martedì 25 aprile 2017

Maigret 6 - 25 aprile 2017

Scusandomi del ritardo, dovuto ad un piacevole, lungo week-end sorianese, eccoci a riprendere le fila interrotte del nostro commissario. Eccoci ad altri 5 romanzi, che segnano l’interessante transizione tra il periodo francese ed il lungo auto-esilio americano. Ne parlo a lungo, all’interno, sui motivi della fuga di Simenon all’estero, qui non ci torno. Ribadisco soltanto, che questi primi 6 volumi hanno un interessante spessore ed una gradevole lettura.
Georges Simenon “I Maigret – volume 6” Adelphi s.p. (regalo di mamma)
[A: 28/11/2014– I: 11/12/2016 – T: 19/12/2016] - &&&&& 
[tit. or.: vedi singoli libri; ling. or.: francese; pagine: 828; anno 2014]
Passano le scritture, aumentano i romanzi, ed aumenta il piacere della lettura. Siamo anche ad una scrittura di transizione perché in questo volume compare l’ultimo romanzo scritto in Francia poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ed i primi quattro romanzi scritti nel volontario esilio americano. Per una serie di incomprensioni e di ripicche, la Francia non è più gradita a Simenon, che decide di partire per l’America. Vuoi per liberarsi dell’editore Gallimard con cui non ha mai avuto un buon rapporto, vuoi per avere più spazio alla sua vita. Spazio che troverà con la segretaria-amante-moglie franco-canadese. Romanzi che ci danno sempre più il piacere di vedere come Simenon ci fa immergere in atmosfere spesso diverse e distanti (come nel primo romanzo americano “Maigret a New York”). Romanzi che ci permettono anche di dare un minimo di raccordo storico con la vita del personaggio, attraverso l’ultimo della serie (“La prima inchiesta di Maigret”). Simenon non ha mai tenuto conto di una scrittura seriale progressiva, facendo saltare Maigret sull’onda del tempo. Ma qui ci dà alcuni punti fermi della partenza del personaggio, nella sua prima inchiesta, che inizia il 15 aprile 1913.

Titolo
Scritto
Uscito
Data
Luogo
La furia di Maigret
Giugno 1945 – 4 agosto 1945
Iniziato in rue de Turenne, Parigi e completato a Saint-Fargeau-Ponthierry (Francia)
22/07/1947
Maigret a New York
27 febbraio – 7 marzo 1946
Scritto a Sainte-Marguerite-du-Lac-Masson (Québec)
25/07/1947
Le vacanze di Maigret
11 – 20 novembre 1947
Scritto a 325 W. Franklin Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
14/06/1948
Il morto di Maigret
8 – 17 dicembre 1947
Scritto a 325 W. Franklin Street, Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
Maggio 1948
La prima inchiesta di Maigret
22 – 30 settembre 1948
Alla tenuta Stud Barn di Tumacàcori, un'antica riserva indiana, ora parco storico naturale nei dintorni di Tucson, Arizona (Stati Uniti d'America)
15/02/1949

“La furia di Maigret”
[tit. or.: Maigret se fâche; ling. or.: francese; pagine: 9 – 145 (136); anno 1947]
La guerra è finita, e dopo aver superato alcuni problemi dovute alle sue frequentazioni eterodosse, Simenon capisce che non ha più spazio in Francia. Vuole partire per l’America ma deve risolvere qualche problema. Senza dubbio i documenti per partire. Ma soprattutto, deve risolvere i problemi con l’editore Gallimard. Nessuna delle due parti è sodisfatta del rapporto, ed allora lo risolvono presto, avendo il nostro scrittore trovato un nuovo editore, piccolo ma che punta su di lui. E fa bene. D’ora in poi i volumi usciranno presso “Presses de la Citè”, edizioni gestite dal franco-danese Sven Nielsen. Torna quindi a Parigi, ed aspettando i documenti per l’espatrio, nell’estate del 1945, tra l’appartamento di Place des Vosges e la residenza di campagna di Saint-Fargeau (44 km a sud di Parigi) scrive in due mesi un nuovo romanzo, questo “Maigret si arrabbia”. Che uscirà a puntate su France Soir nel 1946, poi in volume presso il nuovo editore solo nel luglio del 1947. Inoltre, questo romanzo verrà anche ricordato come il più breve tra tutti quelli pubblicati con protagonista il nostro commissario. Tanto che alcune bibliografie lo pongono tra i racconti lunghi. Sono inoltre due anni che non scrive di Maigret, e, come spesso accade quando i due si allontanano, c’è come una reticenza, come una voglia dello scrittore belga di tirarsi indietro, di far uscire Maigret dalla scena. Tant’è che il romanzo comincia con una scena bucolica: Maigret e signora sono in campagna, ormai da due anni. Maigret è in pensione, e l’unica sua preoccupazione è l’invasione di dorifore che distruggono le sue amate melanzane. L’idillio è interrotto dall’arrivo dell’ottantunenne Bernadette Amorelle, intrepida vegliarda, che gestisce la ditta fondata dal marito e che