domenica 26 agosto 2018

Courtney & Ballantyne - 26 agosto 2018

Wilbur Smith “Orizzonte” TEA euro 9,90 (in realtà, scontato a 8,42 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 08/03/2018 – T: 11/03/2018] - &&&
[tit. or.: Blue Horizon; ling. or.: inglese; pagine: 746; anno 2003]
Devo confessare che, progredendo nella lettura cronologica, le avventure della stirpe dei Courtney migliorano, non decisamente ma sensibilmente. Non migliora invece il tentativo di marketing, dove, elemento negativo della versione italiana, sparisce il blu dall’orizzonte, e non si capisce perché. Allora, le letture bibliografiche mi dicono che tra questo e il precedente dovrebbe inserirsi un titolo scritto da Smith nel 2017, ma che ancora non sono riuscito a reperire in maniera indolore nella mia biblioteca (prima o poi verrà recuperato, ma non so quando). Invece questo, dal punto di vista della scrittura, è successivo di soli 4 anni al precedente, in un periodo in cui Smith aveva anche molti problemi personali. Nel 1999 muore la terza moglie di tumore al cervello. Tra il 2000 ed il 2001 incontra e poi sposa la sua quarta moglie Mokhiniso Rakhimova, una donna tagika all’epoca di 28 anni (e Smith ne aveva già 57). Per riprendersi da tutti questi movimenti, dà mano a questo libro, il primo dedicato alla nuova moglie. Come al solito, sebbene questo sia l’undicesimo romanzo che vede protagonista qualche elemento della stirpe dei Courtney, la sequenza temporale lascia un po’ a desiderare, dato che, in realtà, quello che preme a Smith è più l’aspetto globale di queste avventure. La descrizione della vita a Città del Capo, gli intrighi delle corti islamiche nel sultanato di Oman, la navigazione dei tratti di mare tra il Capo di Buona Speranza a Sud e la punta di Gibuti a Nord, lasciando sulla destra le ingombranti isole di Madagascar prima, e soprattutto di Zanzibar poi. Non ultime, in fondo, le scorribande nell’entroterra. Quella che era poi la sua terra d’origine, quella Rhodesia ora Zambia che aveva cullato i suoi sogni giovanili, e che aveva abbandonato all’avvento al potere del razzista Ian Smith. Quindi qui seguiamo le avventure dei Courtney che si sono installati a Cape Town, hanno messo su un bel po’ di commerci mercantili, pur non essendo affiliati alla Compagnia Olandese delle Indie (ma pagando fior di tangenti). Ci sono Tom con la moglie Sarah ed il figlio Jim e Dorian con la moglie Yasmini ed il figlio Mansur. Ora se prendiamo per buona la nascita dei due cugini nello stesso anno, sembra un po’ strano, per l’epoca ed il posto, che Sarah partorisca a 31 anni. D’altra parte, Yasmini non potrebbe partorire Mansur prima di avere almeno 16 anni, motivo per cui retrodaterei le due nascite dal 1711 al 1704. Questo potrebbe coincidere con le problematiche relative ai sultani omaniti, che vivono un periodo di turbolenza intorno al 1724, con i giovani ventenni, mentre il periodo intorno al 1730, come ci vorrebbe far credere Smith, è un periodo di grande pace del sultanato, capeggiato fino al 1743 da Sayf II bin Sultan. Le storie intrigate che ci vengono narrate cominciano con l’arrivo di una nave di detenute dall’Olanda, tra cui c’è la bella Louisa, condannata ingiustamente, e di cui si invaghisce Jim. Per farla breve, Jim la libera, ma si aliena gli olandesi che ne cominciano la caccia. Jim e Louisa, aiutati dai Courtney, fuggono verso l’interno. Ma un disertore fa la spia, costringendo tutta la stirpe Courtney ad abbandonare il Capo. Su delle navi, e verso l’antico approdo del primo libro della serie, dove approdò il capostipite Sir Francis. Dopo mille peripezie, che vi lascio scoprire nei dettagli, Jim e Louisa si ricongiungono con il resto della famiglia. Nel frattempo, Jim è diventato un abile cacciatore, e belle sono le scene di caccia agli elefanti. Inoltre Jim e i suoi ingaggiano una furibonda lotta con una perfida tribù locale, gli “inazi” debellandola ed entrando quindi in buoni rapporti con le tribù dell’interno. In tutto questo, c’è la lunga ricerca di Jim e Louisa da parte di un manipolo di olandesi al comando del sanguinario Koots, e guidati da un boscimano cattivo (mentre Jim è guidato da un boscimano buono). Ovviamente Smith non si perita di intrecciare di nuovo le vicende di Dorian con il sultanato, dove, morto al-Malik, il califfo che lo aveva adottato, siede ora sul trono il perfido Zayn. Che fa strage di tutti i nemici, ingaggia una lotta intestina con altri califfi, e, in parte sconfitto, si rifugia a Zanzibar. Da dove fa partire una sua offensiva contro i Courtney, prima con il solo Kadem che si infiltra nella famiglia, riuscendo solo ad uccidere Yasmini. Da qui si dovrebbe scatenare una guerra totale. Ma prima c’è un altro raccordo di Smith. Risbuca fuori, come plenipotenziario della Compagnia Inglese delle Indie, il cattivo gemello Guy, che cerca di rimettere sul trono Zayn. Poiché Dorian e Mansur sono nella zona (non vi dico tutte le peripezie che intercorrono), non ci meravigliamo dell’incontro tra i due rami della famiglia. Guy è accompagnato dalla figlia Verity, che dovrebbe essere nata qualche anno dopo il figlio bastardo di Tom e Caroline, poi moglie di Guy. Ma se Verity è del 1696, ritorna almeno la datazione precedente, altrimenti avrebbe 15 anni più di Mansur. Invece sono quasi coetanei, e, benché quasi cugini (figli di due fratellastri) sboccia l’amore. Con tutta una serie di stratagemmi, sia da una parte che dall’altra, i due schieramenti si avviano allo scontro finale. Da un lato tutti i Courtney, sostenuti da tribù locali, dall’altra la flotta di Zayn con Guy Courtney, e, via terra, le truppe di Kadem e Koots. Smith, in questo frangente, riesce a sviluppare una bella descrizione di tutte le fasi della battaglia. Quella via terra, quella via mare, le astuzie di Tom per bloccare le navi di Zayn, per depredare Guy dall’oro rubato. Non mancano assalti di coccodrilli ed altre scene cruente. Però, come ci si aspettava, i nostri avranno la meglio, e tutti i cattivi periscono. Anche Guy, ma si sa è il gemello cattivo, ed anche perfido con la figlia, tanto che la stessa Verity non lo piangerà. Arriviamo così alla fine di questa parte della saga, con Tom e Sarah che rimangono sulla costa, con Jim e Louisa, cui è nato il piccolo George, che prendono armi e bagagli per tornare verso l’interno (non ci meravigliamo, che Smith farà nascere le prime, di scrittura, avventure, nel natio Natal, e scusate il bisticcio). Mentre Dorian, con Mansur e Verity tornano verso Muscat. Dicevo, questo episodio è di buon respiro, anche perché la parte pruriginosa, che altrove stonava, qui è ben dosata. Le battaglie hanno il loro giusto respiro. Ma soprattutto, c’è molto del suolo africano dell’interno, degli elefanti, dei leoni, dei coccodrilli, e di tutti quegli animali che in questi miei anni di frequentazioni della zona ho imparato a vedere con il giusto occhio. E che Smith tratta con buona penna. Insomma, sempre al di sotto di Cussler, ma sicuramente più leggibile man mano che progrediscono gli episodi (che ripeto sto leggendo in ordine cronologico di svolgimento e non di scrittura). E con il genealogico sotto riportato fermiamo tutta la storia dei “primi” Courtney.

Wilbur Smith “Il destino del leone” Longanesi s.p. (Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 19/03/2018 – I: 15/04/2018 – T: 18/04/2018] - &&&
[tit. or.: When the Lion Feeds; ling. or.: inglese; pagine: 471; anno 1964]
Ed ecco che facciamo un salto con capriola all’indietro per passare dal 5° episodio dei Courtney al 6° (cronologicamente). Anche se questo poi è in realtà il primo libro scritto dall’autore di nascita africana. Scritto a 31 anni, con tutta la veemenza della giovane scrittura, ma con poco dosaggio dei temi che diverranno caratteristici dell’autore, anche se questi temi sono presenti e si vede come, soprattutto nella descrizione dei paesaggi africani e della vita lontano dalle città, la mano di Smith sia potente fin dall’inizio. E che così rimarrà a lungo. Comunque, questo primo libro si sente, nei modi e nello svolgimento, che è stato scritto 50 anni fa. Ma poi i suoi temi ritorneranno ciclicamente in tutta la produzione. Intanto, dopo aver lasciato i “primi” Courtney intorno al 1730, qui saltiamo ad una storia che si colloca tra il 1862 ed il 1895. L’inizio è datato dalla nascita dei gemelli Sean e Garrick, figli di Waite Courtney, un colono da anni insediatosi nel Natal, che per i non sudafricani è una regione costiera confinante con il Mozambico a Nord. Quello dei gemelli (e poi dei fratelli) in lotta sarà una costante di Smith, che qui comincia con Sean che accidentalmente spara a Garrick, cui dovrà essere amputata una gamba. Non solo, il diciottenne Sean si trastulla con tal Anna Von Essen che mette inavvertitamente incinta, prima di partire per una guerra con gli zulu. Garrick rimane a casa, è innamorato di Anna, che, temendo il non ritorno di Sean, lo circuisce e si fa sposare prima di far vedere di essere incinta. Nella guerra con gli zulu muore il padre Waite, mentre Sean si salva dai massacri grazie ad uno zulu di nome Mbejane che gli diventa amico fraterno. Ma non potrà rimanere nell’astiosa casa che ormai è guidata dal fratello, e dove nasce suo figlio bastardo Michael. Parte allora insieme a Mbejane per il Transvaal (questa è la regione a Nord del Natal, dove ora c’è il Parco Kruger). In queste sue peripezie nella natura conosce lo spumeggiante e a volte truffaldino Duff, con cui fa comunella. In mille avventure, ma soprattutto alla ricerca dell’oro, che si dice abbondare nella regione. Lo troveranno in prossimità della nascente Johannesburg, regalo di un’amica di Duff, Candy. Anche qui le solite peripezie social-amorose, anche se più da parte di Duff. Che prima decide di sposare Candy, poi ha paura e fugge. Sean intanto viene preso nella morsa di speculatori senza scrupoli, perdendo la miniera e tutti i suoi averi. Si ricongiunge con Mbejane e Duff nei boschi, diventando cacciatori di elefanti. Qui si rivela appunto la maestria di Smith nel descrivere la caccia, gli inseguimenti, l’avorio e tant’altro fa un po’ “wild”. Purtroppo, morso da uno sciacallo idrofobo, Duff muore. Sean non si dà pace, cominciando una vita solitaria nella savana. Fino ad incontrare i boeri Leroux, dove c’è la bella Katrina di cui ovviamente di innamora. Assistiamo anche alle peripezie per farsi ben volere dai rigidi boeri. Ma Sean è caparbio ed innamorato. Così vince anche questa battaglia, i due partono soli con Mbejane ed altri zulu. E nelle foreste africane nascerà nel 1890 loro figlio Dirk. Dopo alcuni anni di vagabondaggio, anche perché Katrina è colpita da una forma di malaria, decidono di tornare a Johannesburg. Dove Sean ritrova Candy che ha fatto fortuna, che flirta impunemente con Sean, provocando gelosia nella mente malata di Katrina. Che, dopo aver perso il secondo figlio, con la mente sconvolta, si uccide gettandosi in una voragine della miniera di Sean. Questo primo libro finisce allora con Sean che, vedovo e con figlio a carico, decide di lasciarsi alle spalle le città (ed i loro pensieri) e con gli amici zulu torna nella savana. Sean è bello ed a volte fortunato, che sempre si rialza da ogni capitombolo. Come dice Mbejane, e come Smith riporta nel titolo, è come il leone che, affinché viva, deve far morire qualcosa. Lasciandone tracce di cui si nutrono i suoi seguaci. Come detto un potente nuovo inizio delle storie dei Courtney, che avrà bisogno di qualche raccordo, prima o poi. Con una scrittura giovane, forse a volte un po’ immatura. Tuttavia leggibile, anche se con un livello non eccelso di godibilità. La mia principale critica riguarda infatti da una parte le lunghezze avvolte eccessive. Dall’altra alcune inutili ripetitività. Ma staremo a vedere.
“Per tutto ciò che si ottiene, bisogna pagare un prezzo.” (296)

