domenica 9 aprile 2017

Repubblica Noir - 09 aprile 2017

Per un paio di anni almeno (ma forse sono di più e forse quest’estate riprenderanno) Repubblica presenta alcune lunghe sezioni di libri tematici in ambiente nero, poliziesco et similia. Purtroppo, in questa Domenica delle Palme, vi sorbirete un quartetto poco attraente. Tre libri di un “Giro del Mondo in Nero”, che vanno dalla Francia, al Brasile fino agli Stati Uniti, ed un non meglio precisato “Agenda Nera”, con un poco probante esempio di giallo inglese, di cui parlo già abbastanza male nella trama a cui rimando. Forse il solo che ha un minimo di interesse, per l’ambientazione è il brasiliano Bellotto. Per il resto, passerei al silenzio.
Antonin Varenne “Sezione suicidi” Repubblica MondoNoir 18 euro 7,90
[A: 03/11/2014 – I: 17/10/2016 – T: 19/10/2016] - && +
[tit. or.: Fakirs; ling. or.: francese; pagine: 267; anno 2009]
Non so se il termine “fachiri” del titolo originale abbia anche un significato specifico in qualche argot particolare francese. Sicuramente, se preso in senso letterario, si riferisce non solo ai ben noti auto-pungentesi indiani, ma anche a gente dello spettacolo che, inferendosi colpi al limite della mutilazione, intrattiene un pubblico di spettatori. Dal semplice fachiro del circo ai più complessi esempi di spettacoli ai limiti della morte autoinflitta in pubblico. Tutto questo panegirico di parole per evidenziare come si sia già perso, nella traduzione del titolo, la mira verso cui si dirige il libro di quello che viene considerato una stella nascente del “polar” francese. Certo, la sezione suicidi c’entra nella storia e vedremo bene come, ma il centro della stessa, cambiando titolo, viene spostato, e colpisce meno l’obiettivo. Il tutto, per concludere questa introduzione, mira nelle mie parole a dire quanto poco mi sia piaciuto il libro, di cui, data la crescente notorietà in patria dell’autore, mi aspettavo qualcosa di meglio. Invece risulta quasi un ibrido, con una parte che rasenta, senza raggiungerle, le vene neo-granguignolesche alla Enrico Pandiani, dall’altra tenta una replica, in dolenza più che in trasparenza, dell’ispettore Adamsberg di Fred Vargas. Il tutto condito da due storie che si intrecciano, lasciando vedere o sperare una soluzione non dico univoca quanto globale, e che poi si sfilacciano in un finale che non riesce a dipanare tutte le matasse che i fili del racconto avevano ingarbugliato. Una è la storia dello psicologo hippy John, autore di un saggio inedito sulla “sindrome di San Sebastiano”, una specie estrema della “sindrome di Stendhal”, dove si porta la vittima a diventare carnefice essa stessa. Per esemplificarla, John segue per anni le vicende di Alan, ex-soldato in Iraq, drogato, gay, di professione appunto fachiro. Che si infligge quasi mutilazioni in spettacoli estremi. John, figlio degli anni settanta, nato in una comune vicino Parigi da genitori americani, lì ritorna per vivere una strana vita boschiva, e per stare non tanto lontano da Alan che vive Parigi. Il tutto precipita con la morte in scena di Alan. Suicidio o omicidio? John è costretto a tornare nella civiltà per scoprire i motivi del gesto dell’amico, per capire la presenza di un corrotto funzionario americano, ex-istruttore in Iraq. E per far amicizia con Bunker, un ex-carcerato che vive come guardiano in un parco parigino. La sua ricerca lo porterà ad incrociare la strada del commissario Guerin e del suo aiutante Lambert. I due sono titolari appunto della “Sezione Suicidi”, una branca commissariale della polizia parigina, che si occupa di suicidi. Guerin c’è stato inviato in “punizione” per aver indagato sulla strana morte di Kowalski, un poliziotto, da lui sospettato di necrofilia. Il tutto porta Guerin, a poco a poco, sull’orlo (ed anche qualcosa in più) della pazzia. Vive con un pappagallo spelacchiato, indossa l’impermeabile della madre morta. Ed è convinto che, in una serie di sucidi che avvengono teatralmente a Parigi, ci sia una sorta di longa manus. Una specie di combriccola che, non si sa in che modo, spinga delle persone, già disturbate, a togliersi la vita in maniera plateale. Correndo nudi in mezzo al traffico. Gettandosi sullo scheletro di un capodoglio nel “Jardin des Plantes”. Ed altre stramberie. Nessuno gli crede, solo Lambert lo segue quasi affascinato come fosse dal canto di una sirena. Guerin sospetta che anche Alan sia stato spinto al suicidio. Per questo si incrocia con John. Fino alla scena madre, in un teatrino nelle viuzze intorno al Boulevard St. Michel (che ben conosciamo noi pariginofili). Dove sono presenti tutti: John, il cattivo Frazer, Guerin, Lambert, la bella Ariel. Scena madre risolutiva, almeno per la morte di Alan. Ma con tanti risvolti, che si accavallano nel convulso finale. Gli scherani del cattivo uccideranno anche Bunker. Frazer verrà rimpatriato. John decide di riprendere la vita “on the road” insieme ad un amico del padre. Guerin, risolto il giallo Kowalski, messi a tacere i cattivi della Omicidi, si avvia dolcemente verso la sua pazzia. Lambert viene costretto su una sedia a rotelle dalle ferite riportate e… Ma tutta questa parte è poco funzionale al resto. Non sapremo mai se le intuizioni di Guerin sui suicidi avranno un seguito. Intuizioni che lui segue con il suo pensiero laterale (appunto alla Adamsberg) ma senza la razionalità del personaggio di Vargas. E sapremo solo marginalmente le storie di Alan e compagnia (tra l’altro dove finisce la bella Patty?). Purtroppo Varenne sembra non saper gestire il finale, lasciando molti punti di sospensione, lasciando irrisolte situazioni che andavano portate meglio a compimento. Insomma, un giallo che si snoda bene, ma che ad un certo punto si perde, e non si ritrova più. Non sono riuscito a farmelo piacere, nonostante si svolga in una città che amo.