viene lì per intimare all’ex-commissario di indagare sulla morte (che la polizia ha etichettato come suicidio) della diciasettenne nipote Monita. Travolto dalla verve di Bernadette, ed essendo sempre “un poliziotto dentro”, Maigret decide di accettare l’incarico e di trasferirsi qualche giorno a Orsenne (cittadina fittizia che dovrebbe essere in realtà Le Coudray-Montceaux, a pochi chilometri da Saint-Fargeau dove Simenon scrisse la maggior parte del libro, ed ora abbastanza nota in quanto, nel suo comprensorio, ha sede IKEA Sud!!!). come al solito poi, in questi casi, sarà un’inchiesta fulminea, che occupa solo cinque giorni di un caldo agosto francese. All’inizio sembra che Simenon voglia mescolare presente (pensionistico) con il passato (l’infanzia di Jules per intenderci) facendo incontrare ad Orsenne Ernest Malik, suo antico compagno di scuola, che lui non aveva mai particolarmente avuto in simpatia, tanto che da Maigret e dagli altri era soprannominato “l’Esattore”. Sia per la professione del padre, sia per le sue doti di racimolare spiccioli ovunque. Ora Malik è genero di Bernadette, avendo sposato la figlia maggiore. Maigret si aggira per le rive della Senna, incontrando vari personaggi, e cominciando a ricostruirsi nella testa un filo logico di tutto ciò. Ci sono Ernest con la moglie Laurence, sottomessa ed impaurita, ed i due figli Jean-Claude, tutto nel solco paterno, e Georges-Henry, più giovane ed irrequieto. C’è Charles, il fratello di Ernest, con Aimée, sua sposa e sorella di Laurence. In lutto per la morte della figlia Monita, con Charles che sembra un po’ più ebete del necessario, ed Aimée altrettanto sfasata, ma con la testa altrove. C’è infine Désiré Campois, il fondatore con Amorelle della ditta ora governata da Bernadette. Vecchio e quasi incapace di volontà propria, che scopriamo aver perso quando un po’ meno di venti anni prima il suo unico figlio Roger si è suicidato. Da mezze parole e grandi bevute, Maigret capisce che tra Georges-Henry e Monita c’era del tenero. Accorgendosi anche che Ernest tenta in tutti i modi di tenergli lontano il figlio, arrivando a sequestrarlo. Con una breve puntata a Parigi, che dista meno di 40 chilometri, Maigret non solo ha modo di salutare i suoi collaboratori: Lucas, Janvier, Torrence. Ma anche di ingaggiarli al volo in una piccola opera di ricerca sulla storia della ditta, sulla morte di Roger, e su quanto si possa sapere dei contorni della vicenda. Trova anche il modo di liberare Georges-Henry, di tenerlo al sicuro lontano dal padre. Scoprendo anche tutta la successione delle turpi vicende. Siamo nel lato umano-cattivo di Maigret. Non ci sono grandi elementi polizieschi, grandi misteri. Vediamo come in un film scorrere il passato, dove Roger amava Laurence fino all’intervento di Ernest. Che lo porta a giocare a carte, a perdere ed indebitarsi. Ernest fa anche in modo di comprare tutti i debiti di Roger. Quando questi è sul lastrico, non lo aiuta di certo, spingendolo al suicidio. Frequentando Roger inizia ad essere anche presente in casa Amorelle, avendo un debole verso la piccola Aimée, all’epoca quindicenne. Quindi, per far carriera, non trova meglio che, dopo aver messo incinta la piccola, sposare la sorella, far sposare il fratello con Aimée, ed introdursi nella vita degli Amorelle e Campois come un grande burattinaio. Quando, spaventato dal rischio che la vecchia lo diseredi, parla con il fratello, tirando fuori tutta la storia, Monita lo ascolta nascostamente, capisce che si è innamorata di Georges-Henry ma che questi è suo fratello, capisce le turpitudini dei suoi padri veri e finti. Decidendo quindi realmente di suicidarsi. Ovviamente questa è la storia ma non la fine, che sarà subita da Maigret senza poter intervenire. Ma che ha una sua logica. Il testo, in fondo, si riscatta solo un po’ nel finale, quando i nodi arrivano al pettine. Prima era un po’ troppo vagante senza una meta precisa, senza uno scopo sicuro. Come se, per l’appunto, la scrittura su commissione portasse Simenon a scrivere con il corpo ma non con la testa. Rimane solo il piccolo cammeo iniziale, della descrizione della signora Maigret che sgrana i piselli in campagna che è da antologia. Ricordo infine brevemente, che, fino ad ora, questo è il secondo romanzo con Maigret pensionato, essendo il primo quel “Maigret” del 1933. Altri erano i pensionistici modi di agire, ma per ora tutti nei racconti. Piccolo inciso: ho anche imparato una parola nuova, che non sapevo che lo sbarramento idraulico delle chiuse si chiamasse “paratoia”. Vai con la cultura!

