Per un paio di anni almeno (ma
forse sono di più e forse quest’estate riprenderanno) Repubblica presenta
alcune lunghe sezioni di libri tematici in ambiente nero, poliziesco et
similia. Purtroppo, in questa Domenica delle Palme, vi sorbirete un quartetto
poco attraente. Tre libri di un “Giro del Mondo in Nero”, che vanno dalla
Francia, al Brasile fino agli Stati Uniti, ed un non meglio precisato “Agenda
Nera”, con un poco probante esempio di giallo inglese, di cui parlo già
abbastanza male nella trama a cui rimando. Forse il solo che ha un minimo di
interesse, per l’ambientazione è il brasiliano Bellotto. Per il resto, passerei
al silenzio.
Antonin Varenne “Sezione suicidi” Repubblica MondoNoir 18 euro 7,90
[A: 03/11/2014 – I: 17/10/2016 – T: 19/10/2016] - &&
+
[tit. or.: Fakirs; ling. or.: francese; pagine: 267;
anno 2009]
Non
so se il termine “fachiri” del titolo originale abbia anche un significato
specifico in qualche argot particolare francese. Sicuramente, se preso in senso
letterario, si riferisce non solo ai ben noti auto-pungentesi indiani, ma anche
a gente dello spettacolo che, inferendosi colpi al limite della mutilazione,
intrattiene un pubblico di spettatori. Dal semplice fachiro del circo ai più
complessi esempi di spettacoli ai limiti della morte autoinflitta in pubblico.
Tutto questo panegirico di parole per evidenziare come si sia già perso, nella
traduzione del titolo, la mira verso cui si dirige il libro di quello che viene
considerato una stella nascente del “polar” francese. Certo, la sezione suicidi
c’entra nella storia e vedremo bene come, ma il centro della stessa, cambiando
titolo, viene spostato, e colpisce meno l’obiettivo. Il tutto, per concludere
questa introduzione, mira nelle mie parole a dire quanto poco mi sia piaciuto il
libro, di cui, data la crescente notorietà in patria dell’autore, mi aspettavo
qualcosa di meglio. Invece risulta quasi un ibrido, con una parte che rasenta,
senza raggiungerle, le vene neo-granguignolesche alla Enrico Pandiani,
dall’altra tenta una replica, in dolenza più che in trasparenza, dell’ispettore
Adamsberg di Fred Vargas. Il tutto condito da due storie che si intrecciano,
lasciando vedere o sperare una soluzione non dico univoca quanto globale, e che
poi si sfilacciano in un finale che non riesce a dipanare tutte le matasse che
i fili del racconto avevano ingarbugliato. Una è la storia dello psicologo
hippy John, autore di un saggio inedito sulla “sindrome di San Sebastiano”, una
specie estrema della “sindrome di Stendhal”, dove si porta la vittima a
diventare carnefice essa stessa. Per esemplificarla, John segue per anni le
vicende di Alan, ex-soldato in Iraq, drogato, gay, di professione appunto
fachiro. Che si infligge quasi mutilazioni in spettacoli estremi. John, figlio
degli anni settanta, nato in una comune vicino Parigi da genitori americani, lì
ritorna per vivere una strana vita boschiva, e per stare non tanto lontano da
Alan che vive Parigi. Il tutto precipita con la morte in scena di Alan.
Suicidio o omicidio? John è costretto a tornare nella civiltà per scoprire i
motivi del gesto dell’amico, per capire la presenza di un corrotto funzionario
americano, ex-istruttore in Iraq. E per far amicizia con Bunker, un
ex-carcerato che vive come guardiano in un parco parigino. La sua ricerca lo porterà
ad incrociare la strada del commissario Guerin e del suo aiutante Lambert. I
due sono titolari appunto della “Sezione Suicidi”, una branca commissariale
della polizia parigina, che si occupa di suicidi. Guerin c’è stato inviato in
“punizione” per aver indagato sulla strana morte di Kowalski, un poliziotto, da
lui sospettato di necrofilia. Il tutto porta Guerin, a poco a poco, sull’orlo
(ed anche qualcosa in più) della pazzia. Vive con un pappagallo spelacchiato,
indossa l’impermeabile della madre morta. Ed è convinto che, in una serie di
sucidi che avvengono teatralmente a Parigi, ci sia una sorta di longa manus.
Una specie di combriccola che, non si sa in che modo, spinga delle persone, già
disturbate, a togliersi la vita in maniera plateale. Correndo nudi in mezzo al
traffico. Gettandosi sullo scheletro di un capodoglio nel “Jardin des Plantes”.
Ed altre stramberie. Nessuno gli crede, solo Lambert lo segue quasi affascinato
come fosse dal canto di una sirena. Guerin sospetta che anche Alan sia stato spinto
al suicidio. Per questo si incrocia con John. Fino alla scena madre, in un
teatrino nelle viuzze intorno al Boulevard St. Michel (che ben conosciamo noi
pariginofili). Dove sono presenti tutti: John, il cattivo Frazer, Guerin,
Lambert, la bella Ariel. Scena madre risolutiva, almeno per la morte di Alan.
