Scusandomi del ritardo, dovuto ad
un piacevole, lungo week-end sorianese, eccoci a riprendere le fila interrotte
del nostro commissario. Eccoci ad altri 5 romanzi, che segnano l’interessante
transizione tra il periodo francese ed il lungo auto-esilio americano. Ne parlo
a lungo, all’interno, sui motivi della fuga di Simenon all’estero, qui non ci
torno. Ribadisco soltanto, che questi primi 6 volumi hanno un interessante
spessore ed una gradevole lettura.
Georges Simenon “I Maigret –
volume 6” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 28/11/2014– I: 11/12/2016 –
T: 19/12/2016] - &&&&&
[tit. or.: vedi
singoli libri; ling. or.: francese;
pagine: 828; anno 2014]
Passano le scritture, aumentano i romanzi, ed
aumenta il piacere della lettura. Siamo anche ad una scrittura di transizione
perché in questo volume compare l’ultimo romanzo scritto in Francia poco dopo
la fine della Seconda Guerra Mondiale, ed i primi quattro romanzi scritti nel
volontario esilio americano. Per una serie di incomprensioni e di ripicche, la
Francia non è più gradita a Simenon, che decide di partire per l’America. Vuoi
per liberarsi dell’editore Gallimard con cui non ha mai avuto un buon rapporto,
vuoi per avere più spazio alla sua vita. Spazio che troverà con la
segretaria-amante-moglie franco-canadese. Romanzi che ci danno sempre più il
piacere di vedere come Simenon ci fa immergere in atmosfere spesso diverse e
distanti (come nel primo romanzo americano “Maigret a New York”). Romanzi che
ci permettono anche di dare un minimo di raccordo storico con la vita del
personaggio, attraverso l’ultimo della serie (“La prima inchiesta di Maigret”).
Simenon non ha mai tenuto conto di una scrittura seriale progressiva, facendo
saltare Maigret sull’onda del tempo. Ma qui ci dà alcuni punti fermi della
partenza del personaggio, nella sua prima inchiesta, che inizia il 15 aprile
1913.
Titolo
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Scritto
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Uscito
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Data
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Luogo
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La furia di Maigret
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Giugno 1945 – 4 agosto 1945
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Iniziato in rue de Turenne,
Parigi e completato a Saint-Fargeau-Ponthierry (Francia)
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22/07/1947
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Maigret a New York
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27 febbraio – 7 marzo 1946
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Scritto a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson
(Québec)
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25/07/1947
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Le vacanze di Maigret
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11 – 20 novembre 1947
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Scritto a 325 W. Franklin
Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
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14/06/1948
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Il morto di Maigret
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8 – 17 dicembre 1947
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Scritto a 325 W. Franklin
Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
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Maggio 1948
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La prima inchiesta di
Maigret
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22 – 30 settembre 1948
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Alla tenuta Stud Barn di
Tumacàcori, un'antica riserva indiana, ora parco storico naturale nei
dintorni di Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
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15/02/1949
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“La
furia di Maigret”
[tit. or.: Maigret
se fâche; ling. or.: francese;
pagine: 9 – 145 (136); anno 1947]
La guerra è finita, e dopo aver superato
alcuni problemi dovute alle sue frequentazioni eterodosse, Simenon capisce che
non ha più spazio in Francia. Vuole partire per l’America ma deve risolvere
qualche problema. Senza dubbio i documenti per partire. Ma soprattutto, deve
risolvere i problemi con l’editore Gallimard. Nessuna delle due parti è sodisfatta
del rapporto, ed allora lo risolvono presto, avendo il nostro scrittore trovato
un nuovo editore, piccolo ma che punta su di lui. E fa bene. D’ora in poi i
volumi usciranno presso “Presses de la Citè”, edizioni gestite dal
franco-danese Sven Nielsen. Torna quindi a Parigi, ed aspettando i documenti
per l’espatrio, nell’estate del 1945, tra l’appartamento di Place des Vosges e
la residenza di campagna di Saint-Fargeau (44 km a sud di Parigi) scrive in due
mesi un nuovo romanzo, questo “Maigret si arrabbia”. Che uscirà a puntate su France
Soir nel 1946, poi in volume presso il nuovo editore solo nel luglio del 1947.
