Nel senso che, con questa
infornata (mi si scusi il termine), terminiamo l’analisi della collana del
Corriere della Sera dedicata alle Storie di Cucina, inserendoci, tra l’altro,
una storia che sarebbe stata bene insieme alle altre, ma che è invece un leggibile
libro della sempre simpatica Giuseppina Torregrossa. Per il resto, abbiamo due “chef”
che, direttamente o di traverso, parlano delle loro esperienze culinarie, ed
una critica gastronomica che mi regala uno dei migliori libri della collana.
Buona appetito, allora.
Rudolph Chelminski “Il perfezionista” Corriere della Sera Cucina 6 euro
7,90
[A: 06/03/2015– I: 23/04/2017 – T: 29/04/2017] - && +
[tit. or.: The Perfectionist; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 2005]
Poteva
essere interessante, ma alla fine si perde in molti rivoli che l’autore non
sembra saper gestire. Vuol dire troppe cose, e lo fa, a scapito della trama
principale. E forse del messaggio che intendeva mandare. Certo, si celebrano i
fasti, ascesa e caduta, di un grande cuoco, il francese Bernard Loiseau. Ma
l’autore sembra anche voler fare in questo libro un’analisi del mondo della
cucina francese, dominato dalla lunga mano manovrante delle “Guide Rosse Michelin
(GRM)”, ed una critica alle manie gastronomiche imperanti (o che sono emerse
negli ultimi trenta – quaranta anni). Questa parte però risulta talmente
diluita nei discorsi, nelle riprese e negli accenni, che stenta a venir fuori.
Mentre viene fuori il vezzo di citare (quasi) tutti i piatti in francese, come
se non si fosse capace di tradurne la denominazione. Capisco che possa avere il
suo fascino per il pubblico americano, ammaliato da questa patina di bellezza
(e voluttà). Ma un traduttore in italiano avrebbe anche dovuto tener conto che
di certo l’Italia non ha una cucina inferiore alla francese. Allora perché
continuare a citare “la soupe d’escargots aux orties” invece di chiamarla
subito “la zuppa di lumache all’ortica”. Da noi, il francese, non sempre fa
“alta cucina”! Tra l’altro, il tema che l’ottantenne americano, che da quasi
sempre però vive in Francia, decide di trattare è di principio stimolante.
Tanto che il sottotitolo recita “Vita e morte di un grande chef”. Perché
sicuramente Loiseau era un grande chef, nato agli inizi degli anni ’50. Che
seguiamo, non tanto velocemente però, nella breve giovinezza (poco studioso, ma
di capacità gustative fuori del comune) nei sobborghi natii vicino
Clermont-Ferrand (dove nacquero, almeno una trentina di anni prima le GRM, il
must gastronomico dei francesi e non solo). Vista la sua propensione per la
cucina, il padre lo inserisce nella cucina dei fratelli Troisgros (una cucina a
tre stelle ininterrottamente dal 1968 ad oggi!). Lì farà tutta la trafila, da
spalatore di carbone per il fuoco ad aiutante. Ma il suo carattere
indipendente, giocoso, e comunque dotato di personalità, non gli consente un
apprezzamento dai “seriosi” maestri cuochi. Così che alla fine
dell’apprendistato si ritroverà a Parigi, preso ed apprezzato da un altro
maestro di cucina irregolare, Claude Verger, patron de “La Barriera di Clichy”
nella zona sud di Parigi. Qui Bernard dà prova delle sue capacità ma
soprattutto della sua pignoleria: tutto deve essere perfetto, perfetto per
poter ambire a quel sogno che fin dall’infanzia lo seguiva e perseguitava: il
raggiungimento delle tre stelle. Il passo forte, fu nel 1975, quando Verger
decide di comperare “La Cote d’Or” un albergo – ristorante a Saulieu, che dal
1935 al 1964, sotto la guida di Alexandre Dumaine aveva mantenute le sue tre stelle.
Bernard lavora sodo, si crea un gruppo che agisce all’unisono con lui, prima
con il “maître d’hotel” Hubert, poi con lo Chef (si, con la C maiuscola)
Patrick Bertron, infine con Dominque, la sua seconda moglie (della prima
stendiamo un velo pietoso), che, oltre ad essere un valido aiuto nelle
relazioni pubbliche, gli darà tre figli: Berngere, Bastien e Blanche (sempre
per mantenere il logo BL). Dal 1981 comincia a crescere nelle liste dei
ristoratori top, decidendo anche di rinverdire i fasti dell’albergo.