Ma con tanti risvolti, che si accavallano nel convulso finale. Gli scherani del
cattivo uccideranno anche Bunker. Frazer verrà rimpatriato. John decide di
riprendere la vita “on the road” insieme ad un amico del padre. Guerin, risolto
il giallo Kowalski, messi a tacere i cattivi della Omicidi, si avvia dolcemente
verso la sua pazzia. Lambert viene costretto su una sedia a rotelle dalle
ferite riportate e… Ma tutta questa parte è poco funzionale al resto. Non
sapremo mai se le intuizioni di Guerin sui suicidi avranno un seguito. Intuizioni
che lui segue con il suo pensiero laterale (appunto alla Adamsberg) ma senza la
razionalità del personaggio di Vargas. E sapremo solo marginalmente le storie
di Alan e compagnia (tra l’altro dove finisce la bella Patty?). Purtroppo
Varenne sembra non saper gestire il finale, lasciando molti punti di
sospensione, lasciando irrisolte situazioni che andavano portate meglio a
compimento. Insomma, un giallo che si snoda bene, ma che ad un certo punto si
perde, e non si ritrova più. Non sono riuscito a farmelo piacere, nonostante si
svolga in una città che amo.
Tony Bellotto “Bellini e gli spiriti” Repubblica MondoNoir 14 euro 7,90
[A: 07/10/2014– I: 28/10/2016 – T: 30/10/2016] - &&&
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[tit. or.: Bellini e os
Espiritos; ling. or.: portoghese; pagine: 283; anno 2005]
Pur
conoscendo molti autori in giro per il mondo, conosco poco della letteratura
brasiliana moderna. E non conosco affatto questo autore, che mi si dice dividere
la sua carriera tra scrittura e gruppi rock. Anzi, nasce come chitarrista,
iniziando la sua attività nel 1975 (a soli 15 anni). Solo nel 1994, comincia a
scrivere le storie dell’investigatore Remo Bellini, che sono arrivate
all’ottava puntata. Qui Repubblica ci presenta il quinto volume. Al solito,
quando ci sono storie seriali, è tutto demandato alla bravura dello scrittore
farci capire qualcosa delle avventure anteriori, oppure lasciarci
nell’ignoranza e far filare la storia come fosse unica. Bellotto si pone in una
via di mezzo. Riesce, quasi, a fare una storia abbastanza compiuta senza
bisogno di aggiunte, e ci dà qualche dettaglio della vita anteriore di Bellini.
Purtroppo non in modo esauriente, lasciandoci un po’ di amaro in bocca. In
particolare, quando si narra della morte del fratello gemello di Remo,
mescolandosi, nella mente del nostro, con le strane ricerche del morto sui
ragazzi morti in tenera età. Comunque, Bellotto riesce a darci un quadro
decisamente esauriente e sconfortante, della città di São Paulo, sua città
natale, e che ci si presenta con molta accuratezza. Con il suo traffico caotico
come lo può essere in una metropoli sudamericana. Con il suo popolo di
immigrati. E con le conseguenti bande “mafiose”, di cinesi, giapponesi,
coreani, ed altre etnie. Ma questo è solo il contorno della storia, che si
avvolge intorno alla strana morte dell’avvocato Arlindo Galvet, durante la
maratona di San Silvestro (attento, fratello!). L’agenzia di Dora Lobo al cui
soldo lavora Bellini, viene investita delle indagini, attraverso messaggi
anonimi e soldi di strana provenienza. Ma sembra che nessuno, a parte Bellini,
sia convinto di un possibile omicidio. Tra l’altro Arlindo era un tipo assai
strano: avvocato, ma prendeva solo cause poche complicate, viveva per la corsa,
e faceva collazione di ritagli di bambini morti in tenera età. Inoltre, faceva
parte di un gruppo spiritista, che cercava di evocare appunto gli spiriti dei
disincarnati (così nel linguaggio della setta vengono chiamati i morti). Mentre
Bellini cerca qualche lume, barcamenandosi tra le sue “conquiste” femminili (su
cui torniamo), facciamo conoscenza di Rubens, il capo degli spiritisti, e di
uno strano cinese che segue Bellini nell’ombra. Tra l’altro, prima che Rubens
riesca a parlare con Bellini, anche lui muore, come poco dopo succede al cinese
Ping. Sappiamo che nella società brasiliana, spiriti e santoni non vengono
“esclusi” dalla vita comune, diventando quasi presenze concrete. E così ce ne
dobbiamo abituare nel prosieguo della storia di Bellini. Dove (e veniamo alle
donne) nel corso delle indagini, non può dimenticare gli appuntamenti con Cris,
una donna sposata che lo usa come oggetto sessuale, né riesce a schivare gli
approcci della segretaria di Arlindo, ma poi riesce a trovare una pace sessuale
con sé stesso con la men che ventenne giapponese Tati (che è almeno di 16 anni
più giovane di Bellini). Ma intanto c’è una frase di Rubens durante una seduta
spiritica, ed una frase scritta su di un pezzo di carta indicante una data ed
un nome di donna che mettono pian piano Bellini sulla strada giusta. C’è un
intermezzo inutile di una indagine parallela che Bellotto ci poteva
risparmiare. La frase riguardava qualcosa collegata al volo, la donna si scopre
essere all’epoca una hostess, la data si riferisce alla morte violenta della
figlia della stessa hostess da parte di due adolescenti violenti, che non
pagheranno il fio della loro malefatta. Nessuna sorpresa che uno dei due sia
proprio Arlindo. E che tutte le morti siano perpetrate da quella signora,
ovviamente non più hostess, per spirito di vendetta. Non vi dirò certo che sia
(anche se io avevo pensato a lei fin dal primo funerale). Né vi dirò quante
altre e dolorose morti avvengano nella storia. Che se non brilla per la parte
poliziesca (a volte trattata con troppa sufficienza), è simpaticamente
leggibile nelle parti dedicate a Bellini ed alle sue storie, ed al suo
girovagare per la città, a bere nei bar, a mangiare in giro (visto che il suo
frigo è sempre vuoto). Per questo ho fatto salire un poco i libricini di
gradimento. Anche se non so se cercherò in giro altro del buon Bellini, di cui
preferisco la versione cocktail (vino bianco frizzante e polpa fresca
schiacciata di pesca bianca).
