Nel mese estivo, ecco un trittico
italiano, che non mi ha soddisfatto molto. Il “giovane” Maggiani alla presa con
uno dei suoi primi testi mostra qualcosa, ma è poco coinvolgente. Il “classico”
Buzzati l’ho meglio apprezzato in alcuni racconti, mentre qui ci sono due
prove, per diversi motivi (sotto spiegati) poco riuscite. Solo il “vecchio”
Soldati mi è piaciuto, e l’ho rivalutato.
Maurizio Maggiani “Màuri Màuri” Feltrinelli s.p. (Prestito di Fako)
[A: 22/12/2017 – I: 09/02/2018 – T: 10/02/2018] - &&---
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 125;
anno 1989]
Non
è una grande presenza nella mia libreria il seppur interessante Maggiani. Una
decina di anni fa lessi il suo “La regina disadorna” che non mi lasciò
impressioni indelebili se non nella prima parte in cui si parlava del porto di
Genova. Qui facciamo un salto ancora più indietro, mettendo gli occhi al primo
libro pubblicato dall’autore lunigianese (anche se in effetti, ripubblicato,
visto che qui leggo l’edizione Feltrinelli del ’96 piuttosto che quella dei
mitici Editori Riuniti dell’89). Devo dire che non mi ha particolarmente
coinvolto, né mi è particolarmente piaciuto. Il linguaggio risente molto degli
sperimentalismi degli anni ’80, con tutte quelle minuscole sui nomi (mauri,
meri, ecc.…) tipiche del periodo di scrittura e poco significative ora. Anche
la storia scorre via, così, quasi senza un vero perché. Eppur è una storia
(auto?) biografica, che ripercorrendo insieme all’io scrivente alcuni passaggi
fondanti della vita del personaggio principale, permette (permetterebbe) di
tracciare un parallelo con la vita dell’autore, o di altri personaggi
provenienti dalle Bocche del Magra. Che quando si parla di quelle zone, vengono
sempre a mente il perfido Marino, il politico Sofri ed i sodali Pietrostefani e
Bompressi. Quindi seguiamo il Mauri grande che narra di sé e della sua vita. E
ne ricaviamo (cioè mi resta questo nella memoria), il suo incontro con Meri,
che diventa la sua compagna, il suo amore, e che fa entrare nella sua vita il
Mauri piccolo. I piccoli e grandi incontri della vita locale, tra momenti
privati, passeggiate, campagna, parenti, conoscenti, e momenti che diventeranno
pubblici. L’impegno, che nell’epoca del racconto era una costante di molte
persone della mia età (in fondo Maggiani ha solo due anni più di me),
l’inserimento di Mauri nel servizio d’ordine di qualcosa molto simile a “Lotta
Continua”, gli scontri con la polizia, prima, con i fascisti, poi. La
possibile, anche se rimane sfumata, morte di un oppositore, forse causata dallo
stesso Mauri. L’impossibilità, nonostante Meri, nonostante Mauri piccolo, di
restare. La fuga in Spagna, l’incontro con Frida e poi… Ma questo è il narrato,
appunto, pieno anche di altre piccole o grandi cose, che, sarà la lontananza
dei fatti, sarà la lontananza della scrittura, poco restano all’io lettore di ora.
Certo, erano altri tempi, certo, alcune cose mi risuonano ancora: le
manifestazioni, l’assalto all’ambasciata greca, il servizio d’ordine alla
Sapienza, le discussioni, infinite, inconcludenti (ora) nelle assemblee, il
mito della classe operaia (ma dov’è ora?), l’incapacità di concepire alleanze
(con me o contro di me). Ma anche i primi amori, le prime sbandate, le prime
sigarette, il vino bevuto fino a stordirsi, gli amici vicino, la moto senza
benzina. Ma se tutto questo c’è o ci può essere, non mi suonano le parole
campestri, non mi commuove Puccini, la campagna, i fiori, o quanto forse
commuove o stimola Maggiani nei suoi ricordi. Per passare ad altro, torniamo
infine alla scrittura. Che appunto è talvolta ellittica, talvolta prende di
dialetto, ma sempre non prende me, non mi trascina nella pagina. Forse rimane
solo quella domanda antica e piena della curiosità di una nonna. “Di chi sei?”.