“Maigret a New York”
[tit. or.: Maigret à New-York; ling. or.: francese; pagine: 149 – 309 (160); anno 1947]
Simenon ha finalmente il passaporto per lasciare la Francia, e le sue preoccupazioni. Ed è talmente irritato con Parigi e le sue insinuazioni, che non tornerà più. Almeno in Francia, perché ora parte per l’America, dove vivrà dieci anni. Ma al ritorno si stabilirà in Svizzera. Comunque, nell’ottobre del 1945, con Tigy e Marc si imbarca per New York. Ma la Grande Mela è troppo caotica, soprattutto per il figlio. Quindi installa la famiglia in Canada. Tuttavia, benché ne sappia d’inglese, ha anche bisogno di una segretaria. Prenderà quindi servizio Denyse Ouimet, una franco-canadese bilingue di 25 anni. Simenon ne ha 42, ma, come sappiamo dalla fama e dalla sua autobiografia, non disdegna le donne. Già dopo il primo incontro i due vanno a letto. Poi si instaura una coabitazione multipla con lo scrittore, la moglie ufficiale, la segretaria-amante, il figlio e, ma solo a partire dal 1947, la tata Henriette detta Boule (che non vi ho detto ma già da 15 anni è l’amante “casalinga” di Simenon). Mentre tutto questo si evolve, nel febbraio del 1946, con la famiglia nel Québec e lui su e giù tra Québec e New York, da mano al primo dei numerosi “romanzi americani”. Completato in poco meno di dieci giorni, è già in grado di farci sentire l’odio e l’amore che Simenon avrà sempre per l’America. Soprattutto, però, notiamo alcune innovazioni stilistiche, un modo a volte più rapido, “americano” si direbbe, di affrontare le situazioni. Ed una scrittura che tiene conto, quindi, anche dei suoi lettori locali, e non solo dei francofoni europei. Una volontà anche di rimandare ai suoi lettori le sensazioni americane, la sua visione della città (che aveva immortalato immediatamente dopo l’incontro con Denyse in “Tre camere a Manhattan”, interessante libro che venti anni dopo Marcel Carné porterà sullo schermo con una stupenda interpretazione di Annie Girardot). Per fare in modo che i destini si incrocino, Simenon lascia ancora in pensione Maigret, che, nel suo buen retiro di Meung-sur-Loire viene visitato da Jean Maura, un diciannove, preoccupato dalle strane ultime lettere del padre, che, ricchissimo, vive a New York. L’ex-commissario (e qui Simenon ci fa fare uno strano salto temporale, perché nel precedente romanzo era in pensione da due anni mentre ora è solo un anno che si è ritirato; misteri della scrittura) si fa prendere dalla storia, ed un po’ indolentemente i due si recano a New York. Dove, appena sbarcati, Jean scompare, e Maigret, solo, incontra il padre, Little John, ed il suo segretario, Jos, all’hotel St. Regis (che guarda caso, è a pochi passi dal Darke Hotel, primo albergo di Simenon a New York). Maigret non li trova simpatici, e cerca rifugio nel suo amico dell’FBI, O’Brien (che guarda caso si chiama come il mentore americano di Simenon, insegnante di letteratura francese ad Harvard). Che gli trova un albergo a Broadway e gli presenta uno strampalato detective, che, pur sfasato, troverà le informazioni che Maigret di volta in volta gli chiede. Perché Maigret non è convinto dell’atteggiamento di Little John. Indagando nel passato scopre che questi ed un suo sodale, Joseph, molti anni prima, emigrano dalla Francia per cercare fortuna in America. Come un duo da circo, Little John al