“Non trovi strano che una persona, al giorno
d’oggi, non abbia una televisione in casa?” (76) [non lo trovo strano, basta
venire a casa mia…]
George Pelecanos “Non temerò alcun male” Repubblica MondoNoir 16 euro
7,90
[A: 20/10/2014– I:
30/10/2016 – T: 02/11/2016] - && --
[tit. or.: The Sweet Forever; ling. or.: inglese; pagine: 346; anno 1998]
Sfortunatamente
Repubblica si ostina ad inserire i libri di George Pelecanos nelle sue collane.
Ed io, altrettanto sfortunatamente, continuo a comprarli e leggerli. Inoltre,
sempre per la stessa sfortuna attuale, questo secondo libro del nostro oriundo
greco, è purtroppo stato scritto prima del primo che ho letto. Per cui, alcune
cose le conosco già, anche se, fortunatamente, visto la poca presa che ha su di
me l’autore, tendo a dimenticarle. Come tenderei a dimenticare questo autore,
che, appunto, non mi sembra apporti delle grandi novità. Intanto non è un Noir,
ma una fotografia (o un video-clip) di un momento americano, in particolare tre
giorni del marzo 1986. Una sorta di hard- boiled in salsa zaziki. Che, per
l’appunto, Pelecanos ha ascendenze greche, ed uno dei personaggi che si muovono
per questa serie di libri è tal Dimitri Karros, qui, oltre che greco,
cocainomane ed un po’ fuori di testa. L’altra parte dell’universo di Washington
che si aggira per queste pagine è per lo più nera o afro-americana o qualsiasi
altro termine politicamente corretto. Anche se questi neri sono quanto meno
divisi in tre fasce: i buoni-buoni come Marcus Clay, che fonda una catena di
negozi di dischi, aprendone uno anche in una zona poco raccomandabile della
capitale; i buoni-cattivi (o i cattivi-buoni) come l’agente Murphy, corrotto
con anima gentile, o Alan, gentile ma con cattive frequentazioni; i
cattivi-cattivi come Tyrell capo della banda di spacciatori o Morgan
adolescente dalla pistola facile. Non ci sono gialli o misteri o cose
particolarmente intrigate da risolvere. Pelecanos accompagna i nostri
personaggi in tre giorni della loro vita, da dove, ovviamente, usciranno molto
cambiati, oppure morti. Il tutto comincia da un incidente con una macchina che
si schianta davanti al negozio di Clay. Lì vicino c’è Eddie che aspetta che la
sua donna esca dal negozio dove ha incontrato Dimitri che le procura la coca.
Nella macchina in fiamme Eddie vede una federa piena di soldi ed
incoscientemente la ruba e fugge. Poco giudizio, che quelli sono soldi di
Tyrell lo spacciatore, che ben presto organizzerà una caccia all’uomo per
recuperarli. Su questo plot si intrecciano le altre storie. Quella di Alan che
ama Denice, ma che si accorge di non poterle dare quello che desidera finché
frequenta un certo mondo. Quella di Anthony, che vive in strada perché la madre
si sta disintossicando lontano e la nonna non se ne cura, ma che sarà aiutato
proprio da Clay. Quella di Tutt e Murphy, i due agenti di pattuglia al servizio
di Tyrell. Ma mentre Tutt è corrotto e razzista, Murphy ha dei bagliori di
umanità. Tutt è bianco e continua a fare battute anti-nere per tutto il libro.
Murphy si fa corrompere perché pensa di adottare un ragazzo, poi la moglie dà
fuori di testa, lui non riesce a venirne fuori, finché… Quella di Chief e di
P-square due ragazzini di 11 anni, neri, che non sanno far altro che imitare i
loro fratelli maggiori, finendo però in un gioco più grande di loro. Quella
degli accoliti di Tyrell, uno più antipatico e sordido dell’altro, a cominciare
da Morgan senza speranza, e che faranno una fine degna di loro, ma non vi dirò
come. Quella di Donna e Eddie, messi alla prova dal furto, e, probabilmente,
salvati da Murphy. Quella di Clay e dei suoi amici, che passano il tempo a
vedere le partite di basket universitario in televisione e ad ascoltare dischi
(visto che li vendono) di autori per il 90% a me ignoti. Ma che non scordano il
loro recente passato (quasi tutti reduci dal Vietnam) e quando c’è da menare le
mani, si muovono eccome. Quella, infine, di Dimitri, con la sua droga, il suo
passato di docente di scrittura universitaria, la sua deriva, le sue scopate di
straforo, e, forse, un barlume di speranza verso il futuro (andate a rivedere
il commento del primo libro di Pelecanos che ho letto, se volete saperne di
più). Ma sono tutte storie che, pur intrecciandosi, non prendono. Anche perché
nessuno dei personaggi assurge ad un ruolo di decisiva simpatia, nessuno è
simpaticamente attraente. Forse il solo Clay, ma non ha una personalità tale
nel corso della storia da poter diventare un riferimento. Avrebbero dovuto
esserlo Dimitri o Murphy, ma a me entrambi non stanno simpatici fino in fondo.