Da dove viene fuori il tuo io, questo tuo io che io vedo e che, probabilmente,
poco capisco. Domanda che non mi fece mai mia nonna, perché lei capiva chi
fossimo noi, che cosa facevamo, cosa cercavamo. Le stesse cose che lei, che i
suoi figli, miei zii e parenti, avevano fatto e cercato venti, forse trenta
anni prima. E che purtroppo, i nostri figli, i nostri nipoti, non hanno fatto,
non hanno cercato, venti, trenta anni dopo. Però forse qui sto parlando di un
libro che potrei inventare, lontano da questo libro e da questa lettura. Che
non è stata facile, che non è stata entusiasmante, che ringrazio tuttavia per i
piccoli spunti mentali che mi ha donato.
Dino Buzzati “Le storie dipinte” Mondadori s.p. (Regalo di Achille)
[A: 25/12/2017 – I: 11/03/2018 – T: 13/03/2018] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 146;
anno 2013]
Non pensiate sia stato condizionato, nel mio
giudizio, da vicende extra-letterarie, che non sono di questa fatta. Il mio
forte sgradimento di questo libro non dipende neanche dal suo contesto, che
contiene elementi degnissimi. Una brillante e condivisibilissima prefazione di
Lorenzo Viganò, alcune brucianti didascalie di immagini e parole, una
interessante ma anche da discutere post-fazione dello stesso Buzzati. Non, non
è questo, è il difficile rendimento dell’oggetto libro, quando l’espressione
artistica non può essere contenuta in un libro. Si capisce, dal colore, dalle
forme, dal contesto tutto che i quadri di Buzzati devono avere la dimensione
giusta per essere apprezzati. Non sono queste microriproduzioni che riescono a
restituirci il senso delle modalità espressiva dell’artista. È lo stesso motivo
per cui, dopo una mostra, non compro mai un catalogo. Niente può restituire la
bellezza e la complessità di un quadro fuori dalle sue dimensioni abituali. E
se vediamo l’indice, anche se qualche quadretto fa dimensioni contenute (tipo
35x40) molti sono da normali a grandi (arrivando anche a 100x90). Se c’è un
equivoco, come dice Buzzati nelle note finali, non è allora nel fatto che lui
si senta un pittore prestato alla scrittura, e non viceversa come i grandi soloni
suoi coevi sostenevano. No, è nel fatto che Buzzati è un artista a tutto tondo,
che usa diversi modi per esprimersi. Se fosse un artista attuale, non avrebbe
bisogno di etichette: quante mostre vediamo nascere con parole che si
sfilacciano tra i colori? Per i libri è più difficile, per quasi un senso di
pudore che fa riuscire più difficilmente una visione insieme alle parole. Ma le
graphic novel attuali (e ce ne sono di bellissime, dalle storie di Manara agli
incubi di Battaglia, dalla puntigliosità di Vittorio Giardino alla complessità
stilistica di Moebius) sono una pietra di paragone assolutamente indicativa.
Non a caso, il suo “Poema a fumetti” del 1969 né può essere indicato come uno
dei capostipiti. Pur comunque nella difficoltà di interpretare in un formato
10x10 delle pitture così grandi e delle storie così fulminanti, fatte di poche
frasi e di molte sensazioni, qualcosa rimane e si erge fuori dagli schemi.
Senz’altro il bellissimo “Piazza del Duomo di Milano”, forse la sua uscita più
famosa, con quel Duomo che si stempera verso l’alto per diventare quasi roccia
della sua natia Belluno e quella piazza verde di prato. Quelle immagini che
virano sempre più verso un erotismo soft dei suoi lavori della seconda metà
degli anni ’60, quasi a riprendere la “Crying Girl” di Roy Lichtenstein del
1963. E che sicuramente rivediamo nella copertina di “Un amore”, il suo ultimo
romanzo, sempre del 1963. Il palazzo e le sue storie che sembrano precorrere il
Perec de “La vita, istruzioni per l’uso”, che si sviluppano al bussare del lupo
in “Toc, toc”. L’onirismo alla De Chirico de “Il sonno del Lanzichenecco”. Il
noir complesso e risolto in quattro quadrati de “Il delitto di via Calumi”. La
microstoria de “Le sedie” che, sole, si narrano le storie di chi ci si è seduto.