Tony Bellotto “Bellini e gli spiriti” Repubblica MondoNoir 14 euro 7,90
[A: 07/10/2014– I: 28/10/2016 – T: 30/10/2016] - &&& -     
[tit. or.: Bellini e os Espiritos; ling. or.: portoghese; pagine: 283; anno 2005]
Pur conoscendo molti autori in giro per il mondo, conosco poco della letteratura brasiliana moderna. E non conosco affatto questo autore, che mi si dice dividere la sua carriera tra scrittura e gruppi rock. Anzi, nasce come chitarrista, iniziando la sua attività nel 1975 (a soli 15 anni). Solo nel 1994, comincia a scrivere le storie dell’investigatore Remo Bellini, che sono arrivate all’ottava puntata. Qui Repubblica ci presenta il quinto volume. Al solito, quando ci sono storie seriali, è tutto demandato alla bravura dello scrittore farci capire qualcosa delle avventure anteriori, oppure lasciarci nell’ignoranza e far filare la storia come fosse unica. Bellotto si pone in una via di mezzo. Riesce, quasi, a fare una storia abbastanza compiuta senza bisogno di aggiunte, e ci dà qualche dettaglio della vita anteriore di Bellini. Purtroppo non in modo esauriente, lasciandoci un po’ di amaro in bocca. In particolare, quando si narra della morte del fratello gemello di Remo, mescolandosi, nella mente del nostro, con le strane ricerche del morto sui ragazzi morti in tenera età. Comunque, Bellotto riesce a darci un quadro decisamente esauriente e sconfortante, della città di São Paulo, sua città natale, e che ci si presenta con molta accuratezza. Con il suo traffico caotico come lo può essere in una metropoli sudamericana. Con il suo popolo di immigrati. E con le conseguenti bande “mafiose”, di cinesi, giapponesi, coreani, ed altre etnie. Ma questo è solo il contorno della storia, che si avvolge intorno alla strana morte dell’avvocato Arlindo Galvet, durante la maratona di San Silvestro (attento, fratello!). L’agenzia di Dora Lobo al cui soldo lavora Bellini, viene investita delle indagini, attraverso messaggi anonimi e soldi di strana provenienza. Ma sembra che nessuno, a parte Bellini, sia convinto di un possibile omicidio. Tra l’altro Arlindo era un tipo assai strano: avvocato, ma prendeva solo cause poche complicate, viveva per la corsa, e faceva collazione di ritagli di bambini morti in tenera età. Inoltre, faceva parte di un gruppo spiritista, che cercava di evocare appunto gli spiriti dei disincarnati (così nel linguaggio della setta vengono chiamati i morti). Mentre Bellini cerca qualche lume, barcamenandosi tra le sue “conquiste” femminili (su cui torniamo), facciamo conoscenza di Rubens, il capo degli spiritisti, e di uno strano cinese che segue Bellini nell’ombra. Tra l’altro, prima che Rubens riesca a parlare con Bellini, anche lui muore, come poco dopo succede al cinese Ping. Sappiamo che nella società brasiliana, spiriti e santoni non vengono “esclusi” dalla vita comune, diventando quasi presenze concrete. E così ce ne dobbiamo abituare nel prosieguo della storia di Bellini. Dove (e veniamo alle donne) nel corso delle indagini, non può dimenticare gli appuntamenti con Cris, una donna sposata che lo usa come oggetto sessuale, né riesce a schivare gli approcci della segretaria di Arlindo, ma poi riesce a trovare una pace sessuale con sé stesso con la men che ventenne giapponese Tati (che è almeno di 16 anni più giovane di Bellini). Ma intanto c’è una frase di Rubens durante una seduta spiritica, ed una frase scritta su di un pezzo di carta indicante una data ed un nome di donna che mettono pian piano Bellini sulla strada giusta. C’è un intermezzo inutile di una indagine parallela che Bellotto ci poteva risparmiare. La frase riguardava qualcosa collegata al volo, la donna si scopre essere all’epoca una hostess, la data si riferisce alla morte violenta della figlia della stessa hostess da parte di due adolescenti violenti, che non pagheranno il fio della loro malefatta. Nessuna sorpresa che uno dei due sia proprio Arlindo. E che tutte le morti siano perpetrate da quella signora, ovviamente non più hostess, per spirito di vendetta. Non vi dirò certo che sia (anche se io avevo pensato a lei fin dal primo funerale). Né vi dirò quante altre e dolorose morti avvengano nella storia. Che se non brilla per la parte poliziesca (a volte trattata con troppa sufficienza), è simpaticamente leggibile nelle parti dedicate a Bellini ed alle sue storie, ed al suo girovagare per la città, a bere nei bar, a mangiare in giro (visto che il suo frigo è sempre vuoto). Per questo ho fatto salire un poco i libricini di gradimento. Anche se non so se cercherò in giro altro del buon Bellini, di cui preferisco la versione cocktail (vino bianco frizzante e polpa fresca schiacciata di pesca bianca).
