domenica 19 novembre 2017

La cucina è finita - 19 novembre 2017

Nel senso che, con questa infornata (mi si scusi il termine), terminiamo l’analisi della collana del Corriere della Sera dedicata alle Storie di Cucina, inserendoci, tra l’altro, una storia che sarebbe stata bene insieme alle altre, ma che è invece un leggibile libro della sempre simpatica Giuseppina Torregrossa. Per il resto, abbiamo due “chef” che, direttamente o di traverso, parlano delle loro esperienze culinarie, ed una critica gastronomica che mi regala uno dei migliori libri della collana. Buona appetito, allora.
Rudolph Chelminski “Il perfezionista” Corriere della Sera Cucina 6 euro 7,90
[A: 06/03/2015– I: 23/04/2017 – T: 29/04/2017] - && +
[tit. or.: The Perfectionist; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 2005]
Poteva essere interessante, ma alla fine si perde in molti rivoli che l’autore non sembra saper gestire. Vuol dire troppe cose, e lo fa, a scapito della trama principale. E forse del messaggio che intendeva mandare. Certo, si celebrano i fasti, ascesa e caduta, di un grande cuoco, il francese Bernard Loiseau. Ma l’autore sembra anche voler fare in questo libro un’analisi del mondo della cucina francese, dominato dalla lunga mano manovrante delle “Guide Rosse Michelin (GRM)”, ed una critica alle manie gastronomiche imperanti (o che sono emerse negli ultimi trenta – quaranta anni). Questa parte però risulta talmente diluita nei discorsi, nelle riprese e negli accenni, che stenta a venir fuori. Mentre viene fuori il vezzo di citare (quasi) tutti i piatti in francese, come se non si fosse capace di tradurne la denominazione. Capisco che possa avere il suo fascino per il pubblico americano, ammaliato da questa patina di bellezza (e voluttà). Ma un traduttore in italiano avrebbe anche dovuto tener conto che di certo l’Italia non ha una cucina inferiore alla francese. Allora perché continuare a citare “la soupe d’escargots aux orties” invece di chiamarla subito “la zuppa di lumache all’ortica”. Da noi, il francese, non sempre fa “alta cucina”! Tra l’altro, il tema che l’ottantenne americano, che da quasi sempre però vive in Francia, decide di trattare è di principio stimolante. Tanto che il sottotitolo recita “Vita e morte di un grande chef”. Perché sicuramente Loiseau era un grande chef, nato agli inizi degli anni ’50. Che seguiamo, non tanto velocemente però, nella breve giovinezza (poco studioso, ma di capacità gustative fuori del comune) nei sobborghi natii vicino Clermont-Ferrand (dove nacquero, almeno una trentina di anni prima le GRM, il must gastronomico dei francesi e non solo). Vista la sua propensione per la cucina, il padre lo inserisce nella cucina dei fratelli Troisgros (una cucina a tre stelle ininterrottamente dal 1968 ad oggi!). Lì farà tutta la trafila, da spalatore di carbone per il fuoco ad aiutante. Ma il suo carattere indipendente, giocoso, e comunque dotato di personalità, non gli consente un apprezzamento dai “seriosi” maestri cuochi. Così che alla fine dell’apprendistato si ritroverà a Parigi, preso ed apprezzato da un altro maestro di cucina irregolare, Claude Verger, patron de “La Barriera di Clichy” nella zona sud di Parigi. Qui Bernard dà prova delle sue capacità ma soprattutto della sua pignoleria: tutto deve essere perfetto, perfetto per poter ambire a quel sogno che fin dall’infanzia lo seguiva e perseguitava: il raggiungimento delle tre stelle. Il passo forte, fu nel 1975, quando Verger decide di comperare “La Cote d’Or” un albergo – ristorante a Saulieu, che dal 1935 al 1964, sotto la guida di Alexandre Dumaine aveva mantenute le sue tre stelle. Bernard lavora sodo, si crea un gruppo che agisce all’unisono con lui, prima con il “maître d’hotel” Hubert, poi con lo Chef (si, con