Il bellissimo, indianissmo tappeto su cui si adagia “La gattona”. L’incubo
“alla Poe” di “Una stanza” con quella sequenza di pareti che camminando si
allontanano. Ma più che altro, per me, il quadro-folla con tutte quelle facce
di donna disegnate e ravvicinate de “Le buone amiche” con il suo micro racconto
accostato, dove ci parla di Loredana, donna di piacere, o di Fausta, dove
immaginiamo la vita di Giuseppina Fossombroni, impiegata, e, poi, dietro,
nascoste, laddove si vede un occhio, o forse una frangetta, ci sono Britta,
Giuse, Leosé, Franchina, fino alla carinissima, anche se segreta, Loretta.
Questa è poi la magia di Buzzati: un nome, una faccia, un corpo, e già tutta
una storia, come quando scriveva dei ciclisti al Giro d’Italia, come quando punteggiava
la terza pagina del Corriere della Sera. Non vi meravigliate, se tante storie
ho ripensato in queste righe, perché sono intriganti ed affascinanti come molti
scritti di Buzzati, a partire da quel primo e mai scordato da me “Inviti
superflui”, tre pagine di una folgorazione unica e mirabili. Ma qui torniamo al
libro, che nego come libro, che vorrei rivedere nei quadri e dal vivo. Che non
si riesce a capire il senso di quei dipinti ove, intorno e vicino alle facce ed
ai colori, c’era la scrittura di Buzzati, i suoi pensieri appuntati, come se
fossero, la parola ed il segno, l’uno figlio dell’altra. Per cui, per ora e
sempre, come autore e come artista, mai meno di 4 libri, se non 5. Ma questo
catalogo non ha luce per i miei occhi.
[A: 25/04/2017 – I: 17/04/2018 – T: 20/04/2018] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 262;
anno 1963]
Ovvio
che anche questo provenga dalla “fucina” di Achille, che lo ha regalato ad Alessandra,
che a sua volta, letto, me lo ha prestato. Ed io con calma ed attenzione, ne ho
letto, un po’ riletto, pensato, ed alla fine, terminato, con fatica e poca
soddisfazione. Ripeto quanto anche altrove ho affermato: Buzzati è un vero e
potente scrittore, ha scritto pagine che mi hanno entusiasmato, colpito,
coinvolto. Ma non sempre riusciamo ad entrare in sintonia. Qui, in effetti, non
lo abbiamo fatto, ed il libro, cerebralmente ottimo ed interessante, è
visceralmente fuori dalle mie corde. Capisco con la testa il percorso che ci
vuol far fare l’autore, segue le mosse di Antonio Dorigo in una Milano sempre
migliore di quanto viene detto dai suoi detrattori. Ma non ho mai capito il
rivolgersi all’amore mercenario, che so esserci, che so che tanti (troppi?)