L’unico dato che rileverei al finale, è il risalto che viene dato al degrado della
capitale americana. Degrado che riflette quello di tutta la società. Lotte
razziste tra bianchi poliziotti e neri spacciatori, dove spesso ci vanno di
mezzo assoluti innocenti. Invasione di droga e criminalità a tutti i livelli
(non a caso Pelecanos fa anche delle sparate contro il potere e la corruzione
del sindaco) indizio di una corruzione che si andava diffondendo, che si è
approfondita negli anni, ed un degrado sociale che rischia di portare alla
presidenza oggi, trenta anni dopo, un impresentabile Trump. Insomma, l’ho
letto, non mi è piaciuto. E ne leggerò altri solo su costrizione.
“[La nonna] non era nemmeno così vecchia,
doveva avere quarantasei anni o giù di lì.” (61)
“L’importante … è godersi quello che fai
ogni stramaledetto giorno.” (280)
Alan Bradley “Aringhe rosse senza mostarda” Repubblica Agenda Noir 13
euro 7,90
[A: 01/10/2015– I:
01/04/2017 – T: 05/04/2017] - && ----
[tit. or.: A red herring without mustard; ling. or.: inglese; pagine: 341; anno 2011]
Sono
d’accordo con una serie di critiche e recensioni che ho letto riguardanti
questo libro: la cosa migliore è il titolo! Ma se da una parte, “red herring”,
da solo, è nello slang inglese un “fatto che distoglie l’attenzione dal
problema centrale”, ed è spesso tradotto come “falsa pista”, l’epigrafe del
nostro autore si riferisce ad una commedia, coeva di Shakespeare, che tratta
della caduta biblica della città di Ninive, e dove un clown, in un intermezzo
comico del primo atto, accosta temerariamente “l’aringa rossa senza mostarda”
ad “una birra senza donne o un uovo sodo senza sale”. Non volendo entrare nella
testa dell’autore, ci accontentiamo di un titolo divertente, cominciando però
dal resto dei contenuti e dei contorni che meno mi hanno convinto. Come a dire
che la confezione del volume, la sua idea ed il suo inserimento in questa
collana lascia alquanto a desiderare (o forse questo è il falso indizio che i
curatori ci vogliono offrire). Intanto l’autore, poliedrico canadese, nella
terza di copertina è fatto nascere nel 1940, mentre tutti i riferimenti (su
Wikipedia ed altro) lo datano al 1938 (scarsa attenzione alle fonti). In
secondo luogo, è un “serial book” basato sulle azioni e le investigazioni della
pur simpatica Flavia De Luce ed ambientato in Inghilterra intorno al 1950.
Peccato, appunto, che essendo seriale questo sia il terzo libro della collana,
che contiene rimandi interni che, magari, una piccola sinossi introduttiva
avrebbe meglio potuto collocare. Infine, la suddetta Flavia è un’intraprendente
ragazzina di 11 anni. E questo sarebbe un libro ben collocabile in quella
diversa collana di Repubblica (i “Noir junior”) dove poteva trovare un suo
dignitoso spazio. Qui invece si colloca in una collana di Noir maggiori
(possiamo dire per adulti?) e non ne ha il peso. Tra l’altro mi domando come
mai, da questo libro (appunto il terzo) in poi e per altri tre o quattro sia
stato pubblicato da Sellerio, in genere editore attento a queste forse per voi
minuzie, mentre avrebbe avuto un suo spazio ed una sua migliore esposizione
presso che so Salani. Dispiace quindi che queste avventure, collocate in altro
spazio, avrebbero predisposto meglio il lettore, che invece, come ho fatto io,
segue pagina dopo pagina le vicende, scorrendo l’intento umoristico
dell’autore, con battute ed altri sagaci elementi. Che a me personalmente non
riescono a coinvolgermi. Solo in una letteratura per ragazzi si può saltare di
punto in bianco da un’azione all’altra, si possono evitare spiegazioni su
quanto succede, ed altri atteggiamenti giovanilistici, che qui, invero, hanno
il solo risultato di innervosire ed aspettare di arrivare alla fine. Per tirar
fuori il meglio, vi dirò che Flavia, undicenne precoce, vive con le due sorelle
maggiori (Dafne e Ofelia) in una magione della campagna inglese, con il padre
già colonnello ed ora attento filatelico, ed una madre che alcuni anni prima
scompare misteriosamente in Tibet. Flavia ha un talento particolare per la
chimica e per intrugli vari, nel suo laboratorio ereditato da uno dei tanti
parenti citati qua e là nel libro. Oltre a questo, è sempre in vigile
attenzione per evitare gli scherzi delle sorelle, e per restituir loro pan per
focaccia, una volta subiti gli scherzi stessi. La vicenda prende l’avvio da una
visita ad una zingara, Fenella, che predice il futuro (ovviamente
imbrogliando), cui Flavia inavvertitamente brucia la tenda. Dispiaciuta, Flavia
nottetempo va a trovare Fenella riuscendola a salvare, visto che è stata quasi
massacrata a colpi di sfera di cristallo. Tornando a casa, inoltre si imbatte
in Brookie, uno scanzonato giovanotto, dedito a qualche losco traffico, visto
che entra ed esce da casa De Luce, magari con qualche argenteria in tasca.
