Wilbur Smith “Orizzonte” TEA euro 9,90 (in realtà,
scontato a 8,42 euro)
[A: 01/11/2015 – I: 08/03/2018 – T: 11/03/2018] -
&&&
[tit. or.:
Blue Horizon; ling. or.: inglese; pagine: 746; anno 2003]
Devo confessare che,
progredendo nella lettura cronologica, le avventure della stirpe dei Courtney
migliorano, non decisamente ma sensibilmente. Non migliora invece il tentativo
di marketing, dove, elemento negativo della versione italiana, sparisce il blu
dall’orizzonte, e non si capisce perché. Allora, le letture bibliografiche mi
dicono che tra questo e il precedente dovrebbe inserirsi un titolo scritto da
Smith nel 2017, ma che ancora non sono riuscito a reperire in maniera indolore
nella mia biblioteca (prima o poi verrà recuperato, ma non so quando). Invece
questo, dal punto di vista della scrittura, è successivo di soli 4 anni al
precedente, in un periodo in cui Smith aveva anche molti problemi personali. Nel
1999 muore la terza moglie di tumore al cervello. Tra il 2000 ed il 2001
incontra e poi sposa la sua quarta moglie Mokhiniso Rakhimova, una donna tagika
all’epoca di 28 anni (e Smith ne aveva già 57). Per riprendersi da tutti questi
movimenti, dà mano a questo libro, il primo dedicato alla nuova moglie. Come al
solito, sebbene questo sia l’undicesimo romanzo che vede protagonista qualche
elemento della stirpe dei Courtney, la sequenza temporale lascia un po’ a
desiderare, dato che, in realtà, quello che preme a Smith è più l’aspetto
globale di queste avventure. La descrizione della vita a Città del Capo, gli
intrighi delle corti islamiche nel sultanato di Oman, la navigazione dei tratti
di mare tra il Capo di Buona Speranza a Sud e la punta di Gibuti a Nord,
lasciando sulla destra le ingombranti isole di Madagascar prima, e soprattutto
di Zanzibar poi. Non ultime, in fondo, le scorribande nell’entroterra. Quella
che era poi la sua terra d’origine, quella Rhodesia ora Zambia che aveva cullato
i suoi sogni giovanili, e che aveva abbandonato all’avvento al potere del
razzista Ian Smith. Quindi qui seguiamo le avventure dei Courtney che si sono
installati a Cape Town, hanno messo su un bel po’ di commerci mercantili, pur
non essendo affiliati alla Compagnia Olandese delle Indie (ma pagando fior di
tangenti). Ci sono Tom con la moglie Sarah ed il figlio Jim e Dorian con la
moglie Yasmini ed il figlio Mansur. Ora se prendiamo per buona la nascita dei
due cugini nello stesso anno, sembra un po’ strano, per l’epoca ed il posto, che
Sarah partorisca a 31 anni. D’altra parte, Yasmini non potrebbe partorire Mansur
prima di avere almeno 16 anni, motivo per cui retrodaterei le due nascite dal
1711 al 1704. Questo potrebbe coincidere con le problematiche relative ai
sultani omaniti, che vivono un periodo di turbolenza intorno al 1724, con i
giovani ventenni, mentre il periodo intorno al 1730, come ci vorrebbe far
credere Smith, è un periodo di grande pace del sultanato, capeggiato fino al
1743 da Sayf II bin Sultan. Le storie intrigate che ci vengono narrate
cominciano con l’arrivo di una nave di detenute dall’Olanda, tra cui c’è la
bella Louisa, condannata ingiustamente, e di cui si invaghisce Jim. Per farla
breve, Jim la libera, ma si aliena gli olandesi che ne cominciano la caccia. Jim
e Louisa, aiutati dai Courtney, fuggono verso l’interno. Ma un disertore fa la
spia, costringendo tutta la stirpe Courtney ad abbandonare il Capo. Su delle
navi, e verso l’antico approdo del primo libro della serie, dove approdò il
capostipite Sir Francis. Dopo mille peripezie, che vi lascio scoprire nei
dettagli, Jim e Louisa si ricongiungono con il resto della famiglia. Nel
frattempo, Jim è diventato un abile cacciatore, e belle sono le scene di caccia
agli elefanti. Inoltre Jim e i suoi ingaggiano una furibonda lotta con una
perfida tribù locale, gli “inazi” debellandola ed entrando quindi in buoni
rapporti con le tribù dell’interno. In tutto questo, c’è la lunga ricerca di Jim
e Louisa da parte di un manipolo di olandesi al comando del sanguinario Koots, e
guidati da un boscimano cattivo (mentre Jim è guidato da un boscimano buono).
Ovviamente Smith non si perita di intrecciare di nuovo le vicende di Dorian con
il sultanato, dove, morto al-Malik, il califfo che lo aveva adottato, siede ora
sul trono il perfido Zayn. Che fa strage di tutti i nemici, ingaggia una lotta
intestina con altri califfi, e, in parte sconfitto, si rifugia a Zanzibar. Da
dove fa partire una sua offensiva contro i Courtney, prima con il solo Kadem che
si infiltra nella famiglia, riuscendo solo ad uccidere Yasmini. Da qui si
dovrebbe scatenare una guerra totale. Ma prima c’è un altro raccordo di Smith.
Risbuca fuori, come plenipotenziario della Compagnia Inglese delle Indie, il
cattivo gemello Guy, che cerca di rimettere sul trono Zayn. Poiché Dorian e
Mansur sono nella zona (non vi dico tutte le peripezie che intercorrono), non ci
meravigliamo dell’incontro tra i due rami della famiglia. Guy è accompagnato
dalla figlia Verity, che dovrebbe essere nata qualche anno dopo il figlio
bastardo di Tom e Caroline, poi moglie di Guy. Ma se Verity è del 1696, ritorna
almeno la datazione precedente, altrimenti avrebbe 15 anni più di Mansur. Invece
sono quasi coetanei, e, benché quasi cugini (figli di due fratellastri) sboccia
l’amore. Con tutta una serie di stratagemmi, sia da una parte che dall’altra, i
due schieramenti si avviano allo scontro finale. Da un lato tutti i Courtney,
sostenuti da tribù locali, dall’altra la flotta di Zayn con Guy Courtney, e, via
terra, le truppe di Kadem e Koots. Smith, in questo frangente, riesce a
sviluppare una bella descrizione di tutte le fasi della battaglia. Quella via
terra, quella via mare, le astuzie di Tom per bloccare le navi di Zayn, per
depredare Guy dall’oro rubato. Non mancano assalti di coccodrilli ed altre scene
cruente. Però, come ci si aspettava, i nostri avranno la meglio, e tutti i
cattivi periscono. Anche Guy, ma si sa è il gemello cattivo, ed anche perfido
con la figlia, tanto che la stessa Verity non lo piangerà. Arriviamo così alla
fine di questa parte della saga, con Tom e Sarah che rimangono sulla costa, con
Jim e Louisa, cui è nato il piccolo George, che prendono armi e bagagli per
tornare verso l’interno (non ci meravigliamo, che Smith farà nascere le prime,
di scrittura, avventure, nel natio Natal, e scusate il bisticcio). Mentre
Dorian, con Mansur e Verity tornano verso Muscat. Dicevo, questo episodio è di
buon respiro, anche perché la parte pruriginosa, che altrove stonava, qui è ben
dosata. Le battaglie hanno il loro giusto respiro. Ma soprattutto, c’è molto del
suolo africano dell’interno, degli elefanti, dei leoni, dei coccodrilli, e di
tutti quegli animali che in questi miei anni di frequentazioni della zona ho
imparato a vedere con il giusto occhio. E che Smith tratta con buona penna.