Cominciando a fare debiti mostruosi. Ma nel 1991, finalmente, avendo una serie
di piatti “essenziali”, che lasciano uscire direttamente il proprio sapore,
senza mascheramenti, ed avendo raggiunto un livello di eccellenza anche con
l’albergo, riceva a coronamento della sua vita le famigerate tre stelle. Ma
come sappiamo da altre letterature, e da film vari (andatevi a vedere o
rivedere “Amore, cucina e curry” o anche il bellissimo “Ratatouille”, dove la
figura di Chef Gusteau è ricalcata proprio su Loiseau) non è tanto raggiungerle
la fatica, ma mantenerle. Bernard si deve barcamenare allora tra i controlli di
cucina, i prestiti sempre più onerosi, nonché la decisione, primo nel suo
genere, di quotarsi in borsa per ottenere quel surplus monetario che gli
consente di andare avanti. Inoltre, Bernard comincia ad apparire in TV, ad
apparentarsi con altre cucine in giro per il mondo, a vendere prodotti con il
suo nome. Tutto per aumentare lo stress, lui che, come ci ripete l’autore dalla
prima pagina, è un perfezionista, che non lascia cadere una briciola, che
cambia il grembiule più volte al giorno se si ombra. E che lo ripiega a sera maniacalmente
in tre parti. Nel 2003, sempre più assillato da problemi economici, sempre più
spinto su e giù dalle sue tendenze bipolari, senza riuscire ad adeguarsi ai
trend della nuova cucina, ed anche non più trattato in palmo di mano dai
critici, ha la tremenda, per lui, visione di perdere una stella. Non ce la fa,
non ce la può fare. Ed a 52 anni si uccide. Ma questa pur intensa e complicata
vita di un cuoco francese, è ingarbugliata dal tentativo, complicato e non ben
riuscito, di riproporre il clima gastronomico di quegli anni. Allora, certo,
parlare dei grandi, di Bocuse, Ducasse, Veyrat e tanti altri. Parlare degli odi,
delle ripicche, dei piatti di cui ci si innamora, della cucina del territorio
(grande must francese), ma anche di tutte le storture della “nouvelle cuisine”.
Ci sarebbe voluto un altro libro, e forse un'altra penna, per rendere al meglio
tutto ciò. Qui ci si perde, si lascia e si ritorna su temi e momenti. Ma come
se si fosse seduti alla tavola di uno di questi grandi, pronti a spendere 200 o
300 euro per una cena. Cosa che ritengo al di fuori del senso comune. Ho le mie
idee sulla cucina, e probabilmente divergono alquanto da quelle di Chelminski.
Per finire, al solito, qualche considerazione più o meno a latere. In quasi 500
pagine non c’è una ricetta che è una. Ora, vero che si parla di “Storie di
cucina”, ma se si parla di cuochi, di cotture, ed altro, qualcosa se ne poteva
agilmente scrivere. Magari in una piccola appendice. Anche se mi rendo conto
che si entra nel campo minato dei personalismi culinari. Mi correggo, anzi, si
parla ad un certo punto di fondi di cottura, e se ne danno quantità e modi, ma sono
dovuto andare a ripercorrere tutto il libro per trovarne traccia. A pagina 281
poi, l’autore, ripeto americano, fa un panegirico sugli impegni lavorativi dei
francesi, infarcendo in 5 righe una sequela di banalità e luoghi comuni. Poteva
esimersi. Infine, un dubbio di traduzione. A pagina 262 si deve usare il
passato remoto del verbo evolvere, che è irregolare, si sa. Ma perché scegliere
il quasi ignoto “evolvé” (usato secondo la Crusca solo nel 5% delle scritture
in italiano) piuttosto che il noto e più usato “evolse” (usato il 65%)? Ai
puristi l’ardua risposta.