Wilbur Smith “Quando vola il falco” TEA euro 9,80 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 25/01/2016 – I: 04/05/2018 – T: 10/05/2018] - &&
[tit. or.: A Falcon Flies; ling. or.: inglese; pagine: 418; anno 1980]
Qui invece facciamo un salto di lato. Nel 7° episodio dei Courtney, c’è un incontro tra loro ed i Ballantyne, l’altra serie maggiore del nostro. Allora, prima di proseguire con la serie maggiore, ho preferito allineare le due serie, cominciano quindi con questo che è il 1° episodio della serie minore, ambientato intorno al 1860, e che ci porta ai primi insediamenti dei bianchi nella futura Rhodesia. Che poi si separò in Rhodesia del Nord, ora Zambia, e Rhodesia del Sud, ora Zimbabwe. Dico futura, che Cecil Rhodes, da cui il territorio prese il nome, colonizzò la regione solo nel 1888, e qui siamo una ventina di anni prima. Il tentativo di Smith qui è di risalire alle origini della sua terra natale, imbastendo una storia che, pur ricalcando i suoi classici temi, tenta di dare un’ascendente aulico o significativo ai personaggi. I personaggi centrali, infatti, sono due fratelli, anzi fratello e sorella: Zouga e Robin Ballantyne. Figli dello starno personaggio che traspare dalle loro memorie, Fuller, e di Helen Muffat. Helen, a sua volta, sarebbe figlia di Robert Muffat, personaggio realmente esistito in quelle zone, noto come esploratore e predicatore, ma soprattutto perché una delle sue figlie, Mary, andrà in sposa al famoso dottor David Livingstone (“Doctor Livingstone, I suppose!”, e non dico altro, che i cultori sanno già tutto, ed i neofiti andranno a spulciare Wikipedia per aggiornarsi). Ma se la parte nonno – Mary è reale, il resto è la fiction di Smith. Che al solito si incammina lungo i suoi soliti binari narrativi: viaggio dall’Inghilterra dei fratelli Ballantyne alla ricerca del padre scomparso, viaggio imprudentemente intrapreso sulla nave di tal Mungo St. John in odore di essersi arricchito come negriero. Abbordaggio da parte della marina inglese capitanata da Clinton Codrington, integerrimo marinaio che da anni cerca di stroncare la tratta dei negri tra l’Africa e l’America. Mungo è affascinante, ma subdolo. Robin ne è presa e respinta, innamorata e vuole redimerlo. Clinton, invece, è innamorato di lei e vuole coinvolgerla nella sua lotta anti-schiavista. Ma alla fine, arrivati a Cape Town, i fratelli partono verso l’interno con una discreta messe di guerrieri, portatori ed altro. Mentre Mungo continua i suoi traffici, più o meno loschi, ed il capitano Codrington prosegue la sua opera di bonifica nell’Oceano Indiano tra il Mozambico e Madagascar. Qui si apre una lunga parentesi sulla vita della colonna capitanata da Zouga, dalle sue cacce agli elefanti, dove Smith, con maestria, anche se a me non piace né da piacere, descrive le cacce, l’uccisione dei pachidermi per procurarsi l’avorio delle zanne. Ben presto Zouga entra in conflitto con la sorella, che avrebbe un approccio più umanitario (non a caso è figlia di un missionario ed educata nelle dottrine cristiane). I due troveranno anche il padre, ormai ridotto una larva umana. Ma Robin, che è laureata in medicina, si ferma per curarlo, assisterlo, ed essere presente alla sua morte (che avviene il 17 ottobre 1860, ed è importante ricordare la data), Zouga continua le sue scorribande. Perché vuole arrivare alle terre dell’oro e dei diamanti. Ma per far questo deve entrare nel territorio dell’impero di Monomotapa, grande condottiero africano del 1400 (circa). Dopo tutta una serie di avventure e di lotte, che lascio a voi il piacere di leggere, Zouga entra finalmente in contatto con l’attuale imperatore locale, Mzilikazi. Anche questo è un personaggio storico, secondo Livingstone il più grande capo Zulu, dopo Shaka. Il rapporto tra Zouga e Mzilikazi si rivela subito di alto livello, che in quelle terre passò lasciando segni positivi nonno Robert Muffat. Ma Robin intanto si era staccata con una parte della carovana, aveva trovata la traccia delle scorribande negriere, ma gli arabi (che erano i conduttori sulla terra della tratta) la scovano e la imprigionano. Vogliono venderla schiava, ma a questo punto rispunta fuori Mungo che la salva a sua volta, pur rinchiudendola nella sua nave senza possibilità di uscita o di fuga. Robin riesce comunque a far pervenire una richiesta d’aiuto a Clinton, che lascia tutto e tutti (tanto che finirà radiato dalla marina) per andare a salvarla. Tra l’altro, la richiesta di Robin viene verso pagina 120-130 e Clinton lo ritroviamo in suo aiuto circa 200 pagine dopo. Che fatica seguirti, caro Smith. Alla fine dei giochi troviamo l’inizio della futura lotta tra Robin e Zouga. Robin decide di sposare Clinton, e di rimanere in Africa come dottoressa e missionaria. Zouga, ricco di avorio e di oro, farà un breve ritorno in Inghilterra, prima di intraprendere la colonizzazione del territorio (cosa che credo vedremo nei prossimi volumi). Due ultime considerazioni: nello scoprire il territorio di Monomotapa, Zouga trafuga una statua in pietra ollare di un falco, dando inizio all’avverarsi della profezia di uno stregone locale, dove la scomparsa della statua darà inizio alla decadenza del territorio dei “karanga” (una tribù del ramo zulu, che ora consiste nell’85% dell’attuale popolazione dello Zimbabwe). L’altra è relativa alla data della morte di Fuller Ballantyne. Che ci fa collocare tutta la storia intorno all’anno 1860. Nelle acque intorno all’attuale Sudafrica, erano gli anni dei grandi attriti tra le flotte americane e quelle delle varie Compagnie delle Indie, sia inglesi che olandesi. Lotta esemplificata dalla guerra tra Mungo e Clinton. Lotta che appunto avrà la sua svolta proprio nel 1860, anno in cui il presidente Lincoln si pronuncia per l’abolizione della schiavitù. Pronunciamento che scatenerà la guerra civile americana, ma che, soprattutto, toglierà la copertura degli Stati Uniti alle attività dei negrieri alla Mungo. Un libro altalenante nella scrittura, che risente del fatto che per tutti gli anni Settanta Smith cerca la fortuna scrivendo romanzi d’avventura senza un filone preciso, e che, avendo deciso invece che il seriale gli dà più gloria (o più soldi), riprende lo schema abituale delle sue storie: famiglie che entrano nei territori africani (per mare o per terra) e che sono dilaniate al loro interno. Gemelli nel caso dei Courtney, fratello e sorella qui tra i Ballantyne. Vedremo come prosegue, anche se sono sempre meno convinto. Ed ecco, per districarvi tra le storie, il primo ramo della genealogia dei Ballantyne.