“Non trovi strano che una persona, al giorno d’oggi, non abbia una televisione in casa?” (76) [non lo trovo strano, basta venire a casa mia…]
George Pelecanos “Non temerò alcun male” Repubblica MondoNoir 16 euro 7,90
[A: 20/10/2014– I: 30/10/2016 – T: 02/11/2016] - && --
[tit. or.: The Sweet Forever; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 1998]
Sfortunatamente Repubblica si ostina ad inserire i libri di George Pelecanos nelle sue collane. Ed io, altrettanto sfortunatamente, continuo a comprarli e leggerli. Inoltre, sempre per la stessa sfortuna attuale, questo secondo libro del nostro oriundo greco, è purtroppo stato scritto prima del primo che ho letto. Per cui, alcune cose le conosco già, anche se, fortunatamente, visto la poca presa che ha su di me l’autore, tendo a dimenticarle. Come tenderei a dimenticare questo autore, che, appunto, non mi sembra apporti delle grandi novità. Intanto non è un Noir, ma una fotografia (o un video-clip) di un momento americano, in particolare tre giorni del marzo 1986. Una sorta di hard- boiled in salsa zaziki. Che, per l’appunto, Pelecanos ha ascendenze greche, ed uno dei personaggi che si muovono per questa serie di libri è tal Dimitri Karros, qui, oltre che greco, cocainomane ed un po’ fuori di testa. L’altra parte dell’universo di Washington che si aggira per queste pagine è per lo più nera o afro-americana o qualsiasi altro termine politicamente corretto. Anche se questi neri sono quanto meno divisi in tre fasce: i buoni-buoni come Marcus Clay, che fonda una catena di negozi di dischi, aprendone uno anche in una zona poco raccomandabile della capitale; i buoni-cattivi (o i cattivi-buoni) come l’agente Murphy, corrotto con anima gentile, o Alan, gentile ma con cattive frequentazioni; i cattivi-cattivi come Tyrell capo della banda di spacciatori o Morgan adolescente dalla pistola facile. Non ci sono gialli o misteri o cose particolarmente intrigate da risolvere. Pelecanos accompagna i nostri personaggi in tre giorni della loro vita, da dove, ovviamente, usciranno molto cambiati, oppure morti. Il tutto comincia da un incidente con una macchina che si schianta davanti al negozio di Clay. Lì vicino c’è Eddie che aspetta che la sua donna esca dal negozio dove ha incontrato Dimitri che le procura la coca. Nella macchina in fiamme Eddie vede una federa piena di soldi ed incoscientemente la ruba e fugge. Poco giudizio, che quelli sono soldi di Tyrell lo spacciatore, che ben presto organizzerà una caccia all’uomo per recuperarli. Su questo plot si intrecciano le altre storie. Quella di Alan che ama Denice, ma che si accorge di non poterle dare quello che desidera finché frequenta un certo mondo. Quella di Anthony, che vive in strada perché la madre si sta disintossicando lontano e la nonna non se ne cura, ma che sarà aiutato proprio da Clay. Quella di Tutt e Murphy, i due agenti di pattuglia al servizio di Tyrell. Ma mentre Tutt è corrotto e razzista, Murphy ha dei bagliori di umanità. Tutt è bianco e continua a fare battute anti-nere per tutto il libro. Murphy si fa corrompere perché pensa di adottare un ragazzo, poi la moglie dà fuori di testa, lui non riesce a venirne fuori, finché… Quella di Chief e di P-square due ragazzini di 11 anni, neri, che non sanno far altro che imitare i loro fratelli maggiori, finendo però in un gioco più grande di loro. Quella degli accoliti di Tyrell, uno più antipatico e sordido dell’altro, a cominciare da Morgan senza speranza, e che faranno una fine degna di loro, ma non vi dirò come. Quella di Donna e Eddie, messi alla prova dal furto, e, probabilmente, salvati da Murphy. Quella di Clay e dei suoi amici, che passano il tempo a vedere le partite di basket universitario in televisione e ad ascoltare dischi (visto che li vendono) di autori per il 90% a me ignoti. Ma che non scordano il loro recente passato (quasi tutti reduci dal Vietnam) e quando c’è da menare le mani, si muovono eccome. Quella, infine, di Dimitri, con la sua droga, il suo passato di docente di scrittura universitaria, la sua deriva, le sue scopate di straforo, e, forse, un barlume di speranza verso il futuro (andate a rivedere il commento del primo libro di Pelecanos che ho letto, se volete saperne di più). Ma sono tutte storie che, pur intrecciandosi, non prendono. Anche perché nessuno dei personaggi assurge ad un ruolo di decisiva simpatia, nessuno è simpaticamente attraente. Forse il solo Clay, ma non ha una personalità tale nel corso della storia da poter diventare un riferimento. Avrebbero dovuto esserlo Dimitri o Murphy, ma a me entrambi non stanno simpatici fino in fondo. L’unico dato che rileverei al finale, è il risalto che viene dato al degrado della capitale americana. Degrado che riflette quello di tutta la società. Lotte razziste tra bianchi poliziotti e neri spacciatori, dove spesso ci vanno di mezzo assoluti innocenti. Invasione di droga e criminalità a tutti i livelli (non a caso Pelecanos fa anche delle sparate contro il potere e la corruzione del sindaco) indizio di una corruzione che si andava diffondendo, che si è approfondita negli anni, ed un degrado sociale che rischia di portare alla presidenza oggi, trenta anni dopo, un impresentabile Trump. Insomma, l’ho letto, non mi è piaciuto. E ne leggerò altri solo su costrizione.