Bee Wilson “In punta di forchetta” Corriere della Sera Cucina 12 euro
7,90
[A: 01/05/2015– I: 12/06/2017 – T: 20/06/2017] - &&&
e ½
[tit. or.: Consider the Fork; ling. or.: inglese; pagine: 381;
anno 2012]
Finalmente
un libro di questa collana che soddisfa le mie esigenze. Anche se non c’è una
ricetta che è una. Ma c’è una panoramica, esauriente, coinvolgente, stimolante,
su tutti gli oggetti di cucina, nonché sulla cucina stessa. Facendoci capire
come la cucina ed i suoi utensili si adeguano al mangiare e viceversa. E che
l’evoluzione delle utensilerie (e con questo termine indico tutto, dalle
pentole, alle posate, ai frigoriferi) è funzionale e determinante per
l’evoluzione del gusto e del mangiare. Un matrimonio che, magari non sempre è coronato
dall’amore, ma da elementi che si modificano a vicenda interagendo tra loro,
creando alchimie sempre nuove. Intanto, si nota sin dalle prime pagine, che Bee
Wilson è, anche, una giornalista. Che il suo scrivere è veloce ed efficace,
come un articolo di giornale. Basta già l’attacco, con la lode al cucchiaio di
legno ed al suo utilizzo in cucina sin dall’alba del cucinare stesso. Tanto che
ve ne riporto il nucleo principale: “Questo utensile non sembra particolarmente
sofisticato – in passato era il premio di consolazione dato agli ultimi
classificati – ma ha la scienza dalla sua parte. Il legno non è abrasivo e
dunque è delicato sui tegami: potete raschiare senza aver paura di rigare la
superficie. Non è reattivo: non dovete temere che lasci un gusto metallico o
che si corroda a contatto con gli agrumi e con i pomodori. È anche un cattivo
conduttore di calore, il che spiega perché potete mescolare la zuppa bollente
senza scottarvi le dita. Al di là della funzionalità, tuttavia, cuciniamo con i
cucchiai di legno perché l’abbiamo sempre fatto”. Ma il cucchiaio è solo la
punta dell’iceberg di cucina che la Wilson ci propone. Che ben presto si passa
a parlare di pentole e padelle, di coltelli, del fuoco e del ghiaccio. Ma anche
e soprattutto di elementi a volte presi sotto gamba ma fondamentali e fondanti
di una cucina ben messa: le dosi da utilizzare e come calcolarle (ricordo
sempre il mio sgomento davanti alle ricette che proponevano l’uso di
ingredienti q.b. – quanto basta; ma quanto basta?), delle macine per
sminuzzare, di come e cosa deve comporre una cucina funzionale e funzionante.
L’utilizzo sapiente, e giornalistico, di memorie storiche per arrivare alla
conclusione parlando degli oggetti ora quotidianamente utilizzati, permette
anche all’autrice di farci capire che il nostro modo, attuale ed occidentale di
cucinare, funziona perché gli ingredienti, così amalgamati, si adattano al
nostro gusto (e viceversa). Cuocere il riso a basso calore e la pasta ad alto,
serve a non destabilizzare le componenti alimentari. E pur tuttavia ci sono
altri modi di cucinare le stesse cose, altre cose da cucinare allo stesso modo,
altri strumenti che possono intervenire per aiutarci in cucina (e nel
mangiare). Una critica ed una analisi che io, da buon viaggiatore nel mondo,
non posso che condividere in pieno. Come dimenticare gli spaghetti fritti delle
mie puntate giapponesi. Dove pensavo ai noodle ripassati nel wok, fino a che
non ho visto prendere degli spaghetti De Cecco, buttarli nella friggitrice e
servirli cosparsi di sale come snack – aperitivo. Nella sua prospettiva storica
evoluzionistica, Bee Wilson ci accompagna anche nelle “rivoluzioni”
tecnologiche che hanno accompagnato le cucine di tutti i tempi. Dalla
fondamentale e realmente rivoluzionaria scoperta del fuoco per cucinare il cibo
all’uso del ghiaccio per conservarlo; dall’invenzione della ciotola multiuso (per
cucinare e da usare come piatto) alla famosa batteria da cucina descritta già
nel libro tramato e dedicato alla grande Julia Child. Per terminare, dopo la
partenza con il cucchiaio di legno, alla storia della forchetta ed a quella dei
coltelli. Gustose e gustate da me anche le puntate dedicate alle piccole
rivoluzioni della tavola e di come siano state scatenate da grandi rivoluzioni
politiche o, viceversa, su come i mutamenti del modo di nutrirsi siano la causa
di avanzamenti impensabili. Infine, non posso che essere contento e soddisfatto
se l’ultimo capitolo è dedicato alla mia bevanda principe, il caffè. Ed a come
Bee Wilson, facendo un lungo giro a tutto tondo, arrivi alla conclusione da me
praticata da anni: il miglior caffè dipende da una buona miscela e da una
corretta moka. Grazie, Bialetti! Per finire e rendere omaggio trasversale
all’autrice di questo a me caro scritto, vorrei citarvi un aneddoto dedicato
agli spaghetti: il 1º aprile 1957 la BBC mandò in onda un falso documentario in
cui si raccontava la raccolta primaverile degli spaghetti in Svizzera.
All'epoca la pasta era quasi sconosciuta nel Regno Unito, tanto che molti
telespettatori inglesi, non rendendosi conto che fosse un pesce d'aprile,
credettero davvero che gli spaghetti crescessero sugli alberi e telefonarono
alla BBC per chiedere informazioni su come poter coltivare questo "albero
esotico" nel proprio giardino di casa. Il documentario si intitolava
“Spaghetti Harvest”!