Mentre aspetta che Fenella si riprenda, Flavia scopre che: Fenella era stata lì
anni prima, accolta dalla madre Harriet (quella che poi scompare), che era
stata coinvolta in uno scandalo (pare il rapimento della piccola Bull), che era
stata scacciata dal cerbero padre. Per cercare luci maggiori, Flavia torna al
carrozzone della zingara, dove trova la di lei nipote quasi ventenne Penelope.
Nasce un conflittuale rapporto di amicizia tra le due, nonostante la differenza
di età. E per curare Penelope, tornando a casa, le due scoprono il corpo di
Brookie appeso alla fontana di Poseidone. Flavia comincia allora le sue
investigazioni scoprendo che nel Settecento la zona era popolata da una setta
eretica di cristiani detta “Claudicanti” (indovinate perché?), che alcuni di
loro sono ancora tuttora attivi, che tra questi c’era sia la signora Bull sia
un rigattiere che utilizzava Brookie per rubare oggetti d’arte che poi faceva
replicare dal marito della signora Bull, e che poi restituiva (ovviamente
restituivi i falsi). Tutte queste false piste porteranno alla scoperta del
cadavere di una bambina (quella finto-rapita) che probabilmente è morto
annegata al tempo del battesimo dei Claudicanti (che avveniva per immersione in
acqua). Scopre anche che la morte di Brookie è accidentale, che la madre dello
stesso è una pittrice (ma quando la va a trovare non sembra sia addolorata come
dovrebbe essere una madre che perde un figlio), che la pittrice fece undici
anni prima il ritratto alle donne De Luce (Harriet, Ofelia, Dafne e Flavia). Ma
tutte queste considerazioni vengono fatte in poche pagine finali, annegate in
peregrinazioni (fisiche e mentali) della pur simpatica Flavia. Il punto di
svolta (che in italiano si perde presto) è il sogno di Penelope che vede
colpevole un toro rosso di tutti i misfatti. Ovviamente noi capiamo che in
qualche modo c’entri la famiglia Bull (cioè Toro), la quale è tutta composta da
persone con i capelli rossi. Insomma un libro che letto in altri contesti e con
altre spiegazioni poteva avere un suo perché, lascia un sapore di incompiuto ed
un odore di marketing che poco piace a me che sto imbastendo queste trame. Sono
molto, molto dispiaciuto.
Seconda
trama del mese, quindi, come ormai sapete, un bell’allegato dedicato alla
Maternità, visto che tra qualche mese diventerò anche BisZio grazie a mia
nipote Federica.
Pare
quindi che in Israele, bene o male, ci si vada, anche se ci sono ancora
svariate settimane di preparazione. Intanto si avvicina anche il riposo
pasquale, per tutti meritato. CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
APRILE 2017
Un mese dedicato alla maternità,
ma più che altro, alla gestione della famiglia, quando si hanno figli piccoli e
mariti poco collaborativi.
MATERNITÀ
Barbara
Comyns “I miei anni a rincorrere
il vento”
Allison
Pearson “Ma come fa a far
tutto?”
«‘‘Non
sopporto l’idea di fare il papà e spingere il passeggino!” disse George. Allora
risposi: “Nemmeno io voglio fare la mamma, accidenti; me ne vado”. Poi però mi
ricordai che se me ne andavo il bambino sarebbe venuto con me ovunque. Mi
sentii soffocare e scoppiai a piangere».
Questo brano
tratto da “I miei anni a rincorrere il vento”, romanzo ambientato negli anni
Trenta, lo potrebbero stampare sulle confezioni di pillole anticoncezionali
come promemoria di cosa significhi davvero avere un bambino. Quando c’è, c’è
sempre, e voi ne siete responsabili, che vi piaccia o no. (A meno che,
ovviamente, non siate la protagonista di “Inseguendo l'amore” di Nancy Mitford,
che abbandona la figlia perché sia allevata dalla sorella Emily. Anche questo è
un modo per affrontare la maternità: far lavorare gli altri al posto vostro).
