domenica 12 novembre 2017

Per fortuna ci sono i classici - 12 novembre 2017

In una settimana in cui avrei voluto scrivere di più, i miei fedeli lettori avranno comprensione del momento di difficoltà familiare che si attraversa. Certo mamma migliora, ma la testa è occupata da tanti pensieri. E da queste letture che si collocano ai livelli più bassi degli ultimi anni. Un inutile Bisotti, uno scarso De Giovanni, un poco coinvolgente Glattauer. Per fortuna che Hemingway mi salva da una settimana in minore.
Maurizio De Giovanni “I guardiani” Rizzoli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2017 – I: 11/05/2017 – T: 13/05/2017] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 362; anno 2017]
Non credo ci siano molte alternative: o Maurizio ha prestato il suo nome a qualche suo amico/amica del cuore che aveva scritto un libro impubblicabile o si è fatto una super canna senza riuscire a svegliarsi, così che ha deciso di buttare giù delle pagine, tanto per riempire il tempo. O forse c’è una spiegazione più sottile: avendo letto e compreso la lezione di Borges e della sua Biblioteca, ha deciso di prendervi in prestito dei volumi a caso, e di copiarne alcune pagine. Insomma, dire che non mi è piaciuto è fare un complimento all’editore. Ho trovato: la trama sconclusionata, i personaggi improbabili, i passaggi “esoterici” senza capo né coda, il finale non solo inutile, ma che lascia uno spiraglio ad una possibile seconda puntata. Terrificante prospettiva! Tuttavia, benché ci siano appunto personaggi improbabili, la parte “attuale” del libro di De Giovanni ha il solito tono accattivante dei suoi scritti migliori. C’è questo quarantenne o poco più professore di storia delle religioni, Marco Di Giacomo (scusate la parentesi immediata, avete certo di già notato che il protagonista ha per iniziali MDG…), che insegue una sua idea sui miti antichi e sul loro riproporsi e riprodursi nei miti e nelle religioni successive. C’è il suo fido aiutante Brazo. C’è la nipote di Marco, Lisi, nata quando la madre viveva in un ashram indiano, e dotata sicuramente di grandi capacità di collegamento, nonché della stessa passione dello zio. E c’è la giornalista tedesca Ingrid, che ha letto di Marco, che vuole andare più a fondo nelle scarse notizie delle ricerche del professore, e che sarà coinvolta sino al collo in tutta la storia (perché non è un caso che si affezioni a Lisi, ma che soprattutto vada presto a letto con Marco, anche se le parti erotico-sessuali in De Giovanni sono spesso accennate di passaggio, ed anche qui si capisce e non si capisce; ma noi che siamo maliziosi ne siamo sicuri). Questo manipolo di intrepidi ricercatori comincia a fare connessioni (cioè Lisi, ne fa, usando Internet, come lo zio non sa o non vuole fare), ma in particolare si focalizza su Napoli, sul suo sottosuolo e su tutti i misteri di questa “città nuova”, che sicuramente ha un grande passato, non solo dietro le spalle, ma anche sotto le strade. Ricordo a tutti coloro che non lo hanno ancora fatto, di farsi un giro nella “Napoli sotterranea”, dove vedrete cose mirabili in un labirinto inaspettato di cunicoli (come, analogamente, anche se più prosaicamente, fate un giro sotto Parigi, tra fogne, pulitissime, e catacombe militari). Per poi uscire all’aperto in Piazza San Domenico, dove si andrà a gustare una fetta di pastiera da Scaturchio, per poi risalire verso il palazzo del marchese Sansevero, onde andare ad ammirare il mirabile “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino. Ricerche che porteranno: all’innervosirsi di qualcuno che li guarda perché sa qualcosa (che noi non sappiamo, né sapremo mai, neanche alla fine del libro), nervosismo che porta alla scrittura e