Inoltre, questo romanzo verrà anche ricordato come il più breve tra tutti
quelli pubblicati con protagonista il nostro commissario. Tanto che alcune
bibliografie lo pongono tra i racconti lunghi. Sono inoltre due anni che non
scrive di Maigret, e, come spesso accade quando i due si allontanano, c’è come
una reticenza, come una voglia dello scrittore belga di tirarsi indietro, di
far uscire Maigret dalla scena. Tant’è che il romanzo comincia con una scena
bucolica: Maigret e signora sono in campagna, ormai da due anni. Maigret è in
pensione, e l’unica sua preoccupazione è l’invasione di dorifore che
distruggono le sue amate melanzane. L’idillio è interrotto dall’arrivo dell’ottantunenne
Bernadette Amorelle, intrepida vegliarda, che gestisce la ditta fondata dal
marito e che viene lì per intimare all’ex-commissario di indagare sulla morte
(che la polizia ha etichettato come suicidio) della diciasettenne nipote
Monita. Travolto dalla verve di Bernadette, ed essendo sempre “un poliziotto
dentro”, Maigret decide di accettare l’incarico e di trasferirsi qualche giorno
a Orsenne (cittadina fittizia che dovrebbe essere in realtà Le
Coudray-Montceaux, a pochi chilometri da Saint-Fargeau dove Simenon scrisse la
maggior parte del libro, ed ora abbastanza nota in quanto, nel suo
comprensorio, ha sede IKEA Sud!!!). come al solito poi, in questi casi, sarà
un’inchiesta fulminea, che occupa solo cinque giorni di un caldo agosto
francese. All’inizio sembra che Simenon voglia mescolare presente (pensionistico)
con il passato (l’infanzia di Jules per intenderci) facendo incontrare ad
Orsenne Ernest Malik, suo antico compagno di scuola, che lui non aveva mai
particolarmente avuto in simpatia, tanto che da Maigret e dagli altri era
soprannominato “l’Esattore”. Sia per la professione del padre, sia per le sue
doti di racimolare spiccioli ovunque. Ora Malik è genero di Bernadette, avendo
sposato la figlia maggiore. Maigret si aggira per le rive della Senna,
incontrando vari personaggi, e cominciando a ricostruirsi nella testa un filo
logico di tutto ciò. Ci sono Ernest con la moglie Laurence, sottomessa ed
impaurita, ed i due figli Jean-Claude, tutto nel solco paterno, e
Georges-Henry, più giovane ed irrequieto. C’è Charles, il fratello di Ernest,
con Aimée, sua sposa e sorella di Laurence. In lutto per la morte della figlia
Monita, con Charles che sembra un po’ più ebete del necessario, ed Aimée
altrettanto sfasata, ma con la testa altrove. C’è infine Désiré Campois, il
fondatore con Amorelle della ditta ora governata da Bernadette. Vecchio e quasi
incapace di volontà propria, che scopriamo aver perso quando un po’ meno di
venti anni prima il suo unico figlio Roger si è suicidato. Da mezze parole e
grandi bevute, Maigret capisce che tra Georges-Henry e Monita c’era del tenero.
Accorgendosi anche che Ernest tenta in tutti i modi di tenergli lontano il
figlio, arrivando a sequestrarlo. Con una breve puntata a Parigi, che dista
meno di 40 chilometri, Maigret non solo ha modo di salutare i suoi
collaboratori: Lucas, Janvier, Torrence. Ma anche di ingaggiarli al volo in una
piccola opera di ricerca sulla storia della ditta, sulla morte di Roger, e su
quanto si possa sapere dei contorni della vicenda. Trova anche il modo di
liberare Georges-Henry, di tenerlo al sicuro lontano dal padre. Scoprendo anche
tutta la successione delle turpi vicende. Siamo nel lato umano-cattivo di
Maigret. Non ci sono grandi elementi polizieschi, grandi misteri. Vediamo come
in un film scorrere il passato, dove Roger amava Laurence fino all’intervento
di Ernest. Che lo porta a giocare a carte, a perdere ed indebitarsi. Ernest fa
anche in modo di comprare tutti i debiti di Roger. Quando questi è sul
lastrico, non lo aiuta di certo, spingendolo al suicidio. Frequentando Roger
inizia ad essere anche presente in casa Amorelle, avendo un debole verso la
piccola Aimée, all’epoca quindicenne. Quindi, per far carriera, non trova
meglio che, dopo aver messo incinta la piccola, sposare la sorella, far sposare
il fratello con Aimée, ed introdursi nella vita degli Amorelle e Campois come
un grande burattinaio. Quando, spaventato dal rischio che la vecchia lo
diseredi, parla con il fratello, tirando fuori tutta la storia, Monita lo
ascolta nascostamente, capisce che si è innamorata di Georges-Henry ma che
questi è suo fratello, capisce le turpitudini dei suoi padri veri e finti.