fanno, ma che non comprendo. Cioè posso capire chi vende il proprio corpo non
avendo altro da vendere, ma non capisco, né approvo, né provo moti di simpatia
per chi compra quei corpi. Buzzati invece basa tutta la sua costruzione proprio
su questo, sull’acquisto che Antonio fa del corpo di Laide (brutto soprannome
di una migliore Adelaide), sul percorso che il quasi cinquantenne fa
mentalmente, innamorandosi di quel corpo, prima, e di quella persona poi. Ma
sempre amore mercenario rimarrà, per tutte le quasi trecento pagine. Seguiamo
avvicinamenti ed allontanamenti, seguiamo lunghe digressioni quasi a “flusso di
coscienza” di joyciana memoria, con Antonio che pensa, parla, immagina,
inventa, quasi si innamora delle proprie invenzioni. Antonio che cerca di
trovare il modo di assolutizzarsi l’uso del corpo di Laide. Che cerca di
svelarne i segreti della vita vera, al di là dei salottini di buone maniere
(ah, ah). Con Laide che invece continuamente sfugge, rifugge, fa della sua vita
altra una barriera che Antonio non riuscirà mai a perforare. Antonio cerca
anche di fuggire, ma sempre a Laide torna, con la mente ed il corpo. Proverà a
comprarne la vita intera, facendone una “geisha” mantenuta, ma anche questo
tentativo avrà vita breve. Buzzati ci fa capire che, in fondo, non si possono
comperare le azioni altrui. Il corpo sì, ma non il cervello. Antonio, nella sua
discesa negli abissi, continuerà a sopportare infinte e mortificanti
umiliazioni da parte di Laide, pur di rimanere con lei, pur di “goderne” ancora:
farò la parte di uno zio improbabile negli alberghi fuori Milano, farà finta di
credere che Marcello sia il cugino di Laide. E Laide continuerà ad essere
capricciosa, viziata, opportunista, menzognera. Dirà sempre più eclatanti bugie
(come quelle della zia malata, mitiche), facendo finta che gli si concede
volentieri, quando, in realtà, cerca solo un suo spazio da mantenuta (olgettina
docet). Certo la penna di Buzzati non può che essere veloce e pungente, nonché
ben dirette, quando descrive e discetta dell’amore mercenario, quando descrive
i clienti delle case chiuse. Andando avanti così, tra una Laide che non ci
piace, ed un Antonio che prenderemo volentieri a male parole: ma datti una
mossa, tira fuori la spina dorsale! Antonio niente, non vede e non sente, e
sarà solo nella discussione e disamina dei comportamenti vari che fa verso la
fine in un lungo duello di fioretto con la squillo Piera, che Antonio riesce a
vedere dentro di sé, ed a confessare di aver sempre saputo, in modo
subliminale, delle menzogne di Laide. Finalmente nei lunghi monologhi finali,
Antonio si libera di molte scorie, ma non saranno abbastanza. Tornerà, sempre
ed ancora, da Laide, finendo con un grido muto che sentiamo solo noi, quando
lei gli annuncia di volere un figlio. Un tema sotteso, che qualche bello
scrittore e meglio conoscitore di me, associa alla morte della madre di Buzzati
avvenuta proprio poco prima che lo scrittore mettesse mano al libro. Vorrei
sottolineare solo un altro tema che esce fuori trasversalmente alle pagine: la
differenza di classe, ostacolo insormontabile. Antonio è un borghese di buona
famiglia, Laide viene dal popolo. E se anche lei volesse il matrimonio, lui non
la sposerebbe mai. Il contrasto finto marxista tra borghesia e proletariato
affascina se ci si avvicina al baratro. Ma tutto finisce lì. E ritorniamo
allora all’inizio, all’amore, a questo amore che non è la reciproca ricerca di
due amanti, ma un amore sì onesto, ma vigliacco e nascosto, che costringe
Antonio a mentire a sé stesso per quasi tutto il libro. Ripeto, non mi è
piaciuta la trama, ed il suo sviluppo. Ho apprezzato, questo sì, alcuni squarci
descrittivi della Milano del boom economico, che Buzzati d’altronde
tratteggiava altrettanto bene dalle pagine della sua “Domenica del Corriere”.
Trovo infine, per collegarmi allo scritto precedente, bellissima e da
incorniciare la copertina del libro, disegnata appunto dallo stesso autore, con
quello sguardo “alla Lichtenstein” di una rapita bellezza. Purtroppo, per il
mio cuore, poco altro.
Mario Soldati “America primo amore”
Sellerio euro 12 (in realtà scontato a 10,20 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 11/05/2018 – T: 16/05/2018] - &&&&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327;
anno 1935]
Ricordo,
nelle nebbie della memoria, di aver letto, venti anni fa almeno, “La giacca
verde” di Soldati, forse perché entrò in qualche lettura paterna di campagna.