pubblicazione di un falso articolo su Marco ed al suo conseguente allontanamento dall’Università; articolo che, essendo falsamente firmato da Ingrid, porta ad una (presto ricucita) rottura tra i nostri due eroi; alla scomparsa verso il Nord di Lisi, sulle tracce di fantomatici amici del Web, che forse sono cattivi (o forse sono sciocchi, o entrambi). Ma non si capisce bene cosa cerchino Marco & C., se non il fatto che ci siano almeno 12 luoghi sacri in quel di Napoli, che devono essere preservati sacri, a costo di uccidere intrusi ed altri millantatori. Ma chi li deve preservare così? Chi sono questi “Guardiani”, del titolo e della storia, che ogni tanto compaiono sotto la guida di un roboante capo, quasi fosse un Dio? Chi sono i tecnologici forse svizzeri che forse rapiscono Lisi e che forse vogliono l’elisir di lunga vita dei Guardiani? Perché i Guardiani sostengono che in certe condizioni, un allineamento dei 12 luoghi provoca… Ma vallo a capire! Come ci proviamo a capire cosa c’entri una persona sulla sedia a rotelle che si aggira con una badante guardando il cielo ed il mare di Napoli. E perché dei monaci tibetani compaiono in Cile? Anzi, non solo perché, ma anche altre domande legate a questa. Solo che si parla dei monaci in un paio di righe e poi scompaiono per tutto il resto del libro. Mentre compaiono, ogni tanto, dei capitoli e delle frasi scritte in corsivo. Assolutamente decontestualizzate (almeno nella prima tre quarti del libro). E poi con accenni vaghi. Ma non si capisce chi sia il bel tomo che pontifica. Né, appunto, come detto e ripetuto, se i buoni siano i Guardiani, la paraplegica malinconica, gli svizzeri tecnologici. O forse sono tutti cattivi. Anche perché, alcuni Guardiani sembrano avere centinaia e centinaia di anni. Tuttavia se De Giovanni ci chiede la sospensione del giudizio di realtà, per ammannirci una storia, io mi aspetto, che, almeno nella logica dello scritto, una logica ci sia. Qui, decisamente, assolutamente, nulla. Finisco con una nota super-positiva: questo libro è un regalo di Ale, e la bruttezza del libro non intacca nulla il gradimento, massimo, che provo nel ricevere un libro in regalo. Un brutto libro, è comunque un libro, che io cerco, con le poche forze che ho, di leggere e di giudicare imparzialmente. Cioè basandomi solo sullo scritto, sulle sensazioni che mi dà l’autore e le sue parole. E sarò sempre grato a chi mi fa un omaggio del genere, che, almeno, mi consente ogni tanto di sfogare tutta la mia cattiveria.
Massimo Bisotti “Il quadro mai dipinto” Mondadori euro 13,50
[A: 02/05/2017 – I: 30/07/2017 – T: 02/08/2017] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 219; anno 2014]
Come dissi qualche trama fa, oltre alle letture “storiche” che programmo per lunghi periodi, al fine di trovare un po’ di continuità sull’immediato, ho deciso di aprire una piccola sezione dedicata alle “attualità”. Per non perdersi nel mare magnum delle uscite, il primo criterio che ho adottato è rivolgermi a quei libri che, secondo un sito librario indipendente, mensilmente risultano i libri più venduti. Questo non per giustificare, ma per spiegare la lettura di questo devo dire assai inutile libro. Che risulta tra i tascabili più venduti in Italia nel mese di gennaio. Io mi domando perché! La scrittura è un concentrato di romanticismo lezioso e poco originale. Più che scene ed azioni (poche) ci sono dialoghi (troppi) e che spesso si slegano tra loro tanto da sembrare solipsismi para-filosofici. Alla fine sembra quasi di leggere un insieme di citazioni e aforismi (tipo i due che riporto e che, soli, mi hanno smosso mezzo neurone) che vanno bene in un libro di Montaigne ma che qui rendono soltanto pesante e noiosa la