Decidendo quindi realmente di suicidarsi. Ovviamente questa è la storia ma non
la fine, che sarà subita da Maigret senza poter intervenire. Ma che ha una sua
logica. Il testo, in fondo, si riscatta solo un po’ nel finale, quando i nodi
arrivano al pettine. Prima era un po’ troppo vagante senza una meta precisa,
senza uno scopo sicuro. Come se, per l’appunto, la scrittura su commissione
portasse Simenon a scrivere con il corpo ma non con la testa. Rimane solo il
piccolo cammeo iniziale, della descrizione della signora Maigret che sgrana i
piselli in campagna che è da antologia. Ricordo infine brevemente, che, fino ad
ora, questo è il secondo romanzo con Maigret pensionato, essendo il primo quel
“Maigret” del 1933. Altri erano i pensionistici modi di agire, ma per ora tutti
nei racconti. Piccolo inciso: ho anche imparato una parola nuova, che non
sapevo che lo sbarramento idraulico delle chiuse si chiamasse “paratoia”. Vai
con la cultura!
“Maigret
a New York”
[tit. or.: Maigret
à New-York; ling. or.: francese;
pagine: 149 – 309 (160);
anno 1947]
Simenon ha finalmente il passaporto per
lasciare la Francia, e le sue preoccupazioni. Ed è talmente irritato con Parigi
e le sue insinuazioni, che non tornerà più. Almeno in Francia, perché ora parte
per l’America, dove vivrà dieci anni. Ma al ritorno si stabilirà in Svizzera.
Comunque, nell’ottobre del 1945, con Tigy e Marc si imbarca per New York. Ma la
Grande Mela è troppo caotica, soprattutto per il figlio. Quindi installa la
famiglia in Canada. Tuttavia, benché ne sappia d’inglese, ha anche bisogno di una
segretaria. Prenderà quindi servizio Denyse Ouimet, una franco-canadese
bilingue di 25 anni. Simenon ne ha 42, ma, come sappiamo dalla fama e dalla sua
autobiografia, non disdegna le donne. Già dopo il primo incontro i due vanno a
letto. Poi si instaura una coabitazione multipla con lo scrittore, la moglie
ufficiale, la segretaria-amante, il figlio e, ma solo a partire dal 1947, la
tata Henriette detta Boule (che non vi ho detto ma già da 15 anni è l’amante
“casalinga” di Simenon). Mentre tutto questo si evolve, nel febbraio del 1946,
con la famiglia nel Québec e lui su e giù tra Québec e New York, da mano al
primo dei numerosi “romanzi americani”. Completato in poco meno di dieci
giorni, è già in grado di farci sentire l’odio e l’amore che Simenon avrà
sempre per l’America. Soprattutto, però, notiamo alcune innovazioni
stilistiche, un modo a volte più rapido, “americano” si direbbe, di affrontare
le situazioni. Ed una scrittura che tiene conto, quindi, anche dei suoi lettori
locali, e non solo dei francofoni europei. Una volontà anche di rimandare ai
suoi lettori le sensazioni americane, la sua visione della città (che aveva
immortalato immediatamente dopo l’incontro con Denyse in “Tre camere a
Manhattan”, interessante libro che venti anni dopo Marcel Carné porterà sullo
schermo con una stupenda interpretazione di Annie Girardot). Per fare in modo
che i destini si incrocino, Simenon lascia ancora in pensione Maigret, che, nel
suo buen retiro di Meung-sur-Loire viene visitato da Jean Maura, un diciannove,
preoccupato dalle strane ultime lettere del padre, che, ricchissimo, vive a New
York. L’ex-commissario (e qui Simenon ci fa fare uno strano salto temporale,
perché nel precedente romanzo era in pensione da due anni mentre ora è solo un
anno che si è ritirato; misteri della scrittura) si fa prendere dalla storia,
ed un po’ indolentemente i due si recano a New York. Dove, appena sbarcati,
Jean scompare, e Maigret, solo, incontra il padre, Little John, ed il suo
segretario, Jos, all’hotel St. Regis (che guarda caso, è a pochi passi dal
Darke Hotel, primo albergo di Simenon a New York). Maigret non li trova
simpatici, e cerca rifugio nel suo amico dell’FBI, O’Brien (che guarda caso si
chiama come il mentore americano di Simenon, insegnante di letteratura francese
ad Harvard). Che gli trova un albergo a Broadway e gli presenta uno strampalato
detective, che, pur sfasato, troverà le informazioni che Maigret di volta in
volta gli chiede. Perché Maigret non è convinto dell’atteggiamento di Little
John. Indagando nel passato scopre che questi ed un suo sodale, Joseph, molti
anni prima, emigrano dalla Francia per cercare fortuna in America. Come un duo
da circo, Little John al violino e Joseph al clarinetto. Tramite il detective,