La maternità
non può essere guarita, ma esistono dei trattamenti da somministrare, e il
romanzo autoironico e in gran parte autobiografico di Barbara Comyns è un
ottimo punto di partenza. Sophia è una ragazza inesorabilmente ottimista, che
si sposa troppo giovane, gira con in tasca un tritone che si chiama Great Warty
e non è assolutamente pronta a diventare madre. Lei e il marito sono due
convinti bohémien ripudiati dalle famiglie che vivono grazie ad alcuni assegni
trovati in un cassetto e guadagnano qualche soldo facendo da modelli per alcuni
artisti mentre Charles dipinge i propri quadri. Sophia non ha un bambino, ma
addirittura due, e la scarsa volontà di Charles a fare concessioni alla
paternità non fa ben sperare per la loro. Le terribili esperienze vissute da Sophia
in ospedale sono già sufficienti a scoraggiare molte future madri, ma la sua
capacità di riprendersi dopo le peggiori disavventure - come quando la suocera
prima giura di non andare al matrimonio, e poi arriva con sciami di parenti e
si aspetta di essere ospitata nello squallido appartamento della nuova coppia -
fa di lei una compagnia vivace e positiva. Passa da un lavoretto all’altro, e
spesso mantiene la famiglia da sola, mentre Charles continua a credere di avere
un grande talento e che la paternità non può mettergli i bastoni fra le ruote.
Tutto questo,
alla fine, rappresenta una versione estrema di quella che è l’esperienza di
molte nuove madri, ma l’umorismo anticonformista e tonificante, insieme alla
voce ammaliante di Sophia, farà sì che molte donne ridano con lei mentre fa del
suo meglio per giocare alla famigliola felice senza alcun aiuto da parte del
marito. Se ne avete appena avuto uno, eviterete di sbattere la testa contro un
muro per diversi anni, facendo vostro il suo spirito di sopravvivenza.
Per una
visione più moderna della maternità, “Ma come fa a far tutto?” di Allison Pearson
è una divertente analisi delle abilità da giocoliere necessarie a mantenere un
ottimo lavoro, un amante, l’apparenza di un matrimonio e al contempo fare la
mamma. Il libro inizia con Kate Reddy, trentacinque anni, sveglia alle 1.37 del
mattino del tredici dicembre, che «maltratta» tortine di frutta secca comprate
da Marks & Spencer per farle sembrare fatte in casa. È decisa almeno a
sembrare una «buona madre», una donna «pronta a sacrificare tutto per cucinare
una buona torta di mele, un’indefessa sorvegliante della vasca da bagno» oltre
che una madre «dell’altro tipo», quello che tutti criticavano negli anni
Settanta della sua infanzia.
Di giorno Kate
gestisce fondi per una società della City, dove il suo capo le guarda il seno
«come se fosse in offerta speciale»; lavora fino a tardi, il suo unico svago è
una storia d’amore via e-mail con Jack Abelhammer, un uomo troppo bello per
essere vero. Si preoccupa continuamente di perdere i momenti importanti nella
vita dei figli («Oggi è il primo compleanno di mio figlio e io sono seduta in
cielo proprio sopra Heathrow») e si infuria contro il mondo misogino che l’ha
messa in quella situazione. Il suo matrimonio sembra un’eredità del secolo
scorso, perché è lei che si fa carico di tutto quello che riguarda i figli,
delle faccende domestiche e di andare avanti e indietro con la scuola, da sola
o con il telecomando.
Pearson scrive
con tanto umorismo che leggere questo romanzo sarà una vera sfida per i muscoli
del vostro pavimento pelvico, messi già a dura prova dal parto. Se non siete
ancora entrate nel paese della maternità, ma siete curiose di sapere cosa
succede al di là del confine, questo romanzo servirà a mettervi in guardia
contro la pretesa di «avere tutto». Chi vive già certe situazioni, invece, si
divertirà moltissimo a guardare Kate Reddy che si prepara per la sua prossima
mossa - e continua a destreggiarsi tra il matrimonio, la carriera e i figli.
Leggete questo romanzo, e fatevi coraggio. Si può avere tutto, basta ricordarsi
di tenere a portata di mano un matterello per dare qualche colpo alle torte
comprate in pasticceria.
Bugiardino
Ho
letto solo uno dei due libri proposti dalle nostre libropeute, ma essendo nel corpo
del discorso citato anche un ulteriore testo, che ho letto, ve lo aggiungo
gratis (e sono entrambi bei libri).
Barbara Comyns “I miei anni a rincorrere il vento” BUR euro 10
[trama pubblicata il 24 maggio 2015]
Poiché
il libro mi è piaciuto, e ringrazio le mie libropeute di “Curarsi con i libri”
che ne consigliano la lettura a chi non sa come affrontare (e vincere) la
maternità, comincio con l’unico punto dolente: il titolo. Certo, l’originale è
poco comprensibile se non si sa chi è Woolworths (la grande catena di magazzini
a basso prezzo, nata in America, ma dagli anni Venti insediatasi anche in
Inghilterra) e non si conosce Rachel Ferguson che, negli anni ’30 scrisse un
romanzo intitolato “Le sorelle Bronte vanno da Woolworths”. Insomma, il
magazzino è sinonimo di povertà (tipo i nostri UPIM degli anni Sessanta), e
comprare lì i cucchiaini è indice di scarsissima agiatezza. Infatti tutto il
libro, oltre che sulla maternità, è incentrato sulla povertà e sulla ricerca di
una propria strada da parte di Sophia, alter-ego della scrittrice. Anche
perché, seppur nel solito travisato modo della scrittura, parte della
giovinezza di Barbara si ritrova nella storia di Sophia. Quella che dopo poche
righe ci fa tornare ai venti anni dell’io narrante, ed all’inizio della sua
storia di vita e d’amore. L’incontro in treno con il fascinoso pittore Charles.