Giuseppina Torregrossa “La miscela segreta di casa Olivares” Mondadori
euro 10,50 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 12/05/2015 – I: 27/07/2017 – T: 29/08/2017] - &&&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332;
anno 2014]
Non
meravigliatevi di vedere questo romanzo inserito nelle trame di cucina, benché
non faccia parte della collana del Corriere. In realtà, si parla più e meglio
di storie di cucina in questo libro che in buona parte della collana. Inoltre,
avevo bisogno di un titolo per completare il quartetto. D’altra parte per chi
segue i miei voli librari, si sarà accorto che i romanzi e gli scritti di
Giuseppina Torregrossa hanno una grossa componente legata alla cucina, fin da
quel primo che lessi (“Il conto delle minne”) passando per un titolo certamente
evocativo (“Panza e prisenza”). Qui poi, l’intimo ambiente domestico non solo
assurge a centro della vita della famiglia Olivares, prima e dopo i disastri
della guerra, ma è anche il centro della bevanda adombrata dal titolo. Il
caffè. E se si parla di caffè, come posso io non solo tirarmi indietro, ma
anche non partire già con spirito positivo verso la lettura (e l’assaggio).
Certo, alcune parti e descrizioni non sono proprio “mie” al cento per cento: io
non metto zucchero nella nera bevanda, io mi ritrovo nell’ultima parte, quando
si passa dalla “napoletana” alla “moka”, io lascio i fondi per la caffeomanzia
solo bevendo “caffè alla turca” (cosa che non succede spesso, però). Ma quando
si entra nella bottega di Roberto Olivares, quando si comincia ad odorare il
profumo del caffè appena tostato, ecco che il vostro super-bevitore di caffè
non si tira indietro, e sorbettando il nero nettare si appresta ad ascoltare la
storia della famiglia palermitana. Con i maschi tutti con la R: papà Roberto,
il maggiore Ruggero (come il grande normanno), lo studioso, quello che vuole
farsi prete, che perde (quasi) la ragione durante i bombardamenti del ’43, e la
ritrova grazie alla Provvidenza, i due mezzani, Raimondo e Rolando, che ad un
certo punto scompaiono senza che se ne senta la mancanza. E con le donne, quelle
del ramo materno, che si rivolgono ai fiori: nonna Ortensia, che accudisce la
famiglia e la casa, mamma Viola, che legge i fondi e dona speranza al quartiere
dei Quattro Mandamenti, e le figlie Genziana, l’eroina della storia, e Mimosa,
tanto fragile che non sopravvivrà alla guerra ed agli stenti. Inciso, ricordo
per i non palermitani che il quartiere suddetto è quello con la Kalsa, con la
Vucciria, con Ballarò, con la chiesa della Martorana. E qui mi fermo se no
diventa una guida turistica. La famiglia Olivares da sempre si occupa di caffè,
dalla torrefazione alla vendita, laddove Roberto, con il suo fine naso, riesce
ad elaborare una miscela impareggiabile, mescolando arabica e robusta. Altro
inciso: vogliamo parlare di miscele di caffè? Perché come pianta, di caffè ne
esistono in realtà solo tre: arabica (70%), robusta (28%) e liberica (2%).
Quello che varia è la località di produzione e raccolta. Quindi andiamo dal
Blue Mountain giamaicano (produzione in alta montagna) al Kopi Luwak
indonesiano (raccolta con lo zibetto delle palme). Per i cultori segnalo che da
tre anni il Kopi (venduto a 15$ la tazza) è stato soppiantato dal Black Ivory
thailandese (venduto a 40$ la tazza, ma non vi dico perché). Ma torniamo al
libro ora. Vediamo la famiglia ad inizio guerra nel ’40, con i figli ancora
piccoli, con la capacità di Viola di fare consolazione alla gente del quartiere
leggendo i fondi, con l’olfatto di Roberto che crea miscele sopraffine. Con
Genziana che cresce e matura, ma solo nel corpo, che per ora anela solo verso
Medoro. Tuttavia la guerra è una grande falciatrice. Prima fa sparire il caffè,
e la gente si accontenta di bere di tutto, anche la cicoria. Poi muore Mimosa.
Poi vanno chissà dove per il mondo gli altri due maschi. Ed alla fine,
nell’ultimo giorno di guerra, le bombe distruggono gran parte del mondo
Olivares. Roberto, Viola e Ortensia periscono nel crollo della chiesa. Ruggero
perde la ragione. Rimane solo Genziana, diciasettenne senza guida. Che prende
in casa l’orfana Provvidenza. Che tenta senza successo di seguire il filo
lasciato da Viola. Che cerca di fermare Medoro, diventato comunista e che andrà
a fare carriera a Roma. Sarà il caffè a salvarla, quando due avvenimenti si congiungeranno:
la conoscenza e la frequentazione con l’energica Lalla, che viene da Parma, che
non ha i legacci della gente di quartiere, e con la sua energia libera le prime
potenzialità della nostra eroina. Il ritrovamento, in seguito, dei diari del
padre, dove Genziana apprende i segreti delle miscele, dove finalmente torna
alla bottega del caffè che farà rifiorire proprio con le sue invenzioni di
mescole tra arabica e robusta. Ed alla fine, quando dalla napoletana si passa
alla moka, in quel di Palermo ritorna anche Medoro. Ci sarà un lieto fine? A
voi la lettura e le scoperte. Di un libro che tocca con lievità dieci anni di
vita palermitana, dall’entrata in guerra allo scoppio della “buona economia”
degli anni cinquanta, passando per il referendum del ’46 e le mani
democristiane sull’isola. Non si parla (se non per toccata e fuga) di mafia.