Maigret risale alla storia dei due, agli ingaggi, al coinvolgimento di Jessie,
una ragazza che comincia a seguirli nelle tournée. La storia non ha un grande
pathos, essendo tutta svolta da un lato per farci vedere Maigret girare per la
città (e gustarne le descrizioni del belga neofita americano) e dall’altro a dipanare
la storia di Little John. Ma questa, che dovrebbe essere la parte “noir” del
romanzo, scivola un po’ via. Certo vediamo dei gangster (o meglio, dei loschi
figuri americani) irrompere sulla scena, uccidere il povero sarto napoletano
ottantenne Angelino, e commettere altre nefandezze, per cercare di mettere le
mani sull’impero di Little John. In questi aiutati dal segretario Jos, che
frequentava brutte compagnie. Ma sei mesi prima si presenta da Little John, si
rivela come suo figlio naturale. Cioè, come figlio di Jessie. Ma chi è il
padre, Little John o Joseph? Jessie è morta, uccisa da Little John inavvertitamente,
per un soprassalto d’ira quando questi scopre che, benché sposati, Jessie,
durante un suo forzato allontanamento, va a letto con Joseph. Ma Joseph,
invece, è vivo, dirige un’orchestra in Francia, e nell’epilogo finale, viene
raggiunto telefonicamente da Maigret. Che aveva convocato tutti nella sua
stanza: Little John, Jos, Jim Parson (un giornalista che era stato l’iniziatore
degli ultimi ricatti) ed il tenente Lewis della polizia. Qui avremo il
dipanarsi degli ultimi misteri, e la successiva partenza di Maigret per la
Francia natia. A New York rimarranno i rimpianti di chi ora ci vive, ed i
castighi per i cattivi. Certo non vi dico questa parte, che scoprirete
leggendolo. Invece condividiamo le atmosfere. Quando O’Brien porta al
ristorante Maigret, facendogli mangiare piatti francesi con lo stesso sapore
“casalingo” che avevano a Parigi (stupore del viaggiatore Simenon). Quando con
il detective dalla faccia da clown Maigret si aggira nel Bronx, quando cerca di
indagare da solo, nel suo stentato inglese, in posti dove si parla di tutto
(napoletano, polacco, anche francese, ma di certo poco inglese, lì dove sono
immigrati di tutte le razze). Quando Jos lo porta in un ristorante di classe a
bere cocktail raffinati. Quando va con O’Brien prima e con Jim poi in birrerie
malfamate, dove gli americani tentano di convertirlo, inutilmente, al whiskey.
Con un’ultima chicca nelle ultime righe: Maigret chiede ai suoi amici americani
di mandargli un “appareil à disques”. Dove molti gridarono all’incongruenza,
visto che il voltaggio americano non è utilizzabile in Europa. Peccato che,
tuttavia, i “grammofoni” furono inventati solo nel 1948. Qui siamo due anni
prima, e l’apparecchio di cui sopra non può che essere un “78 giri a
gommalacca”, con la carica a manovella. Utilizzabile ovunque nel mondo. Per
finire e tornare a Simenon, è un buon libro, dove il nostro autore cerca sempre
più di far convergere la sua scrittura tra i romanzi del commissario e quelli
“puri e duri”. Vediamo infatti atmosfere, descrizioni di personaggi e di
luoghi, ed altri stati d’animo e di predisposizione delle storie, che fanno
pensare, appunto, ad una “tranche de vie” raccontata dove casualmente un
protagonista è, anche, commissario. Si sente, inoltre, che il Nuovo Mondo, ha
dato nuova carica alla sua penna (o forse è stata la nuova segretaria?).
“Le
vacanze di Maigret”
[tit. or.: Les
vacances de Maigret; ling. or.: francese;
pagine: 313 – 478 (165);
anno 1948]
Non è un caso che passi più di un anno e
mezzo perché Simenon metta mano ad uno nuovo Maigret lungo (lungo, perché a
metà del ’46 aveva intanto scritto 4 racconti con Maigret protagonista). Anche
se lo fa con un piglio deciso e con una sicura riuscita. Si avverte quasi che,
nonostante il tema non sia allegro (parliamo sempre di inchieste e di morti),
lo spirito dell’autore vola sulle ali di una interna contentezza. Infatti, ha
cominciato ad apprezzare “la vita americana”, come la chiama. Dopo aver passato
sei mesi nel Québec, si avvicina al sud con altri sei mesi a Saint Andrews,
sempre in Canada ma vicino al confine con il Maine. Poi compera delle auto usate,
e passa altri sei mesi a Sarasota, in Florida, sulla spiaggia (non a Miami che
visitò e che non gli piacque). Quindi si sposta ancora, e nell’agosto del ’47
arriva a Tucson in Arizona. Queste zone saranno per lui un ritorno all’antico,
ritroverà “le plat pays”, come direbbe Jacques Brèl, il suo nostalgico Belgio.
