagine di parole, dove accompagniamo il buon belga a spasso tra le cuccette per scoprire indizi, e nel vagone ristorante ad interrogare a più riprese i vari personaggi. Affastellando informazioni, tutte utili per arrivare insieme a Poirot alla soluzione (o alle soluzioni, in quel gioco magistrale di finali e sottofinali che fanno la maestria della scrittrice). Non ci sono elementi esterni, nessun deus ex-machina che interviene portando soluzioni imprevedibili. Tutto al solito è lì, sul piatto. Bisogno solo saperlo vedere. Certo, a volte leggendo, i volti degli attori vengono dietro le palpebre a rendere più robusto questo the inglese con velo di latte. Ripenso allora ai vari Albert Finney (Poirot), Lauren Bacall (Mrs. Hubbard), Ingrid Bergman (Greta Ohlsson), Jacqueline Bisset (Contessa Andrenyi), Sean Connery (Colonnello Arbuthnot), John Gielgud (Beddoes), Anthony Perkins (Hector McQueen), Richard Widmark (Ratchett) o Vanessa Redgrave (Mary Debenham). Che cast per questo grande film del… Vi ricordate che anno era? E poi ripenso anche alle vicissitudini della scrittura e della scrittrice. Infatti, il romanzo fu scritto dalla Christie durante un suo soggiorno a Istanbul, nella stanza 411 del Pera Palas Hotel, oggi adibita a piccolo museo in suo onore. Inoltre, durante il regime fascista in Italia, il romanzo, alla sua prima pubblicazione ebbe diverse "censure". Il personaggio italiano naturalizzato americano Antonio Foscarelli divenne, infatti, un brasiliano di nome Manuel Pereira mentre la vittima, anziché avere il cognome italiano "Cassetti" venne ribattezzato chi sa perché "O'Hara". Ma alla fine di tutto, del libro, degli attori, della scrittura, rimane lei, Agatha e tutta la bravura di una pennivendola di grande classe.
Philip Roth “Pastorale americana” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 30 ottobre 2011]
Una palla mega-galattica. E continuo a convincermi, anche se ne ho letto molto poco, che Philip Roth non è un autore a me congeniale. Certo, in gioventù mi aveva affascinato “Il lamento di Portnoy”, ma per due evidenti motivi: le scene di sesso che da adolescente sembravano fantastiche ed il sentirsi sempre un po’ out, un po’ perdente, del protagonista. Non so che effetto mi farebbe ora. Forse lo stesso di questa Pastorale, salutata come il capolavoro dell’autore. Ed è in dubbio che abbia una signora scrittura. Soprattutto per la lunga scivolata che fa dal soggettivo dell’inizio, dove parla in prima persona l’alter-ego dell’autore, lo scrittore Nat Zuckerman, che viene chiamato dal fratello del suo grande compagno di gioventù, dal “grande Levov lo svedese” che dice voler fargli scrivere la storia di suo padre, grande guantaio di Newark, all’oggettivo del resto del libro. A poco a poco, infatti, Roth-Zuckerman passa ad introdurre la famiglia Levov, passando per Jerry il suo compagno, ora cardiochirurgo pluridivorziato, e poi centrando il tutto proprio sullo Svedese. Chiamato così non perché lo fosse, anzi è un ebreo come tutti i personaggi clou di Roth, ma perché alto e biondo e da giovane pluridecorato campione degli sport americani studenteschi (football, baseball e pallacanestro). E ne traccia la parabola, dai fasti giovanili, al matrimonio, lui ebreo, con la cattolica Dawn ex-miss New Jersey 1949, alla nascita della figlia Meredith detta Merry. Dalla balbuzie giovanile di Merry alla grande catarsi, quando Merry si avvicina ai gruppi contrari alla guerra del Vietnam, mette un ordigno scoppiettante in un emporio e provoca la morte di un uomo. E passa tutta l’ultima parte del libro a farsi pippe su pippe, in soggettiva su Levov, se questo, se quello, e perché ho avuto una figlia così, e le crisi depressive della moglie, ed il suo tradimento con Sheila, e quello della moglie, e soprattutto, pagine su pagine su come si fabbricano i guanti. L’ho letto un po’ alla Totò (“vediamo dove va a finire…”) ma più andavo avanti e meno mi convinceva. Per terminare (non la lettura, ma il punto più alto di scassamento) con le dieci pagine dell’interrogatorio di Levov padre alla cattolica Dawn su perché vuole sposare suo figlio lo