Non si parla (peccato) della strage di Portella della Ginestra. Rimangono gli
uomini e soprattutto le donne del quotidiano al centro della vita di ogni
giorno. Genziana, Provvidenza (adesso capite il maiuscolo del rapporto con
Ruggero), Alivella, Lalla e tutte le lavoranti della “putia degli Olivares”.
Una lettura veloce, con qualche bello spunto social-personale, anche se sempre
con la leggerezza che contraddistingue gli scritti di Giuseppina.
“Non c’è caffè senza amore.” (109)
Anthony Bourdain “Kitchen confidential” Corriere della Sera Cucina 18
euro 7,90
[A: 12/06/2015– I: 30/09/2017 – T: 10/10/2017] - &&&
[tit. or.: Kitchen confidential; ling. or.: inglese; pagine: 362; anno 2000]
Eccoci finalmente anche
all’ultimo libro della serie dedicata alle storie di cucina. Devo dire che
finiamo in salita rispetto alla media delle ultime letture culinarie. Non è un
libro indimenticabile, non è un autore che si legge facilmente, tuttavia si vede
che c’è del fuoco dentro (battuta pessima), c’è passione in quello che fa
mister Bourdain, anche se non è tutto oro quello che brilla nella sua mano. Con
una facile ed ultima battura direi che piuttosto che oro è Argento (ah, ah, ah,
Asia). Se fossi un bravo tramatore, uno che incuriosisce i suoi lettori, approfitterei
dei quest’ultimo libro per fare un excursus tra libri, cucina e film. Sarebbe
facile parlare non so di “Mangiare, bere, uomo, donna” (con la cucina cinese a
Taipei), o de “Il pranzo di Babette” (cucina francese in salsa danese), o, ma
solo per i cinefili, “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”, dove il
sempre complicato Greenaway ci mostra il criminale Albert Spica che va a cena,
ogni sera, con la moglie Georgina e i suoi scagnozzi, nel ristorante londinese
“Le Hollandais”, di cui è comproprietario insieme allo chef francese Richard…
Per non parlare dei miei libri in genere giallo-noir, con Pepe Carvalho che
brucia i libri mentre prepara manicaretti, con Fritz di Nero Wolfe che strabilia
la cucina mentre il capo coltiva orchidea, per finire con le abbuffate di mare
di Salvo Montalbano. Ma qui non abbiamo contaminazioni, non abbiamo intenti
morali. Il pessimo individuo che diventa un ottimo cuoco, ci narra quello che
succede nelle grandi cucine, con uno sguardo a volte brutale, ma decisamente
sincero. Il libro è diviso in sei portate (antipasto, primo, secondo, contorno,
dessert e caffè) e segue la biografia di Anthony stesso, dall’incanto della
prima ostrica gustata a nove anni (che gli fa nascere l’amore prima per il cibo
e poi per la cucina) fino all’affermarsi come cuoco, anzi come “chef” di locali
prestigiosi come la “Brasserie Les Halles” di Manhattan. Dopo che ci confessa
la sua scarsa voglia di studiare libri in scuola più o meno serie, la sua
frequentazione di ambienti emarginati, il ricorso a tutta una serie di droghe e
di alcolici, vediamo il futuro cuoco evolversi da zero a cento. Negli anni
Settanta fa il lavapiatti nel villaggio di Dreadnought, in un ristorante palafittato
sulla spiaggia, con orde di turisti insaziabili e cuochi che sembrano uscire
dalla penna di Stevenson: jeans, collane, spinelli, e sesso a tutto spiano. Prendendo
mentalmente spunto da quel capolavoro di noir uscito dalla penna di James
Ellroy, “L.A. confidential”, da dove esce fuori un ritratto impietoso della
città californiana, Bourdain ci fornisce il “suo” ritratto impietoso del posto
dove ha deciso di vivere. Una cucina dove vivono e si affrontano “una banda di
degenerati, drogati, profughi, teppisti ubriachi, ladruncoli, sgualdrine e
psicopatici”. La cucina diventa una prigione con la sua rigida disciplina, dove
tutti devono danzare piuttosto che muoversi, girando al volo tra fornelli e
piatti, dove la capacità di lavorare in squadra è veramente l’unica cosa che
conte. Quando passa, grado dopo grado, da lavare a tagliare a cucinare a comandare,
Bourdain ringrazia i mentori che lo hanno “ridotto” così (uso le virgolette
perché sembra sempre che faccia le cose obtorto collo, quando invece è lui che
scegli il suo mestiere) e capisce alcune regole fondamentali, che in maniera
ferrea fare adottare e subire ai suoi sottoposti: affidabilità, puntualità,