L’altro elemento di allegria è il rapporto che si va consolidando con Denyse,
soprattutto ora che Tigy è tornata per qualche mese in Francia, da dove tornerà
anche con la tata Boule. Simenon ritrova al completo i suoi complicati intrecci
d’amore e d’affetto (la sua vita con le donne meriterebbe un libro tutto suo). Questa
allegria la riversa nelle simpatie di questo romanzo. Dove, per non far tornare
subito nel pieno delle sue funzioni, fa passare il nostro commissario per un
periodo di vacanze. E dove trascorrere le vacanze se non in quel
Sables-d’Olonne, sulle rive atlantiche francesi, dove lui stesso passò alcuni
mesi convalescente alla fine della guerra? Qui scatena un meccanismo ad
orologeria perfetto. Si comincia con un attacco d’appendicite della signora
Maigret, dopo un’abbuffata di cozze. La signora è ricoverata in ospedale,
gestito da suore. Già questo rende ben visibile i contrasti tipici di Simenon:
il grande commissario, pesante e sbuffante, in un ambiente che si rompe al
primo tocco, cristallino come quello delle suore. Tutta la prima parte è un
farci calare nell’ambiente, con i vari personaggi, con i bozzetti che a Simenon
piacciono tanto. Suor Marie des Anges, diafana, delicata, giovane e
preoccupata. La vicina di letto della signora Maigret, malata di cancro, ma
acida e pungente. I signori dell’hotel,
dove va a bere un bianchetto, che inanellano lunghe partite di bridge: il
dottor Bellamy, luminare locale, il commissario Mansuy, contento delle
frequentazioni con l’illustre collega. L’albergo ed il calvados con il
proprietario. Si crea l’atmosfera, e quindi si comincia a mettere delle zeppe
nelle ruote oliate. La suorina lascia un sibillino messaggio nelle tasche del
cappotto di Maigret. Una signorina muore in ospedale, dopo essere cascata
accidentalmente fuori dalla macchina. È Hélène, la cognata del dottore. Maigret
tenta di capire, tra il commissario locale ed il dottore stesso, cosa ci sia
che non ruota, cosa ci sia che suona falso. In casa Bellamy, Maigret e Bellamy
incrociano una ragazzina che fugge spaventata. Maigret tenta di ritrovarla, ma
prima di lui la troverà qualcun’altro. Lucille muore strangolata. Scopriamo
anche che pochi giorni prima, Émile, il fratello di Lucille, giovane di buone
lettere e belle speranze, è misteriosamente scomparso per andare a fare il
giornalista a Parigi. Ma Maigret, tramite il fido Janvier, scopre che Émile non
è mai arrivato nella capitale. Su tutto aleggia la presenza della moglie di
Bellamy, Odette. Che si dice bellissima, ma che non vedremo mai per tutto il
romanzo. Mentre prosegue l’inchiesta ufficiale sulla morte di Lucille, affidata
a due investigatori dall’evocativo nome di Piéchaud e Boivert (come non pensare
ad una piccola parodia di Bouvard e Pecuchet di flaubertiana memoria?), Maigret
segue una sua idea. Cercando di penetrare nell’animo della piccola cittadina.
Che, ricostruita nella memoria ed a più di due anni dalla sua visita, ci viene
riproposta con un’esattezza da Google Maps. Memorabile è lo scontro con le
suore, in particolare con la Madre Superiora, da dove Maigret esce con la
certezza che Hélène sapeva qualcosa, in particolare di un tagliacarte. Seguendo
poi le possibili mosse di Odette, arriva alla sua amica sarta, Olga, ed al suo
ruolo di chaperon verso il nascente amore tra Émile e Odette. Memorabile, per
la sua costruzione dialettica, sarà lo scontro finale tra Maigret e Bellamy.
Che sappiamo ormai colpevole, preso da una gelosia irrazionale ma totalizzante
verso la bella moglie. Tanto da uccidere per non lasciarla andare via. Tanto da
costruirsi un muro di donne prone al suo fascino, che lo aiuteranno sempre: la
madre, la cameriera Jeanne, anche la stessa Hélène, che sul punto di morte
rivendica la non colpevolezza del dottore. Inoltre, Maigret non ha una prova
tangibile da mostrare in un possibile processo. Sarà in queste ultime trenta
pagine che si consuma la maestria di Simenon (e di Maigret). Riuscirà il
commissario a trovare il modo di far arrendere il dottore? Tutto da leggere
questo finale. Ripeto, è una costruzione tipica del Simenon di alto livello. Si
comincia piano, si introduce l’ambiente, i personaggi (anche qualcuno in più
per sviare, se possibile, l’attenzione). Poi un dramma, un’inchiesta, una
soluzione che Maigret ha già trovato pagine e pagine prima di noi. Infine lo
scioglimento delle tensioni, l’arrivo al finale. Sempre con quell’amaro
presente nei migliori Simenon. Che il mondo non è mai bianco e nero, ma di
molto grigio. Il nostro autore l’ha ben presente, e qui ne fa corpo di una
trama molto intensa. Non dimentichiamo, nella lettura del contesto, che il
rapporto tra amore e gelosia è una costante del pensiero del nostro.