L’amore a prima vista. La convivenza, poi la decisione, contro ogni regola ed
ogni suggerimento, di sposarsi. Sophia fa mille lavori per potare a casa
qualche penny, Charles è un artista. Ha genitori separati, con una madre
presupponente che non fa altro che intervenire nella loro vita solo per sapere
se il padre dà loro soldi (così da poterne chiedere lei). Ed un padre che più
assente di così non si può. Sophia e Charles sono dei veri bohèmien degli Anni
Trenta, senza soldi appunto, e lei che gira con una salamandra in tasca. Sophia
ci racconta la ricerca quotidiana di qualcosa da mangiare, di lavoretti, di
prestiti, di banchi dei pegni. E poi della maternità, che Charles rifiuta. Che
Charles è un artista, e si preoccupa solo se non ha i soldi per le sigarette.
Bellissime sono le pagine del parto in ospedale di Sophia (capitoli 10 e 11).
Si continua a leggere e ad incazzarsi per la remissività di Sophia, per
l’inconsistenza di Charles, per l’arroganza della madre. E mentre il bambino
cresce, Sophia rimane incinta per una seconda volta e nasce una piccola e
delicata bambina. Charles fa sempre più lo stronzo, rifiutando lavori poco
rappresentativi ma remunerativi. E la coppia cade sempre più in povertà. Ma è
solo Sophia che ne patisce. Siamo nella discesa agli inferi, ed infatti Sophia
capendo che sta precipitando, cerca di staccarsi dall’artista maledetto, ma la
sua estrema povertà e mancanza di aiuti, la conduce ad un momento di totale
indigenza, tanto che la bambina muore. Da qui, anche se già si notava che Sophia
andava maturando pagina dopo pagina, lei prende coscienza. Lascia l’ignobile,
tramite degli amici trova posto fuori Londra come governante. Ci si trasferisce
con il figlio, dopo un lungo periodo di riabilitazione mentale. E lì finalmente
trova una sua dimensione. Sa cucinare, sa mandare avanti la casa. Non è più la
scapestrata della giovinezza, quella che senza soldi si metteva sulla scia del
gruppo di letterati alla Virginia Woolf. Certo la seconda parte è meno
disperata, ma rende conto appunto della maturazione pur con la costanza di
rimanere sé stessa. Finalmente divorzia da Charles. Naturalmente continua a far
crescere il figlio tanto amato, di cui sembra una sorella maggiore (l’ha avuto
sulla soglia dei venti anni). È ben voluta in quella casa. Ed alla fine trova
anche un altro artista che con sensibilità e caparbietà si conquista passo dopo
passo un posto nel suo cuore. Poi in quella del figlio. Il libro si chiude con
questo messaggio di speranza e fiducia nelle possibilità di uscire dalla crisi
se cerchiamo in noi stessi i motivi della crisi stessa e le risorse per
superarla. Questa fa Sophia, e noi con lei ad aiutarla ad uscire da UPIM per
entrare alla RINASCENTE. Come si diceva, poi, è anche una specie di
semi-autobiografia, che anche Barbara si sposa giovane con un artista
scapestrato, e vive i primi anni della sua ventina alla ricerca di conciliare
il pranzo con la cena. Anche lei farà due figli, che però non moriranno. Ed
anche lei troverà il modo di sganciarsi dall’ambiente malsano. Poi il suo percorso
sarà diverso, che incontrerà un nuovo amore, che la farà uscire per sempre da
questa povertà. Peccato che il suo nuovo uomo sia un amico di Kim Philby, e per
allontanarsi dall’Inghilterra in un momento di pericoloso spionaggio, accetta
di vivere nella casa spagnola della spia russa. E Barbara vivrà per 16 anni
vicino a Barcellona poi in Andalusia, ritornando a Londra solo dopo più di
venti anni, a metà degli anni Settanta. Ma torniamo e finiamo con il libro, con
le lacrime di dolore per Sophia, con la speranza di un mondo diverso per chi
lotta con tutta sé stessa. E se ne conoscono esempi. Un altro buon libro!