la C maiuscola) Patrick Bertron, infine con Dominque, la sua seconda moglie (della prima stendiamo un velo pietoso), che, oltre ad essere un valido aiuto nelle relazioni pubbliche, gli darà tre figli: Berngere, Bastien e Blanche (sempre per mantenere il logo BL). Dal 1981 comincia a crescere nelle liste dei ristoratori top, decidendo anche di rinverdire i fasti dell’albergo. Cominciando a fare debiti mostruosi. Ma nel 1991, finalmente, avendo una serie di piatti “essenziali”, che lasciano uscire direttamente il proprio sapore, senza mascheramenti, ed avendo raggiunto un livello di eccellenza anche con l’albergo, riceva a coronamento della sua vita le famigerate tre stelle. Ma come sappiamo da altre letterature, e da film vari (andatevi a vedere o rivedere “Amore, cucina e curry” o anche il bellissimo “Ratatouille”, dove la figura di Chef Gusteau è ricalcata proprio su Loiseau) non è tanto raggiungerle la fatica, ma mantenerle. Bernard si deve barcamenare allora tra i controlli di cucina, i prestiti sempre più onerosi, nonché la decisione, primo nel suo genere, di quotarsi in borsa per ottenere quel surplus monetario che gli consente di andare avanti. Inoltre, Bernard comincia ad apparire in TV, ad apparentarsi con altre cucine in giro per il mondo, a vendere prodotti con il suo nome. Tutto per aumentare lo stress, lui che, come ci ripete l’autore dalla prima pagina, è un perfezionista, che non lascia cadere una briciola, che cambia il grembiule più volte al giorno se si ombra. E che lo ripiega a sera maniacalmente in tre parti. Nel 2003, sempre più assillato da problemi economici, sempre più spinto su e giù dalle sue tendenze bipolari, senza riuscire ad adeguarsi ai trend della nuova cucina, ed anche non più trattato in palmo di mano dai critici, ha la tremenda, per lui, visione di perdere una stella. Non ce la fa, non ce la può fare. Ed a 52 anni si uccide. Ma questa pur intensa e complicata vita di un cuoco francese, è ingarbugliata dal tentativo, complicato e non ben riuscito, di riproporre il clima gastronomico di quegli anni. Allora, certo, parlare dei grandi, di Bocuse, Ducasse, Veyrat e tanti altri. Parlare degli odi, delle ripicche, dei piatti di cui ci si innamora, della cucina del territorio (grande must francese), ma anche di tutte le storture della “nouvelle cuisine”. Ci sarebbe voluto un altro libro, e forse un'altra penna, per rendere al meglio tutto ciò. Qui ci si perde, si lascia e si ritorna su temi e momenti. Ma come se si fosse seduti alla tavola di uno di questi grandi, pronti a spendere 200 o 300 euro per una cena. Cosa che ritengo al di fuori del senso comune. Ho le mie idee sulla cucina, e probabilmente divergono alquanto da quelle di Chelminski. Per finire, al solito, qualche considerazione più o meno a latere. In quasi 500 pagine non c’è una ricetta che è una. Ora, vero che si parla di “Storie di cucina”, ma se si parla di cuochi, di cotture, ed altro, qualcosa se ne poteva agilmente scrivere. Magari in una piccola appendice. Anche se mi rendo conto che si entra nel campo minato dei personalismi culinari. Mi correggo, anzi, si parla ad un certo punto di fondi di cottura, e se ne danno quantità e modi, ma sono dovuto andare a ripercorrere tutto il libro per trovarne traccia. A pagina 281 poi, l’autore, ripeto americano, fa un panegirico sugli impegni lavorativi dei francesi, infarcendo in 5 righe una sequela di banalità e luoghi comuni. Poteva esimersi. Infine, un dubbio di traduzione. A pagina 262 si deve usare il passato remoto del verbo evolvere, che è irregolare, si sa. Ma perché scegliere il quasi ignoto “evolvé” (usato secondo la Crusca solo nel 5% delle scritture in italiano) piuttosto che il noto e più usato “evolse” (usato il 65%)? Ai puristi l’ardua risposta.