Insomma, sempre al di sotto di Cussler, ma sicuramente più leggibile man mano
che progrediscono gli episodi (che ripeto sto leggendo in ordine cronologico di
svolgimento e non di scrittura). E con il genealogico sotto riportato fermiamo
tutta la storia dei “primi” Courtney.
Wilbur Smith “Il destino del leone” Longanesi s.p.
(Biblioteca di Proba Petronia)
[A: 19/03/2018 – I: 15/04/2018 – T: 18/04/2018] -
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[tit. or.:
When the Lion
Feeds; ling. or.: inglese; pagine: 471; anno 1964]
Ed ecco che facciamo un salto con capriola all’indietro
per passare dal 5° episodio dei Courtney al 6° (cronologicamente). Anche se
questo poi è in realtà il primo libro scritto dall’autore di nascita africana.
Scritto a 31 anni, con tutta la veemenza della giovane scrittura, ma con poco
dosaggio dei temi che diverranno caratteristici dell’autore, anche se questi
temi sono presenti e si vede come, soprattutto nella descrizione dei paesaggi
africani e della vita lontano dalle città, la mano di Smith sia potente fin
dall’inizio. E che così rimarrà a lungo. Comunque, questo primo libro si sente,
nei modi e nello svolgimento, che è stato scritto 50 anni fa. Ma poi i suoi temi
ritorneranno ciclicamente in tutta la produzione. Intanto, dopo aver lasciato i
“primi” Courtney intorno al 1730, qui saltiamo ad una storia che si colloca tra
il 1862 ed il 1895. L’inizio è datato dalla nascita dei gemelli Sean e Garrick,
figli di Waite Courtney, un colono da anni insediatosi nel Natal, che per i non
sudafricani è una regione costiera confinante con il Mozambico a Nord. Quello
dei gemelli (e poi dei fratelli) in lotta sarà una costante di Smith, che qui
comincia con Sean che accidentalmente spara a Garrick, cui dovrà essere amputata
una gamba. Non solo, il diciottenne Sean si trastulla con tal Anna Von Essen che
mette inavvertitamente incinta, prima di partire per una guerra con gli zulu.
Garrick rimane a casa, è innamorato di Anna, che, temendo il non ritorno di
Sean, lo circuisce e si fa sposare prima di far vedere di essere incinta. Nella
guerra con gli zulu muore il padre Waite, mentre Sean si salva dai massacri
grazie ad uno zulu di nome Mbejane che gli diventa amico fraterno. Ma non potrà
rimanere nell’astiosa casa che ormai è guidata dal fratello, e dove nasce suo
figlio bastardo Michael. Parte allora insieme a Mbejane per il Transvaal (questa
è la regione a Nord del Natal, dove ora c’è il Parco Kruger). In queste sue
peripezie nella natura conosce lo spumeggiante e a volte truffaldino Duff, con
cui fa comunella. In mille avventure, ma soprattutto alla ricerca dell’oro, che
si dice abbondare nella regione. Lo troveranno in prossimità della nascente
Johannesburg, regalo di un’amica di Duff, Candy. Anche qui le solite peripezie
social-amorose, anche se più da parte di Duff. Che prima decide di sposare
Candy, poi ha paura e fugge. Sean intanto viene preso nella morsa di speculatori
senza scrupoli, perdendo la miniera e tutti i suoi averi. Si ricongiunge con
Mbejane e Duff nei boschi, diventando cacciatori di elefanti. Qui si rivela
appunto la maestria di Smith nel descrivere la caccia, gli inseguimenti,
l’avorio e tant’altro fa un po’ “wild”. Purtroppo, morso da uno sciacallo
idrofobo, Duff muore. Sean non si dà pace, cominciando una vita solitaria nella
savana. Fino ad incontrare i boeri Leroux, dove c’è la bella Katrina di cui
ovviamente di innamora. Assistiamo anche alle peripezie per farsi ben volere dai
rigidi boeri. Ma Sean è caparbio ed innamorato. Così vince anche questa
battaglia, i due partono soli con Mbejane ed altri zulu. E nelle foreste
africane nascerà nel 1890 loro figlio Dirk. Dopo alcuni anni di vagabondaggio,
anche perché Katrina è colpita da una forma di malaria, decidono di tornare a
Johannesburg. Dove Sean ritrova Candy che ha fatto fortuna, che flirta
impunemente con Sean, provocando gelosia nella mente malata di Katrina. Che,
dopo aver perso il secondo figlio, con la mente sconvolta, si uccide gettandosi
in una voragine della miniera di Sean. Questo primo libro finisce allora con
Sean che, vedovo e con figlio a carico, decide di lasciarsi alle spalle le città
(ed i loro pensieri) e con gli amici zulu torna nella savana. Sean è bello ed a
volte fortunato, che sempre si rialza da ogni capitombolo. Come dice Mbejane, e
come Smith riporta nel titolo, è come il leone che, affinché viva, deve far
morire qualcosa. Lasciandone tracce di cui si nutrono i suoi seguaci. Come detto
un potente nuovo inizio delle storie dei Courtney, che avrà bisogno di qualche
raccordo, prima o poi. Con una scrittura giovane, forse a volte un po’ immatura.
Tuttavia leggibile, anche se con un livello non eccelso di godibilità. La mia
principale critica riguarda infatti da una parte le lunghezze avvolte eccessive.
Dall’altra alcune inutili ripetitività. Ma staremo a
vedere.