Wilbur Smith “Stirpe di uomini” TEA euro 6,90 (in realtà, scontato a 5,52 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 11/06/2018 – T: 16/06/2018] - &&+
[tit. or.: Men of Men; ling. or.: inglese; pagine: 593; anno 1981]
Eccoci allora alla seconda puntata della saga dei Ballantyne, dove seguiamo l’evolversi parallelo e contrastante delle vicende dei due fratelli Morris e Robyn. Purtroppo anche questo libro non è che si stacchi molto da una produzione onesta ma senza particolari invenzioni. Certo, c’è sempre il tentativo, in genere abbastanza riuscito, di mescolare realtà e finzione, dove, seguendo i nostri eroi, si traccia anche un pezzo della storia del territorio in zona sudafricana. In particolare, questa saga poi segue la nascita della patria di Wilbur, la Rhodesia. Seguendo, ovviamente, le gesta del costruttore di questo territorio, Cecil Rhodes. Che vediamo interagire con la famiglia Ballantyne (in particolare con Jordan, il minore dei figli di Zouga, che se ne innamora, e infatti sappiamo dalle cronache che Cecil era omosessuale), ma che ha un suo bel filone anche storico a sé. L’accaparramento delle concessioni diamantifere, la costituzione della grande multinazionale “De Beers”, i vari tentativi, prima con le buone poi con i raggiri, di accaparrarsi le terre del re dei Matabele Lobenguela, la costituzione di un corpo militare privato per controllare le terre, fino alla creazione ad arte di un casus belli. I suoi soldati stendono linee telegrafiche aeree, gli zulu, attirati dai fili di rame, ne prendono pezzi, i soldati li puniscono. Il re Lobenguela non può lasciare impunita la vicenda ed attacca le forze di Rhodes, la British South Africa Company (BSAC). Ma la BSAC ha fucili mitragliatori, ha facile successo con i locali armati di scudi e assegai (questo il nome locale, che in italiano viene reso con “zagaglia”, e mi domando perché non sia mai stato usato nella traduzione). Il re è sconfitto, fugge e muore. I Matabele (che comunque in italiano si chiamano “Ndembele”) sconfitti si assoggettano al nuovo padrone, il ricco Cecil, che nel 1894 si fa intitolare il paese. Un ultimo incrocio storico verificato è la personalità di uno dei personaggi che trattarono con Lobenguela per fargli firmare il trattato: si tratta di John Muffat, un figlio/discendente di Robert Muffat, che sappiamo essere il personaggio storico da cui Smith ha fatto originare la vicenda. E dove fa sposare una figlia di Muffat con il capostipite dei Ballantyne, Fuller Morris. Appunto, l’idea di Smith è su questa vicenda storica (Rhodes e i diamanti) innesta la saga dei Ballantyne. Se lasciamo quindi da parte la storia, nella fiction vediamo l’evolversi parallelo delle due famiglie, quella di Zouga e quella di Robyn. Il primo ha due figli dalla prima moglie Alette, che muore ben presto. Uno “cow-boy”, nel senso avventuriero e avventuroso, simile al padre, che va scorrazzando per il mondo australe, cercando diamanti, facendosi amici gli zulu, in particolare il simpatico Bozo. Per poi innamorarsi ed impalmare la cugina Katie (figlia della zia Robyn). L’altro studioso, presto conquistato dal carisma di Rhodes, e (probabilmente) divenendone amante (c’è un po’ di omosessualità, ma Smith non esce molto allo scoperto). Fatto sta che i due, con le loro capacità complementari saranno puntelli del nascente impero rhodesiano. Dall’altra Robyn ha invece quattro figlie. La maggiore, Salina, si innamora di Jordan e quando capisce che non avrà sbocchi, si impicca. La seconda sposa Ralph. Le ultime due, gemelle, vedremo come evolveranno (intanto notiamo che anche qui il tema dei gemelli ricorre, come in quasi tutti i suoi scritti; vorrà dire qualcosa?). Visto che Smith non si lascia niente per strada, ritorna il pessimo Mungo St. John, che rimane il perfido avventuriero di sempre. Si porta appresso una donna, Louise. Che invece si innamora e sposerà Zouga. Mungo continua a fare il pessimo, e non si capisce perché Robyn, morto il marito reverendo, pur odiandolo ci vada a letto, e, ovviamente, rimane incinta. Robyn che invece sembrava essere la più “pura”: medico che cura tutti i malati, religiosa nella missione con il marito Clinton, amica del re, ed in confidenza con lui. Ma i caratteri, in Smith, non sono mai “puri”, c’è sempre del grigio intorno. I buoni hanno sempre qualche lato oscuro. Come Ralph, che è empatico con gli zulu, ma che non esita a rubarne i simulacri sacri, a scatenare guerre, e ad inimicarsi Bozo, con il quale, presumibilmente in una futura puntata entrerà in conflitto. Come lo stesso Zouga, che, certo costretto dalle circostanze, conduce i cattivi di Mungo ad uccidere la sacerdotessa Matabele, facendo avverare le profezie che avevamo letto nella puntata precedente. Di Robyn abbiamo detto. Di Jordan, vediamo che non esita a chiudere tutti e due gli occhi sulle malefatte di Cecil (ah, l’amore). C’è molta altra carne al fuoco di queste 600 pagine, ma, all’osso, siamo sempre lì: un occhio alla storia, ed uno alla finzione. Con qualche occhiatina di sesso (Smith è famoso per avere sempre inzeppato le sue storie con un po’ di sesso), e qualche licenza poetica. L’unica costante è nel rappresentare i bianchi appunti con luci ed ombre, ed i neri quasi sempre più buoni, più bravi, più fedeli, più coerenti. Ma alla fine, più ingenui. Tanto che usciranno sempre sconfitti dalla macchina economica bianca. E mentre cala una invasione di locuste, si chiude il libro e si aspetta il seguito.





Ultima domenica d‘agosto, ed abbiamo quindi il tempo di passare anche alcuni momenti “felici” con i libri che ci suggerisce l’ottima Giulia Fiore. E qui siamo nel mio campo principale, che si parla di Holmes, di Poirot ed altri gialli da … tè.
E dopo che si è rimandata l’Irlanda, abbiamo anche la California che sparisce all’orizzonte, e quindi dobbiamo, possiamo, vogliamo dedicarci a chiudere tutte le parentesi aperte in questo anno di gioie e sofferenze (e questa trama purtroppo ha un ascoltatore in meno). Speriamo di riuscire a chiudere presto le varie vicende che coinvolgono a vario titolo le Entrate (che per noi, purtroppo, sono solamente Uscite) per quindi dedicarci a godere i frutti del nostro lavoro. 
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
AGOSTO 2018
Certo, non è agosto il mese migliore per un tè accanto al camino, ma i miei gialli incalzano e Giulia stimola scritti e commenti.