saper stare in gruppo, sono dei must. Ma mentre si lavoro tutto ciò è
inderogabile, quando si stacca non ci sono più regole. Vediamo Bourdain stesso,
ma anche i suoi amici, le persone che lo seguono ciecamente nelle sue imprese
culinarie, una volta lontano dai fornelli fare tutto ciò che una persona
normale farebbe per esser incarcerato ed avere la chiave buttata lontano (se
uno spinello è lecito, strafarsi di eroina lo è meno, e così via quasi
degenerando). Ovviamente Bourdain, che non è sicuramente e solamente uno “fuori
di testa”, dissemina le sue pagine anche di piccoli consigli utili a noi non addetti
ai fornelli: come non essere avvelenati nei ristoranti, come scegliere in un
menù complesso, cosa fare dei coltelli da cucina, le pietanze da non ordinare,
i piatti del girono da rifiutare, i trucchi dei cuochi per sbolognare gli
avanzi. Forse non diventeremo dei cuochi, ma sapremo perché non bisogna ordinare pesce il
lunedì. Ma noi, con Anthony, siamo fondamentalmente d’accordo che il nostro
corpo merita tutti i divertimenti alimentari che ci si potrà concedere (ed io
sono il primo a non disdegnare il ceviche a Lima, i granchi nel Maine e le
bistecche di dromedario nel deserto libico). E chiudiamo questo libro, e queste
avventure culinarie, mirando al prossimo pasto, anche poco igienico, cui
andremo incontro. A presto, felafel israeliano!
Riprendiamo anche l’andamento
regolare e, con una settimana di ritardo, ci dedichiamo alla cura di chi
accumula troppo lavoro su di sé, e vedremo come.
Il resto è storia nota, con la
mamma che, seppur con enorme lentezza, sembra a poco a poco migliorare, anche
se il percorso è ancora lungo. Con i viaggi che si avvicinano all’orizzonte ed
a cui dedichiamo sempre il consueto spazio fisico e mentale. Con tutte le
persone che sostengo e mi sostengono.
CURARSI CON I LIBRI di
Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
NOVEMBRE 2017
Mi sembra un libro consono al
momento attuale, in cui le attività mammo-mediche mi assorbano ma non posso
lasciare nulla indietro.
OCCUPATI, ESSERE TROPPO
John
Buchan “I trentanove
scalini”
Avete
un’azienda da mandare avanti, una libreria da montare, una cena per venti da
preparare e il vostro migliore amico è in ospedale. Quindi siete troppo
occupati per leggere questa nostra ricetta - per non parlare del romanzo che vi
stiamo prescrivendo. Entrate comunque, solo per un attimo, nella vita di
Richard Hannay, e potreste trovare un antidoto.
Hannay,
all’inizio del romanzo di Buchan, è in cattive acque. Appena tornato dalla
guerra in Rhodesia, per fortuna intatto, ha deciso di concedere al suo vecchio
paese un altro giorno per dimostrare che non è «scialbo come una bibita gassata
rimasta sotto il sole». Altrimenti, tornerà nel Veld. Poi, con una gioia che
non lo mette certo in buona luce, trova un cadavere nella propria stanza. Non è
morto, o almeno non nel senso convenzionale del termine; l’uomo racconta ad
Hannay una storia molto avvincente, dicendogli che in realtà lui non si trova
lì, ma in un altro appartamento dello stesso edificio, sdraiato sul letto, in pigiama,
con la mascella fatta saltare da un colpo di pistola.
Da
quel momento, e per i successivi nove, brevi e scattanti capitoli di questo
romanzo dal ritmo fenomenale, Hannay diventa un fuggitivo. Capiterà anche a voi
– fuggirete dall’infinito elenco delle cose che dovete fare. La sua fuga
dall’uomo sinistro con gli occhi socchiusi sarà così avvincente che dovrete
trovare il modo per eludere le commissioni e trovare un momento per sedervi e
leggere. Probabilmente siete bravissimi nel multitasking, e in questo caso
leggetelo mentre correte da una riunione all’altra. Anche Hannay ci riesce.
Decodifica un messaggio di importanza vitale sul treno per la Scozia, e tutto
mentre finge di essere un contadino che parla con un accento pesantissimo.
Partecipa a una riunione segreta del governo britannico e scopre, tra i
presenti, qual è la spia tedesca. Infine, grazie all’intuito, riesce a
debellare l’infame «Pietra nera», una cricca di spie. Dopo avere trascorso
ventuno giorni di fila a sfuggire ai migliori sicari internazionali, Hannay
salva la giornata – e il mondo.