“[La nonna] non era nemmeno così vecchia, doveva avere quarantasei anni o giù di lì.” (61)
“L’importante … è godersi quello che fai ogni stramaledetto giorno.” (280)
Alan Bradley “Aringhe rosse senza mostarda” Repubblica Agenda Noir 13 euro 7,90
[A: 01/10/2015– I: 01/04/2017 – T: 05/04/2017] - && ----
[tit. or.: A red herring without mustard; ling. or.: inglese; pagine: 341; anno 2011]
Sono d’accordo con una serie di critiche e recensioni che ho letto riguardanti questo libro: la cosa migliore è il titolo! Ma se da una parte, “red herring”, da solo, è nello slang inglese un “fatto che distoglie l’attenzione dal problema centrale”, ed è spesso tradotto come “falsa pista”, l’epigrafe del nostro autore si riferisce ad una commedia, coeva di Shakespeare, che tratta della caduta biblica della città di Ninive, e dove un clown, in un intermezzo comico del primo atto, accosta temerariamente “l’aringa rossa senza mostarda” ad “una birra senza donne o un uovo sodo senza sale”. Non volendo entrare nella testa dell’autore, ci accontentiamo di un titolo divertente, cominciando però dal resto dei contenuti e dei contorni che meno mi hanno convinto. Come a dire che la confezione del volume, la sua idea ed il suo inserimento in questa collana lascia alquanto a desiderare (o forse questo è il falso indizio che i curatori ci vogliono offrire). Intanto l’autore, poliedrico canadese, nella terza di copertina è fatto nascere nel 1940, mentre tutti i riferimenti (su Wikipedia ed altro) lo datano al 1938 (scarsa attenzione alle fonti). In secondo luogo, è un “serial book” basato sulle azioni e le investigazioni della pur simpatica Flavia De Luce ed ambientato in Inghilterra intorno al 1950. Peccato, appunto, che essendo seriale questo sia il terzo libro della collana, che contiene rimandi interni che, magari, una piccola sinossi introduttiva avrebbe meglio potuto collocare. Infine, la suddetta Flavia è un’intraprendente ragazzina di 11 anni. E questo sarebbe un libro ben collocabile in quella diversa collana di Repubblica (i “Noir junior”) dove poteva trovare un suo dignitoso spazio. Qui invece si colloca in una collana di Noir maggiori (possiamo dire per adulti?) e non ne ha il peso. Tra l’altro mi domando come mai, da questo libro (appunto il terzo) in poi e per altri tre o quattro sia stato pubblicato da Sellerio, in genere editore attento a queste forse per voi minuzie, mentre avrebbe avuto un suo spazio ed una sua migliore esposizione presso che so Salani. Dispiace quindi che queste avventure, collocate in altro spazio, avrebbero predisposto meglio il lettore, che invece, come ho fatto io, segue pagina dopo pagina le vicende, scorrendo l’intento umoristico dell’autore, con battute ed altri sagaci elementi. Che a me personalmente non riescono a coinvolgermi. Solo in una letteratura per ragazzi si può saltare di punto in bianco da un’azione all’altra, si possono evitare spiegazioni su quanto succede, ed altri atteggiamenti giovanilistici, che qui, invero, hanno il solo risultato di innervosire ed aspettare di arrivare alla fine. Per tirar fuori il meglio, vi dirò che Flavia, undicenne precoce, vive con le due sorelle maggiori (Dafne e Ofelia) in una magione della campagna inglese, con il padre già colonnello ed ora attento filatelico, ed una madre che alcuni anni prima scompare misteriosamente in Tibet. Flavia ha un talento particolare per la chimica e per intrugli vari, nel suo laboratorio ereditato da uno dei tanti parenti citati qua e là nel libro. Oltre a questo, è sempre in vigile attenzione per evitare gli scherzi delle sorelle, e per restituir loro pan per focaccia, una volta subiti gli scherzi stessi. La vicenda prende l’avvio da una visita ad una zingara, Fenella, che predice il futuro (ovviamente imbrogliando), cui Flavia inavvertitamente brucia la tenda. Dispiaciuta, Flavia nottetempo va a trovare Fenella riuscendola a salvare, visto che è stata quasi massacrata