...E UN TÈ CON I MAESTRI DEL GIALLO

Libri citati

Arthur Conan Doyle           “Uno studio in rosso”
Edgar Allan Poe                  “I delitti della rue Morgue”
Agatha Christie                   “Omicidio a Styles Court”
Agatha Christie                   “L’assassinio di Roger Ackroyd”
Agatha Christie                   “Assassinio sull’Orient Express”
Agatha Christie                   “Dieci piccoli indiani”
Agatha Christie                   “Il verdetto”
Agatha Christie                   “Trappola per topi”
Agatha Christie                   “Testimone d’accusa”
Carlo Emilio Gadda            “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”
Fruttero & Lucentini         “La donna della domenica”
Fruttero & Lucentini          “A che punto è la notte”
In alcuni casi anche una buona tazza di tè può rivelarsi rimedio più efficace di una medicina tradizionale e i gialli classici sono proprio come il tè: un eccitante naturale che si sorseggia in relax. A questo proposito si suggerisce di sorseggiare senza moderazione l’opera di due giallisti d’eccezione come sir Arthur Conan Doyle e lady Agatha Christie. Ricostituenti cerebrali di comprovata fama, sono perfetti per mettere in moto il cervello, accendere l’ingegno, stimolare la logica e, cosa decisamente salutare, distrarre la mente dai problemi impegnandosi a risolvere intrighi altrui. Il beneficio maggiore si ottiene dalla possibilità di allenarsi a capire come funzionano gli ingranaggi che muovono la mente umana, da sempre un mistero pressoché irrisolvibile, stemperando i tremori della tensione con la freddezza della logica.
Gli investigatori di fantasia sono spesso diventati vere e proprie star, ma il personaggio creato nel 1887 da Arthur Conan Doyle è il divo per eccellenza della letteratura gialla, un modello per tutti gli altri. Un personaggio che si può definire letteralmente “immortale” dal momento che, quando l’autore decise di mandarlo in pensione con la macabra trovata di ucciderlo, fu praticamente obbligato a resuscitarlo per le rimostranze dei lettori. Cosi Sherlock Holmes ha vinto anche la morte. Tutti lo conoscono e tutti sanno come lavora, anche se non tutti hanno letto i quattro romanzi e i cinquantasei racconti di cui è protagonista. Si consiglia di rimediare cominciando dalla prima avventura, “Uno studio in rosso”, in cui facciamo la conoscenza di questo bizzarro e originalissimo personaggio e di John Watson, fidato (e paziente) collaboratore, cronista di tutte le vicende e coinquilino della mitica casa di Baker Street (ben più famosa di quella di Downing Street). Alter ego di Sherlock, sua spalla e aiutante in tutte le indagini, in un certo senso il dottor Watson è anche l’alter ego del lettore. Stupito e curioso, arranca dietro a Sherlock che, guidato dal suo rivoluzionario metodo d’indagine, procede invece a passo spedito concentrandosi in modo ossessivo nella soluzione dei casi. Anticipato dall’Auguste Dupin protagonista di alcuni racconti di Edgar Allan Poe, come “I delitti della rue Morgue”, il suo metodo si basa su un processo scientifico-deduttivo che, partendo dall’osservazione e dall’analisi meticolosa di ogni dettaglio, arriva alla soluzione dell’enigma. Il procedimento analitico-deduttivo ha un ruolo così determinante nelle vicende da insinuare il dubbio che il vero protagonista non sia Holmes ma la sua logica, e il vero fine delle indagini non la cattura del colpevole ma lo studio dei comportamenti umani che, per quanto complessi, possono essere sempre analizzati e spiegati. Almeno lui ci riesce. Ma l’arma vincente del mastino di Baker Street, quella che poi è diventata una caratteristica di quasi tutti i detective di finzione, è la sua imperfezione, il suo cumulo di difetti che ne controbilancia il fiuto impeccabile rendendolo più umano. Sherlock Holmes ha lo sguardo acuto e penetrante (certo non poteva avere l’occhio da pesce lesso), il naso aquilino che denota un’aria vigile e attenta (consolante per tutti quelli che non hanno il nasino alla francese), mani delicate ma precise e mento prominente e squadrato da uomo d’azione. Piuttosto ignorante in fatto di letteratura, politica e filosofia, è sempre aggiornato su tutti i più orridi fatti e misfatti. È un asso in chimica e anatomia, usa la logica in maniera ineccepibile, è dotato di un eccellente manualità e, oltre a essere un buon violinista, è un ottimo pugile e schermidore pronto a usare le mani per suonarle di santa ragione a chi intralcia il suo lavoro. Se possiamo definirlo un uomo d’azione e non solo di pensiero, però, non possiamo definirlo passionale: la logica è la sola amante di Sherlock Holmes mentre l’emozione è sua nemica. Di conseguenza nella vita del detective non c’è posto per le donne perché amarne una potrebbe mettere in crisi tutto il suo metodo analitico. Con le donne, si sa, la logica spesso non serve. Dedito completamente al suo lavoro, nei periodi d’inattività si deprime e ricorre alle droghe per mantenere attiva la mente. Se infatti all’inizio Holmes pippa, poi passa alla pipa, sostituendo il vizio della morfina con quello del fumo. Nell’immaginario collettivo Sherlock Holmes è un uomo con il naso adunco, l’aria assorta, la pipa sempre in bocca, il berretto da cacciatore con il fiocchetto in testa, la mantellina e la lente d’ingrandimento. Immagine fasulla (ma vi pare che uno sveglio come lui ha bisogno della lente d’ingrandimento per vederci chiaro?), così comi celebre frase «elementare Watson!» che nei romanzi e nei racconti non compare mai. D’altra parte Sherlock Holmes, come il suo autore, è troppo astuto per credere che nella mente umana, unica e sola materia d’indagine di ogni caso, ci sia qualcosa di elementare. Dice Sherlock che “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Ma non è detto che la verità sia comprensibile.
Per movimentare un po’ la cura correggete il tè-Conan Doyle con un pizzico di “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie. Nei fortunati adattamenti delle avventure del detective il regista inglese è riuscito a riproporre con il linguaggio cinematografico (tra cui un ottimo montaggio) quel mix di azione e deduzione logica che caratterizzano il personaggio. “Sherlock Holmes” e “Sherlock Holmes - Gioco di ombre” sono perfetti per scuotersi con un po’ di sano divertimento dopo tutto l’esercizio di logica a cui sottopone la cura a base di Conan Doyle. La visione sarà ben tollerata anche dalle lettrici perché Robert Downey Jr. nei panni di Holmes e Jude Law in quelli di Watson sono una coppia da brividi (di eros), e riuscire a rendere sexy un blocco di granito come Sherlock Holmes senza ridicolizzarlo non era impresa facile. Mettete da parte il ragionamento e aguzzate lo sguardo per godervi questa versione moderna e decisamente avventurosa di un mito della letteratura gialla.
Se siete di indole riflessiva e detestate ogni forma di violenza (comprese le pacche sulle spalle e i buffetti sulle guance) o, se al contrario, siete troppo impulsivi e vorreste imparare a riflettere prima di parlare e agire, l’ideale è assaporare un infuso a base di Agatha Christie. Grazie alla formulazione unica che rende i suoi gialli particolarmente gradevoli, come il tè verde è un ottimo antiossidante che combatte i radicali liberi e protegge le funzionalità cerebrali, rilasciando in più un’incredibile sensazione di relax mista a tensione. I maggiori benefici si ottengono con le indagini di Hercule Poirot e Miss Marple.
L’investigatore belga Hercule Poirot è un ometto buffo, grassottello, alto poco più di un metro e sessanta (che è un modo carino per dire che è basso), ha un portamento eretto e dignitoso, la testa a forma d’uovo e pochi capelli ma molto curati, così come i baffi arricciati. Veste sempre in maniera impeccabile, senza un dettaglio fuori posto. Odia la violenza e non viene mai alle mani perché fermamente convinto che l’unica arma vincente per un detective sia il ragionamento (se si sporcasse di sangue o si scomponesse il baffo, credo che potrebbe uccidere). Praticamente è l’opposto dei detective americani alla Philip Marlowe o Sam Spade, spavaldi, affascinanti che non disdegnano le donne (purché bellissime) né le scazzottate, sempre pronti ad azzuffarsi quando serve, sporcandosi mani e vestiti. No, Poirot è riflessivo, pacato e molto sicuro di sé. Con il suo bagaglio di bizzarre abitudini risulta di una simpatia decisamente umana, cosa che ne ha decretato parte del successo stellare: non è perfetto ma solo molto perspicace perché accende il cervello. La meticolosità che impiega nella cura della sua persona la applica anche al suo metodo investigativo, ordinato e preciso, in cui nulla è lasciato al caso ma tutto è rivolto all’analisi dei fatti e all’intuizione psicologica. Poirot conosce bene l’animo umano e il suo metodo ci indagine non si ferma alla scientifica analisi degli indizi, ma si inabissa nei meandri della mente per decriptarne i comportamenti. Niente inseguimenti, lotte o spargimenti di sangue ma tanta logica, riflessione e calma portano il piccolo investigatore belga a risolvere ogni caso grazie all’ottimo funzionamento delle sue «celluline grigie». Il tutto condito con massicce dosi di suspense, suggestive ambientazioni (tra ville, manieri, castelli, navi, treni) e personaggi complessi, quasi sempre ricchi, sempre tutti potenziali colpevoli, sempre tutti dotati di alibi.
L’arma vincente dell’altro celebre personaggio di Agatha Christie è il suo essere un’investigatrice privata, nel senso di privata cittadina che indaga per conto proprio. Miss Marple è una simpatica vecchietta, zitella, curiosa, pettegola e impicciona che si ritrova sempre coinvolta in complicati casi di omicidio. Non è un detective di professione ma una buona osservatrice dell’animo umano e tanto le basta per arrivare alla soluzione degli enigmi. Le doti investigative di Miss Marple derivano dalla sua pazienza e dal suo occhio allenato: ha l’hobby del giardinaggio e del birdwatching, nonché ama preparare dolci da servire durante il tè con le amiche. E si sa che “prendere il tè con le amiche' è una perifrasi per dire che si spettegola, ovvero si analizzane casi umani e umane debolezze. D’altra parte, poverina, in qualche modo deve pur ammazzare il tempo nel monotono villaggio inglese dove vive e così, oltre a estirpare erbacce e guardare uccelli, coltiva l’osservazione dei vicini. Osservando e ragionando, arriva alla soluzione dei delitti.
Autrice decisamente prolifica, tradotta perfino più di Shakespeare (altro ineguagliabile detective dei sentimenti), oltre a numerosissimi romanzi con protagonisti Miss Marple e Hercule Poirot (di quest’ultimo sono imperdibili “Omicidio a Styles Court”, “L’assassinio di Roger Ackroyd”, “Assassinio sull’Orient Express”), ha scritto tantissimi gialli tra i quali non si può assolutamente perdere “Dieci piccoli indiani”. Da non sottovalutare i lavori teatrali, impeccabili meccanismi a incastro, veri capolavori di profondità psicologica, abilità d’intreccio e tensione narrativa. Credetemi, non leggerli sarebbe davvero un delitto. Consiglio in particolari “Il verdetto”, “Trappola per topi” e “Testimone d’accusa”, quest’ultimo da abbinare obbligatoriamente all’adattamento cinematografico di Billy Wilder con Marlene Dietrich e Charles Laughton.
I romanzi di Agatha Christie sono stati più volte adattati per il cinema e per la televisione. Poirot, in particolare, è diventato protagonista di una fortunata serie di film TV. Miss Marple è approdata più volte sul piccolo schermo ispirando anche la serie televisiva di grande successo “La signora in giallo”. Protagonista è Jessica Fletcher (Angela Lansbury), famosa scrittrice di libri gialli che, come Miss Marple, si ritrova coinvolta in delitti che riesce a risolvere con imperturbabile aplomb. La visione delle avventure della Fletcher è consigliata come equivalente di una buona tazza di tè: gustosa e rilassante.
Si raccomanda di sorseggiare i gialli di Arthur Conan Doyle e Agatha Christie ogni volta che si sente il bisogno di accendere il cervello per muoverne gli ingranaggi, incrementando la capacità d’osservazione, utile sempre nella vita e non solo per risolvere casi delittuosi. Veri e propri tonici a livello cerebrale, i gialli deduttivi mettono in moto le «celluline grigie», per dirla come Poirot, stimolando la mente come una sorta di settimana enigmistica, ma più coinvolgente. Se assunti con costanza e continuità facilitano il naturale processo di applicazione della logica all’analisi dei problemi quotidiani, sviluppando l’attitudine a osservare con pazienza fatti e comportamenti nel tentativo di decifrarli. Risolvere un mistero è anche un utile esercizio mentale che aiuta a non lasciarsi sopraffare dagli eventi. Detto questo, la medicina non mette al riparo dalla consapevolezza che certi enigmi dell'animo umano sono irrisolvibili. Probabilmente ci riuscirebbero solo Sherlock Holmes o Hercule Poirot. Ma non ci giurerei.
Qualche consiglio: a proposito di pasticci senza soluzione e maledetti imbrogli, consiglio “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, straordinario e originale giallo senza soluzione. È come la piazza di un mercato romano dove si aggroviglia un gomitolo, anzi uno «gnommero», di sentimenti e personaggi così incisivi e impastati di vita che poco importa del procedere delle indagini di un caso che si risolve in un chiacchierare vivace che non porta a niente. Con un linguaggio che incanta, un insieme di dialetti fantasioso, vivo e colorato che è la forza del romanzo, Gadda riesce a farci accettare un finale aperto. Ma in fondo ad accomunare tutti i romanzi gialli, al di là dei differenti casi, è che il mistero da svelare è sempre e solo l’animo umano che, però, è anche l’unico senza soluzione. Il solo modo per capirci qualcosa è ricorrere a quell’attitudine che solitamente i detective non usano mai perché decisamente poco scientifica: la fantasia. In una delle sue sagge considerazioni, il ruvido e vulnerabile commissario Ingravallo, protagonista del romanzo di Gadda, afferma che le donne sono un «mistero che si capisce subito. Basta avecce fantasia». Sostituite “donne” con “essere umano” e avrete la soluzione di ogni enigma, di ogni giallo: per capirci qualcosa in quel pasticciaccio ingarbugliato che è l’animo umano, la fantasia arriva là dove la logica si arrende.
Dopo aver letto il capolavoro di Gadda proseguite la cura con la visione di “Un maledetto imbroglio”, l’adattamento che Pietra Germi ha realizzato nel 1959 ispirandosi al romanzo. Rispetto al libro, dove più che il caso da risolvere sono i casi umani coinvolti a interessare l’autore, il furto e l’omicidio sono al centro di questo film che ha dato il via alla stagione dei polizieschi all’italiana. Nella doppia veste di regista e attore nei panni del commissario Ingravallo, Pietro Germi è sempre una garanzia di un buon cinema.
Già che parliamo di gialli doc all’italiana, non posso esimermi dal suggerire di far rientrare nella cura anche la premiata ditta Fruttero & Lucentini. Perfettamente consapevoli dell’attrazione del pubblico nei confronti della letteratura d’evasione hanno usato il giallo per toccare argomenti complessi da romanzo tradizionale. Dialoghi brillanti, casi ben strutturati e meccanismi psicologici curatissimi si risolvono in una naturalezza dietro cui si nasconde un sapiente artificio che rende la narrazione scorrevole, piacevolissima e praticamente impossibile da interrompere. “La donna della domenica” e “A che punto è la notte” sono indicati soprattutto per contrastare quel malessere piuttosto diffuso tra i lettori d’indole malinconica, meglio noto come “spleen della domenica”, quella sorta di vaga e indistinta tristezza che stringe la gola e opprime il petto (sarà il pensiero del lunedì o la segreta e inconfessabile astinenza dalla routine quotidiana? Contagiati al punto giusto dalla malattia di risolvere casi, dovreste essere in grado di risolvere l’enigma). Per sopportare ancora meglio la domenica, si suggerisce la visione de “La donna della domenica” di Luigi Comencini. Sceneggiato da Age e Scarpelli, interpretato da Marcello Mastroianni, Jacqueline Bisset e Jean-Louis Trintignant, è una riuscita e fedele trasposizione che raramente delude chi ha amato il romanzo.