Bee Wilson “In punta di forchetta” Corriere della Sera Cucina 12 euro 7,90
[A: 01/05/2015– I: 12/06/2017 – T: 20/06/2017] - &&& e ½
[tit. or.: Consider the Fork; ling. or.: inglese; pagine: 381; anno 2012]
Finalmente un libro di questa collana che soddisfa le mie esigenze. Anche se non c’è una ricetta che è una. Ma c’è una panoramica, esauriente, coinvolgente, stimolante, su tutti gli oggetti di cucina, nonché sulla cucina stessa. Facendoci capire come la cucina ed i suoi utensili si adeguano al mangiare e viceversa. E che l’evoluzione delle utensilerie (e con questo termine indico tutto, dalle pentole, alle posate, ai frigoriferi) è funzionale e determinante per l’evoluzione del gusto e del mangiare. Un matrimonio che, magari non sempre è coronato dall’amore, ma da elementi che si modificano a vicenda interagendo tra loro, creando alchimie sempre nuove. Intanto, si nota sin dalle prime pagine, che Bee Wilson è, anche, una giornalista. Che il suo scrivere è veloce ed efficace, come un articolo di giornale. Basta già l’attacco, con la lode al cucchiaio di legno ed al suo utilizzo in cucina sin dall’alba del cucinare stesso. Tanto che ve ne riporto il nucleo principale: “Questo utensile non sembra particolarmente sofisticato – in passato era il premio di consolazione dato agli ultimi classificati – ma ha la scienza dalla sua parte. Il legno non è abrasivo e dunque è delicato sui tegami: potete raschiare senza aver paura di rigare la superficie. Non è reattivo: non dovete temere che lasci un gusto metallico o che si corroda a contatto con gli agrumi e con i pomodori. È anche un cattivo conduttore di calore, il che spiega perché potete mescolare la zuppa bollente senza scottarvi le dita. Al di là della funzionalità, tuttavia, cuciniamo con i cucchiai di legno perché l’abbiamo sempre fatto”. Ma il cucchiaio è solo la punta dell’iceberg di cucina che la Wilson ci propone. Che ben presto si passa a parlare di pentole e padelle, di coltelli, del fuoco e del ghiaccio. Ma anche e soprattutto di elementi a volte presi sotto gamba ma fondamentali e fondanti di una cucina ben messa: le dosi da utilizzare e come calcolarle (ricordo sempre il mio sgomento davanti alle ricette che proponevano l’uso di ingredienti q.b. – quanto basta; ma quanto basta?), delle macine per sminuzzare, di come e cosa deve comporre una cucina funzionale e funzionante. L’utilizzo sapiente, e giornalistico, di memorie storiche per arrivare alla conclusione parlando degli oggetti ora quotidianamente utilizzati, permette anche all’autrice di farci capire che il nostro modo, attuale ed occidentale di cucinare, funziona perché gli ingredienti, così amalgamati, si adattano al nostro gusto (e viceversa). Cuocere il riso a basso calore e la pasta ad alto, serve a non destabilizzare le componenti alimentari. E pur tuttavia ci sono altri modi di cucinare le stesse cose, altre cose da cucinare allo stesso modo, altri strumenti che possono intervenire per aiutarci in cucina (e nel mangiare). Una critica ed una analisi che io, da buon viaggiatore nel mondo, non posso che condividere in pieno. Come dimenticare gli spaghetti fritti delle mie puntate giapponesi. Dove pensavo ai noodle ripassati nel wok, fino a che non ho visto prendere degli spaghetti De Cecco, buttarli nella friggitrice e servirli cosparsi di sale come snack – aperitivo. Nella sua prospettiva storica evoluzionistica, Bee Wilson ci accompagna anche nelle “rivoluzioni” tecnologiche che hanno accompagnato le cucine di tutti i tempi. Dalla fondamentale e realmente rivoluzionaria scoperta del fuoco per cucinare il cibo all’uso del ghiaccio per conservarlo; dall’invenzione della ciotola multiuso (per cucinare e da usare come piatto) alla famosa batteria da cucina descritta già nel libro tramato e dedicato alla grande Julia Child. Per terminare, dopo la partenza con il cucchiaio di legno, alla storia della forchetta ed a quella dei coltelli. Gustose e gustate da me anche le puntate dedicate alle piccole rivoluzioni della tavola e di come siano state scatenate da grandi rivoluzioni politiche o, viceversa, su come i mutamenti del modo di nutrirsi siano la causa di avanzamenti impensabili. Infine, non posso che essere contento e soddisfatto se l’ultimo capitolo è dedicato alla mia bevanda principe, il caffè. Ed a come Bee Wilson, facendo un lungo giro a tutto tondo, arrivi alla conclusione da me praticata da anni: il miglior caffè dipende da una buona miscela e da una corretta moka. Grazie, Bialetti! Per finire e rendere omaggio trasversale all’autrice di questo a me caro scritto, vorrei citarvi un aneddoto dedicato agli spaghetti: il 1º aprile 1957 la BBC mandò in onda un falso documentario in cui si raccontava la raccolta primaverile degli spaghetti in Svizzera. All'epoca la pasta era quasi sconosciuta nel Regno Unito, tanto che molti telespettatori inglesi, non rendendosi conto che fosse un pesce d'aprile, credettero davvero che gli spaghetti crescessero sugli alberi e telefonarono alla BBC per chiedere informazioni su come poter coltivare questo "albero esotico" nel proprio giardino di casa. Il documentario si intitolava “Spaghetti Harvest”!