lettura. Tra l’altro i personaggi si muovono spesso in situazioni tra l’onirico ed il surreale, senza che questo straniamento faccia partecipe il lettore delle loro vicende. Ma come faremo ad entusiasmarci alla vicenda del pittore Patrick, che non termina nessun quadro perché pensa di dover dipingere sempre una scena successiva. Mi fermo un attimo: sarebbe una sindrome di una bellezza immensa, se suscitasse quanto a me sollecitano i migliori libri che ho letto. Quando chiudo pagine che mi restano nel cuore, per un po’ di tempo sto lì a pensare cosa faranno “dopo” i vari personaggi. E se questo è il bello di uno scrittore, sarebbe fantastica la capacità di un pittore di suscitare simili ansie a chi guarda i suoi quadri. Torniamo allo scritto. Patrick è solo colpito dall’ansia della perfettibilità. Cosa che non si riesce mai ad avere, in nessuno. Ed è un’ansia che porta il soggetto a non produrre nulla. Né sul piano artistico, né su quello personale. Per questo Patrick abbandona Roma, la scuola dove insegna, per andare in una città magica come Venezia. Prima di arrivarci, però, due avvenimenti ne segnano il cammino: vuole vedere il famoso quadro che ha lasciato non finito e trova che la donna che doveva essere sulla tela non c’è. Poi sull’aereo, causa turbolenze, sbatte la testa, arrivando a Venezia confuso. Sapendo solo di dover andare ad una certa pensione, la “Residenza Punto Feliz”. Dove trova una serie di personaggi talmente finti da sembrare proprio finti. Il padrone Miguel, suppostamente saggio e compenetrante la pensione di una splendida aurea new wave. Il figlio grande Vance, gondoliere reduce da una storia d’amore finita infelicemente. Il figlio piccolo Enrique, che spara sentenze come fosse un laureato in quattro o cinque facoltà, che se incontro un bimbo così, per prima cosa sparo ai genitori. Ovviamente a Venezia ritrova, casualmente, Raquel, la donna del quadro. E scopre, tra il qui ed il lì (cioè tra una massima, un racconto, un qualcosa che scritto sulla pagina poco incastra con il prima ed il poi) che sono tutti legati, che lui li conosceva tutti, aveva solo perso un po’ di memoria. Ma anche riconquistandola non si capisce né perché se ne era allontanato, né perché continui a frequentarli. Ricomincia allora a corteggiare Raquel, come se fosse una nuova storia d’amore. Certo, prima o poi ci sarà qualche agnizione, ma non si capisce perché Raquel lo abbia lasciato, né perché Patrick, solo avendo dato una botta in testa, ragioni più lucidamente. Con alcuni intarsi di un ridicolo fulminante. Patrick e Raquel vanno in Spagna, credo Ibiza, per vedere la madre di lei. Sorpresi da feste e piogge, si perdono, lui la cerca, non la trova, e disperato torna a Venezia, per poi sapere da lei che lo stava aspettando al bar di fronte a dove si erano persi. Pagine veramente inutili. Salti di scena, salti temporali, domande inutili ed inutili risposte. Uno stile che non convince e che mi fa di nuovo chiedere: come mai un tale inutile libro abbia fatto tante vendite? Mi dicono che tra Instagram e hashtag, le frasi del libro, decontestualizzate, girano in rete con successo. Forse ha un senso, ma messe qui una dopo l’altra, ci si continua a chiedere: ma perché si sono lasciati? Ma perché dovrebbero rimettersi insieme? In fondo, per tutto il libro, tutti i personaggi, in un modo o nell’altro, non fanno che parlare d’amore e dell’amore. Tuttavia, ho letto libri, da cui non si cavava magari una citazione, ma da cui il senso dell’amore si respirava ad ogni riga. Meglio fermarsi prima di continuare il massacro. Io non l’ho capito, questo benedetto autore. Se qualcuno me lo spiega mostrerò imperitura gratitudine. Per ora, permettetemi di sconsigliarlo a tutti.