a colpi di sfera di cristallo. Tornando a casa, inoltre si imbatte in Brookie, uno scanzonato giovanotto, dedito a qualche losco traffico, visto che entra ed esce da casa De Luce, magari con qualche argenteria in tasca. Mentre aspetta che Fenella si riprenda, Flavia scopre che: Fenella era stata lì anni prima, accolta dalla madre Harriet (quella che poi scompare), che era stata coinvolta in uno scandalo (pare il rapimento della piccola Bull), che era stata scacciata dal cerbero padre. Per cercare luci maggiori, Flavia torna al carrozzone della zingara, dove trova la di lei nipote quasi ventenne Penelope. Nasce un conflittuale rapporto di amicizia tra le due, nonostante la differenza di età. E per curare Penelope, tornando a casa, le due scoprono il corpo di Brookie appeso alla fontana di Poseidone. Flavia comincia allora le sue investigazioni scoprendo che nel Settecento la zona era popolata da una setta eretica di cristiani detta “Claudicanti” (indovinate perché?), che alcuni di loro sono ancora tuttora attivi, che tra questi c’era sia la signora Bull sia un rigattiere che utilizzava Brookie per rubare oggetti d’arte che poi faceva replicare dal marito della signora Bull, e che poi restituiva (ovviamente restituivi i falsi). Tutte queste false piste porteranno alla scoperta del cadavere di una bambina (quella finto-rapita) che probabilmente è morto annegata al tempo del battesimo dei Claudicanti (che avveniva per immersione in acqua). Scopre anche che la morte di Brookie è accidentale, che la madre dello stesso è una pittrice (ma quando la va a trovare non sembra sia addolorata come dovrebbe essere una madre che perde un figlio), che la pittrice fece undici anni prima il ritratto alle donne De Luce (Harriet, Ofelia, Dafne e Flavia). Ma tutte queste considerazioni vengono fatte in poche pagine finali, annegate in peregrinazioni (fisiche e mentali) della pur simpatica Flavia. Il punto di svolta (che in italiano si perde presto) è il sogno di Penelope che vede colpevole un toro rosso di tutti i misfatti. Ovviamente noi capiamo che in qualche modo c’entri la famiglia Bull (cioè Toro), la quale è tutta composta da persone con i capelli rossi. Insomma un libro che letto in altri contesti e con altre spiegazioni poteva avere un suo perché, lascia un sapore di incompiuto ed un odore di marketing che poco piace a me che sto imbastendo queste trame. Sono molto, molto dispiaciuto.
Seconda trama del mese, quindi, come ormai sapete, un bell’allegato dedicato alla Maternità, visto che tra qualche mese diventerò anche BisZio grazie a mia nipote Federica.
Pare quindi che in Israele, bene o male, ci si vada, anche se ci sono ancora svariate settimane di preparazione. Intanto si avvicina anche il riposo pasquale, per tutti meritato. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2017
Un mese dedicato alla maternità, ma più che altro, alla gestione della famiglia, quando si hanno figli piccoli e mariti poco collaborativi.

MATERNITÀ

Barbara Comyns          “I miei anni a rincorrere il vento”
Allison Pearson            “Ma come fa a far tutto?”
«‘‘Non sopporto l’idea di fare il papà e spingere il passeggino!” disse George. Allora risposi: “Nemmeno io voglio fare la mamma, accidenti; me ne vado”. Poi però mi ricordai che se me ne andavo il bambino sarebbe venuto con me ovunque. Mi sentii soffocare e scoppiai a piangere».
Questo brano tratto da “I miei anni a rincorrere il vento”, romanzo ambientato negli anni Trenta, lo potrebbero stampare sulle confezioni di pillole anticoncezionali come promemoria di cosa significhi davvero avere un bambino. Quando c’è, c’è sempre, e voi ne siete responsabili, che vi piaccia o no. (A meno che, ovviamente, non siate la protagonista di “Inseguendo l'amore” di Nancy Mitford, che abbandona la figlia perché sia allevata dalla sorella Emily. Anche questo è un modo per affrontare la maternità: far lavorare gli altri al posto vostro).