Giuseppina Torregrossa “La miscela segreta di casa Olivares” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 12/05/2015 – I: 27/07/2017 – T: 29/08/2017] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2014]
Non meravigliatevi di vedere questo romanzo inserito nelle trame di cucina, benché non faccia parte della collana del Corriere. In realtà, si parla più e meglio di storie di cucina in questo libro che in buona parte della collana. Inoltre, avevo bisogno di un titolo per completare il quartetto. D’altra parte per chi segue i miei voli librari, si sarà accorto che i romanzi e gli scritti di Giuseppina Torregrossa hanno una grossa componente legata alla cucina, fin da quel primo che lessi (“Il conto delle minne”) passando per un titolo certamente evocativo (“Panza e prisenza”). Qui poi, l’intimo ambiente domestico non solo assurge a centro della vita della famiglia Olivares, prima e dopo i disastri della guerra, ma è anche il centro della bevanda adombrata dal titolo. Il caffè. E se si parla di caffè, come posso io non solo tirarmi indietro, ma anche non partire già con spirito positivo verso la lettura (e l’assaggio). Certo, alcune parti e descrizioni non sono proprio “mie” al cento per cento: io non metto zucchero nella nera bevanda, io mi ritrovo nell’ultima parte, quando si passa dalla “napoletana” alla “moka”, io lascio i fondi per la caffeomanzia solo bevendo “caffè alla turca” (cosa che non succede spesso, però). Ma quando si entra nella bottega di Roberto Olivares, quando si comincia ad odorare il profumo del caffè appena tostato, ecco che il vostro super-bevitore di caffè non si tira indietro, e sorbettando il nero nettare si appresta ad ascoltare la storia della famiglia palermitana. Con i maschi tutti con la R: papà Roberto, il maggiore Ruggero (come il grande normanno), lo studioso, quello che vuole farsi prete, che perde (quasi) la ragione durante i bombardamenti del ’43, e la ritrova grazie alla Provvidenza, i due mezzani, Raimondo e Rolando, che ad un certo punto scompaiono senza che se ne senta la mancanza. E con le donne, quelle del ramo materno, che si rivolgono ai fiori: nonna Ortensia, che accudisce la famiglia e la casa, mamma Viola, che legge i fondi e dona speranza al quartiere dei Quattro Mandamenti, e le figlie Genziana, l’eroina della storia, e Mimosa, tanto fragile che non sopravvivrà alla guerra ed agli stenti. Inciso, ricordo per i non palermitani che il quartiere suddetto è quello con la Kalsa, con la Vucciria, con Ballarò, con la chiesa della Martorana. E qui mi fermo se no diventa una guida turistica. La famiglia Olivares da sempre si occupa di caffè, dalla torrefazione alla vendita, laddove Roberto, con il suo fine naso, riesce ad elaborare una miscela impareggiabile, mescolando arabica e robusta. Altro inciso: vogliamo parlare di miscele di caffè? Perché come pianta, di caffè ne esistono in realtà solo tre: arabica (70%), robusta (28%) e liberica (2%). Quello che varia è la località di produzione e raccolta. Quindi andiamo dal Blue Mountain giamaicano (produzione in alta montagna) al Kopi Luwak indonesiano (raccolta con lo zibetto delle palme). Per i cultori segnalo che da tre anni il Kopi (venduto a 15$ la tazza) è stato soppiantato dal Black Ivory thailandese (venduto a 40$ la tazza, ma non vi dico perché). Ma torniamo al libro ora. Vediamo la famiglia ad inizio guerra nel ’40, con i figli ancora piccoli, con la capacità di Viola di fare consolazione alla gente del quartiere leggendo i fondi, con l’olfatto di Roberto che crea miscele sopraffine. Con Genziana che cresce e matura, ma solo nel corpo, che per ora anela solo verso Medoro. Tuttavia la guerra è una grande falciatrice. Prima fa sparire il caffè, e la gente si accontenta di bere di tutto, anche la cicoria. Poi muore Mimosa. Poi vanno chissà dove per il mondo gli altri due maschi. Ed alla fine, nell’ultimo giorno di guerra, le bombe distruggono gran parte del mondo Olivares. Roberto, Viola e Ortensia periscono nel crollo della chiesa. Ruggero perde la ragione. Rimane solo Genziana, diciasettenne senza guida. Che prende in casa l’orfana Provvidenza. Che tenta senza successo di seguire il filo lasciato da Viola. Che cerca di fermare Medoro, diventato comunista e che andrà a fare carriera a Roma. Sarà il caffè a salvarla, quando due avvenimenti si congiungeranno: la conoscenza e la frequentazione con l’energica Lalla, che viene da Parma, che non ha i legacci della gente di quartiere, e con la sua energia libera le prime potenzialità della nostra eroina. Il ritrovamento, in seguito, dei diari del padre, dove Genziana apprende i segreti delle miscele, dove finalmente torna alla bottega del caffè che farà rifiorire proprio con le sue invenzioni di mescole tra arabica e robusta. Ed alla fine, quando dalla napoletana si passa alla moka, in quel di Palermo ritorna anche Medoro. Ci sarà un lieto fine? A voi la lettura e le scoperte. Di un libro che tocca con lievità dieci anni di vita palermitana, dall’entrata in guerra allo scoppio della “buona economia” degli anni cinquanta, passando per il referendum del ’46 e le mani democristiane sull’isola. Non si parla (se non per toccata e fuga) di mafia. Non si parla (peccato) della strage di Portella della Ginestra. Rimangono gli uomini e soprattutto le donne del quotidiano al centro della vita di ogni giorno. Genziana, Provvidenza (adesso capite il maiuscolo del rapporto con Ruggero), Alivella, Lalla e tutte le lavoranti della “putia degli Olivares”. Una lettura veloce, con qualche bello spunto social-personale, anche se sempre con la leggerezza che contraddistingue gli scritti di Giuseppina.