“Per tutto ciò che si ottiene, bisogna pagare un
prezzo.” (296)
Wilbur Smith “Quando vola il falco” TEA euro 9,80 (in
realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 25/01/2016 – I: 04/05/2018 – T: 10/05/2018] -
&&
[tit. or.:
A Falcon
Flies; ling. or.: inglese; pagine: 418; anno 1980]
Qui invece facciamo un salto
di lato. Nel 7° episodio dei Courtney, c’è un incontro tra loro ed i Ballantyne,
l’altra serie maggiore del nostro. Allora, prima di proseguire con la serie
maggiore, ho preferito allineare le due serie, cominciano quindi con questo che
è il 1° episodio della serie minore, ambientato intorno al 1860, e che ci porta
ai primi insediamenti dei bianchi nella futura Rhodesia. Che poi si separò in
Rhodesia del Nord, ora Zambia, e Rhodesia del Sud, ora Zimbabwe. Dico futura,
che Cecil Rhodes, da cui il territorio prese il nome, colonizzò la regione solo
nel 1888, e qui siamo una ventina di anni prima. Il tentativo di Smith qui è di
risalire alle origini della sua terra natale, imbastendo una storia che, pur
ricalcando i suoi classici temi, tenta di dare un’ascendente aulico o
significativo ai personaggi. I personaggi centrali, infatti, sono due fratelli,
anzi fratello e sorella: Zouga e Robin Ballantyne. Figli dello starno
personaggio che traspare dalle loro memorie, Fuller, e di Helen Muffat. Helen, a
sua volta, sarebbe figlia di Robert Muffat, personaggio realmente esistito in
quelle zone, noto come esploratore e predicatore, ma soprattutto perché una
delle sue figlie, Mary, andrà in sposa al famoso dottor David Livingstone
(“Doctor Livingstone, I suppose!”, e non dico altro, che i cultori sanno già
tutto, ed i neofiti andranno a spulciare Wikipedia per aggiornarsi). Ma se la
parte nonno – Mary è reale, il resto è la fiction di Smith. Che al solito si
incammina lungo i suoi soliti binari narrativi: viaggio dall’Inghilterra dei
fratelli Ballantyne alla ricerca del padre scomparso, viaggio imprudentemente
intrapreso sulla nave di tal Mungo St. John in odore di essersi arricchito come
negriero. Abbordaggio da parte della marina inglese capitanata da Clinton
Codrington, integerrimo marinaio che da anni cerca di stroncare la tratta dei
negri tra l’Africa e l’America. Mungo è affascinante, ma subdolo. Robin ne è
presa e respinta, innamorata e vuole redimerlo. Clinton, invece, è innamorato di
lei e vuole coinvolgerla nella sua lotta anti-schiavista. Ma alla fine, arrivati
a Cape Town, i fratelli partono verso l’interno con una discreta messe di
guerrieri, portatori ed altro. Mentre Mungo continua i suoi traffici, più o meno
loschi, ed il capitano Codrington prosegue la sua opera di bonifica nell’Oceano
Indiano tra il Mozambico e Madagascar. Qui si apre una lunga parentesi sulla
vita della colonna capitanata da Zouga, dalle sue cacce agli elefanti, dove
Smith, con maestria, anche se a me non piace né da piacere, descrive le cacce,
l’uccisione dei pachidermi per procurarsi l’avorio delle zanne. Ben presto Zouga
entra in conflitto con la sorella, che avrebbe un approccio più umanitario (non
a caso è figlia di un missionario ed educata nelle dottrine cristiane). I due
troveranno anche il padre, ormai ridotto una larva umana. Ma Robin, che è
laureata in medicina, si ferma per curarlo, assisterlo, ed essere presente alla
sua morte (che avviene il 17 ottobre 1860, ed è importante ricordare la data),
Zouga continua le sue scorribande. Perché vuole arrivare alle terre dell’oro e
dei diamanti. Ma per far questo deve entrare nel territorio dell’impero di
Monomotapa, grande condottiero africano del 1400 (circa). Dopo tutta una serie
di avventure e di lotte, che lascio a voi il piacere di leggere, Zouga entra
finalmente in contatto con l’attuale imperatore locale, Mzilikazi. Anche questo
è un personaggio storico, secondo Livingstone il più grande capo Zulu, dopo
Shaka. Il rapporto tra Zouga e Mzilikazi si rivela subito di alto livello, che
in quelle terre passò lasciando segni positivi nonno Robert Muffat. Ma Robin
intanto si era staccata con una parte della carovana, aveva trovata la traccia
delle scorribande negriere, ma gli arabi (che erano i conduttori sulla terra
della tratta) la scovano e la imprigionano. Vogliono venderla schiava, ma a
questo punto rispunta fuori Mungo che la salva a sua volta, pur rinchiudendola
nella sua nave senza possibilità di uscita o di fuga. Robin riesce comunque a
far pervenire una richiesta d’aiuto a Clinton, che lascia tutto e tutti (tanto
che finirà radiato dalla marina) per andare a salvarla. Tra l’altro, la
richiesta di Robin viene verso pagina 120-130 e Clinton lo ritroviamo in suo
aiuto circa 200 pagine dopo. Che fatica seguirti, caro Smith. Alla fine dei
giochi troviamo l’inizio della futura lotta tra Robin e Zouga. Robin decide di
sposare Clinton, e di rimanere in Africa come dottoressa e missionaria. Zouga,
ricco di avorio e di oro, farà un breve ritorno in Inghilterra, prima di
intraprendere la colonizzazione del territorio (cosa che credo vedremo nei
prossimi volumi). Due ultime considerazioni: nello scoprire il territorio di
Monomotapa, Zouga trafuga una statua in pietra ollare di un falco, dando inizio
all’avverarsi della profezia di uno stregone locale, dove la scomparsa della
statua darà inizio alla decadenza del territorio dei “karanga” (una tribù del
ramo zulu, che ora consiste nell’85% dell’attuale popolazione dello Zimbabwe).
L’altra è relativa alla data della morte di Fuller Ballantyne. Che ci fa
collocare tutta la storia intorno all’anno 1860. Nelle acque intorno all’attuale
Sudafrica, erano gli anni dei grandi attriti tra le flotte americane e quelle
delle varie Compagnie delle Indie, sia inglesi che olandesi. Lotta esemplificata
dalla guerra tra Mungo e Clinton. Lotta che appunto avrà la sua svolta proprio
nel 1860, anno in cui il presidente Lincoln si pronuncia per l’abolizione della
schiavitù. Pronunciamento che scatenerà la guerra civile americana, ma che,
soprattutto, toglierà la copertura degli Stati Uniti alle attività dei negrieri
alla Mungo. Un libro altalenante nella scrittura, che risente del fatto che per
tutti gli anni Settanta Smith cerca la fortuna scrivendo romanzi d’avventura
senza un filone preciso, e che, avendo deciso invece che il seriale gli dà più
gloria (o più soldi), riprende lo schema abituale delle sue storie: famiglie che
entrano nei territori africani (per mare o per terra) e che sono dilaniate al
loro interno. Gemelli nel caso dei Courtney, fratello e sorella qui tra i
Ballantyne. Vedremo come prosegue, anche se sono sempre meno convinto. Ed ecco,
per districarvi tra le storie, il primo ramo della genealogia dei
Ballantyne.
Wilbur Smith “Stirpe di uomini” TEA euro 6,90 (in
realtà, scontato a 5,52 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 11/06/2018 – T: 16/06/2018] -
&&+
[tit. or.:
Men of Men; ling. or.: inglese; pagine: 593; anno 1981]
Eccoci allora
alla seconda puntata della saga dei Ballantyne, dove seguiamo l’evolversi
parallelo e contrastante delle vicende dei due fratelli Morris e Robyn.
Purtroppo anche questo libro non è che si stacchi molto da una produzione onesta
ma senza particolari invenzioni. Certo, c’è sempre il tentativo, in genere
abbastanza riuscito, di mescolare realtà e finzione, dove, seguendo i nostri
eroi, si traccia anche un pezzo della storia del territorio in zona sudafricana.