È
improbabile, comunque, che il vostro mondo finisca se non sbrigate tutte le
commissioni. Questo romanzo vi spingerà, anzi, a domandarvi se avete davvero
preso troppi impegni. Sicuramente potevate inserire un po’ di crittografia, o
l’imitazione di un contadino. Proprio non ce la fate a salvare anche il mondo?
Finché non vi sarete imbattuti in Hannay, non avrete la più vaga idea di cos’è
una vita frenetica.
Bugiardino
Anche se in originale, il libro
l’ho letto (ed ho visto il magnifico film di Hitchcock, “Il club dei 39”). Ne
lessi ormai quasi due anni or sono, e come vedete, il giudizio di allora è in
completo allineamento con l’analisi delle libropeute cui sono ormai
affezionato.
John Buchan “The
thirty-nine steps” Oxford s.p.
[trama pubblicata il 7
febbraio 2016]
Avevo
messo questo libro tra i ricercabili, per gli accenni libropeutici e per un
vago ricordo del film di Hitchcock. Vago, che pensavo fosse un film giallo, ed
invece era d’azione. E quanta. Trovo poi il libro non in una biblioteca, ma
bensì negli scatoloni del trasloco della mia ampia e pur tuttavia sparsa
collezione di libri duranti i grandi lavori estivi di quest’anno che stanno
portando a traslochi e ricollocamenti di nipoti in quel di Prati. Fatta questa
premessa, il libro era presente in originale, e, girando per le strade
americane, mi è sembrato un giusto omaggio all’inglese (o all’americano).
Stranezza poi scoprire che John Buchan, I° barone di Tweedsmuir è in realtà
scozzese. Che, come dice il titolo appena riportato, è stato un Lord inglese.
Non solo, ma questo traspare sicuramente dal testo, ha avuto una attiva vita
politica, tanto da essere nominato nel 1935 Governatore Generale del Canada
(cioè il facente funzione del re inglese quando questo non è presente nel
territorio canadese, cioè per il 90% del tempo). E che in Canada muore
accidentalmente, nel febbraio del 1940, cadendo dalle scale a seguito di un
piccolo ictus. All’ictus sarebbe sopravvissuto, ma nella caduta batte ripetutamente
la testa, e dopo 5 giorni muore. Coincidenza strana, dal settembre precedente,
cioè dall’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe naziste, Buchan
stava lavorando febbrilmente per un tentativo di soluzione della crisi, essendo
un convinto pacifista, dopo aver visto cosa successe durante la Prima Guerra
Mondiale. Il romanzo è di una complicazione incredibile, e sembra un prototipo
di quelli che saranno le avventure di James Bond, solo con meno tecnologia. E
con un protagonista capitato per caso negli avvenimenti, ma che vi si getta a
capofitto come se fossimo nel film “Tutto in una notte”. Siamo nel mese di
maggio del 1914; la guerra è alle porte in Europa, Richard Hannay il
protagonista e narratore, scozzese, torna nella sua nuova casa, un appartamento
a Londra, dopo una lunga permanenza in Rhodesia. Una notte, uno suo vicino di
casa, l'americano Frank Scudder, lo ferma mentre sta tornando a casa e lo
convince a farsi invitare in casa. Una volta entrato gli racconta una strana
storia su un complotto ai danni del primo ministro greco, Karolidis che secondo
Scudder, verrà ucciso di lì a tre settimane, il 15 giugno, durante una riunione
che si terrà a Londra. Scudder gli racconta anche che, per poter sfuggire ai
suoi nemici, ha portato nel suo appartamento un cadavere che ha sfigurato per
fare in modo che possa esser scambiato per lui. Hannay nasconde Scudder nel
proprio appartamento, ma quattro giorni dopo Hannay torna a casa e trova
Scudder (quello vero) morto con un coltello nel cuore. Hannay teme che gli
assassini verranno a cercarlo, ma non può chiedere aiuto alla polizia perché è
lui il più sospettabile dei due omicidi. Inoltre, si sente in dovere di
proseguire l’opera di Scudder e salvare Karolidis. La mattina successiva
Richard trova, per puro caso, il taccuino di Scudder, e si prepara a sparire
dalla circolazione: per cercare di farlo senza lasciare tracce, convince il
lattaio con una scusa a prestargli la sua divisa da lavoro (e spesso si
travestirà o convincerà qualcuno a nasconderlo). Nonostante lo stratagemma si
sente osservato, ma riesce ad arrivare in Scozia, dove la mattina seguente
legge sul giornale che la polizia lo sta cercando. Fugge di nuovo, ma è
individuato e pur tuttavia riesce a fuggire riparandosi in una locanda per la
notte. Inventa una storia per il locandiere che si convince ad aiutarlo.