Ma Soldati lo ricordavo e lo ricordo per l’immagine con il sigaro e la regia di
“Piccolo Mondo Antico” (soprattutto per quella filastrocca “Ombretta sdegnosa…”
che risuonava nella mia mente di bimbo intorno ai dieci anni). Così, ho accolto
con interesse l’invito a leggere questo libro, che le mie “amiche” di libro
sostengono essere utile a chi raggiunge i novanta anni. Cosa sulla quale fin da
ora dissento. Anche perché il libro, o meglio la serie di articoli
giornalistici scritti dall’autore nel suo primo soggiorno americano, sono
interessanti, intensi, ed aiutano a scoprire (o riscoprire) quel mondo di là
dell’oceano, che tanto è presente sia nel nostro immaginario che nel nostro
reale. Soldati ha 23 anni, da poco laureato, vince una borsa di studio di un
anno alla Columbia University, e, deluso dal clima italiano post Patti
Lateranensi, va in America deciso, internamente, di emigrare. Vi passerà due
anni (uno di borsa ed uno nel tentativo di restare laggiù), ma non trovando
sbocchi, dovrà, amante deluso, tornare in Italia. Dove pubblica diversi
articoli sulla sua esperienza americana. Articoli che nel 1935, assemblati e
ripensati, decide di pubblicare in un libro. Un libro d’amore per la sua “idea
America”, con le sue speranze, le sue scoperte, i suoi giudizi. Siamo nel pieno
dell’ondata fascista degli anni Trenta, e non tutto quello che Soldati pensa
riesce ad essere espresso. Fortunatamente riprenderà più volte il libro nel
corso degli anni, e, come magistralmente ci mostra la post-fazione di Salvatore
Silvano Nigro, lo renderà un insieme compatto e coeso. Riordinare gli articoli,
limarli, raccordare i tempi, serve, a lui ed a noi, per fare un viaggio insieme
al possibile emigrante. L’imbarco sul “Conte Biancamano”, la traversata, la
conoscenza con i primi italo-americani (magistrale l’incontro con il fallito
baritono), e tutte le traversie che il nostro passa sul suolo americano. È
stato bellissimo, per me che avevo a trent’anni il mito americano, e che
proprio sul limitare di quell’età, per la prima volta varcai l’oceano (con un
improbabile volo Roma – Belgrado – New York), ripercorrere con i suoi occhi
alcune delle tappe che mi hanno fatto amare – odiare quel mondo. L’arrivo nella
Grande Mela, il passeggiare tra le “street” e le “avenue”, gustare Battery
Park, entrare e rimanere, più e più volte, nel coacervo di suoni e di odori di
Times Square. Ricordo ancora lo stupore di vedere, oltre il Greenwich e verso
Tribeca, le scale antincendio esterne. Come nei film. Come se anche io fossi in
un film americano. Soldati incontra la comunità italo-americana e non ha parole
di elogio per questi immigrati che di italiano, ormai, hanno solo il cognome.