In particolare, questa saga poi segue la nascita della patria di Wilbur, la
Rhodesia. Seguendo, ovviamente, le gesta del costruttore di questo territorio,
Cecil Rhodes. Che vediamo interagire con la famiglia Ballantyne (in particolare
con Jordan, il minore dei figli di Zouga, che se ne innamora, e infatti sappiamo
dalle cronache che Cecil era omosessuale), ma che ha un suo bel filone anche
storico a sé. L’accaparramento delle concessioni diamantifere, la costituzione
della grande multinazionale “De Beers”, i vari tentativi, prima con le buone poi
con i raggiri, di accaparrarsi le terre del re dei Matabele Lobenguela, la
costituzione di un corpo militare privato per controllare le terre, fino alla
creazione ad arte di un casus belli. I suoi soldati stendono linee telegrafiche
aeree, gli zulu, attirati dai fili di rame, ne prendono pezzi, i soldati li
puniscono. Il re Lobenguela non può lasciare impunita la vicenda ed attacca le
forze di Rhodes, la British South Africa Company (BSAC). Ma la BSAC ha fucili
mitragliatori, ha facile successo con i locali armati di scudi e assegai (questo
il nome locale, che in italiano viene reso con “zagaglia”, e mi domando perché
non sia mai stato usato nella traduzione). Il re è sconfitto, fugge e muore. I
Matabele (che comunque in italiano si chiamano “Ndembele”) sconfitti si
assoggettano al nuovo padrone, il ricco Cecil, che nel 1894 si fa intitolare il
paese. Un ultimo incrocio storico verificato è la personalità di uno dei
personaggi che trattarono con Lobenguela per fargli firmare il trattato: si tratta di
John Muffat, un figlio/discendente di Robert Muffat, che sappiamo essere il
personaggio storico da cui Smith ha fatto originare la vicenda. E dove fa
sposare una figlia di Muffat con il capostipite dei Ballantyne, Fuller Morris.
Appunto, l’idea di Smith è su questa vicenda storica (Rhodes e i diamanti)
innesta la saga dei Ballantyne. Se lasciamo quindi da parte la storia, nella
fiction vediamo l’evolversi parallelo delle due famiglie, quella di Zouga e
quella di Robyn. Il primo ha due figli dalla prima moglie Alette, che muore ben
presto. Uno “cow-boy”, nel senso avventuriero e avventuroso, simile al padre,
che va scorrazzando per il mondo australe, cercando diamanti, facendosi amici
gli zulu, in particolare il simpatico Bozo. Per poi innamorarsi ed impalmare la
cugina Katie (figlia della zia Robyn). L’altro studioso, presto conquistato dal
carisma di Rhodes, e (probabilmente) divenendone amante (c’è un po’ di
omosessualità, ma Smith non esce molto allo scoperto). Fatto sta che i due, con
le loro capacità complementari saranno puntelli del nascente impero rhodesiano.
Dall’altra Robyn ha invece quattro figlie. La maggiore, Salina, si innamora di
Jordan e quando capisce che non avrà sbocchi, si impicca. La seconda sposa
Ralph. Le ultime due, gemelle, vedremo come evolveranno (intanto notiamo che
anche qui il tema dei gemelli ricorre, come in quasi tutti i suoi scritti; vorrà
dire qualcosa?). Visto che Smith non si lascia niente per strada, ritorna il
pessimo Mungo St. John, che rimane il perfido avventuriero di sempre. Si porta
appresso una donna, Louise. Che invece si innamora e sposerà Zouga. Mungo
continua a fare il pessimo, e non si capisce perché Robyn, morto il marito
reverendo, pur odiandolo ci vada a letto, e, ovviamente, rimane incinta. Robyn
che invece sembrava essere la più “pura”: medico che cura tutti i malati,
religiosa nella missione con il marito Clinton, amica del re, ed in confidenza
con lui. Ma i caratteri, in Smith, non sono mai “puri”, c’è sempre del grigio
intorno. I buoni hanno sempre qualche lato oscuro. Come Ralph, che è empatico
con gli zulu, ma che non esita a rubarne i simulacri sacri, a scatenare guerre,
e ad inimicarsi Bozo, con il quale, presumibilmente in una futura puntata
entrerà in conflitto. Come lo stesso Zouga, che, certo costretto dalle
circostanze, conduce i cattivi di Mungo ad uccidere la sacerdotessa Matabele,
facendo avverare le profezie che avevamo letto nella puntata precedente. Di
Robyn abbiamo detto. Di Jordan, vediamo che non esita a chiudere tutti e due gli
occhi sulle malefatte di Cecil (ah, l’amore). C’è molta altra carne al fuoco di
queste 600 pagine, ma, all’osso, siamo sempre lì: un occhio alla storia, ed uno
alla finzione. Con qualche occhiatina di sesso (Smith è famoso per avere sempre
inzeppato le sue storie con un po’ di sesso), e qualche licenza poetica. L’unica
costante è nel rappresentare i bianchi appunti con luci ed ombre, ed i neri
quasi sempre più buoni, più bravi, più fedeli, più coerenti. Ma alla fine, più
ingenui. Tanto che usciranno sempre sconfitti dalla macchina economica bianca. E
mentre cala una invasione di locuste, si chiude il libro e si aspetta il
seguito.
Ultima domenica d‘agosto, ed abbiamo quindi il tempo di
passare anche alcuni momenti “felici” con i libri che ci suggerisce l’ottima
Giulia Fiore. E qui siamo nel mio campo principale, che si parla di Holmes, di
Poirot ed altri gialli da … tè.
E dopo che si è rimandata l’Irlanda, abbiamo anche la
California che sparisce all’orizzonte, e quindi dobbiamo, possiamo, vogliamo
dedicarci a chiudere tutte le parentesi aperte in questo anno di gioie e
sofferenze (e questa trama purtroppo ha un ascoltatore in meno). Speriamo di
riuscire a chiudere presto le varie vicende che coinvolgono a vario titolo le
Entrate (che per noi, purtroppo, sono solamente Uscite) per quindi dedicarci a
godere i frutti del nostro lavoro.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
AGOSTO 2018
Certo, non è agosto il mese migliore per un tè accanto al
camino, ma i miei gialli incalzano e Giulia stimola scritti e commenti.
...E UN TÈ CON I MAESTRI DEL GIALLO
Libri citati
Arthur Conan Doyle “Uno
studio in rosso”
Edgar Allan Poe “I delitti della rue Morgue”
Agatha Christie “Omicidio a Styles Court”
Agatha Christie “L’assassinio di Roger Ackroyd”
Agatha Christie “Assassinio sull’Orient Express”
Agatha Christie “Dieci piccoli indiani”
Agatha Christie “Il verdetto”
Agatha Christie “Trappola per topi”
Agatha Christie “Testimone d’accusa”
Carlo Emilio Gadda “Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana”
Fruttero & Lucentini “La donna della domenica”
Fruttero & Lucentini “A che punto è la notte”
In
alcuni casi anche una buona tazza di tè può rivelarsi rimedio più efficace di
una medicina tradizionale e i gialli classici sono proprio come il tè: un
eccitante naturale che si sorseggia in relax. A questo proposito si suggerisce
di sorseggiare senza moderazione l’opera di due giallisti d’eccezione come sir
Arthur Conan Doyle e lady Agatha Christie. Ricostituenti cerebrali di
comprovata fama, sono perfetti per mettere in moto il cervello, accendere
l’ingegno, stimolare la logica e, cosa decisamente salutare, distrarre la mente
dai problemi impegnandosi a risolvere intrighi altrui. Il beneficio maggiore si
ottiene dalla possibilità di allenarsi a capire come funzionano gli ingranaggi
che muovono la mente umana, da sempre un mistero pressoché irrisolvibile,
stemperando i tremori della tensione con la freddezza della logica.