“Molti spengono ogni luce per paura che prima o poi possa fulminarsi.” (75)
“Dalla mia vita ho imparato … che sentirsi soli stando con qualcuno è la vera solitudine e che da solo non mi sento solo mai.” (116)
Daniel Glattauer “Le ho mai raccontato del vento del Nord” Feltrinelli s.p. (regalo, forse, di Alessandra)
[A: 15/08/2017 – I: 15/08/2017 – T: 16/08/2017] - &&--
[tit. or.: Gut Gegen Nordwind; ling. or.: tedesco; pagine: 192; anno 2006]
Permettetemi di tornare su quel forse di poco sopra. cioè questo è un libro che qualcuno ha regalato ad Ale, che sostiene forse sia stato io. Cosa che nego nel modo più assoluto. E per convincermi e convincerla, le ho chiesto di prestarmelo/regalarmelo, così da leggerlo e capirne qualcosa. Perché ne avevo letto qua e là, tra librerie e lanci pubblicitari, come di un bel libro d’amore ai tempi della rete. Riprende cioè il tema classico di grandi romanzi (dalle amate “Lettere di Jacopo Ortis” alle poco sopportabili romanticherie di “Pamela”), quello dell’epistolario, risciacquandolo con Internet. Vediamo così svolgersi per quasi 200 pagine uno scambio, fitto ed a tratti ben costruito, di e-mail. Mi fermo un attimo, perché proprio sulle lettere avevo ipotizzato da adolescente di scrivere il “mio” romanzo. Di cui avevo già il titolo enigmatico “Amanti tra il mare e i monti, perplessi”, e di cui avevo pensato l’andamento: una serie di lettere unidirezionali, che tratteggiavano una storia, possibilmente d’amore (avevo 16 anni), e che facevano risaltare in controluce le altre lettere, le risposte, senza che queste fossero presenti. Ovviamente, dopo 50 anni, il progetto è ancora là, intoccato. Ma torniamo al nostro austriaco campione d’incassi. Il cui punto migliore, quello che poi mi ha avviato a leggerne, anche se poi prosegue con una discreta fatica e con qualche inutile ridondanza, è l’inizio. Emma Rothner, detta Emmi, trentaquatrenne con marito e figli (di lui), vuole disdire l’abbonamento alla rivista “Like”. Invia però le mail all’indirizzo “Leike” (c’è appunto una ‘e’ di troppo), che fa capo a Leonard Leike, detto Leo, trentasettenne tormentato affettivamente, alle prese con una relazione amorosa piuttosto complicata. La comicità dei primi scambi di mail è impagabile. Tra una battuta ed una lettera seria, Emma e Leo decidono di continuare a scriversi. E la capacità di Glattauer è di trovare nuovi elementi, nuovi modi per far sì che i due continuino a scriversi per circa un anno. Leo è un linguista, e dalle parole di Emmi capisce anche più di quanto sia realmente detto. E con le sue capacità di usare le parole, stana la fragile amica, le tira fuori dubbi sulla sua vita, sulla sua esistenza. Leo riesce a rispondere alle domande che Emmi non riesce a fare. Emmi dal canto suo sgretola il castello della solitudine di Leo, dei suoi amori finiti, della sua non voglia di affrontare la vita. Si fanno domande, si scrivono lunghe liste di cose da dire, da fare, da chiedere, da osservare. Liste che lei scrive in numeri e lui in lettere. E come due persone che fanno conoscenza, ma che non si conoscono ancora, cominciano con il darsi del “lei”. Ed in una delle prime liste di cose da dire o fare (lettera e testamento) Emmi gli scrive la fatidica frase del testo. Che poco ha da scambiare con il contesto, ma che rimane come esempio di tutto un modo di approcciarsi tra i due. Che ovviamente si innamorano letterariamente. Che ad un certo punto sentono il bisogno di superare lo scritto, e di sentire la voce, di vedersi. Assisteremo a giochi, sforzi, idee, immagini alla Bertolucci di incontri al buio. Vedendo anche come il di fuori di loro due, il