Svedese. Sarà un compendio delle paranoie ebree, ma stavo quasi per cestinarlo, nonostante si stava già a pagina 400! Certo, in tutto il libro, così come una grande elegia, Roth passa in rassegna i grandi stereotipi americani. Il mito del successo, della bellezza, repubblicani contro democratici, come aver successo, barbecue in camicia hawaiana, la frattura della morte di JFK, la guerra del Vietnam come momento mai risolto della convivenza locale, la spocchia dei borghesi radical-chic tutti pieni di parole. Ma stancamente, senza riuscire a farmi emozionare per più di mezza battuta. Mi è sembrato più incisivo e dirompente l’età dell’innocenza della Wharton, pur ambientato quasi cento anni prima. Tra una pagina e l’altra, qualche momento Roth l’ha fatto anche rivivere, come la festa degli ex-alunni di liceo, con quel ritrovarsi cinquanta anni dopo “pieni di acciacchi e di sventure”. Ma poi, quando passa a narrare le vicende dell’allevamento di bestiame della moglie dello svedese, si ricade nella pura rottura di cabasisi. Come, ripeto, quando dedica pagine e pagine a descrivere come si fanno i guanti, e la pelle, e il taglio, e … che palle. Come quando, anche se non aiutato dalla traduzione, gioca con le parole. La moglie dello Svedese si chiama Dawn, che significa alba, e spesso al mattino in tarda età, lo Svedese si gingilla con “after and before Dawn”, non solo prima e dopo l’alba, ma anche prima e dopo del matrimonio. E la figlia Merry, utilizzando il nome come epiteto augurale, laddove la figlia è sempre un disastro completo. Anche se, più correttamente, noi diremmo che un disastro è il modo con cui viene cresciuta da genitori incapaci e inadeguati. L’unico punto a favore, il fatto che le mucche di Dawn siano di razza Simmental, che ho scoperto come sia realmente una razza bovina svizzera, che ha poi dato il là alle ignobili confezioni di carne in scatola. Insomma, se volete farvi del male, leggetelo pure. Altrimenti dedicatevi a passatempi più divertenti.
“Ho passato i sessant’anni, non sono propriamente uno che abbia, nella vita, le stesse prospettive che aveva da ragazzo.” (27)
“Scrivere ti trasforma in una persona che sbaglia sempre … [con] l’illusione che forse un giorno l’imbroccherai.” (74)
“Perché le cose sono come sono? Una domanda senza risposta, e fino a quel momento era stato così fortunato da ignorare addirittura che esistesse la domanda.” (99)
“La vita è solo un breve periodo nel quale sei vivo.” (266)
Georges Simenon “L'uomo che guardava passare i treni” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 13 novembre 2011]
Si conosce da tempo il mio amore per lo scrittore belga ed in attesa di riprendere le letture di Maigret, ecco che ci si imbatte in un non Maigret, e, nella sua collocazione da Repubblica, anche non “giallo”. Certo non è un poliziesco, ma è più poliziesco di tante scarse riuscite attuali. Intanto ha più di 70 anni, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è ancora attuale. Forse anche perché tratta temi “senza tempo”. Cosa fa, come agisce (o potrebbe agire) un uomo comune davanti ad un imprevisto? Perché facciamo quello che facciamo? Il borghese Popinga si trova, nei suoi quarant’anni, al centro di una vita normale: una moglie, due figli, un lavoro, un po’ di noia nella natia Groeningen (in Olanda, per chi lo dimentica). Ma la ditta per cui lavora fallisce. E qui comincia l’avventura dell’uomo normale, quello che per ingannare il tempo guarda passare i treni (metafora dell’inutilità della sua vita). Popinga, senza paracadute delle convenzioni, decide di essere finalmente sé stesso. O cerca di esserlo. Prova a circuire l’amante del suo capo, fugge a Parigi, si trova a girare nell’ambiente della mala, tra donnine compiacenti e ladri d’auto. E lì si erge, una spanna sopra gli altri. Non perché faccia cose “eccezionali”, ma proprio perché, nonostante tutto, cerca di essere il sé stesso che non è stato per 40 anni. Purtroppo va un po’ fuori o sopra le righe, motivo per cui ben presto sarà ricercato dalla polizia. Ma è geniale il suo girare per la città, trovare, innocentemente, mille modi per