Gli
investigatori di fantasia sono spesso diventati vere e proprie star, ma il
personaggio creato nel 1887 da Arthur Conan Doyle è il divo per eccellenza
della letteratura gialla, un modello per tutti gli altri. Un personaggio che si
può definire letteralmente “immortale” dal momento che, quando l’autore decise
di mandarlo in pensione con la macabra trovata di ucciderlo, fu praticamente
obbligato a resuscitarlo per le rimostranze dei lettori. Cosi Sherlock Holmes
ha vinto anche la morte. Tutti lo conoscono e tutti sanno come lavora, anche se
non tutti hanno letto i quattro romanzi e i cinquantasei racconti di cui è
protagonista. Si consiglia di rimediare cominciando dalla prima avventura, “Uno studio in rosso”, in cui facciamo
la conoscenza di questo bizzarro e originalissimo personaggio e di John Watson,
fidato (e paziente) collaboratore, cronista di tutte le vicende e coinquilino della
mitica casa di Baker Street (ben più famosa di quella di Downing Street). Alter
ego di Sherlock, sua spalla e aiutante in tutte le indagini, in un certo senso
il dottor Watson è anche l’alter ego del lettore. Stupito e curioso, arranca
dietro a Sherlock che, guidato dal suo rivoluzionario metodo d’indagine,
procede invece a passo spedito concentrandosi in modo ossessivo nella soluzione
dei casi. Anticipato dall’Auguste Dupin protagonista di alcuni racconti di
Edgar Allan Poe, come “I delitti della
rue Morgue”, il suo metodo si basa su un processo scientifico-deduttivo
che, partendo dall’osservazione e dall’analisi meticolosa di ogni dettaglio,
arriva alla soluzione dell’enigma. Il procedimento analitico-deduttivo ha un
ruolo così determinante nelle vicende da insinuare il dubbio che il vero
protagonista non sia Holmes ma la sua logica, e il vero fine delle indagini non
la cattura del colpevole ma lo studio dei comportamenti umani che, per quanto
complessi, possono essere sempre analizzati e spiegati. Almeno lui ci riesce.
Ma l’arma vincente del mastino di Baker Street, quella che poi è diventata una
caratteristica di quasi tutti i detective di finzione, è la sua imperfezione,
il suo cumulo di difetti che ne controbilancia il fiuto impeccabile rendendolo più
umano. Sherlock Holmes ha lo sguardo acuto e penetrante (certo non poteva avere
l’occhio da pesce lesso), il naso aquilino che denota un’aria vigile e attenta
(consolante per tutti quelli che non hanno il nasino alla francese), mani
delicate ma precise e mento prominente e squadrato da uomo d’azione. Piuttosto
ignorante in fatto di letteratura, politica e filosofia, è sempre aggiornato su
tutti i più orridi fatti e misfatti. È un asso in chimica e anatomia, usa la
logica in maniera ineccepibile, è dotato di un eccellente manualità e, oltre a
essere un buon violinista, è un ottimo pugile e schermidore pronto a usare le
mani per suonarle di santa ragione a chi intralcia il suo lavoro. Se possiamo
definirlo un uomo d’azione e non solo di pensiero, però, non possiamo definirlo
passionale: la logica è la sola amante di Sherlock Holmes mentre l’emozione è
sua nemica. Di conseguenza nella vita del detective non c’è posto per le donne
perché amarne una potrebbe mettere in crisi tutto il suo metodo analitico. Con le
donne, si sa, la logica spesso non serve. Dedito completamente al suo lavoro,
nei periodi d’inattività si deprime e ricorre alle droghe per mantenere attiva
la mente. Se infatti all’inizio Holmes pippa, poi passa alla pipa, sostituendo
il vizio della morfina con quello del fumo. Nell’immaginario collettivo
Sherlock Holmes è un uomo con il naso adunco, l’aria assorta, la pipa sempre in
bocca, il berretto da cacciatore con il fiocchetto in testa, la mantellina e la
lente d’ingrandimento. Immagine fasulla (ma vi pare che uno sveglio come lui ha
bisogno della lente d’ingrandimento per vederci chiaro?), così comi celebre
frase «elementare Watson!» che nei romanzi e nei racconti non compare mai.
D’altra parte Sherlock Holmes, come il suo autore, è troppo astuto per credere
che nella mente umana, unica e sola materia d’indagine di ogni caso, ci sia
qualcosa di elementare. Dice Sherlock che “una volta eliminato l’impossibile,
ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Ma non è detto
che la verità sia comprensibile.
Per
movimentare un po’ la cura correggete il tè-Conan Doyle con un pizzico di
“Sherlock Holmes” di Guy Ritchie. Nei fortunati adattamenti delle avventure del
detective il regista inglese è riuscito a riproporre con il linguaggio cinematografico
(tra cui un ottimo montaggio) quel mix di azione e deduzione logica che
caratterizzano il personaggio. “Sherlock Holmes” e “Sherlock Holmes - Gioco di
ombre” sono perfetti per scuotersi con un po’ di sano divertimento dopo tutto
l’esercizio di logica a cui sottopone la cura a base di Conan Doyle. La visione
sarà ben tollerata anche dalle lettrici perché Robert Downey Jr. nei panni di
Holmes e Jude Law in quelli di Watson sono una coppia da brividi (di eros), e
riuscire a rendere sexy un blocco di granito come Sherlock Holmes senza
ridicolizzarlo non era impresa facile. Mettete da parte il ragionamento e
aguzzate lo sguardo per godervi questa versione moderna e decisamente
avventurosa di un mito della letteratura gialla.
Se
siete di indole riflessiva e detestate ogni forma di violenza (comprese le
pacche sulle spalle e i buffetti sulle guance) o, se al contrario, siete troppo
impulsivi e vorreste imparare a riflettere prima di parlare e agire, l’ideale è
assaporare un infuso a base di Agatha Christie. Grazie alla formulazione unica
che rende i suoi gialli particolarmente gradevoli, come il tè verde è un ottimo
antiossidante che combatte i radicali liberi e protegge le funzionalità
cerebrali, rilasciando in più un’incredibile sensazione di relax mista a
tensione. I maggiori benefici si ottengono con le indagini di Hercule Poirot e
Miss Marple.
L’investigatore
belga Hercule Poirot è un ometto buffo, grassottello, alto poco più di un metro
e sessanta (che è un modo carino per dire che è basso), ha un portamento eretto
e dignitoso, la testa a forma d’uovo e pochi capelli ma molto curati, così come
i baffi arricciati. Veste sempre in maniera impeccabile, senza un dettaglio
fuori posto. Odia la violenza e non viene mai alle mani perché fermamente
convinto che l’unica arma vincente per un detective sia il ragionamento (se si
sporcasse di sangue o si scomponesse il baffo, credo che potrebbe uccidere).