resto del mondo oltre Leo ed Emmi, esiste, è presente, incide. La vita familiare di Emmi, ad esempio. La vita professionale di Leo, ad esempio. Non vi dirò se finisce con un happy end, né se riusciranno a vedersi, né se riusciranno a parlarsi. In fondo è una delle poche cose belle del libro. Ma è un libro che alla fine lascia insoddisfatti. Troppe possibilità che rimangono possibili. Troppe azioni inattive. Ben impostato, tanto che a volte si attende con impazienza le risposte di Emmi a alle domande di Leo e viceversa, rammaricandoci perché spesso queste risposte sono diverse da quelle che vorremmo. L’idea iniziale è buona. Il risultato finale non mi ha convinto. Come forse non ha convinto l’autore, che due anni dopo ne ha scritto il seguito, dal titolo “La settima onda”, che tuttavia non credo che leggerò. Anche perché, pur usando le mail, pur esistendo in rete, non è uno strumento che mi possa soggettivamente sostituire lo sguardo di chi ho di fronte e con cui vorrei parlare.
Ernest Hemingway “Addio alle armi” Mondadori euro 10,50 (in realtà, scontato a 8,90 euro)
[A: 04/05/2016 – I: 30/08/2017 – T: 03/09/2017] - &&&& --
[tit. or.: A Farewell to Arms; ling. or.: inglese; pagine: 320; anno 1929]
Eccoci ora ad un altro libro imperdibile, che tuttavia fino ad ora non avevo letto. Più che altro per una sorta di amore – odio che ho sempre provato per Hemingway. Ho amato le sue scritture fino a “Per chi suona la campana”, anche se non avevo letto questo. Ho faticato a ritrovarmi nei suoi libri tardi, e non sono mai entrato in sintonia con “Il vecchio e il mare” (di cui mi ritorna in mente solo il film con Spencer Tracy). Mi erano congeniali le sue prese di posizione contro la guerra, contro i totalitarismi. Non ho mai capito il suo machismo, il suo rapporto con le donne, il suo amore per le corride, per le armi. Devo dire che un grande passo verso di lui l’ho fatto lo scorso anno, quando, a Cuba, ho visitato la sua villa, ho visto il suo bagno pieno di libri, la vista da lontano sulla capitale e sul mare, la piscina, le tombe dei suoi cani. Poi, sotto la spinta delle terapie amorevoli per la felicità, si prende in mano questo libro. Che pur in una mia ambivalenza che cercherò di spiegare, mi ha fatto bene. Un bel libro, una bella scrittura, una storia interessante, magari per me più intensa e partecipata nella prima parte che nell’ultima. Ma soprattutto due grandi inni: uno contro la guerra ed uno per l’amore. Volendo essere estremi, poi, forse è un solo grande inno, unificato dalla passione. La storia, che anche chi non ha letto il libro ricorderà nel bel film di King Vidor con Rock Hudson, Jennifer Jones e Vittorio De Sica, è abbastanza semplice. L’americano Frederick Henry si arruola nell’esercito e con il grado di tenente viene a guidare ed organizzare i trasporti con le ambulanze sul fronte italo-austriaco. Lo vediamo in difficoltà con i pari grado militaristi, a parte lo scanzonato e disilluso tenente medico Rinaldi. Lo vediamo frequentare le infermiere che sono al fronte. Lo vediamo gravemente ferito trasportato in ospedale a Milano, dove ritrova l’infermiera Catherine. Con la quale aveva cominciato a flirtare al fronte e che ora, nelle lunghe giornate di malattia prima e di convalescenza poi, stringe in amoroso assedio. Fino a far sbocciare una tenera storia d’amore in guerra. Lo vediamo, dimesso, rispedito al fronte pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. Cui viene coinvolto, e dove si ritira dal fronte in una delle più belle pagine di descrizione degli orrori della guerra, e delle follie di insani militaristi che burocraticamente mandano soldati al