sfuggire. E poi, ergersi, in modo “paranoide”, a vindice della sua esistenza quando i giornali cominciano a parlare del “Satiro di Amsterdam”. Le sue lettere alle redazioni dei giornali per correggere le menzogne dette su di lui sono epiche. Il suo modo di rapportarsi al commissario Lucas anche (ricordarsi sempre l’uso dei nomi in Simenon, e del Lucas alter-ego di Maigret). Senza scordare le bettole, i sordidi alberghi e lo strano rapporto con la prostituta Jeanne. Ma, come dice ad un certo punto, non ci si improvvisa sé stessi, bisogna prepararsi, mentre lui rimane un dilettante. E come tutti i dilettanti, sarà vittima del caso (l’incontro con uno strano truffatore) che farà precipitare la sua fuga verso l’ovvia conclusione. Sappiamo già quasi dall’inizio (ce lo dice Simenon) come andrà a finire, in un ricovero per alienati, e non sapremo mai se è lui il pazzo, o se sceglie di esserlo per poter “vivere la sua vita”. Quello su cui Simenon mi fa riflettere è quel piccolo scalino, quel grado che non si supera. Certo Popinga è messo in una situazione estrema, ma se noi lo fossimo, e fossimo capaci di rimanere nell’alveo “ammissibile” sapremmo essere noi stessi? Sapremmo capire cosa vogliamo dalla nostra vita? Saremmo capaci di nascondere un alfiere per non perdere una partita a scacchi? O faremmo finta di aver sbagliato? Mi è piaciuto tutto lo sforzo di Simenon di ricreare ambienti parigini, tra i diversi quartieri. E come non emozionarsi quando qualcuno si aggira per rue des Rosiers? O va verso i Gobelins? O si imbatte nelle Halles di un tempo? A Parigi, o cara. Comunque, una scrittura degna e che mi ha ben consolato, della mancanza di Parigi (e della Francia, ciao Luana), e mi ha fatto, ancora ed ancora, pensare. E questo è sempre un bene. Chiediamoci quale sia la verità sul caso Popinga, ma anche sul “nostro” caso…
Michael Crichton “La grande rapina al treno” Repubblica Giallo euro 5,90
[trama pubblicata il 1 luglio 2012]
C’è stato un periodo delle mie letture che ero affascinato di Michel Crichton. Trovavo affascinante quel suo modo di entrare ed uscire dalla trama per raccontare contorni, motivi, spiegare, informare. Erano i tempi di “Andromeda”, di “Congo” e di “Jurassic Park”. Nonché di quei racconti che poi furono alla base di una delle più belle serie televisive (“In caso di necessità” che fece nascere i telefilm di “E.R.”). Poi è calato nella scrittura, si è dato ad esternazioni improbabili, e l’ho messo da parte. Infine 4 anni fa (nel 2008), a soli 66 anni muore. Ora riprendo in mano uno dei suoi primi libri, che all’epoca avevo saltato. E lo ritrovo come l’avevo lasciato. Solo che gli anni sono passati, e quella scrittura che 40 anni fa era interessante e innovativa, si è fatta sterile. Non che questa grande rapina non sia ben fatta e ben resa. Ma quegli intarsi che mi piacevano tanto, ora sembrano frutto di uno sfoggio di erudizione, di un tentativo di dire: ‘guardate che per capire quello che vi sto narrando di una storia che si svolge nel 1855, dovete sapere fatti e circostanze di vita, e dato che non le sapete, ve le illustro io”. Ecco, or mi sovviene, è quest’aria da sapientone che mi dà e mi dava fastidio. Perché la miglior sapienza è quella che esce fuori dalle righe del testo senza averne l’aria. Quella che dice e descrive e coinvolge e porta a vivere il tempo della scrittura come fosse sempre coevo del tempo della lettura. Peccato, tuttavia. Che la storia, in realtà merita. È la narrazione, oltremodo fedele, di una grande rapina al treno, dove sparisce l’oro destinato alle paghe dei soldati inglesi che combattevano in Crimea. Una storia che seguiamo passo dopo passo. Seguendo le orme dell’artefice, Edward Pierce. Dall’idea alle modalità di attuazione. Ai modi per trovare la possibilità di aprire la cassaforte che viaggiava sul treno, procurandosi le chiavi d’apertura. Al modo di salire sul treno. Al modo di fuggire dal treno. Al modo di sostituire l’oro con qualcosa dal peso equivalente per non far scoprire subito il furto. E poi, velocemente, alla ricerca dei colpevoli da parte della appena nata Scotland Yard. All’arresto. Ed