domenica 19 agosto 2018

Italia (quasi) d’autore - 05 agosto 2018


Nel mese estivo, ecco un trittico italiano, che non mi ha soddisfatto molto. Il “giovane” Maggiani alla presa con uno dei suoi primi testi mostra qualcosa, ma è poco coinvolgente. Il “classico” Buzzati l’ho meglio apprezzato in alcuni racconti, mentre qui ci sono due prove, per diversi motivi (sotto spiegati) poco riuscite. Solo il “vecchio” Soldati mi è piaciuto, e l’ho rivalutato.
Maurizio Maggiani “Màuri Màuri” Feltrinelli s.p. (Prestito di Fako)
[A: 22/12/2017 – I: 09/02/2018 – T: 10/02/2018] - &&--- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 125; anno 1989]
Non è una grande presenza nella mia libreria il seppur interessante Maggiani. Una decina di anni fa lessi il suo “La regina disadorna” che non mi lasciò impressioni indelebili se non nella prima parte in cui si parlava del porto di Genova. Qui facciamo un salto ancora più indietro, mettendo gli occhi al primo libro pubblicato dall’autore lunigianese (anche se in effetti, ripubblicato, visto che qui leggo l’edizione Feltrinelli del ’96 piuttosto che quella dei mitici Editori Riuniti dell’89). Devo dire che non mi ha particolarmente coinvolto, né mi è particolarmente piaciuto. Il linguaggio risente molto degli sperimentalismi degli anni ’80, con tutte quelle minuscole sui nomi (mauri, meri, ecc.…) tipiche del periodo di scrittura e poco significative ora. Anche la storia scorre via, così, quasi senza un vero perché. Eppur è una storia (auto?) biografica, che ripercorrendo insieme all’io scrivente alcuni passaggi fondanti della vita del personaggio principale, permette (permetterebbe) di tracciare un parallelo con la vita dell’autore, o di altri personaggi provenienti dalle Bocche del Magra. Che quando si parla di quelle zone, vengono sempre a mente il perfido Marino, il politico Sofri ed i sodali Pietrostefani e Bompressi. Quindi seguiamo il Mauri grande che narra di sé e della sua vita. E ne ricaviamo (cioè mi resta questo nella memoria), il suo incontro con Meri, che diventa la sua compagna, il suo amore, e che fa entrare nella sua vita il Mauri piccolo. I piccoli e grandi incontri della vita locale, tra momenti privati, passeggiate, campagna, parenti, conoscenti, e momenti che diventeranno pubblici. L’impegno, che nell’epoca del racconto era una costante di molte persone della mia età (in fondo Maggiani ha solo due anni più di me), l’inserimento di Mauri nel servizio d’ordine di qualcosa molto simile a “Lotta Continua”, gli scontri con la polizia, prima, con i fascisti, poi. La possibile, anche se rimane sfumata, morte di un oppositore, forse causata dallo stesso Mauri. L’impossibilità, nonostante Meri, nonostante Mauri piccolo, di restare. La fuga in Spagna, l’incontro con Frida e poi… Ma questo è il narrato, appunto, pieno anche di altre piccole o grandi cose, che, sarà la lontananza dei fatti, sarà la lontananza della scrittura, poco restano all’io lettore di ora. Certo, erano altri tempi, certo, alcune cose mi risuonano ancora: le manifestazioni, l’assalto all’ambasciata greca, il servizio d’ordine alla Sapienza, le discussioni, infinite, inconcludenti (ora) nelle assemblee, il mito della classe operaia (ma dov’è ora?), l’incapacità di concepire alleanze (con me o contro di me). Ma anche i primi amori, le prime sbandate, le prime sigarette, il vino bevuto fino a stordirsi, gli amici vicino, la moto senza benzina. Ma se tutto questo c’è o ci può essere, non mi suonano le parole campestri, non mi commuove Puccini, la campagna, i fiori, o quanto forse commuove o stimola Maggiani nei suoi ricordi. Per passare ad altro, torniamo infine alla scrittura. Che appunto è talvolta ellittica, talvolta prende di dialetto, ma sempre non prende me, non mi trascina nella pagina. Forse rimane solo quella domanda antica e piena della curiosità di una nonna. “Di chi sei?”. Da dove viene fuori il tuo io, questo tuo io che io vedo e che, probabilmente, poco capisco. Domanda che non mi fece mai mia nonna, perché lei capiva chi fossimo noi, che cosa facevamo, cosa cercavamo. Le stesse cose che lei, che i suoi figli, miei zii e parenti, avevano fatto e cercato venti, forse trenta anni prima. E che purtroppo, i nostri figli, i nostri nipoti, non hanno fatto, non hanno cercato, venti, trenta anni dopo. Però forse qui sto parlando di un libro che potrei inventare, lontano da questo libro e da questa lettura. Che non è stata facile, che non è stata entusiasmante, che ringrazio tuttavia per i piccoli spunti mentali che mi ha donato.