violino e Joseph al clarinetto. Tramite il detective, Maigret risale alla storia dei due, agli ingaggi, al coinvolgimento di Jessie, una ragazza che comincia a seguirli nelle tournée. La storia non ha un grande pathos, essendo tutta svolta da un lato per farci vedere Maigret girare per la città (e gustarne le descrizioni del belga neofita americano) e dall’altro a dipanare la storia di Little John. Ma questa, che dovrebbe essere la parte “noir” del romanzo, scivola un po’ via. Certo vediamo dei gangster (o meglio, dei loschi figuri americani) irrompere sulla scena, uccidere il povero sarto napoletano ottantenne Angelino, e commettere altre nefandezze, per cercare di mettere le mani sull’impero di Little John. In questi aiutati dal segretario Jos, che frequentava brutte compagnie. Ma sei mesi prima si presenta da Little John, si rivela come suo figlio naturale. Cioè, come figlio di Jessie. Ma chi è il padre, Little John o Joseph? Jessie è morta, uccisa da Little John inavvertitamente, per un soprassalto d’ira quando questi scopre che, benché sposati, Jessie, durante un suo forzato allontanamento, va a letto con Joseph. Ma Joseph, invece, è vivo, dirige un’orchestra in Francia, e nell’epilogo finale, viene raggiunto telefonicamente da Maigret. Che aveva convocato tutti nella sua stanza: Little John, Jos, Jim Parson (un giornalista che era stato l’iniziatore degli ultimi ricatti) ed il tenente Lewis della polizia. Qui avremo il dipanarsi degli ultimi misteri, e la successiva partenza di Maigret per la Francia natia. A New York rimarranno i rimpianti di chi ora ci vive, ed i castighi per i cattivi. Certo non vi dico questa parte, che scoprirete leggendolo. Invece condividiamo le atmosfere. Quando O’Brien porta al ristorante Maigret, facendogli mangiare piatti francesi con lo stesso sapore “casalingo” che avevano a Parigi (stupore del viaggiatore Simenon). Quando con il detective dalla faccia da clown Maigret si aggira nel Bronx, quando cerca di indagare da solo, nel suo stentato inglese, in posti dove si parla di tutto (napoletano, polacco, anche francese, ma di certo poco inglese, lì dove sono immigrati di tutte le razze). Quando Jos lo porta in un ristorante di classe a bere cocktail raffinati. Quando va con O’Brien prima e con Jim poi in birrerie malfamate, dove gli americani tentano di convertirlo, inutilmente, al whiskey. Con un’ultima chicca nelle ultime righe: Maigret chiede ai suoi amici americani di mandargli un “appareil à disques”. Dove molti gridarono all’incongruenza, visto che il voltaggio americano non è utilizzabile in Europa. Peccato che, tuttavia, i “grammofoni” furono inventati solo nel 1948. Qui siamo due anni prima, e l’apparecchio di cui sopra non può che essere un “78 giri a gommalacca”, con la carica a manovella. Utilizzabile ovunque nel mondo. Per finire e tornare a Simenon, è un buon libro, dove il nostro autore cerca sempre più di far convergere la sua scrittura tra i romanzi del commissario e quelli “puri e duri”. Vediamo infatti atmosfere, descrizioni di personaggi e di luoghi, ed altri stati d’animo e di predisposizione delle storie, che fanno pensare, appunto, ad una “tranche de vie” raccontata dove casualmente un protagonista è, anche, commissario. Si sente, inoltre, che il Nuovo Mondo, ha dato nuova carica alla sua penna (o forse è stata la nuova segretaria?).