Lo capisco. Come capisco, una volta che finiscono i soldi, il suo immergersi
nel mondo dei poveri: fare lo sguattero in condizione miserrime, cercare di
coniugare il pranzo con la colazione del giorno dopo (che la cena si può
saltare). Come non stargli vicino quando viene rapinato a Chicago (ed io che
ricordo quel ristorante vicino al Palazzo delle Nazioni Unite dove assistetti
ad un inseguimento tra un ladruncolo ed un poliziotto). Quanta nostalgia leggere
di pezzi di New York che erano già scomparsi quando ci sono andato la prima
volta, cinquanta anni dopo Soldati, e che ancor di più sono spariti ora. Anzi
più che ora, due anni fa quando ci sono andato per l’ultima volta (anche se
spero di tornarci ancora). Le chiese, i cattolici americani, ma anche i gospel
di Harlem, lassù, oltre la 105^ strada. Dopo il percorso, che le sue parole
ricostruiscono (l’arrivo, New York, Chicago, i risentimenti, l’addio), due
articoli sono rimasti impressi, fuori dagli schemi del girovagare diurno, delle
parole, dei gangster, degli amori fugaci. La bellissima disamina dei film
americani, con quell’affermazione che riporto e che condivido in pieno. La
cattivissima sparata contro il mondo accademico americano. Certo viziata un poco
dal fatto di essere stato rifiutato. Ma di un’esattezza scientifica: in un
mondo basato sul mito del denaro, fare il professore risulta a volte un ripiego
per chi si tira fuori dal mondo “di lotta” in stile americano. Tanto che spesso
i professori sono falliti (o quasi) e tentano di perpetuare il mondo sulla
falsariga del loro fallimento. Da un lato riecheggiano le distruttive parole
berlusconiane (con la cultura non si mangia). Dall’altro, ricordo perfettamente
lo scontro con i colleghi d’oltre oceano, ai tempi universitari, che sapevano
perfettamente “come” funzionasse ad esempio un telefono, ma non si erano mai
domandati “perché”. Ciliegina sulla torta americana, i due ricordi incrociati,
di Soldati e del suo grande amico Carlo Levi, su come nacque la copertina della
prima edizione, all’alba dell’arresto e dell’avvio al confino dello stesso
Levi. Da leggere assolutamente. Come va letto il libro. Che mi riporta ad amare
quell’America che non aveva ancora Trump, ma di cui ricordo lo spaesamento, un
dì, in un caffè di Flagstaff, guardato con meraviglia da un locale, quando gli
dissi che vivevo a Roma, vicino al papa. Esperienze che non si scordano.
“Meglio
vere paure che orribili fantasie.” (207)
“Un
film americano innanzi tutto e sempre è un film. Cioè non annoia.” (209)
Prima
uscita di agosto, e quindi ecco i quindici libri letti nel mese di maggio.
Tutti di buon livello, nessun autore in fondo alla scala, anzi con quattro
testi che si sollevano ben oltre la media. Soldati, di cui sopra ho narrato.
Kundera in una prova che mi ha convinto. Carrère verso cui sono un po’ ondivago. Ed una bella antologia
regalatami per il mio compleanno.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
David Foenkinos
|
Il mistero Henri Pick
|
Mondadori
|
s.p.
|
3
|
2
|
Siddhesh Inamdar
|
The story
of a long-distance Marriage
|
Harper
|
2,5
|
3
|
3
|
Wilbur Smith
|
Quando vola il falco
|
TEA
|
9,80
|
2
|
4
|
Michael Ondaatje
|
Nella pelle del leone
|
Garzanti
|
8,26
|
3
|
5
|
Mario Soldati
|
America primo amore
|
Sellerio
|
12
|
4
|
6
|
Elena Ferrante
|
Storia di chi
fugge e di chi resta
|
E/O
|
s.p.
|
3
|
7
|
Armando D’amaro
|
La controbanda
|
Repubblica Italia Noir
|
7,90
|
2
|
8
|
Milan Kundera
|
L’immortalità
|
Adelphi
|
13
|
4
|
9
|
Susan Hill
|
L’uomo nel quadro
|
Corriere della Sera Arte
|
7,90
|
1
|
10
|
Maurizio De
Giovanni
|
L’ultimo passo di tango
|
BUR
|
s.p.
|
1
|
11
|
Autori Vari
|
Un anno in giallo
|
Sellerio
|
s.p.
|
4
|
12
|
Antoine Choplin
|
L’airone di Guernica
|
Corriere della Sera Arte
|
7,90
|
2
|
13
|
Roberto Fagiolo
|
L’ombra del
Caravaggio
|
Corriere della Sera Arte
|
7,90
|
3
|
14
|
Marie-Emmanuelle Chessel
|
Histoire de la consommation
|
La Découverte
|
s.p.
|
3
|
15
|
Emmanuel Carrère
|
L’avversario
|
Repubblica Duemila
|
9,90
|
4
|
Niente viaggi, ora, seguendo
problemi di ristrutturazioni e di convalescenze. Fortuna che Soriano ci
accoglie con la sua calma, e che ci consente di rifiatare dalle calure estive.
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