Durante la permanenza presso la locanda, Hannay decritta il cifrario utilizzato
nell’agenda dell’americano. Il giorno dopo, due uomini arrivano alla locanda
alla sua ricerca, ma l'oste riesce ad ingannarli, consentendo ad Hannay di
rubare la loro auto e scappare. Sulla sua strada, Hannay riflette su ciò che ha
appreso dagli appunti di Scudder. Il vero mandante dell'omicidio è la Germania:
gli uomini che hanno ucciso Scudder, infatti, appartengono a un'organizzazione
chiamata "Pietra Nera", un gruppo di spie tedesche infiltrate in
Inghilterra con il preciso scopo di raccogliere segreti militari e di far
scoppiare la guerra. Pur avendo mezzi (automobili ed anche un aereo) e uomini in
abbondanza, sono un po’ ingenui e, benché varie volte lo scoprano, Richard, con
moltissima fortuna e un pizzico di astuzia, riesce sempre a fuggire.
Nell’ultimo inseguimento però, onde evitare una macchina va a sbattere contro
un albero. Ma l'altro guidatore gli offre un passaggio: è Sir Harry, un onesto
politico locale, che, scoperte le esperienze di Hannay in Sud Africa, ne
diventa amico e scrive una lettera di presentazione per mettere in contatto
Hannay con una persona fidata al Ministero degli Esteri. Poco dopo, inseguito
ancora dalla polizia, finisce per rifugiarsi nel posto peggiore: un casolare
occupato da un uomo anziano. Purtroppo, l'uomo si rivela essere uno dei nemici,
e con i suoi complici si blocca Hannay nella cantina. Per sua fortuna, la
stanza in cui Hannay è rinchiuso è piena di materiali per fabbricare bombe, che
egli usa per uscire dalla casa, pur tuttavia ferendosi. Dopo alcuni giorni per
rimettersi dalle ferite, Hannay riesce a tornare a Londra, dove finalmente
incontra Sir Walter, il conoscente di Sir Henry. Mentre discutono gli appunti
di Scudder, Sir Walter riceve una telefonata che lo avverte dell’assassinio di
Karolidis. Sir Walter svela ad Hannay alcuni segreti militari prima di
lasciarlo tornare a casa. Ma Hannay non sa tirarsene fuori, e, preso da una
improvvisa idea, torna di nuovo a casa di Sir Walter, dove è in corso una
riunione ad alto livello. Quando un Ammiraglio della Marina lascia la riunione,
Hannay lo riconosce come uno dei suoi ex inseguitori in Scozia. Hannay avverte
Sir Walter e gli altri funzionari che l'uomo è un impostore e rivela il motivo
del suo ritorno: la frase "i trentanove scalini" potrebbe riferirsi
al punto di sbarco in Inghilterra, da cui la spia è in procinto di salpare. Per
tutta la notte, Hannay e capi militari inglesi cercano di capire il significato
della frase misteriosa, ipotizzando al fine che sia una città costiera nel
Kent. Dove trovano in effetti una scogliera che con trentanove scalini scende
in mare. Ed in mare aperto vedono uno yacht. Fingendosi pescatori, alcuni
poliziotti visitano lo yacht e scoprono che almeno uno dei membri
dell'equipaggio sembra essere tedesco. Le altre persone ospiti della barca sono
a terra impegnate in una partita di tennis, e sembrano invece essere inglesi.
Tuttavia corrispondono alla descrizione fattagli da Scudder (un uomo senza una
falange ad un dito). Hannay, da solo, li affronta e dopo una lotta, due degli
uomini vengono catturati mentre il terzo cerca di fuggire verso lo yacht ma
viene anche lui arrestato dalla polizia. Il complotto è sventato. Il Regno
Unito recupera le carte con i segreti militari. Poche settimane dopo,
l'attentato di Sarajevo farà comunque scoppiare la prima guerra mondiale. Il
tutto in meno di cento pagine. Tanto che alla fine della lettura viene voglia
di stendersi in un prato e rifiatare. Come diceva un oscuro spettatore ad un
film similare, caro Richard guadagnerai due soldi, ma fai una vita… Comunque è
stata una lettura divertente, anche se non eccelsa. Come divertente fu il film
del grande maestro, ancora nel suo periodo inglese, e poco dopo il successo
della prima versione de “L’uomo che sapeva troppo”.
Conclusioni
Assolutamente, completamente,
entusiasticamente d’accordo. Tanto che mi è venuta l’ansia al solo rileggerne
la mia trama. Il libro di Buchan è un antidoto potente per chi pensa di poter
aggiungere qualche attività alle migliaia che già compie quotidianamente.
Rifiatate, gente. Stendevi su di un prato, davanti ad un camino, in un bel
divano comodo, prendete un libro in mano, e dimenticatevi del resto.
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