La maternità non può essere guarita, ma esistono dei trattamenti da somministrare, e il romanzo autoironico e in gran parte autobiografico di Barbara Comyns è un ottimo punto di partenza. Sophia è una ragazza inesorabilmente ottimista, che si sposa troppo giovane, gira con in tasca un tritone che si chiama Great Warty e non è assolutamente pronta a diventare madre. Lei e il marito sono due convinti bohémien ripudiati dalle famiglie che vivono grazie ad alcuni assegni trovati in un cassetto e guadagnano qualche soldo facendo da modelli per alcuni artisti mentre Charles dipinge i propri quadri. Sophia non ha un bambino, ma addirittura due, e la scarsa volontà di Charles a fare concessioni alla paternità non fa ben sperare per la loro. Le terribili esperienze vissute da Sophia in ospedale sono già sufficienti a scoraggiare molte future madri, ma la sua capacità di riprendersi dopo le peggiori disavventure - come quando la suocera prima giura di non andare al matrimonio, e poi arriva con sciami di parenti e si aspetta di essere ospitata nello squallido appartamento della nuova coppia - fa di lei una compagnia vivace e positiva. Passa da un lavoretto all’altro, e spesso mantiene la famiglia da sola, mentre Charles continua a credere di avere un grande talento e che la paternità non può mettergli i bastoni fra le ruote.
Tutto questo, alla fine, rappresenta una versione estrema di quella che è l’esperienza di molte nuove madri, ma l’umorismo anticonformista e tonificante, insieme alla voce ammaliante di Sophia, farà sì che molte donne ridano con lei mentre fa del suo meglio per giocare alla famigliola felice senza alcun aiuto da parte del marito. Se ne avete appena avuto uno, eviterete di sbattere la testa contro un muro per diversi anni, facendo vostro il suo spirito di sopravvivenza.
Per una visione più moderna della maternità, “Ma come fa a far tutto?” di Allison Pearson è una divertente analisi delle abilità da giocoliere necessarie a mantenere un ottimo lavoro, un amante, l’apparenza di un matrimonio e al contempo fare la mamma. Il libro inizia con Kate Reddy, trentacinque anni, sveglia alle 1.37 del mattino del tredici dicembre, che «maltratta» tortine di frutta secca comprate da Marks & Spencer per farle sembrare fatte in casa. È decisa almeno a sembrare una «buona madre», una donna «pronta a sacrificare tutto per cucinare una buona torta di mele, un’indefessa sorvegliante della vasca da bagno» oltre che una madre «dell’altro tipo», quello che tutti criticavano negli anni Settanta della sua infanzia.
Di giorno Kate gestisce fondi per una società della City, dove il suo capo le guarda il seno «come se fosse in offerta speciale»; lavora fino a tardi, il suo unico svago è una storia d’amore via e-mail con Jack Abelhammer, un uomo troppo bello per essere vero. Si preoccupa continuamente di perdere i momenti importanti nella vita dei figli («Oggi è il primo compleanno di mio figlio e io sono seduta in cielo proprio sopra Heathrow») e si infuria contro il mondo misogino che l’ha messa in quella situazione. Il suo matrimonio sembra un’eredità del secolo scorso, perché è lei che si fa carico di tutto quello che riguarda i figli, delle faccende domestiche e di andare avanti e indietro con la scuola, da sola o con il telecomando.
Pearson scrive con tanto umorismo che leggere questo romanzo sarà una vera sfida per i muscoli del vostro pavimento pelvico, messi già a dura prova dal parto. Se non siete ancora entrate nel paese della maternità, ma siete curiose di sapere cosa succede al di là del confine, questo romanzo servirà a mettervi in guardia contro la pretesa di «avere tutto». Chi vive già certe situazioni, invece, si divertirà moltissimo a guardare Kate Reddy che si prepara per la sua prossima mossa - e continua a destreggiarsi tra il matrimonio, la carriera e i figli. Leggete questo romanzo, e fatevi coraggio. Si può avere tutto, basta ricordarsi di tenere a portata di mano un matterello per dare qualche colpo alle torte comprate in pasticceria.

Bugiardino

Ho letto solo uno dei due libri proposti dalle nostre libropeute, ma essendo nel corpo del discorso citato anche un ulteriore testo, che ho letto, ve lo aggiungo gratis (e sono entrambi bei libri).