“Non c’è caffè senza amore.” (109)
Anthony Bourdain “Kitchen confidential” Corriere della Sera Cucina 18 euro 7,90
[A: 12/06/2015– I: 30/09/2017 – T: 10/10/2017] - &&& 
[tit. or.: Kitchen confidential; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2000]
Eccoci finalmente anche all’ultimo libro della serie dedicata alle storie di cucina. Devo dire che finiamo in salita rispetto alla media delle ultime letture culinarie. Non è un libro indimenticabile, non è un autore che si legge facilmente, tuttavia si vede che c’è del fuoco dentro (battuta pessima), c’è passione in quello che fa mister Bourdain, anche se non è tutto oro quello che brilla nella sua mano. Con una facile ed ultima battura direi che piuttosto che oro è Argento (ah, ah, ah, Asia). Se fossi un bravo tramatore, uno che incuriosisce i suoi lettori, approfitterei dei quest’ultimo libro per fare un excursus tra libri, cucina e film. Sarebbe facile parlare non so di “Mangiare, bere, uomo, donna” (con la cucina cinese a Taipei), o de “Il pranzo di Babette” (cucina francese in salsa danese), o, ma solo per i cinefili, “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”, dove il sempre complicato Greenaway ci mostra il criminale Albert Spica che va a cena, ogni sera, con la moglie Georgina e i suoi scagnozzi, nel ristorante londinese “Le Hollandais”, di cui è comproprietario insieme allo chef francese Richard… Per non parlare dei miei libri in genere giallo-noir, con Pepe Carvalho che brucia i libri mentre prepara manicaretti, con Fritz di Nero Wolfe che strabilia la cucina mentre il capo coltiva orchidea, per finire con le abbuffate di mare di Salvo Montalbano. Ma qui non abbiamo contaminazioni, non abbiamo intenti morali. Il pessimo individuo che diventa un ottimo cuoco, ci narra quello che succede nelle grandi cucine, con uno sguardo a volte brutale, ma decisamente sincero. Il libro è diviso in sei portate (antipasto, primo, secondo, contorno, dessert e caffè) e segue la biografia di Anthony stesso, dall’incanto della prima ostrica gustata a nove anni (che gli fa nascere l’amore prima per il cibo e poi per la cucina) fino all’affermarsi come cuoco, anzi come “chef” di locali prestigiosi come la “Brasserie Les Halles” di Manhattan. Dopo che ci confessa la sua scarsa voglia di studiare libri in scuola più o meno serie, la sua frequentazione di ambienti emarginati, il ricorso a tutta una serie di droghe e di alcolici, vediamo il futuro cuoco evolversi da zero a cento. Negli anni Settanta fa il lavapiatti nel villaggio di Dreadnought, in un ristorante palafittato sulla spiaggia, con orde di turisti insaziabili e cuochi che sembrano uscire dalla penna di Stevenson: jeans, collane, spinelli, e sesso a tutto spiano. Prendendo mentalmente spunto da quel capolavoro di noir uscito dalla penna di James Ellroy, “L.A. confidential”, da dove esce fuori un ritratto impietoso della città californiana, Bourdain ci fornisce il “suo” ritratto impietoso del posto dove ha deciso di vivere. Una cucina dove vivono e si affrontano “una banda di degenerati, drogati, profughi, teppisti ubriachi, ladruncoli, sgualdrine e psicopatici”. La cucina diventa una prigione con la sua rigida disciplina, dove tutti devono danzare piuttosto che muoversi, girando al volo tra fornelli e piatti, dove la capacità di lavorare in squadra è veramente l’unica cosa che conte. Quando passa, grado dopo grado, da lavare a tagliare a cucinare a comandare, Bourdain ringrazia i mentori che lo hanno “ridotto” così (uso le virgolette perché sembra sempre che faccia le cose obtorto collo, quando invece è lui che scegli il suo mestiere) e capisce alcune regole fondamentali, che in maniera ferrea fare adottare e subire ai suoi sottoposti: affidabilità, puntualità, saper stare in gruppo, sono dei must. Ma mentre si lavoro tutto ciò è inderogabile, quando si stacca non ci sono più regole. Vediamo Bourdain stesso, ma anche i suoi amici, le persone che lo seguono ciecamente