Dino Buzzati “Le storie dipinte” Mondadori s.p. (Regalo di Achille)
[A: 25/12/2017 – I: 11/03/2018 – T: 13/03/2018] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 146; anno 2013]
Non pensiate sia stato condizionato, nel mio giudizio, da vicende extra-letterarie, che non sono di questa fatta. Il mio forte sgradimento di questo libro non dipende neanche dal suo contesto, che contiene elementi degnissimi. Una brillante e condivisibilissima prefazione di Lorenzo Viganò, alcune brucianti didascalie di immagini e parole, una interessante ma anche da discutere post-fazione dello stesso Buzzati. Non, non è questo, è il difficile rendimento dell’oggetto libro, quando l’espressione artistica non può essere contenuta in un libro. Si capisce, dal colore, dalle forme, dal contesto tutto che i quadri di Buzzati devono avere la dimensione giusta per essere apprezzati. Non sono queste microriproduzioni che riescono a restituirci il senso delle modalità espressiva dell’artista. È lo stesso motivo per cui, dopo una mostra, non compro mai un catalogo. Niente può restituire la bellezza e la complessità di un quadro fuori dalle sue dimensioni abituali. E se vediamo l’indice, anche se qualche quadretto fa dimensioni contenute (tipo 35x40) molti sono da normali a grandi (arrivando anche a 100x90). Se c’è un equivoco, come dice Buzzati nelle note finali, non è allora nel fatto che lui si senta un pittore prestato alla scrittura, e non viceversa come i grandi soloni suoi coevi sostenevano. No, è nel fatto che Buzzati è un artista a tutto tondo, che usa diversi modi per esprimersi. Se fosse un artista attuale, non avrebbe bisogno di etichette: quante mostre vediamo nascere con parole che si sfilacciano tra i colori? Per i libri è più difficile, per quasi un senso di pudore che fa riuscire più difficilmente una visione insieme alle parole. Ma le graphic novel attuali (e ce ne sono di bellissime, dalle storie di Manara agli incubi di Battaglia, dalla puntigliosità di Vittorio Giardino alla complessità stilistica di Moebius) sono una pietra di paragone assolutamente indicativa. Non a caso, il suo “Poema a fumetti” del 1969 né può essere indicato come uno dei capostipiti. Pur comunque nella difficoltà di interpretare in un formato 10x10 delle pitture così grandi e delle storie così fulminanti, fatte di poche frasi e di molte sensazioni, qualcosa rimane e si erge fuori dagli schemi. Senz’altro il bellissimo “Piazza del Duomo di Milano”, forse la sua uscita più famosa, con quel Duomo che si stempera verso l’alto per diventare quasi roccia della sua natia Belluno e quella piazza verde di prato. Quelle immagini che virano sempre più verso un erotismo soft dei suoi lavori della seconda metà degli anni ’60, quasi a riprendere la “Crying Girl” di Roy Lichtenstein del 1963. E che sicuramente rivediamo nella copertina di “Un amore”, il suo ultimo romanzo, sempre del 1963. Il palazzo e le sue storie che sembrano precorrere il Perec de “La vita, istruzioni per l’uso”, che si sviluppano al bussare del lupo in “Toc, toc”. L’onirismo alla De Chirico de “Il sonno del Lanzichenecco”. Il noir complesso e risolto in quattro quadrati de “Il delitto di via Calumi”. La microstoria de “Le sedie” che, sole, si narrano le storie di chi ci si è seduto. Il bellissimo, indianissmo tappeto su cui si adagia “La gattona”. L’incubo “alla Poe” di “Una stanza” con quella sequenza di pareti che camminando si allontanano. Ma più che altro, per me, il quadro-folla con tutte quelle facce di donna disegnate e ravvicinate de “Le buone amiche” con il suo micro racconto accostato, dove ci parla di Loredana, donna di piacere, o di Fausta, dove immaginiamo la vita di Giuseppina Fossombroni, impiegata, e, poi, dietro, nascoste, laddove si vede un occhio, o forse una frangetta, ci sono Britta, Giuse, Leosé, Franchina, fino alla carinissima, anche se segreta, Loretta. Questa è poi la magia di Buzzati: un nome, una faccia, un corpo, e già tutta una storia, come quando scriveva dei ciclisti al Giro d’Italia, come quando punteggiava la terza pagina del Corriere della Sera. Non vi meravigliate, se tante storie ho ripensato in queste righe, perché sono intriganti ed affascinanti come molti scritti di Buzzati, a partire da quel primo e mai scordato da me “Inviti superflui”, tre pagine di una folgorazione unica e mirabili. Ma qui torniamo al libro, che nego come libro, che vorrei rivedere nei quadri e dal vivo. Che non si riesce a capire il senso di quei dipinti ove, intorno e vicino alle facce ed ai colori, c’era la scrittura di Buzzati, i suoi pensieri appuntati, come se fossero, la parola ed il segno, l’uno figlio dell’altra. Per cui, per ora e sempre, come autore e come artista, mai meno di 4 libri, se non 5. Ma questo catalogo non ha luce per i miei occhi.