al processo, sulla base del quale, poi, si ricostruisce tutto il pregresso. Non vi narro solo la fine, che non è inventata da Crichton, ma, come tutta la storia, è ben documentata. E devo dire anche decentemente narrata. Ora, ci sono due commenti da fare al testo. Le parti narrate sono in puro stile Crichton, cioè con la sua capacità di farti entrare immediatamente in sintonia con la persona che seguiamo al momento. Quella capacità che poi ben sfruttò in ER, dove in effetti (a parte i personaggi di lunga durata) anche i comprimari, in poche battute, erano ben delineati (parlo ovviamente del tempo di Clooney e della Margulies). E sono piacevoli. L’altra parte è l’utilizzare questa rapina come un simbolo. Un simbolo del mondo che cambia, dell’apice e dell’inizio del tramonto dell’epoca vittoriana, dove se ne narrano fasti e nefasti, per spiegare azioni e situazioni. Le turbe di poveri che vivono con meno di una sterlina alla settimana, i ladri, le prostitute, ma anche l’inizio dell’industrializzazione, il lavoro minorile, l’emarginazione femminile, la tracotanza aristocratica, tra lotte di cani contro topi, e partecipazione a proibiti incontri di boxe. Ma soprattutto rapina simbolica in quanto non attuata da poveri ladri e truffatori, ma organizzata da una persona che ha tutta l’aria di essere se non agiata almeno di una tranquilla classe media. Ed è appunto questo che preme sottolineare a Crichton: alla metà dell’Ottocento, si comincia a percepire che i malviventi non sono lombrosianamente tarati, ma nascono in ogni dove e per tante necessità. Questo passaggio non fu compreso, e l’Inghilterra andò avanti sulla sua strada, e da nazione faro e guida del mondo, cominciò ad imboccare la strada della normalità. Ma non la comprese, e alla fine ne fu spiazzata, lì quando crollò, pezzo dopo pezzo, tutto l’Impero Britannico. Ma stiamo andando molto fuori. Tornando a Crichton, se avesse insistito di più sulla storia, senza dovercene troppo spiegare i contorni (bastava molto meno), avrebbe potuto rendere la rapina, pur se simbolica, una specie di “Ocean Eleven” dell’Ottocento. Peccato.
“In quei tempi la linea divisoria tra un’attrice e una prostituta era estremamente sottile. E gli attori erano, a motivo della loro professione, dei nomadi vaganti che avevano in genere rapporti con i criminali o appartenevano direttamente alla malavita.” (91)
Graham Greene “Il treno d’Istanbul” Mondadori euro 9,50 (in realtà, scontato a 8,55 euro)
[trama pubblicata il 10 maggio 2015]
Non è certo ora che scopriamo le capacità narrative di Graham Greene, anche in questa che è la sua seconda opera narrativa, vergata alla tenera età di 28 anni, con l’intento, come scriverà in una tarda prefazione, di scrivere un romanzo d’intrattenimento, magari per farne un plot da trasferire sullo schermo. In effetti, nel 1934 ne venne tratta una versione cinematografica, che non ebbe particolare fortuna.  Il pur giovane scrittore riesce a gestire con maestria l’intreccio tra i vari personaggi che sono a bordo del treno che fa il viaggio da Ostenda a Istanbul. Anche se sono in viaggio per scopi diversi, la vita di ciascuno dei personaggi centrali riesce a concatenarsi in un blocco fatale. Questi personaggi sono appunto Carleton Myatt, un commerciante ebreo in viaggio per affari che affronta l'antisemitismo di molti dei suoi compagni di viaggio mentre attraversa l’Europa prima della Seconda guerra mondiale, Coral Musker, una ballerina di fila, in viaggio alla ricerca di un nuovo lavoro, il dottor Richard Czinner, medico, insegnante, e leader socialista rivoluzionario, che sta tornando a Belgrado dopo anni di esilio, Mabel Warren, una giornalista, lesbica, che casualmente scorge Czinner e si mette a seguirlo per scriverne articoli, e Josef Grünlich, un ladro, in fuga da Vienna dopo un furto pasticciato finito in omicidio. L’uomo d’affari Myatt è astuto e pratico, anche poco incline alla generosità. Tuttavia offre il suo biglietto di prima classe alla ballerina di fila Coral Musker, ammalata. Coral si sente grata di queste attenzioni e inopinatamente si innamora di Myatt, passando con