“Le vacanze di Maigret”
[tit. or.: Les vacances de Maigret; ling. or.: francese; pagine: 313 – 478 (165); anno 1948]
Non è un caso che passi più di un anno e mezzo perché Simenon metta mano ad uno nuovo Maigret lungo (lungo, perché a metà del ’46 aveva intanto scritto 4 racconti con Maigret protagonista). Anche se lo fa con un piglio deciso e con una sicura riuscita. Si avverte quasi che, nonostante il tema non sia allegro (parliamo sempre di inchieste e di morti), lo spirito dell’autore vola sulle ali di una interna contentezza. Infatti, ha cominciato ad apprezzare “la vita americana”, come la chiama. Dopo aver passato sei mesi nel Québec, si avvicina al sud con altri sei mesi a Saint Andrews, sempre in Canada ma vicino al confine con il Maine. Poi compera delle auto usate, e passa altri sei mesi a Sarasota, in Florida, sulla spiaggia (non a Miami che visitò e che non gli piacque). Quindi si sposta ancora, e nell’agosto del ’47 arriva a Tucson in Arizona. Queste zone saranno per lui un ritorno all’antico, ritroverà “le plat pays”, come direbbe Jacques Brèl, il suo nostalgico Belgio. L’altro elemento di allegria è il rapporto che si va consolidando con Denyse, soprattutto ora che Tigy è tornata per qualche mese in Francia, da dove tornerà anche con la tata Boule. Simenon ritrova al completo i suoi complicati intrecci d’amore e d’affetto (la sua vita con le donne meriterebbe un libro tutto suo). Questa allegria la riversa nelle simpatie di questo romanzo. Dove, per non far tornare subito nel pieno delle sue funzioni, fa passare il nostro commissario per un periodo di vacanze. E dove trascorrere le vacanze se non in quel Sables-d’Olonne, sulle rive atlantiche francesi, dove lui stesso passò alcuni mesi convalescente alla fine della guerra? Qui scatena un meccanismo ad orologeria perfetto. Si comincia con un attacco d’appendicite della signora Maigret, dopo un’abbuffata di cozze. La signora è ricoverata in ospedale, gestito da suore. Già questo rende ben visibile i contrasti tipici di Simenon: il grande commissario, pesante e sbuffante, in un ambiente che si rompe al primo tocco, cristallino come quello delle suore. Tutta la prima parte è un farci calare nell’ambiente, con i vari personaggi, con i bozzetti che a Simenon piacciono tanto. Suor Marie des Anges, diafana, delicata, giovane e preoccupata. La vicina di letto della signora Maigret, malata di cancro, ma acida e pungente.  I signori dell’hotel, dove va a bere un bianchetto, che inanellano lunghe partite di bridge: il dottor Bellamy, luminare locale, il commissario Mansuy, contento delle frequentazioni con l’illustre collega. L’albergo ed il calvados con il proprietario. Si crea l’atmosfera, e quindi si comincia a mettere delle zeppe nelle ruote oliate. La suorina lascia un sibillino messaggio nelle tasche del cappotto di Maigret. Una signorina muore in ospedale, dopo essere cascata accidentalmente fuori dalla macchina. È Hélène, la cognata del dottore. Maigret tenta di capire, tra il commissario locale ed il dottore stesso, cosa ci sia che non ruota, cosa ci sia che suona falso. In casa Bellamy, Maigret e Bellamy incrociano una ragazzina che fugge spaventata. Maigret tenta di ritrovarla, ma prima di lui la troverà qualcun’altro. Lucille muore strangolata. Scopriamo anche che pochi giorni prima, Émile, il fratello di Lucille, giovane di buone lettere e belle speranze, è misteriosamente scomparso per andare a fare il giornalista a Parigi. Ma Maigret, tramite il fido Janvier, scopre che Émile non è mai arrivato nella capitale. Su tutto aleggia la presenza della moglie di Bellamy, Odette. Che si dice bellissima, ma che non vedremo mai per tutto il romanzo. Mentre prosegue l’inchiesta ufficiale sulla morte di Lucille, affidata a due investigatori dall’evocativo nome di Piéchaud e Boivert (come non pensare ad una piccola parodia di Bouvard e Pecuchet di flaubertiana memoria?), Maigret segue una sua idea. Cercando di penetrare nell’animo della piccola cittadina. Che, ricostruita nella memoria ed a più di due anni dalla sua visita, ci viene riproposta con un’esattezza da Google Maps. Memorabile è lo scontro con le suore, in particolare con la Madre Superiora, da dove Maigret esce con la certezza che Hélène sapeva qualcosa, in particolare di un tagliacarte. Seguendo poi le possibili mosse di Odette, arriva alla sua amica sarta, Olga, ed al suo ruolo di chaperon verso il nascente amore tra Émile e Odette. Memorabile, per la sua costruzione dialettica, sarà lo scontro finale tra Maigret e Bellamy. Che sappiamo ormai colpevole, preso da una gelosia irrazionale ma totalizzante verso la bella moglie. Tanto da uccidere per non lasciarla andare via. Tanto da costruirsi un muro di donne prone al suo fascino, che lo aiuteranno sempre: la madre, la cameriera Jeanne, anche la stessa Hélène, che sul punto di morte rivendica la non colpevolezza del dottore. Inoltre, Maigret non ha una prova tangibile da mostrare in un possibile processo. Sarà in queste ultime trenta pagine che si consuma la maestria di Simenon (e di Maigret). Riuscirà il commissario a trovare il modo di far arrendere il dottore? Tutto da leggere questo finale. Ripeto, è una costruzione tipica del Simenon di alto livello. Si comincia piano, si introduce l’ambiente, i personaggi (anche qualcuno in più per sviare, se possibile, l’attenzione). Poi un dramma, un’inchiesta, una soluzione che Maigret ha già trovato pagine e pagine prima di noi. Infine lo scioglimento delle tensioni, l’arrivo al finale. Sempre con quell’amaro presente nei migliori Simenon. Che il mondo non è mai bianco e nero, ma di molto grigio. Il nostro autore l’ha ben presente, e qui ne fa corpo di una trama molto intensa. Non dimentichiamo, nella lettura del contesto, che il rapporto tra amore e gelosia è una costante del pensiero del nostro.