nelle sue imprese culinarie, una volta lontano dai fornelli fare tutto ciò che una persona normale farebbe per esser incarcerato ed avere la chiave buttata lontano (se uno spinello è lecito, strafarsi di eroina lo è meno, e così via quasi degenerando). Ovviamente Bourdain, che non è sicuramente e solamente uno “fuori di testa”, dissemina le sue pagine anche di piccoli consigli utili a noi non addetti ai fornelli: come non essere avvelenati nei ristoranti, come scegliere in un menù complesso, cosa fare dei coltelli da cucina, le pietanze da non ordinare, i piatti del girono da rifiutare, i trucchi dei cuochi per sbolognare gli avanzi. Forse non diventeremo dei cuochi, ma sapremo perché non bisogna ordinare pesce il lunedì. Ma noi, con Anthony, siamo fondamentalmente d’accordo che il nostro corpo merita tutti i divertimenti alimentari che ci si potrà concedere (ed io sono il primo a non disdegnare il ceviche a Lima, i granchi nel Maine e le bistecche di dromedario nel deserto libico). E chiudiamo questo libro, e queste avventure culinarie, mirando al prossimo pasto, anche poco igienico, cui andremo incontro. A presto, felafel israeliano!
Riprendiamo anche l’andamento regolare e, con una settimana di ritardo, ci dedichiamo alla cura di chi accumula troppo lavoro su di sé, e vedremo come.
Il resto è storia nota, con la mamma che, seppur con enorme lentezza, sembra a poco a poco migliorare, anche se il percorso è ancora lungo. Con i viaggi che si avvicinano all’orizzonte ed a cui dedichiamo sempre il consueto spazio fisico e mentale. Con tutte le persone che sostengo e mi sostengono. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

NOVEMBRE 2017
Mi sembra un libro consono al momento attuale, in cui le attività mammo-mediche mi assorbano ma non posso lasciare nulla indietro.

OCCUPATI, ESSERE TROPPO

John Buchan                  “I trentanove scalini”
Avete un’azienda da mandare avanti, una libreria da montare, una cena per venti da preparare e il vostro migliore amico è in ospedale. Quindi siete troppo occupati per leggere questa nostra ricetta - per non parlare del romanzo che vi stiamo prescrivendo. Entrate comunque, solo per un attimo, nella vita di Richard Hannay, e potreste trovare un antidoto.
Hannay, all’inizio del romanzo di Buchan, è in cattive acque. Appena tornato dalla guerra in Rhodesia, per fortuna intatto, ha deciso di concedere al suo vecchio paese un altro giorno per dimostrare che non è «scialbo come una bibita gassata rimasta sotto il sole». Altrimenti, tornerà nel Veld. Poi, con una gioia che non lo mette certo in buona luce, trova un cadavere nella propria stanza. Non è morto, o almeno non nel senso convenzionale del termine; l’uomo racconta ad Hannay una storia molto avvincente, dicendogli che in realtà lui non si trova lì, ma in un altro appartamento dello stesso edificio, sdraiato sul letto, in pigiama, con la mascella fatta saltare da un colpo di pistola.
Da quel momento, e per i successivi nove, brevi e scattanti capitoli di questo romanzo dal ritmo fenomenale, Hannay diventa un fuggitivo. Capiterà anche a voi – fuggirete dall’infinito elenco delle cose che dovete fare. La sua fuga dall’uomo sinistro con gli occhi socchiusi sarà così avvincente che dovrete trovare il modo per eludere le commissioni e trovare un momento per sedervi e leggere. Probabilmente siete bravissimi nel multitasking, e in questo caso leggetelo mentre correte da una riunione all’altra. Anche Hannay ci riesce. Decodifica un messaggio di importanza vitale sul treno per la Scozia, e tutto mentre finge di essere un contadino che parla con un accento pesantissimo. Partecipa a una riunione segreta del governo britannico e scopre, tra i presenti, qual è la spia tedesca. Infine, grazie all’intuito, riesce a debellare l’infame «Pietra nera», una cricca di spie. Dopo avere trascorso ventuno giorni di fila a sfuggire ai migliori sicari internazionali, Hannay salva la giornata – e il mondo.