Commenti

Non ho letto le commedie di Agatha Christie (e mi dispiace soprattutto per i topi), ma gli altri libri, come potete immaginare, sono stati letti e divorati, spesso in tempi di molto antecedenti all’inizio dei miei commenti. Per cui riporto solo i tre libri compresi in questi anni di scritture folli e disperatissime (cit.).
Agatha Christie “Assassinio sull’Orient-Express” Repubblica/CSGM euro 3,90
[pubblicato il 15 novembre 2009]
Dopo aver visto non so quante volte il film, finalmente ho il tempo e la possibilità di leggere il libro. Che maestria. Quanti anni ha? Circa 75, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è perfetta, l’intreccio singolare, e la soluzione di Poirot magistrale. Il plot è stupendo: un omicidio in un vagone dell’Orient-Express bloccato tra i monti jugoslavi dalla neve. Una dozzina i possibili sospetti con l’aggiunta della presenza casuale di Poirot, che comincia ad indagare. Un’indagine di parole, dove accompagniamo il buon belga a spasso tra le cuccette per scoprire indizi, e nel vagone ristorante ad interrogare a più riprese i vari personaggi. Affastellando informazioni, tutte utili per arrivare insieme a Poirot alla soluzione (o alle soluzioni, in quel gioco magistrale di finali e sottofinali che fanno la maestria della scrittrice). Non ci sono elementi esterni, nessun deus ex-machina che interviene portando soluzioni imprevedibili. Tutto al solito è lì, sul piatto. Bisogno solo saperlo vedere. Certo, a volte leggendo, i volti degli attori vengono dietro le palpebre a rendere più robusto questo the inglese con velo di latte. Si ripenso ai vari Albert Finney (Poirot), Lauren Bacall (Mrs. Hubbard), Ingrid Bergman (Greta Ohlsson), Jacqueline Bisset (Contessa Andrenyi), Sean Connery (Colonnello Arbuthnot), John Gielgud (Beddoes), Anthony Perkins (Hector McQueen), Richard Widmark (Ratchett) o Vanessa Redgrave (Mary Debenham). Che cast per questo grande film del… Vi ricordate che anno era? E poi ripenso anche alle vicissitudini della scrittura e della scrittrice. Infatti, il romanzo fu scritto dalla Christie durante un suo soggiorno a Istanbul, nella stanza 411 del Pera Palas Hotel, oggi adibita a piccolo museo in suo onore. Inoltre, durante il regime fascista in Italia, il romanzo, alla sua prima pubblicazione ebbe diverse "censure". Il personaggio italiano naturalizzato americano Antonio Foscarelli divenne, infatti, un brasiliano di nome Manuel Pereira mentre la vittima, anziché avere il cognome italiano "Cassetti" venne ribattezzato chi sa perché "O'Hara". Ma alla fine di tutto, del libro, degli attori, della scrittura, rimane lei, Agatha e tutta la bravura di una pennivendola di grande classe.
Agatha Christie “Poirot a Styles Court” Mondadori s.p. (biblioteca di Tolemaide)
[pubblicato il 18 ottobre 2015]
Sfruttando una duplice occasione ho ripreso in mano e letto a tamburo battente il primo libro della grande giallista inglese. Le due occasioni sono la necessità di svuotare la libreria di Tolemaide, ad altre destinazioni avviata, recuperando libri per me e per la mia genitrice-lettrice. Il secondo e più prosaico avvenimento è l’inizio di una lunga sequela di libri dedicati ad Agatha Christie, in quasi totalità provenienti dall’esimia collana pubblicata dal Corriere della Sera. Ma come privarsi del piacere di ripercorrere almeno le tappe salienti della grande signora del giallo, capostipite e progenitrice ideale di una lunghissima schiera di scrittori e scrittrici. E non è un caso che in parallelo vada spulciando nell’enorme produzione del padre di Maigret, che, casualmente, vede muovere i primi passi un po’ dopo Poirot, ma parallelamente a Miss Marple, come vedremo in seguito. Pur se edito solo nel 1920, il romanzo viene scritto quattro anni prima, a seguito di una scommessa di Agatha con la sorella, se fosse stata capace di scrivere un libro pubblicabile. E gli echi del 1916, si sentono, anche se indirettamente. Poirot infatti è belga, e fugge dalla patria durante l’invasione tedesca dell’inizio della prima guerra mondiale. Ispettore in patria, si trova a far da spalla alla polizia inglese, per poi, a valle di questa prima uscita, a fare per una serie di anni da investigatore privato. Qui viene tirato in ballo dal suo amico, il capitano Arthur Hastings che soggiorna a Styles Court (maniero realmente esistente che riprende il nome della prima casa in cui visse la scrittrice con il suo primo marito) invitato dal suo amico John Cavendish. Una notte la matrigna di John, Emily Inglethorp muore avvelenata e Hastings chiede aiuto a Poirot. Le indagini di Poirot restringono ben presto il campo tra il marito fedifrago, Alfred, ed il figliastro John. E soprattutto sul primo si accentrano i sospetti: viene accusato da Evelyn, la dama di compagnia di Emily, e sembra aver acquistato della stricnina nel villaggio. Ma non avrebbe avuto modo di somministrarlo alla moglie, come argutamente dimostra Poirot. La polizia allora appunta i sospetti su John, il maggior beneficiario del testamento. Alla fine del ro-manzo Poirot dimostra l’innocenza di John e la colpevolezza di Alfred, che ha organizzato il tutto con l’aiuto di Evelyn, sua cugina nonché sua amante, quindi solo in apparenza la sua nemica giurata. La coppia ha utilizzato uno stratagemma chimico mescolando bromuro e stricnina, il tutto risultante in una miscela letale, ma a scoppio ritardato. Il piano della coppia prevedeva che Alfred fosse incriminato con delle false prove, che potevano essere facilmente confutate in tribunale. Una volta assolto, grazie ad un cavillo della legislazione inglese, non avrebbe potuto essere processato per lo stesso reato una seconda volta, anche se fossero state trovate delle vere prove contro di lui. Come spesso nelle prime novelle da lei scritte, la storia è narrata in prima persona. Questa volta dal capitano Hastings, che per anni collaborerà con Poirot. Inoltre è piena di elementi che diventeranno archetipi della letteratura gialla: l’azione si svolge in un luogo gran-de ed isolato, ci sono almeno sei o sette possibili sospetti, ognuno che nasconde elementi che potrebbero far pendere la bilancia della giustizia da una parte e dall’altra, ci sono false piste e colpi di scena a sorpresa. Pur se ancora con scrittura acerba, dovuta all’età (ha 26 anni quando lo scrive) ed imbevuto di modi tipici dell’epoca ma forse ormai superati, mantiene a quasi cento anni di distanza la capacità di tenerci vicini alla pagina, aspettando il prossimo colpo di scena. O lo scioglimento della vicenda, che arriva proprio in ultimo, e che, per come viene posto, prende un po’ in contropiede. Che dire, un degno inizio di una luminosa carriera.
Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato il 22 luglio 2012]
E continuiamo a parlar male dei “capolavori” della letteratura. Dire che questo pur bello e sofferto libro non mi è piaciuto è usare perifrasi per mitigare la verità. L’ho trovato non brutto, ma illeggibile e inconcludente. Uno sfoggio di cultura, intellettuale, che gira tanto nel cervello senza neanche aver la forza di arrivare alle orecchie. Conclamato epitome del romanzo giallo, da leggere per le sue invenzioni letterarie e linguistiche, nonché per un’ironia sottile e palese critica del ventennio, mi ha lasciato freddo e deluso. Dicevo illeggibile (e vedetene poi l’esempio che riporto, scelto aprendo una pagina a caso), e mentre lo leggevo mi torna in mente l’attuale illeggibilità di Camilleri. Anche lì, piene sono le pagine di parole astruse, ma hanno un loro andare, e si sciolgono nel cervello, facendoci solleticare ricordi e riaffiorare sensazioni. E certo l’uso del “romanesco” aiuta a far sprofondare il libro nei meandri della sguaiatezza di una lingua incolta, di poco nobilitata dal Belli o dal Trilussa, ma che allungandosi fuori del sonetto, lascia soltanto una scia di inascoltabile durezza. Che viepiù risalta sulla pagina, che forse ad ascoltarla, anche se (e lo dico da romano) non mi piace, ha comunque un suono. Purtroppo non un segno. Secondo poi, se si voleva un giallo metafisico, che fa vedere ed in maniera forte insensatezza e solitudine della vita, consiglio di dedicare tempo e spazio a Dürrenmatt. Ma si dice, devi andare dentro la psicologia dell’autore, alla sua visione del mondo. E poiché per Gadda il mondo è un guazzabuglio senza senso, così ne risultano i suoi scritti. Tuttavia, se ne scrivo della mia visione, io terrei conto anche della direzione della comunicazione tra me ed il lettore. Gadda no. Se ne frega, se tu lo leggi o meno. Scrive per sé, per le sue frasi tornite, e per il suo trancio di vita che va a rappresentare. Perché è uno stralcio, una storia che si svolge in pochi giorni, ma che (e qui non sto svelando misteri) non si chiude. Seguiamo il protagonista, il colto commissario Ciccio Ingravallo che sa di parole e di filosofia, da bravo molisano sceso a Roma (mi sembra quasi un Di Pietro!), colpito dalla barbara morte della conoscente Liliana. E ne seguiamo le indagini, sue e dei suoi accoliti poliziotti e carabinieri. Si fanno belle foto della vita romana del ’27, tra via Merulana e Piazza Vittorio, tra le Frattocchie e Marino, tra il rione Monti e Santo Stefano del Cacco. Vediamo i signori, il questore, il maresciallo, le puttane, le ricamatrici, il mariolo, il fratellino furbo, la Tina, l’Ines e la Zamira. Ne seguiamo le gesta per poco. Le adombriamo, le inquadriamo. Così come seguiamo il cavaliere impoverito, la coppia sussiegosa della scala B, quella dei ministeriali, non quella “ricca” della scala A, dov’era la signora Balducci, e la contessa. Entriamo per un po’ a compatire il bisogno di prole della morta, il cercar caldo altrove del marito, il signor curato ed i suoi testamenti olografi, Iginio che forse ha fatto il furto, le liti di Camilla e della cugina, e via narrando, quasi a raccontar brani di mini-racconti, quasi a fermarsi “ad ogni stormir di fronde”, per seguire un’idea, un gesto, per capirlo e riportarlo sulla carta. Il buon Ciccio ha verso la fine, direttamente o indirettamente, tutti gli elementi del quadro. E ci si aspetta che ne tiri una conclusione, che annodi dei fili. Invece Gadda lascia tutto così, slabbrato e decostruito. Forse io, lettore, ho capito, ma lui, lo scrittore non se ne interessa. Che anche trovare un colpevole, o descrivere una storia compiuta sarebbe dare un senso ad un mondo che non ne ha. E tutto ciò mi ha fatto, pagina dopo pagina, montare una rabbia verso di lui, verso la sua scrittura, verso tutta questa montagna che non riesce a partorire neanche un topolino. L’ho finito di corsa, sperando fino all’ultima pagina di trovare quel piccolo lume che avrebbe riscattato la fatica di averlo seguito fin lì. Niente. Assolutamente niente. Completamente, definitivamente niente. Da chiudere e riporre molto nascosto nella libreria, sperando che nessuno lo trovi, ed abbia quindi una piccola idea di leggerlo. Per favore, non fatelo.
“Pareva che la contessa si ricusasse alla diligenza e alla pertinacia dell’inchiesta, non volendo far fatica a riflettere: tutta trepida, tutta rorida di speranze in ritardo, nel sogno e nel carisma delle ahimè rasentate ma non patite sevizzie. Una policromatica sventatezza vaporava dai suoi foulards color lillà, dal suo baffo bleu, dal chimono tutto gorgheggiato di uccellini (non erano petali, erano strani volatili, tra gli uccelli e le farfalle), dai capelli giallastri con tendenza a un Tiziano scarruffato, dal nastro viola che li raccoglieva quasi in un cespo di gloria: sopra i vagotonici abbandoni dell’epigastro e del volto vizzo, e i sospiri della scampata ahimè brutalizzazione ma non rubalizio degli ori.” (27) [riporto integralmente, ed è una delle parti in italiano, pur con quelle scivolate sulla vagotonia e le ruberie; se uscite indenni da queste righe, potete passare al romanzo; ricordo solo che queste dieci righe servivano solo a spiegare che alla domanda del commissario la contessa non rispose]