“Di che cosa parlava con sua moglie quando stavano insieme nella vita normale? Di niente, tutto sommato… Perché, allora, lei gli mancava tanto nel corso della giornata?” (317)
“Se ci fossimo detti addio, non avrei più avuto la forza di partire. … Sono molto maturato in questi mesi.” (429)

“Il morto di Maigret”
[tit. or.: Maigret et son mort; ling. or.: francese; pagine: 481 – 657 (176); anno 1948]
Come sappiamo, Simenon si è ormai sistemato a Tucson, in una villa in Franklin Street, molto grande e con una dépendance che il nostro userà come studio. Nella villa invece, vivono la sua segretaria-amante Denyse, la moglie Tigy con il figlio Marc ed ora anche la cameriera-amante Boule che finalmente è riuscita anche lei ad avere i documenti per vivere in America. Comunque è nello studio lontano dal corpo principale che scrive alcune delle più interessanti storie del periodo. Ad esempio “La neve era sporca” per i romanzi senza Maigret. E questo “morto” che racchiude alcuni momenti eponimi del commissario e del suo mondo. Intanto, Simenon fa tornare Maigret all’interno della sua Squadra Speciale, e del suo ufficio al Quai des Orfèvres. Quasi a far rinascere il personaggio dalle sue ceneri (dopo alcuni romanzi da pensionato; anche se per le strane leggi dell’editoria, in volume questo romanzo uscirà prima del precedente). A sottolineare questo nuovo inizio, c’è anche un ritorno all’antico. Che per molti versi, la trama generale del romanzo sembra ricalcare, in alcuni momenti, il primo romanzo di Maigret, quel “Pietro il Lettone” scritto ben venti anni prima. Malviventi che vengono dall’Est Europa, ricerca delle tracce attraverso stazioni, bar e alberghi. In alcuni momenti, sembra quindi fare una summa dei “topos” principali di Maigret stesso, ed un riuso sapiente di pezzi di storie seminati qua e là nel corso del tempo. Il bandito principale sembra un parente prossimo di “Stan il killer”, un personaggio di un racconto breve di dieci anni prima, molto simili a questo Bronsky (a parte il fatto che Stan è lituano e Bronsky ceco). Inoltre la storia della banda che semina il terrore nella regione della Piccardia (un centinaio di chilometri a Nord di Parigi) viene quasi interamente dal romanzo “Il fuorilegge”, dove però i cattivi erano polacchi. Tipico maigrettiano è invece l’approccio al cadavere, quando nel secondo capitolo si avvicina al morto cercando di studiarlo e di capire qualcosa dai vestiti, dalla postura. Tipico è l’utilizzo di un raffreddore accomodante per non rispondere alle domande dell’antipatico giudice istruttore. Tipico è l’utilizzo della propria casa, in boulevard Richard-Lenoir, come piccola dépendance del suo ufficio: quando è malato, quando parla con la moglie cercando di esternare i propri pensieri per renderli più chiari, quando discute a lungo con l’amico-rivale, l’ispettore Colombani. Tipico, ma come rovescio, è anche l’approccio anti-sherlockiano per capire che l’impermeabile del morto è stato strappato a posteriori. Sherlock avrebbe usato parole su parole per descrivere i tagli, la forma del coltello ed altro. Maigret prende un manichino, lo riveste degli abiti del morto e voilà ecco il risultato. Tipico, infine, è l’attaccamento alla casa di boulevard Richard-Lenoir, non solo nel senso di cui sopra, ma anche come luogo che gli rimandi punti fermi della sua vita (i muri, le finestre), nonché per la lunga passeggiata che da casa lo porta in ufficio (un tragitto di 2,5 chilometri che, confesso, ho fatto anche io tanto tempo fa, in uno dei miei tanti soggiorni parigini). Non tipico, ma divertente, è poi l’attacco, dove per tutto il primo capitolo ci sorbiamo una petulante vecchietta che cerca di coinvolgere Maigret in alcune sue fantasie, ma che, una volta entrati nel vivo, sparirà senza più tornare. Sparisce perché irrompe il dramma. Un uomo cerca di mettersi in contatto con Maigret telefonandogli da diversi bar (ah, se ci fosse stato il cellulare), dicendo di essere in pericolo. L’uomo non riesce a farsi trovare, ma sarà il cadavere che ritroviamo poche pagine dopo in Place de la Concorde. Da qui, scatta la seconda parte del romanzo: chi è, questo “morto di Maigret”? Altro uso di Maigret è lo sguinzagliare i suoi ispettori, sino a trovare le tracce di questo