È improbabile, comunque, che il vostro mondo finisca se non sbrigate tutte le commissioni. Questo romanzo vi spingerà, anzi, a domandarvi se avete davvero preso troppi impegni. Sicuramente potevate inserire un po’ di crittografia, o l’imitazione di un contadino. Proprio non ce la fate a salvare anche il mondo? Finché non vi sarete imbattuti in Hannay, non avrete la più vaga idea di cos’è una vita frenetica.

Bugiardino

Anche se in originale, il libro l’ho letto (ed ho visto il magnifico film di Hitchcock, “Il club dei 39”). Ne lessi ormai quasi due anni or sono, e come vedete, il giudizio di allora è in completo allineamento con l’analisi delle libropeute cui sono ormai affezionato.
John Buchan “The thirty-nine steps” Oxford s.p.
[trama pubblicata il 7 febbraio 2016]
Avevo messo questo libro tra i ricercabili, per gli accenni libropeutici e per un vago ricordo del film di Hitchcock. Vago, che pensavo fosse un film giallo, ed invece era d’azione. E quanta. Trovo poi il libro non in una biblioteca, ma bensì negli scatoloni del trasloco della mia ampia e pur tuttavia sparsa collezione di libri duranti i grandi lavori estivi di quest’anno che stanno portando a traslochi e ricollocamenti di nipoti in quel di Prati. Fatta questa premessa, il libro era presente in originale, e, girando per le strade americane, mi è sembrato un giusto omaggio all’inglese (o all’americano). Stranezza poi scoprire che John Buchan, I° barone di Tweedsmuir è in realtà scozzese. Che, come dice il titolo appena riportato, è stato un Lord inglese. Non solo, ma questo traspare sicuramente dal testo, ha avuto una attiva vita politica, tanto da essere nominato nel 1935 Governatore Generale del Canada (cioè il facente funzione del re inglese quando questo non è presente nel territorio canadese, cioè per il 90% del tempo). E che in Canada muore accidentalmente, nel febbraio del 1940, cadendo dalle scale a seguito di un piccolo ictus. All’ictus sarebbe sopravvissuto, ma nella caduta batte ripetutamente la testa, e dopo 5 giorni muore. Coincidenza strana, dal settembre precedente, cioè dall’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe naziste, Buchan stava lavorando febbrilmente per un tentativo di soluzione della crisi, essendo un convinto pacifista, dopo aver visto cosa successe durante la Prima Guerra Mondiale. Il romanzo è di una complicazione incredibile, e sembra un prototipo di quelli che saranno le avventure di James Bond, solo con meno tecnologia. E con un protagonista capitato per caso negli avvenimenti, ma che vi si getta a capofitto come se fossimo nel film “Tutto in una notte”. Siamo nel mese di maggio del 1914; la guerra è alle porte in Europa, Richard Hannay il protagonista e narratore, scozzese, torna nella sua nuova casa, un appartamento a Londra, dopo una lunga permanenza in Rhodesia. Una notte, uno suo vicino di casa, l'americano Frank Scudder, lo ferma mentre sta tornando a casa e lo convince a farsi invitare in casa. Una volta entrato gli racconta una strana storia su un complotto ai danni del primo ministro greco, Karolidis che secondo Scudder, verrà ucciso di lì a tre settimane, il 15 giugno, durante una riunione che si terrà a Londra. Scudder gli racconta anche che, per poter sfuggire ai suoi nemici, ha portato nel suo appartamento un cadavere che ha sfigurato per fare in modo che possa esser scambiato per lui. Hannay nasconde Scudder nel proprio appartamento, ma quattro giorni dopo Hannay torna a casa e trova Scudder (quello vero) morto con un coltello nel cuore. Hannay teme che gli assassini verranno a cercarlo, ma non può chiedere aiuto alla polizia perché è lui il più sospettabile dei due omicidi. Inoltre, si sente in dovere di proseguire l’opera di Scudder e salvare Karolidis. La mattina successiva Richard trova, per puro caso, il taccuino di Scudder, e si prepara a sparire dalla circolazione: per cercare di farlo senza lasciare tracce, convince il lattaio con una scusa a prestargli la sua divisa da lavoro (e spesso si travestirà o convincerà qualcuno a nasconderlo). Nonostante lo stratagemma si sente osservato, ma riesce ad arrivare in Scozia, dove la mattina seguente legge sul giornale che la polizia lo sta cercando. Fugge di nuovo, ma è individuato e pur tuttavia riesce a fuggire riparandosi in una locanda per la notte. Inventa una storia per il locandiere che si convince ad