Finalino

Come dissi per il whiskey, anche il tè non è molto nelle mie corde, lasciandone il monopolio ad Alessandra. Sul lato “bevande calde” io sono da caffè (e penso sappiate che esistono detective anche loro adusi a questa bevanda). Per il resto che dire, il giallo non si discute, si ama. E poi se ne parlerà, anche a lungo e meglio, altrove.

domenica 19 agosto 2018

Scritto Misto - 19 agosto 2018

Come vedete bene avrei potuto anche chiamarla “Fakeide”, essendo un lotto di libri tutti derivanti dagli ottimi prestiti dell’amico Roberto. In particolare, questa è quasi tutta la collana intitolata appunto “Scritto Misto” e dedicata a riversare su carta esimi esempi di blog. Che tuttavia mi hanno convinto molto poco, tanto che solo uno (che segnalo a mio cugino Alessandro) ha avuto qualche momento di interesse, esseno dedicato al cinema. Per il resto, passerei sotto silenzio.
Mr. Herzog “Perse in partenza (vedi alla voce battaglie)” Unwired s.p. (Prestito di Fako)
[A: 23/01/2018 – I: 30/01/2018 – T: 31/01/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 88; anno 2006]
Cosa fare nella lunga traversata della ruta 40 da Puerto Natales in Cile a El Chilten in Argentina quando ti si rompe il pulmino in mezzo al nulla? Aspettare che passi qualcuno (venti minuti senza nessuno), inviare l’autista alla ricerca di aiuti, trasportare il pulmino alla più vicina stazione di servizio (3 chilometri, fortunatamente, che la seconda stazione era a più di 100!!), scoprire che si è rotta la cinghia di trasmissione ed aspettare soccorsi (almeno 4 ore). Per passare il tempo in questo nulla, ho avuto la fortuna di avere questo libricino prestato da Fako, che non è eccelso, che ha qualche spunto, che ogni tanto fa sorridere, ma che ha consentito di traghettare l’attesa senza pensare al tempo che perdevo. Un libretto di piccoli racconti che nominalisti migliori di me chiamano “blook”, acronimo orrendo che indica “book tratti da blog”. Infatti l’esimio autore, non altrimenti noto se non con lo pseudonimo virtuale di “Mr. Herzog” fu autore e mentore di un blog nei primi anni di questo secolo, trasformato in libro dalla, credo, scomparsa casa editrice “Unwired”. Anche dell’autore si perdono le tracce nella rete (o forse son io che non riesco a trovarne informazioni recenti). Sono racconti di due, tre, a volte cinque pagine, con intenti ironici, non sempre riusciti, ma con qualche spunto che almeno, nell’attesa in quel nulla, hanno avuto il pregio di muovere al sorriso la snervante attesa. Sebbene poi, e lo sapete, io non sia amante della scrittura breve, questa ha avuto il pregio di non impegnare troppo la mente, anche se, l’idea di fondo di queste battaglie quotidiane, da cui si esce sempre sconfitti, non era decisamente male. Battaglie che ci vedono affrontare le piccole montagne quotidiane, ed uscirne, generalmente, sconfitti. Herzog ha una discreta capacità di isolare momenti topici della quotidianità, isolando i vizi del nostro reale, che, di continuo, mettono alla prova le nostre scarse e poco rilevanti virtù. A volte, forse, il tentativo di ironizzare, di mettere alla berlina, è anche troppo forte, forzando un po’ la mano dell’autore verso esiti, scontati ma immutabilmente perdenti. A volte, invece, riesce ad isolare situazioni che potrebbero passare inosservate, ma che con la loro banalità, ci colpiscono lasciando segni indelebili. Cosa pensa un impiegato di pompe funebri del proprio lavoro e durante lo stesso, pur essendo laureato e conoscitore di almeno due lingue? Come liberarsi di uno scocciatore vicino di ombrellone? Sempre andando avanti così, attraversando dialoghi astratti, distratti, senza comprensione reciproca. Con una dose massiccia di luoghi comuni e di ipocrisia. Giochi mentali che ad alcuno ricordano il miglior Rodari, ma che io non spingerei a tanto, se non nell’approccio giocoso all’esistenza. Come ad esempio in quel “Dio offresi a Natale”, dove un dio distratto cerca di riciclarsi in divinità per atei. O l’idea bellissima nel titolo, meno nello svolgimento, de “La morte di Ivan Ilijc Sciosciamocca”. In fondo, ridere della quotidianità perversa è forse l’unico modo per esorcizzarla e continuare a vivere nella nostra quotidianità di perdenti. Per queste e per altre battaglie. Mi ha salvato dalla pampa, ne farei dono di lettura ad amici che devono passare qualche ora nel salotto di un dentista ad aspettare di essere guardati in bocca. Come regalo finale, vi lascio la fine di un altro racconto, “In corpore insano”, che per assonanza ricorderà sempre nella mia testa, il finto disco di Gaber (“Far finta di essere… Zani”). Così avrete un esempio della scrittura di Herzog. (A breve libro, breve commento impongasi).
"Gli amanti dello sport urbano sono davvero votati al sacrificio estremo. Dotati di fanatica volontà, nulla li può fermare. Pensate che di recente, in un parco cittadino, ho visto – lo giuro, quasi – un vecchietto, invalido di guerra, in abbigliamento tecnico e sedia a rotelle che si faceva spingere a buona andatura dal badante rumeno. E non era nemmeno tanto sudato. Il vecchietto, dico. Che il rumeno, invece." (85)
Personalità Confusa “Storia completa del tuo futuro” Unwired s.p. (Prestito di Fako)
[A: 19/02/2018 – I: 22/04/2018 – T: 24/04/2018] - &&  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 88; anno 2006]
Secondo “ScrittoMisto” che leggo, e, benché sempre riconoscente al mio amico Fako, continuo a domandarmi che senso abbia il libro (e che senso aveva il blog da cui nasce). L’autore, secondo quanto ho desunto dal web, dovrebbe essere un uomo di nome Lorenzo, forse impiegato da qualche parte. Per anni su splinder scrive il suo bravo blog, riuscendo a spuntare molti “Like”: come dire un patito di FB. Tanto che decide di prendere una manciata di suoi scritti, integrarli, aggiustarli, aumentarli con nuove e frizzanti scritture. Di modo che qualcuno decide a sua volta che meritano di esser pubblicati in questa collana, dove i libricini (diminutivo per il piccolo formato, non per il contenuto) dovrebbero aggirarsi sulle 90 pagine. Questa collana che come vedete dal grande titolo si chiama “Scritto Misto”. E questo già indirizza la lettura ed i pensieri di chi legge verso momenti di relax e, possibilmente, di ilarità. Come detto, l’autore è un blogger, una decina d’anni fa molto in voga, ma che credo ora non lo sia più tanto. Così posso senza tema di essere servile o di essere osteggiato, dire che questa collana e questo autore non mi convincono. Certo, ci sono sprazzi di divertimento, sorrisi a fior di labbra. Un autore meglio bilanciato di me e più propenso a dire cose, avrebbe cominciato a parlare della comicità del quotidiano, degli effetti comici del crescendo (come in musica) e dell’accumulo (mattoncino piccolo, piccola risata, secondo, terzo mattoncino, aumenta l’apertura labiale, fino a che, non potendone più, magari si ride). Ma veramente si ride in questi brevi ed inutili racconti? Come la serie delle Guide: Guida completa alle colleghe del tuo ufficio, Guida alla metropolitana, Guida turistica all’Ikea il sabato pomeriggio (quest’ultimo un testo da brividi, che se ci provate ad andare di sabato all’Ikea ed uscite vivi, la prossima volta vi porto in Tanzania). La micro-comicità di Personalità Confusa è di certo molto datata, è di stampo molto “Zelig” di Bisio. Certo alcune idee sono divertenti e valide tuttora, anche se la loro realizzazione non sempre è portata alle estreme conseguenze. Tipo i sequel delle opere famose, come Pinocchio 2 o I Malavoglia 2. Poche righe per imbastire un’idea di trama, tipo un cinquantenne Pinocchio che di colpo torna ad essere di legno. Ma l’idea regge solo le dieci righe del commento, perché Personalità vuole essere spiritoso per forza, ed aggiunge ad idee promettenti, conclusioni veloci e non sempre brillanti (da meditare la seggiovia Milano – Madonna di Campiglio, forse un po’ lunga, ma quanto traffico fa risparmiare). Visto che poi più dell’onor poté il digiuno (e qualcuno sarà anche in grado di riconoscere la citazione aulica), ecco che, per farvi capire il livello del libro e la sua capacità o meno di tenervi incollati alla pagina, vi propongo un estratto di mezza pagina. Da far invidia a Umberto Eco e Maria Teresa Serafini:
“Come scrivere una tesi di laurea
Quella che segue è una piccola guida alla compilazione di una tesi di laurea, pensata per tutti gli studenti spaventati dal pensiero di dover affrontare questa spaventosa impresa:
1. È estremamente probabile che nessuno, a parte te, leggerà mai la tua tesi per intero. È triste ma è così. Nei capitoli centrali potresti scriverci l’elenco telefonico, la lista della spesa o la Gerusalemme Liberata e nessuno se ne accorgerà. Gli archivi elettronici delle università sono pieni zeppi di tesi di laurea mai lette da occhio che non fosse quello del povero studente compilatore.
2. Oltre alla tesi, dovrai stilare una bibliografia. Anche questa non verrà mai controllata da nessuno. Prova pure a inventarti titoli, fonti, anni di pubblicazione. Cita autori inventati, editori tedeschi, articoli cileni, traduzioni dal tale giornale americano, norvegese o slovacco: nessuno si prenderà la briga di andare a controllare. Mai. A questo punto, conviene sbizzarrirsi.”
Penso che avete capito, ma alla fine il risultato non si scosta molto dal basso più basso. Resta il solo merito che sono riuscito a leggere questo e gli altri libri della collana durante il viaggio in India. Per il resto, possiamo oscurare tutto.
Hotel Messico “Seppellitemi con l’accappatoio” Unwired s.p. (Prestito di Fako)
[A: 01/03/2018 – I: 25/04/2018 – T: 26/04/2018] - &--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87; anno 2006]