Albert Rochain, gestore di un bistrot ed amante delle corse dei cavalli. Appostamenti nel bistrot, portano alla scoperta di un ceco che si aggira furtivamente, per poi scappare. Victor, questo il nome del bandito dell’est, viene seguito ma finisce male per mano dei suoi stessi complici. Maigret ha però una traccia. E da Victor risale ad un albergo dove trova Maria (che non è ceca, ma slovacca), la donna della banda. Gli altri sono fuggiti, lei no in quanto incinta. Maigret lascia tracce enormi per fare in modo che gli altri componenti escano allo scoperto, perché tutti erano innamorati di Maria. Ci riesce, alcuni muoiono, altri vengono arrestati. Ma quello che più preme è il fatto che (però questo esce un po’ come il coniglio dal cilindro, che non ci si aspettava tutto ciò) la banda di slavi non era altro che la longa manus di un cattivo, il famigerato Jean Bronsky, anche lui ceco. Mentre i malviventi erano la bassa manovalanza, tra l’altro molto efferata, se si narra che Maria torturava i malcapitati e gli altri poi li finivano a colpi d’ascia. Con un finale molto americano, di inseguimenti e spari, la vicenda si risolve. Simenon però ci deve delle spiegazioni, che fornisce durante un colloquio tra Maigret e Nine, la moglie di Albert. Dove si capisce che tutto nasce da un biglietto ferroviario che Albert trova alle corse, che frequenta come Bronsky, e che lega Bronsky ad un viaggio in treno verso la Piccardia. Indizio assai labile, se Albert, nel miraggio di qualche entrata extra, non tenti un piccolo ricatto. Scatenando tutto il putiferio che avete seguito fin qui. Uno dei più lunghi romanzi di Maigret, che segna il suo ritorno al centro della scena. Quasi da studiare come un manuale esegetico e di riferimento delle sue gesta, se qualcuno ne fosse capace.

“La prima inchiesta di Maigret”
[tit. or.: La première enquête de Maigret (1913); ling. or.: francese; pagine: 661 – 828 (167); anno 1949]
Come sappiamo l’erranza di Simenon è ormai proverbiale anche qui in America. Dopo sei mesi di Tucson, dovendo riconsegnare la casa di Franklin Street, decide di acquistare due case nel villaggio di Tumacacori, quasi al confine con il Messico. Lì trasferisce tutta la “grande famiglia” con moglie, figlio e amanti. Qui Simenon dice di aver trovato un posto dove restare a lungo, forse anche per quel grande Parco, ora diventato Nazionale, forse per quella storia di missioni gesuite. Non è comunque un momento facile per la sua vita quotidiana, Tigy è insofferente, Denyse reclama di più. Simenon nella scrittura si rifugia nel più profondo americanismo (qui scriverà “Il fondo della bottiglia” uno dei suoi romanzi più americani) o nella nostalgia. Tanto che decide di dare una scena retrospettiva a questo suo personaggio, amato e odiato, ma che qui diventa protagonista del suo trentesimo romanzo. Non è certo poco (e vedremo come e quanto continuerà). Nella solita scrittura veloce (è anche il primo romanzo che scrive direttamente a macchina) in dieci giorni nel settembre del ’48 completa questa “Prima inchiesta di Maigret”. Inchiesta che si situa nel 1913, con un giovane Maigret di 26 anni, da quattro in varie assegnazioni poliziesche e da cinque mesi felicemente sposato. Visto che scrive avendo già dato ai lettori il senso di questo commissario (ricordo che nei precedenti 29 romanzi si è visto di tutto, dalle inchieste con inseguimenti, alle ricerche puntuali in alberghi e brasserie, fino ad alcuni romanzi in cui Maigret è già pensionato), Simenon si prende lo sfizio di darci alcune pennellate di quello che lui sta costruendo per il suo proprio Maigret personale. Svelandoci alcuni punti che erano e saranno caratteristici del commissario. Ma soprattutto dandoci quella definizione di “accordatore di destini”, che è il vero mestiere che il nostro Jules voleva fare. Aveva iniziato a studiare medicina, ma la morte del padre lo ha costretto a cercarsi un lavoro. Un amico del padre, grande capo al Quai des Orfèvres, lo induce ad impiegarsi nella polizia. Ora è segretario del commissario Maxime Le Bret, capo del commissariato del IX arrondissement. Tuttavia non vede l’ora (e cerca il modo) di avvicinarsi alla “Brigata Criminale”, quella che si occupa di omicidi e che “indaga”. Lì potrà accordare