lui una notte d’amore nel suo scompartimento. Il dottor Czinner, come detto, vuole tornare di nuovo a Belgrado, solo per scoprire che la rivolta socialista di cui aveva avuto sentore ha già avuto luogo e non è riuscita. Decide di tornare comunque per essere processato e fare del processo un gesto politico. Nel frattempo, viene scoperto da Mabel Warren, che viaggia con la sua partner, Janet Pardoe. Per tornare a Belgrado, deve fingere di lasciare il treno a Vienna in modo da seminarla. Quando il treno arriva a Vienna, Warren, pur tenendo d'occhio Czinner, lascia il treno per fare una telefonata ed avvertire la redazione del giornale. E durante la telefonata la sua borsa viene rubata da Josef Grünlich, che ha appena ucciso un uomo durante una rapina fallita. Grünlich poi prontamente sale sul treno con i soldi di Mabel, che, incazzata, e preoccupata anche di perdere Pardoe, promette di ottenere la storia di Czinner con ogni mezzo. Anche se rimane appiedata e dovrà mendicare un aiuto da Myatt per cercare di risolvere la questione. Intanto, a Subotica, il treno viene fermato e Czinner viene arrestato. Con lui sono fermati anche Grünlich, per il possesso di un revolver, e Coral che si trova casualmente con Czinner al momento dell’arresto. Una corte marziale viene prontamente messa in piedi e Czinner fa un forte discorso politico, anche se non vi è alcun vero pubblico presente. Tra l’indifferenza dei giudici è rapidamente condannato a morte. I tre prigionieri sono tenuti in una sala d'attesa per la notte prima dell’esecuzione. Nel corso della notte capiscono che Myatt è tornato con una macchina per salvare Coral. Il furbo Grünlich sfonda la porta e cerca di far scappare tutti e tre, ma solo lui ci riesce. Czinner è ferito e Coral lo nasconde in un fienile, dove Czinner muore poco dopo. Quando arriva Mabel Warren per non perdere la sua storia, decide di prendere sotto la sua protezione Coral e di tornare a Vienna con lei. Ma a seguito di tutte le emozioni Coral, in macchina con Mabel ha un attacco di cuore, e non sappiamo quale sarà il suo destino. L'Orient Express arriva finalmente a Istanbul, e Myatt, Pardoe e gli altri scendono. Myatt si rende conto che Janet, l’ex-amante di Mabel, è la nipote di Stein, un uomo d'affari suo rivale ma anche potenziale partner commerciale. La storia si conclude con Myatt che, dimenticando Coral, pensa di sposare Pardoe, che ha già dimenticato Mabel, blindando così il contratto con Stein. Ci sono anche altri cammei nel libro (il personaggio di uno scrittore, ed altri caratteristi minori). Tuttavia quel che rimane è il sapiente intreccio che riesce a gestire il giovane scrittore. Ma anche un generale senso di disagio, che, benché attribuito al clima europeo di quegli anni ed alla depressione economica inglese, in parte riflette anche la situazione finanziaria dell'autore al tempo della stesura del romanzo, che ancora non riusciva a vivere delle sue fatiche. Il tema di fondo del romanzo è comunque basato sulla fedeltà: il dovere verso gli altri contrapposto al rispetto di sé. Greene si domanda se la fedeltà verso gli altri paga, incentrando i vari personaggi su possibili pieghe di questa fedeltà. E non è molto positivo in queste scelte. Chi rimane fedele (Czinner, Coral) muore, chi tradisce (Myatt, Janet) sembra uscirne vincente. Ma a che prezzo? Insomma, un libro d’intreccio, interessante anche se non sempre ed in tutto riuscito.
“Non si aveva mai niente per niente … non si poteva accettare in dono una pelliccia senza andare a letto con chi l’offriva.” (46)
“La copertina [del libro] era molto logora e sul risguardo figurava l’etichetta di un libro di Charing Cross Road [vedi il libro della Hanff, nota mia].” (58)

Conclusioni

Letture eccelse, e letture che si addicono al treno, al suo andare più che al suo arrivare. Christie, Simenon e Green su tutti. Rimane il dubbio di Philip Roth, che sarebbe utile solo in quanto lettura di un libro di più di quattrocento pagine, ma tra la noia del libro ed il dondolio del treno, credo che ci si addormenti dopo poche righe.

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