Barbara Comyns “I miei anni a rincorrere il vento” BUR euro 10
[trama pubblicata il 24 maggio 2015]
Poiché il libro mi è piaciuto, e ringrazio le mie libropeute di “Curarsi con i libri” che ne consigliano la lettura a chi non sa come affrontare (e vincere) la maternità, comincio con l’unico punto dolente: il titolo. Certo, l’originale è poco comprensibile se non si sa chi è Woolworths (la grande catena di magazzini a basso prezzo, nata in America, ma dagli anni Venti insediatasi anche in Inghilterra) e non si conosce Rachel Ferguson che, negli anni ’30 scrisse un romanzo intitolato “Le sorelle Bronte vanno da Woolworths”. Insomma, il magazzino è sinonimo di povertà (tipo i nostri UPIM degli anni Sessanta), e comprare lì i cucchiaini è indice di scarsissima agiatezza. Infatti tutto il libro, oltre che sulla maternità, è incentrato sulla povertà e sulla ricerca di una propria strada da parte di Sophia, alter-ego della scrittrice. Anche perché, seppur nel solito travisato modo della scrittura, parte della giovinezza di Barbara si ritrova nella storia di Sophia. Quella che dopo poche righe ci fa tornare ai venti anni dell’io narrante, ed all’inizio della sua storia di vita e d’amore. L’incontro in treno con il fascinoso pittore Charles. L’amore a prima vista. La convivenza, poi la decisione, contro ogni regola ed ogni suggerimento, di sposarsi. Sophia fa mille lavori per potare a casa qualche penny, Charles è un artista. Ha genitori separati, con una madre presupponente che non fa altro che intervenire nella loro vita solo per sapere se il padre dà loro soldi (così da poterne chiedere lei). Ed un padre che più assente di così non si può. Sophia e Charles sono dei veri bohèmien degli Anni Trenta, senza soldi appunto, e lei che gira con una salamandra in tasca. Sophia ci racconta la ricerca quotidiana di qualcosa da mangiare, di lavoretti, di prestiti, di banchi dei pegni. E poi della maternità, che Charles rifiuta. Che Charles è un artista, e si preoccupa solo se non ha i soldi per le sigarette. Bellissime sono le pagine del parto in ospedale di Sophia (capitoli 10 e 11). Si continua a leggere e ad incazzarsi per la remissività di Sophia, per l’inconsistenza di Charles, per l’arroganza della madre. E mentre il bambino cresce, Sophia rimane incinta per una seconda volta e nasce una piccola e delicata bambina. Charles fa sempre più lo stronzo, rifiutando lavori poco rappresentativi ma remunerativi. E la coppia cade sempre più in povertà. Ma è solo Sophia che ne patisce. Siamo nella discesa agli inferi, ed infatti Sophia capendo che sta precipitando, cerca di staccarsi dall’artista maledetto, ma la sua estrema povertà e mancanza di aiuti, la conduce ad un momento di totale indigenza, tanto che la bambina muore. Da qui, anche se già si notava che Sophia andava maturando pagina dopo pagina, lei prende coscienza. Lascia l’ignobile, tramite degli amici trova posto fuori Londra come governante. Ci si trasferisce con il figlio, dopo un lungo periodo di riabilitazione mentale. E lì finalmente trova una sua dimensione. Sa cucinare, sa mandare avanti la casa. Non è più la scapestrata della giovinezza, quella che senza soldi si metteva sulla scia del gruppo di letterati alla Virginia Woolf. Certo la seconda parte è meno disperata, ma rende conto appunto della maturazione pur con la costanza di rimanere sé stessa. Finalmente divorzia da Charles. Naturalmente continua a far crescere il figlio tanto amato, di cui sembra una sorella maggiore (l’ha avuto sulla soglia dei venti anni). È ben voluta in quella casa. Ed alla fine trova anche un altro artista che con sensibilità e caparbietà si conquista passo dopo passo un posto nel suo cuore. Poi in quella del figlio. Il libro si chiude con questo messaggio di speranza e fiducia nelle possibilità di uscire dalla crisi se cerchiamo in noi stessi i motivi della crisi stessa e le risorse per superarla. Questa fa Sophia, e noi con lei ad aiutarla ad uscire da UPIM per entrare alla RINASCENTE. Come si diceva, poi, è anche una specie di semi-autobiografia, che anche Barbara si sposa giovane con un artista scapestrato, e vive i primi anni della sua ventina alla ricerca di conciliare il pranzo con la cena. Anche lei farà due figli, che però non moriranno. Ed anche lei troverà il modo di sganciarsi dall’ambiente malsano. Poi il suo percorso sarà diverso, che incontrerà un nuovo amore, che la farà uscire per sempre da questa povertà. Peccato che il suo nuovo uomo sia un amico di Kim Philby, e per allontanarsi dall’Inghilterra in un momento di pericoloso spionaggio, accetta di vivere nella casa spagnola della spia russa. E Barbara vivrà per 16 anni vicino a Barcellona poi in Andalusia, ritornando a Londra solo dopo più di venti anni, a metà degli anni Settanta. Ma torniamo e finiamo con il libro, con le lacrime di dolore per Sophia, con la speranza di un mondo diverso per chi lotta con tutta sé stessa. E se ne conoscono esempi. Un altro buon libro!