macello, per poi punirli se per l’appunto non vengono macellati. Pagine che mi hanno rimandato a quelle immagini di “Sentieri di gloria” di Kubrick con lo splendido Kirk Douglas anche lì nella parte di un inane lottatore contro le follie umane. Il nostro tenentino, per non essere fucilato come disertore, anche se lui aveva soltanto abbandonato una autoambulanza inguidabile nel fango, ed era ripiegato verso una linea difendibile, fugge nella notte. Raggiunge con fatica Milano dove si trova ancora Catherine. Quindi con lei, che gli ha appena detto di essere incinta, ripara in Svizzera, dove spera che gli arrivino presto buone notizie: la fine della guerra, la nascita del figlio, il matrimonio con Catherine. Queste sono le pagine, pur dolci, pur scritte con la solita maestria, che mi hanno lasciato meno segni sul cuore. Non c’è più la rabbia della prima parte, gli orrori della guerra giungono attutiti. O non giungono per nulla. Ci sono belle pagine d’amore. Ma non ci sorprendiamo che, alla fine, nulla finisce in modo positivo. Il bimbo, nonostante il cesareo, nasce morto. Catherine stessa muore di setticemia. Rimane solo lui, con l’ultimo saluto all’amata. Con le ultime parole che in pochi tratti ci danno il senso del mondo, e che scritte nel ’29 hanno una forza immutata nel tempo: “Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo.” Punto. Hemingway ha detto, capitoli prima, addio alle armi. Ora mestamente dice addio alla speranza. Perché la vita in tutte le sue forme è precaria. Per colpa dell’ottusità degli uomini e dell’insondabilità del fato. Oltre al bel libro, ed all’ottima traduzione di Fernanda Pivano, la stessa scrittrice, in poche e scarne pagine finali, ci dà una descrizione dell’autore e dell’opera che sono magistrali e che ho apprezzato moltissimo. Come mi piacerebbe poterne scrivere di simili. Che da un lato, la grande americanista ci comunica il suo amore per la letteratura americana e per questo libro di “papà” Hemingway. Dall’altro, con poche frasi, ce ne svela motivi e genesi. Hemingway aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale, dove venne anche lui ferito. Tanto che alcuni ne leggono gran parte come un’autobiografia. È invece una storia che nasce dal personale, ma che si fa universale. È vero, Hemingway partecipò alla prima guerra mondiale, dove amò delle infermiere (non una sola, che questa risulta essere il compendio di più donne, e di una sua personale idea di donna). Inoltre, mentre scriveva l’ultima parte, anche sua moglie stava finendo il tempo del parto. Anzi Pauline partorisce con un cesareo, rischiando la vita sua e del figlio Patrick. E mentre Ernest rivede la stesura del libro, gli arriva anche la notizia del suicidio del padre in seguito ai disastri del famoso venerdì nero del 1929. Non ci meravigliamo quindi che ne esca fuori un accorato appello alla vita che percorriamo come acrobati sul filo, il più delle volte cadendo rovinosamente. Certo, e per fortuna, rimangono le bellissime pagine contro la guerra, contro tutte le guerre. Speriamo di riuscire a portare a termine le nostre vite senza altri disastri, se non quelli a noi direttamente imputabili.
“Sai bene che non amo che te. Non dovrebbe importarti se qualcuno mi ha amata.” (112)
Ora, sarebbe dovuto comparire un allegato, qualche frase di libroterapie ed altre amenità, che, se leggete l’introduzione, capite bene non abbia avuto né tempo né modo di elaborare. So che ne sarò perdonato, sperando, sapendo che presto si potrà tornare nel solco amato delle amate cose. Si viaggia a scartamento ridotto questi giorni.

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