“Di
che cosa parlava con sua moglie quando stavano insieme nella vita normale? Di niente,
tutto sommato… Perché, allora, lei gli mancava tanto nel corso della giornata?”
(317)
“Se
ci fossimo detti addio, non avrei più avuto la forza di partire. … Sono molto
maturato in questi mesi.” (429)
“Il
morto di Maigret”
[tit. or.: Maigret
et son mort; ling. or.: francese;
pagine: 481 – 657 (176);
anno 1948]
Come sappiamo, Simenon si è ormai sistemato a
Tucson, in una villa in Franklin Street, molto grande e con una dépendance che
il nostro userà come studio. Nella villa invece, vivono la sua
segretaria-amante Denyse, la moglie Tigy con il figlio Marc ed ora anche la
cameriera-amante Boule che finalmente è riuscita anche lei ad avere i documenti
per vivere in America. Comunque è nello studio lontano dal corpo principale che
scrive alcune delle più interessanti storie del periodo. Ad esempio “La neve
era sporca” per i romanzi senza Maigret. E questo “morto” che racchiude alcuni
momenti eponimi del commissario e del suo mondo. Intanto, Simenon fa tornare
Maigret all’interno della sua Squadra Speciale, e del suo ufficio al Quai des
Orfèvres. Quasi a far rinascere il personaggio dalle sue ceneri (dopo alcuni
romanzi da pensionato; anche se per le strane leggi dell’editoria, in volume
questo romanzo uscirà prima del precedente). A sottolineare questo nuovo
inizio, c’è anche un ritorno all’antico. Che per molti versi, la trama generale
del romanzo sembra ricalcare, in alcuni momenti, il primo romanzo di Maigret,
quel “Pietro il Lettone” scritto ben venti anni prima. Malviventi che vengono
dall’Est Europa, ricerca delle tracce attraverso stazioni, bar e alberghi. In
alcuni momenti, sembra quindi fare una summa dei “topos” principali di Maigret
stesso, ed un riuso sapiente di pezzi di storie seminati qua e là nel corso del
tempo. Il bandito principale sembra un parente prossimo di “Stan il killer”, un
personaggio di un racconto breve di dieci anni prima, molto simili a questo
Bronsky (a parte il fatto che Stan è lituano e Bronsky ceco). Inoltre la storia
della banda che semina il terrore nella regione della Piccardia (un centinaio
di chilometri a Nord di Parigi) viene quasi interamente dal romanzo “Il
fuorilegge”, dove però i cattivi erano polacchi. Tipico maigrettiano è invece
l’approccio al cadavere, quando nel secondo capitolo si avvicina al morto
cercando di studiarlo e di capire qualcosa dai vestiti, dalla postura. Tipico è
l’utilizzo di un raffreddore accomodante per non rispondere alle domande
dell’antipatico giudice istruttore. Tipico è l’utilizzo della propria casa, in
boulevard Richard-Lenoir, come piccola dépendance del suo ufficio: quando è
malato, quando parla con la moglie cercando di esternare i propri pensieri per
renderli più chiari, quando discute a lungo con l’amico-rivale, l’ispettore
Colombani. Tipico, ma come rovescio, è anche l’approccio anti-sherlockiano per
capire che l’impermeabile del morto è stato strappato a posteriori. Sherlock
avrebbe usato parole su parole per descrivere i tagli, la forma del coltello ed
altro. Maigret prende un manichino, lo riveste degli abiti del morto e voilà
ecco il risultato. Tipico, infine, è l’attaccamento alla casa di boulevard
Richard-Lenoir, non solo nel senso di cui sopra, ma anche come luogo che gli
rimandi punti fermi della sua vita (i muri, le finestre), nonché per la lunga
passeggiata che da casa lo porta in ufficio (un tragitto di 2,5 chilometri che,
confesso, ho fatto anche io tanto tempo fa, in uno dei miei tanti soggiorni
parigini). Non tipico, ma divertente, è poi l’attacco, dove per tutto il primo
capitolo ci sorbiamo una petulante vecchietta che cerca di coinvolgere Maigret
in alcune sue fantasie, ma che, una volta entrati nel vivo, sparirà senza più
tornare. Sparisce perché irrompe il dramma. Un uomo cerca di mettersi in contatto
con Maigret telefonandogli da diversi bar (ah, se ci fosse stato il cellulare),
dicendo di essere in pericolo. L’uomo non riesce a farsi trovare, ma sarà il
cadavere che ritroviamo poche pagine dopo in Place de la Concorde. Da qui,
scatta la seconda parte del romanzo: chi è, questo “morto di Maigret”? Altro
uso di Maigret è lo sguinzagliare i suoi ispettori, sino a trovare le tracce di
questo Albert Rochain, gestore di un bistrot ed amante delle corse dei cavalli.