“Quando ci arrivai era molto meglio di come me l’ero aspettata. Di solito è così con le cose che temiamo: solo le cose che desideriamo vanno completamente storte.” (180)
Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” Giunti s.p. (regalo di Sara&Giampaolo)
[trama pubblicata il 21 febbraio 2016]
Libro nato dalla congiuntura di una segnalazione delle ormai troppo citate libropeute e dal desiderio dei due carissimi S&G di farmi come gradito regalo un mega-buono feltrinelliano. E libro che non si apprezza fino in fondo se non si segue anche un po’ di contesto. Che ad una lettura diretta (la prima che ho dato) è un libro gradevole con qualche puntata verso il divertente. Poi ho approfondito il personaggio – autore e la lettura si è approfondita di tutto il contorno che Nancy Freeman-Mitford si porta appresso. Come figlia primogenita di David Freeman-Mitford, secondo Barone Redesdale, come una delle sei “sorelle Mitford” che riempirono la scena londinese nel periodo delle due guerre, come pronipote di quel Bertie Mitford (il primo Lord della famiglia) che s’imparentò con la casata di Ogilvy, conti di Airlie, dove un loro discendente sposò la principessa Alexandra, cugina della regina Elisabetta II. Ed a proposito delle “sorelle”, da segnalare da un lato dello “schieramento politico” Diana (che prima sposa un Guinness erede della birra omonima, poi sir Mosley, capo indiscusso del Partito Fascista Britannico, a cui darà il figlio Max ora uno dei grandi capi della Formula 1 automobilistica) e Unity (che cercò la morte per il conflitto di essere inglese e seguace di Hitler) e dall’altra Jessica (fuggita in USA ed una dei leader del comunismo americano). In mezzo a tutta questa confusione (vogliamo ricordare tra l’altro che la figlia della zia materna sposò Winston Churchill, e che il nonno materno fu il fondatore di “Vanity Fair”?) si colloca la nostra scrittrice ed il suo romanzo. Fatte tutte queste premesse, qualcuno si sarebbe aspettato un romanzo alla Casati Modignani o Danielle Stell. Ed invece, pur avendo dei tratti singolarmente convergenti, la scrittura di Nancy ci porta altrove. Sicuramente ad uno sguardo ironico sulla società presente. Non è un caso, che, ironia per ironia, negli anni Cinquanta la scrittrice divenne la maestra dello snobismo inglese scrivendo una dissertazione sulla distinzione tra i termini U e quelli nonU (intesi come Upper e nonUpper class, dove ad esempio i primi usano il termine graveyard ed i secondi cemetery, come da noi i primi userebbero camposanto ed i secondi cimitero). Con questo sguardo ironico, seguiamo allora la vita di una tipica famiglia U, che vive in campagna, con padre alla camera dei Lord, e figlie femmine con istitutrici (perché una donna che studia è nonU). La storia è narrata da Fanny, la cugina che entra ed esce dalla famiglia, che ha i genitori divorziati e vive con la zia Emily. Fanny ci parla un po’ della sua famiglia: quasi nulla del padre, molto di sfuggita della madre molto amata, chiamata in famiglia la Puledra, perché scalpita ed entra ed esce da situazioni amorose le più improbabili. Ma soprattutto, Fanny ci parla di sua cugina Linda, sua coetanea, con la quale condivide gioie e pene dell’adolescenza, con la quale cresce insieme, e che lei prende (inconsapevolmente lei, consapevolmente Nancy) come esempio di rotture nel tessuto borghese degli U. E con lo sguardo di Fanny vediamo Linda convolare a nozze con il banchiere Tony (di progenie tedesca e quindi inviso allo zio Matthew). Fa una figlia, Moira, che non riuscirà mai ad amare. Mentre Fanny sposa un decano di Oxford con il quale condurrà una vita ritirata ed amorosa, Linda, dopo nove anni di matrimonio s’innamora perduratamene di Christian, un comunista di razza. Christian pensa alle rivoluzioni e non agli uomini, s’imbarca in situazioni sempre più improbabili. Siamo nella metà degli anni ’30, e Christian e Linda si trasferiscono a Perpignano, per aiutare i profughi della guerra civile spagnola. Lì incontrano Matt, il fratello di Linda fuggito in Spagna a combattere. Ma soprattutto c’è Lavander, una vecchia amica londinese. Quando Linda si accorge della passione tra lei e Christian decide di lasciarlo e di tornare a casa. Ma a Parigi finisce i soldi, e lì incontra casualmente ma proficuamente il ricco duca Fabrice de Sauveterre, di cui ben presto diviene amante e mantenuta. Scoppia la seconda guerra mondiale. Fabrice, che lavora per i Servizi segreti, rimanda Linda in Inghilterra. Lì Linda si scopre incinta, anche se i medici le avevano sconsigliato un nuovo parto. E durante i bombardamenti si ritrovano tutti riuniti. Fanny, anche lei incinta, la madre di Fanny con il suo nuovo amante, il simpatico cuoco spagnolo Juan, quel che resta dei fratelli Radlett, e Linda. La quale, benché Fabrice sia alquanto stralunato, sa di aver con lui trovato finalmente l’amore che inseguiva da tutta la vita. In una cupa notte, Fanny e Linda partoriscono, ma Linda non sopravvive al parto. Arriva anche la luttuosa notizia della morte in guerra di Fabrice. Fanny allora decide di adottare il figlio di Linda e di chiamarlo Fabrice. Quanti avvenimenti in meno di trecento pagine. Allietati da una scrittura coinvolgente, che alla fine, con le premesse che ho detto in apertura, mi ha convinto ad assegnare un buon posto al libro, ed una menzione alla scrittrice nel mio pantheon letterario.
“I compagni sono molto cari, ma non chiacchierano mai, fanno solo discorsi.” (127)

Conclusioni


Credo che questa volta posso concordare in pieno con i libri suggeriti, e forse se ne potrebbero aggiungere altri, a continuare a sostenere le tesi presentate. Ad esempio “Angel” di Elizabeth Taylor o “Mildred Pierce” di James M. Cain. Ma intanto suggerisco la lettura di questi, se non lo avete fatto.

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