Praticamente è l’opposto dei detective americani alla Philip Marlowe o Sam
Spade, spavaldi, affascinanti che non disdegnano le donne (purché bellissime)
né le scazzottate, sempre pronti ad azzuffarsi quando serve, sporcandosi mani e
vestiti. No, Poirot è riflessivo, pacato e molto sicuro di sé. Con il suo
bagaglio di bizzarre abitudini risulta di una simpatia decisamente umana, cosa
che ne ha decretato parte del successo stellare: non è perfetto ma solo molto
perspicace perché accende il cervello. La meticolosità che impiega nella cura
della sua persona la applica anche al suo metodo investigativo, ordinato e preciso,
in cui nulla è lasciato al caso ma tutto è rivolto all’analisi dei fatti e
all’intuizione psicologica. Poirot conosce bene l’animo umano e il suo metodo
ci indagine non si ferma alla scientifica analisi degli indizi, ma si inabissa
nei meandri della mente per decriptarne i comportamenti. Niente inseguimenti,
lotte o spargimenti di sangue ma tanta logica, riflessione e calma portano il
piccolo investigatore belga a risolvere ogni caso grazie all’ottimo
funzionamento delle sue «celluline grigie». Il tutto condito con massicce dosi
di suspense, suggestive ambientazioni (tra ville, manieri, castelli, navi,
treni) e personaggi complessi, quasi sempre ricchi, sempre tutti potenziali
colpevoli, sempre tutti dotati di alibi.
L’arma
vincente dell’altro celebre personaggio di Agatha Christie è il suo essere
un’investigatrice privata, nel senso di privata cittadina che indaga per conto
proprio. Miss Marple è una simpatica vecchietta, zitella, curiosa, pettegola e
impicciona che si ritrova sempre coinvolta in complicati casi di omicidio. Non
è un detective di professione ma una buona osservatrice dell’animo umano e
tanto le basta per arrivare alla soluzione degli enigmi. Le doti investigative
di Miss Marple derivano dalla sua pazienza e dal suo occhio allenato: ha l’hobby
del giardinaggio e del birdwatching, nonché ama preparare dolci da servire
durante il tè con le amiche. E si sa che “prendere il tè con le amiche' è una
perifrasi per dire che si spettegola, ovvero si analizzane casi umani e umane
debolezze. D’altra parte, poverina, in qualche modo deve pur ammazzare il tempo
nel monotono villaggio inglese dove vive e così, oltre a estirpare erbacce e
guardare uccelli, coltiva l’osservazione dei vicini. Osservando e ragionando,
arriva alla soluzione dei delitti.
Autrice
decisamente prolifica, tradotta perfino più di Shakespeare (altro
ineguagliabile detective dei sentimenti), oltre a numerosissimi romanzi con
protagonisti Miss Marple e Hercule Poirot (di quest’ultimo sono imperdibili “Omicidio a Styles Court”, “L’assassinio di Roger Ackroyd”, “Assassinio sull’Orient Express”), ha
scritto tantissimi gialli tra i quali non si può assolutamente perdere “Dieci piccoli indiani”. Da non
sottovalutare i lavori teatrali, impeccabili meccanismi a incastro, veri
capolavori di profondità psicologica, abilità d’intreccio e tensione narrativa.
Credetemi, non leggerli sarebbe davvero un delitto. Consiglio in particolari “Il verdetto”, “Trappola per topi” e “Testimone
d’accusa”, quest’ultimo da abbinare obbligatoriamente all’adattamento cinematografico
di Billy Wilder con Marlene Dietrich e Charles Laughton.
I
romanzi di Agatha Christie sono stati più volte adattati per il cinema e per la
televisione. Poirot, in particolare, è diventato protagonista di una fortunata
serie di film TV. Miss Marple è approdata più volte sul piccolo schermo
ispirando anche la serie televisiva di grande successo “La signora in giallo”.
Protagonista è Jessica Fletcher (Angela Lansbury), famosa scrittrice di libri
gialli che, come Miss Marple, si ritrova coinvolta in delitti che riesce a
risolvere con imperturbabile aplomb. La visione delle avventure della Fletcher
è consigliata come equivalente di una buona tazza di tè: gustosa e rilassante.
Si
raccomanda di sorseggiare i gialli di Arthur Conan Doyle e Agatha Christie ogni
volta che si sente il bisogno di accendere il cervello per muoverne gli
ingranaggi, incrementando la capacità d’osservazione, utile sempre nella vita e
non solo per risolvere casi delittuosi. Veri e propri tonici a livello
cerebrale, i gialli deduttivi mettono in moto le «celluline grigie», per dirla
come Poirot, stimolando la mente come una sorta di settimana enigmistica, ma
più coinvolgente. Se assunti con costanza e continuità facilitano il naturale
processo di applicazione della logica all’analisi dei problemi quotidiani,
sviluppando l’attitudine a osservare con pazienza fatti e comportamenti nel
tentativo di decifrarli. Risolvere un mistero è anche un utile esercizio
mentale che aiuta a non lasciarsi sopraffare dagli eventi. Detto questo, la
medicina non mette al riparo dalla consapevolezza che certi enigmi dell'animo
umano sono irrisolvibili. Probabilmente ci riuscirebbero solo Sherlock Holmes o
Hercule Poirot. Ma non ci giurerei.
Qualche
consiglio: a proposito di pasticci senza soluzione e maledetti imbrogli,
consiglio “Quer pasticciaccio brutto de
via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, straordinario e originale giallo senza
soluzione. È come la piazza di un mercato romano dove si aggroviglia un
gomitolo, anzi uno «gnommero», di sentimenti e personaggi così incisivi e
impastati di vita che poco importa del procedere delle indagini di un caso che
si risolve in un chiacchierare vivace che non porta a niente. Con un linguaggio
che incanta, un insieme di dialetti fantasioso, vivo e colorato che è la forza
del romanzo, Gadda riesce a farci accettare un finale aperto. Ma in fondo ad
accomunare tutti i romanzi gialli, al di là dei differenti casi, è che il
mistero da svelare è sempre e solo l’animo umano che, però, è anche l’unico
senza soluzione. Il solo modo per capirci qualcosa è ricorrere a
quell’attitudine che solitamente i detective non usano mai perché decisamente
poco scientifica: la fantasia. In una delle sue sagge considerazioni, il ruvido
e vulnerabile commissario Ingravallo, protagonista del romanzo di Gadda,
afferma che le donne sono un «mistero che si capisce subito. Basta avecce
fantasia». Sostituite “donne” con “essere umano” e avrete la soluzione di ogni
enigma, di ogni giallo: per capirci qualcosa in quel pasticciaccio
ingarbugliato che è l’animo umano, la fantasia arriva là dove la logica si
arrende.
Dopo
aver letto il capolavoro di Gadda proseguite la cura con la visione di “Un
maledetto imbroglio”, l’adattamento che Pietra Germi ha realizzato nel 1959
ispirandosi al romanzo. Rispetto al libro, dove più che il caso da risolvere
sono i casi umani coinvolti a interessare l’autore, il furto e l’omicidio sono
al centro di questo film che ha dato il via alla stagione dei polizieschi
all’italiana. Nella doppia veste di regista e attore nei panni del commissario
Ingravallo, Pietro Germi è sempre una garanzia di un buon cinema.
Già
che parliamo di gialli doc all’italiana, non posso esimermi dal suggerire di
far rientrare nella cura anche la premiata ditta Fruttero & Lucentini.