“Quando ci arrivai era molto meglio di come
me l’ero aspettata. Di solito è così con le cose che temiamo: solo le cose che
desideriamo vanno completamente storte.” (180)
Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” Giunti s.p. (regalo di
Sara&Giampaolo)
[trama pubblicata il 21 febbraio 2016]
Libro
nato dalla congiuntura di una segnalazione delle ormai troppo citate libropeute
e dal desiderio dei due carissimi S&G di farmi come gradito regalo un
mega-buono feltrinelliano. E libro che non si apprezza fino in fondo se non si
segue anche un po’ di contesto. Che ad una lettura diretta (la prima che ho
dato) è un libro gradevole con qualche puntata verso il divertente. Poi ho
approfondito il personaggio – autore e la lettura si è approfondita di tutto il
contorno che Nancy Freeman-Mitford si porta appresso. Come figlia primogenita
di David Freeman-Mitford, secondo Barone Redesdale, come una delle sei “sorelle
Mitford” che riempirono la scena londinese nel periodo delle due guerre, come
pronipote di quel Bertie Mitford (il primo Lord della famiglia) che s’imparentò
con la casata di Ogilvy, conti di Airlie, dove un loro discendente sposò la
principessa Alexandra, cugina della regina Elisabetta II. Ed a proposito delle
“sorelle”, da segnalare da un lato dello “schieramento politico” Diana (che
prima sposa un Guinness erede della birra omonima, poi sir Mosley, capo
indiscusso del Partito Fascista Britannico, a cui darà il figlio Max ora uno
dei grandi capi della Formula 1 automobilistica) e Unity (che cercò la morte
per il conflitto di essere inglese e seguace di Hitler) e dall’altra Jessica
(fuggita in USA ed una dei leader del comunismo americano). In mezzo a tutta questa
confusione (vogliamo ricordare tra l’altro che la figlia della zia materna
sposò Winston Churchill, e che il nonno materno fu il fondatore di “Vanity
Fair”?) si colloca la nostra scrittrice ed il suo romanzo. Fatte tutte queste
premesse, qualcuno si sarebbe aspettato un romanzo alla Casati Modignani o
Danielle Stell. Ed invece, pur avendo dei tratti singolarmente convergenti, la
scrittura di Nancy ci porta altrove. Sicuramente ad uno sguardo ironico sulla
società presente. Non è un caso, che, ironia per ironia, negli anni Cinquanta
la scrittrice divenne la maestra dello snobismo inglese scrivendo una
dissertazione sulla distinzione tra i termini U e quelli nonU (intesi come
Upper e nonUpper class, dove ad esempio i primi usano il termine graveyard ed i
secondi cemetery, come da noi i primi userebbero camposanto ed i secondi
cimitero). Con questo sguardo ironico, seguiamo allora la vita di una tipica
famiglia U, che vive in campagna, con padre alla camera dei Lord, e figlie
femmine con istitutrici (perché una donna che studia è nonU). La storia è
narrata da Fanny, la cugina che entra ed esce dalla famiglia, che ha i genitori
divorziati e vive con la zia Emily. Fanny ci parla un po’ della sua famiglia:
quasi nulla del padre, molto di sfuggita della madre molto amata, chiamata in
famiglia la Puledra, perché scalpita ed entra ed esce da situazioni amorose le
più improbabili. Ma soprattutto, Fanny ci parla di sua cugina Linda, sua
coetanea, con la quale condivide gioie e pene dell’adolescenza, con la quale
cresce insieme, e che lei prende (inconsapevolmente lei, consapevolmente Nancy)
come esempio di rotture nel tessuto borghese degli U. E con lo sguardo di Fanny
vediamo Linda convolare a nozze con il banchiere Tony (di progenie tedesca e
quindi inviso allo zio Matthew). Fa una figlia, Moira, che non riuscirà mai ad
amare. Mentre Fanny sposa un decano di Oxford con il quale condurrà una vita
ritirata ed amorosa, Linda, dopo nove anni di matrimonio s’innamora
perduratamene di Christian, un comunista di razza. Christian pensa alle
rivoluzioni e non agli uomini, s’imbarca in situazioni sempre più improbabili.
Siamo nella metà degli anni ’30, e Christian e Linda si trasferiscono a
Perpignano, per aiutare i profughi della guerra civile spagnola. Lì incontrano
Matt, il fratello di Linda fuggito in Spagna a combattere. Ma soprattutto c’è
Lavander, una vecchia amica londinese. Quando Linda si accorge della passione
tra lei e Christian decide di lasciarlo e di tornare a casa. Ma a Parigi
finisce i soldi, e lì incontra casualmente ma proficuamente il ricco duca
Fabrice de Sauveterre, di cui ben presto diviene amante e mantenuta. Scoppia la
seconda guerra mondiale. Fabrice, che lavora per i Servizi segreti, rimanda
Linda in Inghilterra. Lì Linda si scopre incinta, anche se i medici le avevano
sconsigliato un nuovo parto. E durante i bombardamenti si ritrovano tutti
riuniti. Fanny, anche lei incinta, la madre di Fanny con il suo nuovo amante,
il simpatico cuoco spagnolo Juan, quel che resta dei fratelli Radlett, e Linda.
La quale, benché Fabrice sia alquanto stralunato, sa di aver con lui trovato
finalmente l’amore che inseguiva da tutta la vita. In una cupa notte, Fanny e
Linda partoriscono, ma Linda non sopravvive al parto. Arriva anche la luttuosa
notizia della morte in guerra di Fabrice. Fanny allora decide di adottare il
figlio di Linda e di chiamarlo Fabrice. Quanti avvenimenti in meno di trecento
pagine. Allietati da una scrittura coinvolgente, che alla fine, con le premesse
che ho detto in apertura, mi ha convinto ad assegnare un buon posto al libro,
ed una menzione alla scrittrice nel mio pantheon letterario.
“I compagni sono molto cari, ma non
chiacchierano mai, fanno solo discorsi.” (127)
Conclusioni
Credo che questa volta posso concordare
in pieno con i libri suggeriti, e forse se ne potrebbero aggiungere altri, a
continuare a sostenere le tesi presentate. Ad esempio “Angel” di Elizabeth
Taylor o “Mildred Pierce” di James M. Cain. Ma intanto suggerisco la lettura di
questi, se non lo avete fatto.
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