Appostamenti nel bistrot, portano alla scoperta di un ceco che si aggira
furtivamente, per poi scappare. Victor, questo il nome del bandito dell’est,
viene seguito ma finisce male per mano dei suoi stessi complici. Maigret ha
però una traccia. E da Victor risale ad un albergo dove trova Maria (che non è
ceca, ma slovacca), la donna della banda. Gli altri sono fuggiti, lei no in
quanto incinta. Maigret lascia tracce enormi per fare in modo che gli altri
componenti escano allo scoperto, perché tutti erano innamorati di Maria. Ci
riesce, alcuni muoiono, altri vengono arrestati. Ma quello che più preme è il
fatto che (però questo esce un po’ come il coniglio dal cilindro, che non ci si
aspettava tutto ciò) la banda di slavi non era altro che la longa manus di un
cattivo, il famigerato Jean Bronsky, anche lui ceco. Mentre i malviventi erano
la bassa manovalanza, tra l’altro molto efferata, se si narra che Maria
torturava i malcapitati e gli altri poi li finivano a colpi d’ascia. Con un
finale molto americano, di inseguimenti e spari, la vicenda si risolve. Simenon
però ci deve delle spiegazioni, che fornisce durante un colloquio tra Maigret e
Nine, la moglie di Albert. Dove si capisce che tutto nasce da un biglietto
ferroviario che Albert trova alle corse, che frequenta come Bronsky, e che lega
Bronsky ad un viaggio in treno verso la Piccardia. Indizio assai labile, se
Albert, nel miraggio di qualche entrata extra, non tenti un piccolo ricatto.
Scatenando tutto il putiferio che avete seguito fin qui. Uno dei più lunghi
romanzi di Maigret, che segna il suo ritorno al centro della scena. Quasi da
studiare come un manuale esegetico e di riferimento delle sue gesta, se
qualcuno ne fosse capace.
“La
prima inchiesta di Maigret”
[tit. or.: La
première enquête de Maigret (1913); ling. or.: francese;
pagine: 661 – 828 (167);
anno 1949]
Come sappiamo l’erranza di Simenon è ormai
proverbiale anche qui in America. Dopo sei mesi di Tucson, dovendo riconsegnare
la casa di Franklin Street, decide di acquistare due case nel villaggio di
Tumacacori, quasi al confine con il Messico. Lì trasferisce tutta la “grande famiglia”
con moglie, figlio e amanti. Qui Simenon dice di aver trovato un posto dove
restare a lungo, forse anche per quel grande Parco, ora diventato Nazionale,
forse per quella storia di missioni gesuite. Non è comunque un momento facile
per la sua vita quotidiana, Tigy è insofferente, Denyse reclama di più. Simenon
nella scrittura si rifugia nel più profondo americanismo (qui scriverà “Il
fondo della bottiglia” uno dei suoi romanzi più americani) o nella nostalgia.
Tanto che decide di dare una scena retrospettiva a questo suo personaggio,
amato e odiato, ma che qui diventa protagonista del suo trentesimo romanzo. Non
è certo poco (e vedremo come e quanto continuerà). Nella solita scrittura
veloce (è anche il primo romanzo che scrive direttamente a macchina) in dieci
giorni nel settembre del ’48 completa questa “Prima inchiesta di Maigret”.
Inchiesta che si situa nel 1913, con un giovane Maigret di 26 anni, da quattro
in varie assegnazioni poliziesche e da cinque mesi felicemente sposato. Visto
che scrive avendo già dato ai lettori il senso di questo commissario (ricordo
che nei precedenti 29 romanzi si è visto di tutto, dalle inchieste con
inseguimenti, alle ricerche puntuali in alberghi e brasserie, fino ad alcuni
romanzi in cui Maigret è già pensionato), Simenon si prende lo sfizio di darci
alcune pennellate di quello che lui sta costruendo per il suo proprio Maigret
personale. Svelandoci alcuni punti che erano e saranno caratteristici del
commissario. Ma soprattutto dandoci quella definizione di “accordatore di
destini”, che è il vero mestiere che il nostro Jules voleva fare. Aveva
iniziato a studiare medicina, ma la morte del padre lo ha costretto a cercarsi
un lavoro. Un amico del padre, grande capo al Quai des Orfèvres, lo induce ad impiegarsi
nella polizia. Ora è segretario del commissario Maxime Le Bret, capo del
commissariato del IX arrondissement. Tuttavia non vede l’ora (e cerca il modo)
di avvicinarsi alla “Brigata Criminale”, quella che si occupa di omicidi e che
“indaga”. Lì potrà accordare qualcosa, così pensa il giovane Jules. Anche altri
sono i misteri che ci vengono svelati: l’amore per la stufa, che lo porterà a
conservarla per sempre anche nel suo futuro ufficio che guarda la Senna
dall’alto. Assisteremo, nel capitolo quarto, al famoso “scatto”, quel momento
in cui tutto si ordina nella mente del commissario. Uno scatto che diventerà
leggendario. Qui utilizza già una “malattia” per allentare qualche tensione e
per risolvere l’inchiesta. Qui inizia la saga delle bevute, che appesantisco il
nostro, ma che gli danno quella lentezza caratteristica e che tanto abbiamo
amato (soprattutto nelle mirabili interpretazioni di Gino Cervi). Nelle more
del romanzo, Simenon inzeppa anche la storia del borsaiolo che Maigret tenta di
acchiappare, ma che, per una serie di disguidi, si rovescia, tanto che la gente
pensa che sia lui, Jules, il ladro (storia che ricorderemo in futuri romanzi).