aiutarlo. Durante la permanenza presso la locanda, Hannay decritta il cifrario utilizzato nell’agenda dell’americano. Il giorno dopo, due uomini arrivano alla locanda alla sua ricerca, ma l'oste riesce ad ingannarli, consentendo ad Hannay di rubare la loro auto e scappare. Sulla sua strada, Hannay riflette su ciò che ha appreso dagli appunti di Scudder. Il vero mandante dell'omicidio è la Germania: gli uomini che hanno ucciso Scudder, infatti, appartengono a un'organizzazione chiamata "Pietra Nera", un gruppo di spie tedesche infiltrate in Inghilterra con il preciso scopo di raccogliere segreti militari e di far scoppiare la guerra. Pur avendo mezzi (automobili ed anche un aereo) e uomini in abbondanza, sono un po’ ingenui e, benché varie volte lo scoprano, Richard, con moltissima fortuna e un pizzico di astuzia, riesce sempre a fuggire. Nell’ultimo inseguimento però, onde evitare una macchina va a sbattere contro un albero. Ma l'altro guidatore gli offre un passaggio: è Sir Harry, un onesto politico locale, che, scoperte le esperienze di Hannay in Sud Africa, ne diventa amico e scrive una lettera di presentazione per mettere in contatto Hannay con una persona fidata al Ministero degli Esteri. Poco dopo, inseguito ancora dalla polizia, finisce per rifugiarsi nel posto peggiore: un casolare occupato da un uomo anziano. Purtroppo, l'uomo si rivela essere uno dei nemici, e con i suoi complici si blocca Hannay nella cantina. Per sua fortuna, la stanza in cui Hannay è rinchiuso è piena di materiali per fabbricare bombe, che egli usa per uscire dalla casa, pur tuttavia ferendosi. Dopo alcuni giorni per rimettersi dalle ferite, Hannay riesce a tornare a Londra, dove finalmente incontra Sir Walter, il conoscente di Sir Henry. Mentre discutono gli appunti di Scudder, Sir Walter riceve una telefonata che lo avverte dell’assassinio di Karolidis. Sir Walter svela ad Hannay alcuni segreti militari prima di lasciarlo tornare a casa. Ma Hannay non sa tirarsene fuori, e, preso da una improvvisa idea, torna di nuovo a casa di Sir Walter, dove è in corso una riunione ad alto livello. Quando un Ammiraglio della Marina lascia la riunione, Hannay lo riconosce come uno dei suoi ex inseguitori in Scozia. Hannay avverte Sir Walter e gli altri funzionari che l'uomo è un impostore e rivela il motivo del suo ritorno: la frase "i trentanove scalini" potrebbe riferirsi al punto di sbarco in Inghilterra, da cui la spia è in procinto di salpare. Per tutta la notte, Hannay e capi militari inglesi cercano di capire il significato della frase misteriosa, ipotizzando al fine che sia una città costiera nel Kent. Dove trovano in effetti una scogliera che con trentanove scalini scende in mare. Ed in mare aperto vedono uno yacht. Fingendosi pescatori, alcuni poliziotti visitano lo yacht e scoprono che almeno uno dei membri dell'equipaggio sembra essere tedesco. Le altre persone ospiti della barca sono a terra impegnate in una partita di tennis, e sembrano invece essere inglesi. Tuttavia corrispondono alla descrizione fattagli da Scudder (un uomo senza una falange ad un dito). Hannay, da solo, li affronta e dopo una lotta, due degli uomini vengono catturati mentre il terzo cerca di fuggire verso lo yacht ma viene anche lui arrestato dalla polizia. Il complotto è sventato. Il Regno Unito recupera le carte con i segreti militari. Poche settimane dopo, l'attentato di Sarajevo farà comunque scoppiare la prima guerra mondiale. Il tutto in meno di cento pagine. Tanto che alla fine della lettura viene voglia di stendersi in un prato e rifiatare. Come diceva un oscuro spettatore ad un film similare, caro Richard guadagnerai due soldi, ma fai una vita… Comunque è stata una lettura divertente, anche se non eccelsa. Come divertente fu il film del grande maestro, ancora nel suo periodo inglese, e poco dopo il successo della prima versione de “L’uomo che sapeva troppo”.

Conclusioni

Assolutamente, completamente, entusiasticamente d’accordo. Tanto che mi è venuta l’ansia al solo rileggerne la mia trama. Il libro di Buchan è un antidoto potente per chi pensa di poter aggiungere qualche attività alle migliaia che già compie quotidianamente. Rifiatate, gente. Stendevi su di un prato, davanti ad un camino, in un bel divano comodo, prendete un libro in mano, e dimenticatevi del resto.

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