Perfettamente consapevoli dell’attrazione del pubblico nei confronti della
letteratura d’evasione hanno usato il giallo per toccare argomenti complessi da
romanzo tradizionale. Dialoghi brillanti, casi ben strutturati e meccanismi
psicologici curatissimi si risolvono in una naturalezza dietro cui si nasconde
un sapiente artificio che rende la narrazione scorrevole, piacevolissima e
praticamente impossibile da interrompere. “La
donna della domenica” e “A che punto
è la notte” sono indicati soprattutto per contrastare quel malessere
piuttosto diffuso tra i lettori d’indole malinconica, meglio noto come “spleen
della domenica”, quella sorta di vaga e indistinta tristezza che stringe la
gola e opprime il petto (sarà il pensiero del lunedì o la segreta e
inconfessabile astinenza dalla routine quotidiana? Contagiati al punto giusto
dalla malattia di risolvere casi, dovreste essere in grado di risolvere
l’enigma). Per sopportare ancora meglio la domenica, si suggerisce la visione
de “La donna della domenica” di Luigi Comencini. Sceneggiato da Age e
Scarpelli, interpretato da Marcello Mastroianni, Jacqueline Bisset e Jean-Louis
Trintignant, è una riuscita e fedele trasposizione che raramente delude chi ha
amato il romanzo.
Commenti
Non ho letto le commedie di Agatha Christie (e mi dispiace
soprattutto per i topi), ma gli altri libri, come potete immaginare, sono stati
letti e divorati, spesso in tempi di molto antecedenti all’inizio dei miei
commenti. Per cui riporto solo i tre libri compresi in questi anni di scritture
folli e disperatissime (cit.).
Agatha Christie
“Assassinio sull’Orient-Express” Repubblica/CSGM euro 3,90
[pubblicato
il 15 novembre 2009]
Dopo aver visto non so quante volte il film, finalmente ho
il tempo e la possibilità di leggere il libro. Che maestria. Quanti anni ha?
Circa 75, ma, a parte alcuni elementi d’epoca, la trama è perfetta, l’intreccio
singolare, e la soluzione di Poirot magistrale. Il plot è stupendo: un omicidio
in un vagone dell’Orient-Express bloccato tra i monti jugoslavi dalla neve. Una
dozzina i possibili sospetti con l’aggiunta della presenza casuale di Poirot,
che comincia ad indagare. Un’indagine di parole, dove accompagniamo il buon
belga a spasso tra le cuccette per scoprire indizi, e nel vagone ristorante ad
interrogare a più riprese i vari personaggi. Affastellando informazioni, tutte
utili per arrivare insieme a Poirot alla soluzione (o alle soluzioni, in quel
gioco magistrale di finali e sottofinali che fanno la maestria della
scrittrice). Non ci sono elementi esterni, nessun deus ex-machina che
interviene portando soluzioni imprevedibili. Tutto al solito è lì, sul piatto.
Bisogno solo saperlo vedere. Certo, a volte leggendo, i volti degli attori
vengono dietro le palpebre a rendere più robusto questo the inglese con velo di
latte. Si ripenso ai vari Albert Finney (Poirot), Lauren Bacall (Mrs. Hubbard),
Ingrid Bergman (Greta Ohlsson), Jacqueline Bisset (Contessa Andrenyi), Sean
Connery (Colonnello Arbuthnot), John Gielgud (Beddoes), Anthony Perkins (Hector
McQueen), Richard Widmark (Ratchett) o Vanessa Redgrave (Mary Debenham). Che
cast per questo grande film del… Vi ricordate che anno era? E poi ripenso anche
alle vicissitudini della scrittura e della scrittrice. Infatti, il romanzo fu
scritto dalla Christie durante un suo soggiorno a Istanbul, nella stanza 411
del Pera Palas Hotel, oggi adibita a piccolo museo in suo onore. Inoltre,
durante il regime fascista in Italia, il romanzo, alla sua prima pubblicazione
ebbe diverse "censure". Il personaggio italiano naturalizzato
americano Antonio Foscarelli divenne, infatti, un brasiliano di nome Manuel
Pereira mentre la vittima, anziché avere il cognome italiano
"Cassetti" venne ribattezzato chi sa perché "O'Hara". Ma
alla fine di tutto, del libro, degli attori, della scrittura, rimane lei,
Agatha e tutta la bravura di una pennivendola di grande classe.
Agatha Christie
“Poirot a Styles Court” Mondadori s.p. (biblioteca di Tolemaide)
[pubblicato
il 18 ottobre 2015]
Sfruttando una duplice occasione ho ripreso in mano e letto
a tamburo battente il primo libro della grande giallista inglese. Le due
occasioni sono la necessità di svuotare la libreria di Tolemaide, ad altre
destinazioni avviata, recuperando libri per me e per la mia genitrice-lettrice.
Il secondo e più prosaico avvenimento è l’inizio di una lunga sequela di libri
dedicati ad Agatha Christie, in quasi totalità provenienti dall’esimia collana
pubblicata dal Corriere della Sera. Ma come privarsi del piacere di
ripercorrere almeno le tappe salienti della grande signora del giallo,
capostipite e progenitrice ideale di una lunghissima schiera di scrittori e
scrittrici. E non è un caso che in parallelo vada spulciando nell’enorme
produzione del padre di Maigret, che, casualmente, vede muovere i primi passi
un po’ dopo Poirot, ma parallelamente a Miss Marple, come vedremo in seguito.
Pur se edito solo nel 1920, il romanzo viene scritto quattro anni prima, a
seguito di una scommessa di Agatha con la sorella, se fosse stata capace di
scrivere un libro pubblicabile. E gli echi del 1916, si sentono, anche se
indirettamente. Poirot infatti è belga, e fugge dalla patria durante
l’invasione tedesca dell’inizio della prima guerra mondiale. Ispettore in
patria, si trova a far da spalla alla polizia inglese, per poi, a valle di
questa prima uscita, a fare per una serie di anni da investigatore privato. Qui
viene tirato in ballo dal suo amico, il capitano Arthur Hastings che soggiorna
a Styles Court (maniero realmente esistente che riprende il nome della prima
casa in cui visse la scrittrice con il suo primo marito) invitato dal suo amico
John Cavendish. Una notte la matrigna di John, Emily Inglethorp muore
avvelenata e Hastings chiede aiuto a Poirot. Le indagini di Poirot restringono
ben presto il campo tra il marito fedifrago, Alfred, ed il figliastro John. E soprattutto
sul primo si accentrano i sospetti: viene accusato da Evelyn, la dama di
compagnia di Emily, e sembra aver acquistato della stricnina nel villaggio. Ma
non avrebbe avuto modo di somministrarlo alla moglie, come argutamente dimostra
Poirot. La polizia allora appunta i sospetti su John, il maggior beneficiario
del testamento. Alla fine del ro-manzo Poirot dimostra l’innocenza di John e la
colpevolezza di Alfred, che ha organizzato il tutto con l’aiuto di Evelyn, sua
cugina nonché sua amante, quindi solo in apparenza la sua nemica giurata. La
coppia ha utilizzato uno stratagemma chimico mescolando bromuro e stricnina, il
tutto risultante in una miscela letale, ma a scoppio ritardato. Il piano della
coppia prevedeva che Alfred fosse incriminato con delle false prove, che
potevano essere facilmente confutate in tribunale. Una volta assolto, grazie ad
un cavillo della legislazione inglese, non avrebbe potuto essere processato per
lo stesso reato una seconda volta, anche se fossero state trovate delle vere prove
contro di lui. Come spesso nelle prime novelle da lei scritte, la storia è
narrata in prima persona. Questa volta dal capitano Hastings, che per anni
collaborerà con Poirot. Inoltre è piena di elementi che diventeranno archetipi
della letteratura gialla: l’azione si svolge in un luogo gran-de ed isolato, ci
sono almeno sei o sette possibili sospetti, ognuno che nasconde elementi che
potrebbero far pendere la bilancia della giustizia da una parte e dall’altra,
ci sono false piste e colpi di scena a sorpresa. Pur se ancora con scrittura
acerba, dovuta all’età (ha 26 anni quando lo scrive) ed imbevuto di modi tipici
dell’epoca ma forse ormai superati, mantiene a quasi cento anni di distanza la
capacità di tenerci vicini alla pagina, aspettando il prossimo colpo di scena.