Terza lettura di questo “ScrittoMisto”, e probabilmente quella che meno mi è piaciuta, meno ha acceso la mia fantasia. Sono sempre in India, ma ormai siamo arrivati ad Agra, fa molto caldo, ma non è umido. Hotel Messico, non so perché, è uno pseudonimo. Ma qui sono stato un bravo ricercatore, e ne ho trovato traccia. In realtà, si chiama Gianni Solla, ed è un napoletano del 1974. Dieci anni fa aveva questo blog (hotelmessico.net) che ora non esiste più, ma da quelle prime righe un po’ involute, l’autore si è andato approfondendo nella scrittura, ha pubblicato anche libri interi e non solo pezzi di racconti che mi hanno dato la sensazione di essere solo molto splatter. Critici meglio informati e più bravi di me parlano di una scrittura che ricorda le visualizzazioni oniriche di Lynch, o i giri nello spazio interiore, frontiera invalicabile delle personalità deviate e devianti, quasi un ripercorrere libri come “Crash” di J. G. Ballard. Io sono più vicino alla terra, al concreto, al qui ed ora, e molto dello scritto l’ho trovato inutile. Certo, si parla della cattiveria infantile così come non se ne dovrebbe parlare (i bambini sono sempre bravi, belli, buoni, angelici), in raccontini come "Scemo", "Prima Comunione" o ancora "Resina". E lì troviamo bimbi e adolescenti cinici, cattivi, a volte inutilmente sadici. Certo troviamo spunti, trattati come fosse un abboccamento comico, che poi muta il suo ghigno prima verso l’ironia, poi verso la cattiveria pura, in altri brani come il perfezionismo suicida della protagonista di “Abbronzante”, come la tecnologia esasperata che porta ad una follia mortale dei “Cinque ragni”. Attraversiamo con passo lieve, ma senza che ne veniamo mai coinvolti più di tanto, la descrizione delle gravi menomazioni del corpo martoriato da un incidente stradale come in “Bottoncino”, la descrizione della tossicodipendenza di "Fino a Fuorigrotta", per sconfinare nell’evidente emarginazione dei protagonisti di "Garden Bar", di "Gli operai della metropolitana" o di "Un paio di cose". Come sappiamo avendo letto dell’autore, esce fuori molto della napoletanità che permea le sue anche altre pagine, di cui vi porto un esempio in finale. Mi sarebbe piaciuto poter accostare anche idealmente queste righe ad un classico come quelli rappresentati nella “Antologia dello humor nero” di André Breton. Ma qui si vola troppo alto, mentre la scrittura di Hotel Messico ci riporta in basso. Né giova all’autore allungare il brodo dei racconti. Che qui trovano uno spazio più lungo, rispetto alle due tre pagine che in genere gli scrittori di “Scritto Misto” e dei blog in genere riservano a queste punture di spillo. Ecco allora il campione di scrittura:
“Quaderno numero undici
Ho il colera, il tifo, sono napoletano, napoletani con il sapone non vi siete mai lavati, napolecani, se mi guardi di nuovo ti sparo in faccia, pagami il pizzo, ti rubo la macchina, ti rubo il cellulare, ti do due coltellate nella pancia, rubo le macchine fotografiche ai turisti giapponesi, mi trascino una francese per venti metri per scipparle la telecamera, abito in una casa occupata, sono terremotato, porto rispetto per Casale di Principe, sono scissionista, faccio il parcheggiatore abusivo, vivo in un basso, ascolto i neomelodici, per strada ci sono gli scarafaggi, faccio le rapine a Milano, rubo i Rolex a Parma, rubo nelle ville a Varese, schifo i neri, gli albanesi, i rumeni, i milanesi, i calabresi, i baresi, mi faccio il tatuaggio di Padre Pio, se non vai in galera non sei uomo, in galera ti devi far rispettare, schifo i pentiti, devo fare un matrimonio al ristorante che deve durare undici ore, voglio il posto al comune, alla regione, alla asl, al ministero, sono un finto invalido, conosco uno alla questura, manometto il contatore dell’Enel, non pago l’acqua, sparo contro i carabinieri dal balcone, schifo la polizia, tengo la pistola nel cassetto, le nostre femmine a vent’anni ne dimostrano trenta, a diciotto anni facciamo figli perché non usiamo il preservativo.”
Una scrittura posteriore di cinque anni al libro, ma ancora lontana nel tempo. e che continua a non convincermi né coinvolgermi.
Marquant “Zitti al cinema” Unwired s.p. (Prestito di Fako)
[A: 19/02/2018 – I: 27/04/2018 – T: 28/04/2018] - &&&-- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 87; anno 2006]
Sarà stato che ormai mi trovavo a Khajuraho mentre leggevo questo che per me era il quarto volume degli “Scritto Misto”, e come molti sanno quella città a me piace e mi rilassa (incluse le presenze dei miei amici Pappu e Saixhin), ma ho trovato lo scritto di Marquant il migliore della serie. Anche perché coniuga ironia e cinema, luoghi comuni e litigi nella sala buia. Ma anche momenti di incontri culturali di eventi. Come la trilogia di atteggiamenti per parlare male degli ultimi film di Woody Allen, dove se ne può parlare male anche senza vederli. Ma andiamo con ordine. Intanto Marquant è il più misterioso di quelli finora letti: so che è Milanese, che ora è over 40, che va (andava?) molto al cinema. Proprio l’incipit è quello che mi ha di più intrigato, con quella dedica a Pauline Clayton. Chi sarà mai l’illustre ignota? Ebbene, per noi cinefili, un’eroina! Una persona multata in Texas nel 2006 perché si è ribellata ad una persona che parlava al telefono durante un film, e dopo aver cercato di zittirla, le ha toccato una spalla dicendo “shhhh!”. Ebbene, la persona toccata ha denunciato Pauline per “invasione del suo spazio privato”. Ed il giudice texano ha condannato Pauline ad una multa di 150 dollari. Per noi rimarrà un mito, uno dei caposaldi di quelli che Marquant giustamente etichetta come “Tipi da cinema”: l’Entusiasta Molesto che ride ad ogni battuta, Le Amiche delle Otto che non smettono di chiacchierare, Sua Saccenza, l’annoiato che sa tutto di questo e di tutti gli altri film e non si capisce perché allora vada al cinema, Il Popcornivoro, una specie che farei sparire a colpi di Nutella: i mangiatori di popcorn, Il cartaio, si quello che scarta le caramelle producendo un rumore fastidiosissimo. A questo punto mi inserisco con un ricordo personale, “Le anziane da televisione”: tanti anni fa stavo al cinema vedendo l’ottimo film di Scola “Il mondo nuovo”, e due signore accanto a me cominciavano a parlare a voce alta, dicendo: “Oh, ma quello è Mastroianni”. No, signora quello è Giacomo Casanova. “Oh, oh, ma quello non è Michel Piccoli?”. Ancora no, signora, quello è Luigi XVI. Insomma, ad ogni attore che compare sulla scena ne parlavano come fosse una comparsa televisiva, non un interprete del film. Mi sono alzato e mi sono spostato dieci file più indietro. Fortunatamente, era pomeriggio ed il cinema era vuoto. Capii allora perché il mio amato cugino cinefilo Paolo voleva sedersi sempre nella seconda fila. Tanti altri episodi e spigolature contiene l’ottimo libretto di Marquant, tanto che vorrei regalarvi la chicca del suo decalogo:
"Peccato originale" (promemoria strettamente autobiografico):
1.   Se il film è doppiato, lamentati per la scarsa resa dei dialoghi e per le sfumature perse nella traduzione.
2.   Se il film è in lingua originale, lamentati perché non ci sono i sottotitoli.
3.   Se ci sono i sottotitoli, lamentati perché tutte quelle scritte lì in basso distolgono l’attenzione dalle immagini.
4.   Se capisci le battute, fallo sapere a tutto il cinema: ridi, ridi sguaiatamente, un po’ per farla pesare a chi non ha capito, un po’ per sfogare la tensione accumulata nello sforzo di capire.
5.   Se non capisci i dialoghi, prenditela con la dizione degli attori americani, le patate in bocca e banalità dicendo.
6.   Se gli attori sono inglesi, limitati a osservare che parlano davvero in fretta.
7.   Se il film è in francese con sottotitoli in inglese, prima leggiti almeno la trama.
8.   Se il film è in una qualsiasi lingua non occidentale, ricordati che sei lì per ammirare la fotografia.
9.   Se guardi prima l’edizione italiana, ripromettiti di rivederlo in originale.
10.Se guardi prima la versione originale, mostrati desideroso di rivederlo in italiano ("Ma giusto per curiosità, eh").”
Certo, alla fine non ha spunti clamorosi, o momenti ridancianamente coinvolgenti. Ma è una bella confezione, e, unico fra questi libretti, ne consiglio caldamente la lettura.
Spad “Convivo con la metà di me stesso (il resto l’ho affittato a un pirla)” Unwired s.p. (Prestito di Fako)
[A: 01/03/2018 – I: 29/04/2018 – T: 30/04/2018] - & +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 91; anno 2006]
Ormai il giro indiano sta per finire, ed anche i volumi di “ScrittoMisto” che ho portato con me. Purtroppo questo, che è l’ultimo, è anche quello che veramente poco mi è piaciuto, così che lascio la collana con un po’ di amarezza. Non c’è la verve e/o il coinvolgimento di Marquant, né le strampalate pagine di Personalità Confusa. Anzi qui siamo quasi sul versante haiku (tante pagine sono piccole poesie con finale alla Flavio Oreglio). Non è certo un caso che, benché abbia trovato poche notizie di Spad sul web, quello che di lui si sa è il passaggio dal blog al ghost writer per comici professionisti. Tornando alla collana (di cui lamento solo la mancanza dell’ultimo titolo per chiudere il cerchio “27 anni e non sono ancora morta” di Arkangel), insieme a quello mancante questo è sicuramente il titolo più intrigante. Ma tuttavia rimane lì, sul titolo perché il resto del volume non riesce a farci sentire più vicini all’autore ed alle sue “battute”. È vero che i più di dieci anni si sentono, ma le brevi poesie, le battute, il volgere tutto verso un sentimento sessuale che sicuramente faceva presa all’epoca ma che ora sa di vecchio ed un po’ obsoleto. Proprio per far capire cosa intendevo quando accennavo a Spad e ad Oreglio, vi propongo un breve faccia a faccia, con due mini-testi di due righe dei due autori:
OREGLIO
“Vedo
Vedo un camoscio e gli stambecchi saltare.
Un'aquila vola in alto e le marmotte zampettano circospette.
Amore, sei sicura che di qui si va a Rimini?”
SPAD
“La dura legge del pelo:
Lei può scherzare sul fatto di non essersi fatta la ceretta.
Tu no.”
Ho volutamente scelto qualcosa che non faccia riferimento al sesso e ad altre performance al fine di non essere censurato sul web se e quando metterò online queste righe. Vorrei finire questa breve panoramica del mondo “Unwired” con la ripresa di una battuta che circolava molto tempo fa relativamente a questi ed altri libri che servivano soltanto a riempire gli oziosi momenti sotto l’ombrellone nelle calde estati italiane (si parla di tanto tempo fa, che ora l’estate è tutto meno che calda, e non si sa quando arriva, e magari si sposta da agosto verso settembre-ottobre). Venivano infatti chiamati “letturatura” estiva. No, non è un refuso, era proprio una lettura che turava i buchi tra un bagno e l’altro, tra una coca-cola ed un cocomero. Or non è più quel tempo e quell’età, come diceva Carducci. E noi si rimane a rosicchiare un cardo, lasciando andare nel dimenticatoio lo “Scritto Misto”. Una breve fine per una breve e dimenticata collana.
Sono a Roma, e non so se esserne contento (di nuovo a casa) o meno (ma che caldo che fa!). Anche perché sono da solo. Ma ciò mi dà modo di riprendere le cure, questa volta per la pression, che bisogna sempre tenerla sotto controllo.
Ma siamo anche al volgere di un’estate complicata da incidenti e iatture, con pochi viaggi, è vero; con l’Irlanda rimandata a data da destinarsi. Tuttavia, con un bel riposo sorianese dedito alla ristrutturazione casalinga, ed un altrettanto bell’ozio portercolano. 