qualcosa, così pensa il giovane Jules. Anche altri sono i misteri che ci vengono svelati: l’amore per la stufa, che lo porterà a conservarla per sempre anche nel suo futuro ufficio che guarda la Senna dall’alto. Assisteremo, nel capitolo quarto, al famoso “scatto”, quel momento in cui tutto si ordina nella mente del commissario. Uno scatto che diventerà leggendario. Qui utilizza già una “malattia” per allentare qualche tensione e per risolvere l’inchiesta. Qui inizia la saga delle bevute, che appesantisco il nostro, ma che gli danno quella lentezza caratteristica e che tanto abbiamo amato (soprattutto nelle mirabili interpretazioni di Gino Cervi). Nelle more del romanzo, Simenon inzeppa anche la storia del borsaiolo che Maigret tenta di acchiappare, ma che, per una serie di disguidi, si rovescia, tanto che la gente pensa che sia lui, Jules, il ladro (storia che ricorderemo in futuri romanzi). Questa, di storia, incomincia con l’arrivo di un giovane flautista, Justin che tornando a casa dal lavoro, vede una macchina di lusso (una Dion-Bouton) parcheggiata di nascosto con il motore acceso, davanti ad una casa da dove si apre una finestra, una donna chiede aiuto, e si ode uno sparo. Justin chiede lumi, ma il maggiordomo che gli apre lo scaccia in malo modo, colpendolo con un pugno sul naso. Justin spiega tutto questo a Jules che decide di indagare. Senza cavare un ragno dal buco che nella casa sembra tutto a posto. La casa è quella della dinastia del Balthazar, i migliori produttori di caffè della regione. C’è il direttore Richard, trentenne spocchioso, e ci dovrebbe essere Lise, sorella ventenne e scapestrata. È tutto un romanzo d’atmosfera, all’inizio, che, tornato al commissariato, il suo capo gli fa capire che bisogna andare con i piedi di piombo presso i Balthazar. Le Bret è stato sovente a casa loro, sono gente del bel mondo. Ma c’è stata una denuncia, così si arriva ad un compromesso: Maigret continua ad indagare, ma in ferie. Mentre Justin rintraccia la cameriera Germaine che darà notizie utili sui rapporti interni a casa Balthazar, e sui rapporti esterni di Lise, Maigret rintraccia l’auto, gestita da un losco Dédé, ma che soprattutto è amico dello spiantato Bob conte d’Anseval. Anseval che è anche il luogo d’origine dalla famiglia Balthazar. Alla fine sapremo che tutto è legato ad un capzioso testamento del nonno Balthazar e che la vittima è proprio Bob. Nel frattempo, Maigret riesce a trovare Dédé, ma da questi è malmenato. Riesce a farlo arrestare, prima che si rifugga in Belgio, per fare una bella vita con i soldi avuti da Richard per toglierselo di mezzo. Tutti i tentativi di Maigret di portare avanti le indagini, però, anche se fa dei passi avanti, sono frustrati dalla gestione omertosa del bel mondo parigino. Che alla fine opterà per il minor male. Avremo però modo di vedere all’opera il mito di Maigret, il capo-ispettore Barodet cui sarà affidata la chiusura del caso. Non senza che a Maigret venga data una nota di merito che gli permetterò di entrare proprio nella squadra investigativa. Un romanzo ben costruito e che ci dà alcune chiavi di lettura di Simenon e di Maigret. La capacità dello scrittore di ricostruire ambienti e situazioni. Infatti ci da piombare nella Parigi di prima della Grande Guerra, con le velette delle signore, i caffè, i fiacre, nonché gli ambienti vicini a Pigalle. Il rapporto conflittuale sin dall’inizio che Maigret avrà con il cosiddetto bel mondo, e la sua empatia verso chi, per sfortuna e per caso, si trova ai margini della società. Nonché, per finire, il “metodo Maigret”. Non è importante infatti quello che è successo nella notte tra il 15 ed il 16 aprile nella casa Balthazar. Quello è solo l’epilogo della storia. Quando Maigret sarà riuscito ad entrare nei pensieri dei personaggi, gli sarà facile ricostruire chi ha fatto cosa e quando e perché. Una bella chiusura di romanzo.
Spero che queste ricostruzioni facciano piacere a mio cugino Alessandro, appassionato holmesiano, per comprendere analogie e differenze tra i due grandi miti. Continuiamo intanto a programmare gli itinerari israeliani e tutte le intense attività che ci vedranno in prima linea per tutto il mese di maggio.

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