Questa, di storia, incomincia con l’arrivo di un giovane flautista, Justin che
tornando a casa dal lavoro, vede una macchina di lusso (una Dion-Bouton)
parcheggiata di nascosto con il motore acceso, davanti ad una casa da dove si
apre una finestra, una donna chiede aiuto, e si ode uno sparo. Justin chiede
lumi, ma il maggiordomo che gli apre lo scaccia in malo modo, colpendolo con un
pugno sul naso. Justin spiega tutto questo a Jules che decide di indagare.
Senza cavare un ragno dal buco che nella casa sembra tutto a posto. La casa è
quella della dinastia del Balthazar, i migliori produttori di caffè della
regione. C’è il direttore Richard, trentenne spocchioso, e ci dovrebbe essere
Lise, sorella ventenne e scapestrata. È tutto un romanzo d’atmosfera,
all’inizio, che, tornato al commissariato, il suo capo gli fa capire che
bisogna andare con i piedi di piombo presso i Balthazar. Le Bret è stato
sovente a casa loro, sono gente del bel mondo. Ma c’è stata una denuncia, così
si arriva ad un compromesso: Maigret continua ad indagare, ma in ferie. Mentre
Justin rintraccia la cameriera Germaine che darà notizie utili sui rapporti
interni a casa Balthazar, e sui rapporti esterni di Lise, Maigret rintraccia
l’auto, gestita da un losco Dédé, ma che soprattutto è amico dello spiantato
Bob conte d’Anseval. Anseval che è anche il luogo d’origine dalla famiglia
Balthazar. Alla fine sapremo che tutto è legato ad un capzioso testamento del
nonno Balthazar e che la vittima è proprio Bob. Nel frattempo, Maigret riesce a
trovare Dédé, ma da questi è malmenato. Riesce a farlo arrestare, prima che si
rifugga in Belgio, per fare una bella vita con i soldi avuti da Richard per
toglierselo di mezzo. Tutti i tentativi di Maigret di portare avanti le
indagini, però, anche se fa dei passi avanti, sono frustrati dalla gestione
omertosa del bel mondo parigino. Che alla fine opterà per il minor male. Avremo
però modo di vedere all’opera il mito di Maigret, il capo-ispettore Barodet cui
sarà affidata la chiusura del caso. Non senza che a Maigret venga data una nota
di merito che gli permetterò di entrare proprio nella squadra investigativa. Un
romanzo ben costruito e che ci dà alcune chiavi di lettura di Simenon e di
Maigret. La capacità dello scrittore di ricostruire ambienti e situazioni.
Infatti ci da piombare nella Parigi di prima della Grande Guerra, con le
velette delle signore, i caffè, i fiacre, nonché gli ambienti vicini a Pigalle.
Il rapporto conflittuale sin dall’inizio che Maigret avrà con il cosiddetto bel
mondo, e la sua empatia verso chi, per sfortuna e per caso, si trova ai margini
della società. Nonché, per finire, il “metodo Maigret”. Non è importante
infatti quello che è successo nella notte tra il 15 ed il 16 aprile nella casa
Balthazar. Quello è solo l’epilogo della storia. Quando Maigret sarà riuscito
ad entrare nei pensieri dei personaggi, gli sarà facile ricostruire chi ha
fatto cosa e quando e perché. Una bella chiusura di romanzo.
Spero che
queste ricostruzioni facciano piacere a mio cugino Alessandro, appassionato
holmesiano, per comprendere analogie e differenze tra i due grandi miti. Continuiamo
intanto a programmare gli itinerari israeliani e tutte le intense attività che
ci vedranno in prima linea per tutto il mese di maggio.
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