O lo scioglimento della vicenda, che arriva proprio in ultimo, e che, per come
viene posto, prende un po’ in contropiede. Che dire, un degno inizio di una
luminosa carriera.
Carlo Emilio Gadda “Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana” Repubblica Novecento euro 4,90
[pubblicato
il 22 luglio 2012]
E continuiamo a parlar male dei “capolavori” della
letteratura. Dire che questo pur bello e sofferto libro non mi è piaciuto è
usare perifrasi per mitigare la verità. L’ho trovato non brutto, ma illeggibile
e inconcludente. Uno sfoggio di cultura, intellettuale, che gira tanto nel
cervello senza neanche aver la forza di arrivare alle orecchie. Conclamato
epitome del romanzo giallo, da leggere per le sue invenzioni letterarie e
linguistiche, nonché per un’ironia sottile e palese critica del ventennio, mi
ha lasciato freddo e deluso. Dicevo illeggibile (e vedetene poi l’esempio che
riporto, scelto aprendo una pagina a caso), e mentre lo leggevo mi torna in
mente l’attuale illeggibilità di Camilleri. Anche lì, piene sono le pagine di
parole astruse, ma hanno un loro andare, e si sciolgono nel cervello, facendoci
solleticare ricordi e riaffiorare sensazioni. E certo l’uso del “romanesco”
aiuta a far sprofondare il libro nei meandri della sguaiatezza di una lingua
incolta, di poco nobilitata dal Belli o dal Trilussa, ma che allungandosi fuori
del sonetto, lascia soltanto una scia di inascoltabile durezza. Che viepiù
risalta sulla pagina, che forse ad ascoltarla, anche se (e lo dico da romano)
non mi piace, ha comunque un suono. Purtroppo non un segno. Secondo poi, se si
voleva un giallo metafisico, che fa vedere ed in maniera forte insensatezza e
solitudine della vita, consiglio di dedicare tempo e spazio a Dürrenmatt. Ma si
dice, devi andare dentro la psicologia dell’autore, alla sua visione del mondo.
E poiché per Gadda il mondo è un guazzabuglio senza senso, così ne risultano i
suoi scritti. Tuttavia, se ne scrivo della mia visione, io terrei conto anche
della direzione della comunicazione tra me ed il lettore. Gadda no. Se ne
frega, se tu lo leggi o meno. Scrive per sé, per le sue frasi tornite, e per il
suo trancio di vita che va a rappresentare. Perché è uno stralcio, una storia
che si svolge in pochi giorni, ma che (e qui non sto svelando misteri) non si
chiude. Seguiamo il protagonista, il colto commissario Ciccio Ingravallo che sa
di parole e di filosofia, da bravo molisano sceso a Roma (mi sembra quasi un Di
Pietro!), colpito dalla barbara morte della conoscente Liliana. E ne seguiamo
le indagini, sue e dei suoi accoliti poliziotti e carabinieri. Si fanno belle
foto della vita romana del ’27, tra via Merulana e Piazza Vittorio, tra le
Frattocchie e Marino, tra il rione Monti e Santo Stefano del Cacco. Vediamo i
signori, il questore, il maresciallo, le puttane, le ricamatrici, il mariolo,
il fratellino furbo, la Tina, l’Ines e la Zamira. Ne seguiamo le gesta per
poco. Le adombriamo, le inquadriamo. Così come seguiamo il cavaliere
impoverito, la coppia sussiegosa della scala B, quella dei ministeriali, non
quella “ricca” della scala A, dov’era la signora Balducci, e la contessa.
Entriamo per un po’ a compatire il bisogno di prole della morta, il cercar
caldo altrove del marito, il signor curato ed i suoi testamenti olografi,
Iginio che forse ha fatto il furto, le liti di Camilla e della cugina, e via
narrando, quasi a raccontar brani di mini-racconti, quasi a fermarsi “ad ogni
stormir di fronde”, per seguire un’idea, un gesto, per capirlo e riportarlo
sulla carta. Il buon Ciccio ha verso la fine, direttamente o indirettamente,
tutti gli elementi del quadro. E ci si aspetta che ne tiri una conclusione, che
annodi dei fili. Invece Gadda lascia tutto così, slabbrato e decostruito. Forse
io, lettore, ho capito, ma lui, lo scrittore non se ne interessa. Che anche
trovare un colpevole, o descrivere una storia compiuta sarebbe dare un senso ad
un mondo che non ne ha. E tutto ciò mi ha fatto, pagina dopo pagina, montare
una rabbia verso di lui, verso la sua scrittura, verso tutta questa montagna
che non riesce a partorire neanche un topolino. L’ho finito di corsa, sperando
fino all’ultima pagina di trovare quel piccolo lume che avrebbe riscattato la
fatica di averlo seguito fin lì. Niente. Assolutamente niente. Completamente,
definitivamente niente. Da chiudere e riporre molto nascosto nella libreria,
sperando che nessuno lo trovi, ed abbia quindi una piccola idea di leggerlo.
Per favore, non fatelo.
“Pareva che la
contessa si ricusasse alla diligenza e alla pertinacia dell’inchiesta, non
volendo far fatica a riflettere: tutta trepida, tutta rorida di speranze in
ritardo, nel sogno e nel carisma delle ahimè rasentate ma non patite sevizzie.
Una policromatica sventatezza vaporava dai suoi foulards color lillà, dal suo
baffo bleu, dal chimono tutto gorgheggiato di uccellini (non erano petali,
erano strani volatili, tra gli uccelli e le farfalle), dai capelli giallastri
con tendenza a un Tiziano scarruffato, dal nastro viola che li raccoglieva
quasi in un cespo di gloria: sopra i vagotonici abbandoni dell’epigastro e del
volto vizzo, e i sospiri della scampata ahimè brutalizzazione ma non rubalizio
degli ori.” (27) [riporto integralmente, ed è una delle parti in italiano,
pur con quelle scivolate sulla vagotonia e le ruberie; se uscite indenni da
queste righe, potete passare al romanzo; ricordo solo che queste dieci righe
servivano solo a spiegare che alla domanda del commissario la contessa non
rispose]
Finalino
Come dissi per il whiskey, anche il tè non è molto nelle mie
corde, lasciandone il monopolio ad Alessandra. Sul lato “bevande calde” io sono
da caffè (e penso sappiate che esistono detective anche loro adusi a questa
bevanda). Per il resto che dire, il giallo non si discute, si ama. E poi se ne
parlerà, anche a lungo e meglio, altrove.