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
AGOSTO 2018
Si è parlato molto questa estate di viaggi in alta quota, toccando spesso l’argomento della pressione alta, e di come utilizzare il mate di coca per abbassarla.

PRESSIONE ALTA

La lettura è un rimedio per l’ansia, e se avete la pressione alta può diventare una buona e sana abitudine - soprattutto con un animaletto peloso raggomitolato sulle ginocchia. Fate attenzione ai libri che scegliete, comunque; prendete qualcosa di troppo piccante, o di così avvincente da farvi mangiare le unghie, e il cuore pomperà ancora più forte di prima. Per rallentarlo, ridurre l’ansia, e incoraggiarvi a vivere attimo per attimo, scegliete il vostro libro dal nostro elenco di letture rasserenanti - romanzi che non corrono verso la conclusione, ma abbondano di non-eventi e cantano le lodi della vita tranquilla. Quello che manca nel ritmo, è più che compensato dalla bellezza e dalla capacità di stimolare la riflessione.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER ABBASSARE LA PRESSIONE
Vincenzo Cerami             “Un borghese piccolo piccolo”
Daniel Defoe                 “Moll Flanders”
Charles Dickens              “David Copperfield”
Ernst T. Hoffman            “Gli elisir del diavolo”
Ian McEwan                   “Bambini nel tempo”
Petronio Arbitro              “Satyricon”
Jean-Jacques Rousseau   “Le confessioni”
Leonardo Sciascia           “Il contesto”
Stendhal                       “Il rosso e il nero”
Virginia Woolf                “Le onde”

Bugiardino

Conosco, ance se ne ho letto solo parti, sin dai tempi del liceo sia il Satyricon che “Le confessioni” di Rousseau. Defoe e Stendhal erano presenti nelle librerie paterne, e ne ricordo i testi, seppur non sia sicuro della loro lettura. Dickens e McEwan, per ragioni diverse, li ho letti o riletti agli inizi degli anni 2000. Ho anche traccia si Hoffman, di Sciascia e di Virginia Woolf, ma non so dire se li ho letti o solo cercati qua e là su internet.
Vincenzo Cerami “Un borghese piccolo piccolo” Mondadori euro 9
[tramato il 1 marzo 2015]
Letto ad un anno esatto della morte del grande sceneggiatore italiano, purtroppo scomparso nel luglio ‘14 a soli 72 anni. Un po’ sotto la spinta di un commento di Stassi, un po’ per capire meglio la figura di Cerami, dopo averne apprezzato i film con Benigni, ma anche con Bertolucci, Amelio, fino ai primi lavori da aiuto-regista a Pasolini. Ed infine, per comprendere l’amaro film di Monicelli che il grande regista ne trasse poco dopo l’uscita del libro. Film che, per una serie di motivi, tra cui il mio scarso amore per le pellicole di Alberto Sordi successivi alle folgoranti uscite degli anni ’50 (da “Lo sceicco bianco” di Fellini del ’52 a “Tutti a casa” di Comencini del ’60), mi sono sempre rifiutato di vedere. E benché appunto Monicelli ne abbia fatto un epigono di un mondo in rovina (non era più tempo delle commedie all’italiana, e già si sentiva aria di tragedia, visto che l’anno dopo veniva ucciso Aldo Moro), stravolgendo (secondo quanto ho letto e quanto se ne dice sui libri di cinema) il finale di Cerami, interpretazione su cui ritornerò. Ad una lettura poco concentrata, il libro, apologo, come da titolo, di un mondo borghese triste ed immiserito, risulta non solo non particolarmente avvincente, ma anche (e questo dipende senza dubbio dalla personalità dello scrittore) tendente alla dimostrazione di una qualche teoria giustamente decadente del mondo dei primi anni ’70. È la storia del piccolo impiegato Giovanni Vivaldi, di ruolo nella Pubblica Amministrazione, ed in particolare nel Ministero dedito alla concessione delle pensioni. Storia che comincia con il nostro Vivaldi tipico e svogliato lavoratore burocratico e termina con i giorni sempre uguali che andranno dalla pensione alla morte. Detto così, l’apologo di Giovanni è di una tristezza infinita: la casa malandata, la moglie Amelia, Mario il figlio ragioniere, i pasti fatti perché sì, le mattine in ufficio, le chiacchiere con i colleghi, la FIAT ottocentocinquanta, il gelato da Fassi a Piazza Vittorio, la Settimana Enigmistica. Ripeto, non vi sentite già immersi in un gelo artico? In una vita che speriamo finisca presto? Su questa via che non porta a niente, su questo rettifilo triste e sconsolato tra la nascita e la morte, l’idea di Cerami (vincente dal punto di vista drammatico) è di mettere una zeppa, un ostacolo, un incidente di percorso. Allora vediamo che, una volta Mario diplomatosi, Giovanni, come tutti i bravi impiegati di quegli anni, comincia a brigare per sistemare il figlio, magari nel suo stesso ministero. E quando chiede aiuto al suo capufficio, si trova invischiato in una ridanciana associazione massonica. Primo colpo che lo scrittore dà forte e chiaro alla società. Per avere un posto fisso, per sistemarsi, bisogna avere “degli amici”. Se fossimo in Sicilia, si chiamerebbe mafia, ma siamo a Roma, e quindi Giovanni si fa massone (con la veramente ridicola cerimonia di iniziazione!). Questo però gli consente di avere dal suo superiore, una settimana prima dell’esame di ammissione al Ministero (i famosi “concorsoni”) il testo dell’esame stesso, così che il figlio possa prepararsi a dovere (che lo scritto è individuale, poi all’orale ci si dà una mano comunque). E qui il secondo masso che Cerami mette sulla strada di Giovanni: andando da casa al Ministero, i nostri due incappano in una rapina, parte un colpo di rivoltella e Mario muore. Questo sì che farà crollare il castello di Giovanni: alla moglie prende un colpo apoplettico, ed il nostro si ritrova a girellare tra le macerie della sua vita, inebetito e senza scopo. Cerami si domanda (con lo scritto, anche se non esplicitamente) dove sia la giustizia del mondo, dove Giovanni possa essere risarcito (e non certo dalla Chiesa, messa in burla con l’omelia del parroco durante il funerale). Inaspettatamente, mesi e mesi dopo la morte di Mario, Giovanni incappa nel rapinatore che ha sparato. Terzo masso: nessuna denuncia alla polizia, che al massimo esce fuori un ergastolo; ma, con un’astuzia ed una forza improvvisa, rapimento del rapinatore, trasferimento dello stesso nella baracchetta in riva al lago che serviva a Giovanni come casotto da pesca. E lì Giovanni, lega il rapinatore ad una sedia, e, giorno dopo giorno, lo lascia morire di fame e di sete. Meravigliandosi che la “tortura” duri poco, e quindi seppellendo il cattivo sotto un fico in giardino. Arriva quindi la sospirata pensione, ed il giorno stesso Amelia muore. Lasciando Giovanni solo, senza lavoro, senza figlio, senza moglie e senza vendetta. Nel film, al contrario, Monicelli spinge la sua cattiveria portando l’impiegato Vivaldi a continuare l’opera di vendicatore solitario. Cerami no, Cerami si ferma, annegando la vita in una tristezza infinita e senza scopo. Personalmente, la figura del vendicatore solitario mi lascia alquanto perplesso dal punto di vista intellettuale (cerco di capire, ma spero di non trovarmi mai nella situazione in cui la domanda da teorica possa diventare pratica). Non è la mia idea di giustizia. Come, quella di Vivaldi, non è la mia idea di vita. Ma so, per averne passati di anni attraverso Ministeri ed affini, che quella è molta vita che scorre. Io mi illudo nel pensiero che “scorresse” e che i giovani, ora, possano, riescano ad uscirne, a crearsi un’aspettativa di futuro che comporti la Settimana Enigmistica solo l’estate al mare. Speriamo. Intanto, finisco considerando che il libro, pur con quei punti interessanti che ho evidenziato, non mi ha coinvolto in maniera esasperata. Anzi.

Conclusioni

E qui mi trovo in disaccordo totale con il suggerimento. Se avete la pressione alta, leggete questo libro e vi scoppieranno le coronarie di bile e di voglia di vendetta. Tanto da prendere la prima arma contundente e scendere in piazza brandendola e massacrando chiunque incontriate. Per la pressione ci vuole un dosaggio equilibrato, tra calma e coinvolgimento, magari con poco adrenalina. E non sono questi i casi.