[A: 25/04/2017 – I: 17/04/2018 – T: 20/04/2018] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 262; anno 1963]
Ovvio che anche questo provenga dalla “fucina” di Achille, che lo ha regalato ad Alessandra, che a sua volta, letto, me lo ha prestato. Ed io con calma ed attenzione, ne ho letto, un po’ riletto, pensato, ed alla fine, terminato, con fatica e poca soddisfazione. Ripeto quanto anche altrove ho affermato: Buzzati è un vero e potente scrittore, ha scritto pagine che mi hanno entusiasmato, colpito, coinvolto. Ma non sempre riusciamo ad entrare in sintonia. Qui, in effetti, non lo abbiamo fatto, ed il libro, cerebralmente ottimo ed interessante, è visceralmente fuori dalle mie corde. Capisco con la testa il percorso che ci vuol far fare l’autore, segue le mosse di Antonio Dorigo in una Milano sempre migliore di quanto viene detto dai suoi detrattori. Ma non ho mai capito il rivolgersi all’amore mercenario, che so esserci, che so che tanti (troppi?) fanno, ma che non comprendo. Cioè posso capire chi vende il proprio corpo non avendo altro da vendere, ma non capisco, né approvo, né provo moti di simpatia per chi compra quei corpi. Buzzati invece basa tutta la sua costruzione proprio su questo, sull’acquisto che Antonio fa del corpo di Laide (brutto soprannome di una migliore Adelaide), sul percorso che il quasi cinquantenne fa mentalmente, innamorandosi di quel corpo, prima, e di quella persona poi. Ma sempre amore mercenario rimarrà, per tutte le quasi trecento pagine. Seguiamo avvicinamenti ed allontanamenti, seguiamo lunghe digressioni quasi a “flusso di coscienza” di joyciana memoria, con Antonio che pensa, parla, immagina, inventa, quasi si innamora delle proprie invenzioni. Antonio che cerca di trovare il modo di assolutizzarsi l’uso del corpo di Laide. Che cerca di svelarne i segreti della vita vera, al di là dei salottini di buone maniere (ah, ah). Con Laide che invece continuamente sfugge, rifugge, fa della sua vita altra una barriera che Antonio non riuscirà mai a perforare. Antonio cerca anche di fuggire, ma sempre a Laide torna, con la mente ed il corpo. Proverà a comprarne la vita intera, facendone una “geisha” mantenuta, ma anche questo tentativo avrà vita breve. Buzzati ci fa capire che, in fondo, non si possono comperare le azioni altrui. Il corpo sì, ma non il cervello. Antonio, nella sua discesa negli abissi, continuerà a sopportare infinte e mortificanti umiliazioni da parte di Laide, pur di rimanere con lei, pur di “goderne” ancora: farò la parte di uno zio improbabile negli alberghi fuori Milano, farà finta di credere che Marcello sia il cugino di Laide. E Laide continuerà ad essere capricciosa, viziata, opportunista, menzognera. Dirà sempre più eclatanti bugie (come quelle della zia malata, mitiche), facendo finta che gli si concede volentieri, quando, in realtà, cerca solo un suo spazio da mantenuta (olgettina docet). Certo la penna di Buzzati non può che essere veloce e pungente, nonché ben dirette, quando descrive e discetta dell’amore mercenario, quando descrive i clienti delle case chiuse. Andando avanti così, tra una Laide che non ci piace, ed un Antonio che prenderemo volentieri a male parole: ma datti una mossa, tira fuori la spina dorsale! Antonio niente, non vede e non sente, e sarà solo nella discussione e disamina dei comportamenti vari che fa verso la fine in un lungo duello di fioretto con la squillo Piera, che Antonio riesce a vedere dentro di sé, ed a confessare di aver sempre saputo, in modo subliminale, delle menzogne di Laide. Finalmente nei lunghi monologhi finali, Antonio si libera di molte scorie, ma non saranno abbastanza. Tornerà, sempre ed ancora, da Laide, finendo con un grido muto che sentiamo solo noi, quando lei gli annuncia di volere un figlio. Un tema sotteso, che qualche bello scrittore e meglio conoscitore di me, associa alla morte della madre di Buzzati avvenuta proprio poco prima che lo scrittore mettesse mano al libro. Vorrei sottolineare solo un altro tema che esce fuori trasversalmente alle pagine: la differenza di classe, ostacolo insormontabile. Antonio è un borghese di buona famiglia, Laide viene dal popolo. E se anche lei volesse il matrimonio, lui non la sposerebbe mai. Il contrasto finto marxista tra borghesia e proletariato affascina se ci si avvicina al baratro. Ma tutto finisce lì. E ritorniamo allora all’inizio, all’amore, a questo amore che non è la reciproca ricerca di due amanti, ma un amore sì onesto, ma vigliacco e nascosto, che costringe Antonio a mentire a sé stesso per quasi tutto il libro. Ripeto, non mi è piaciuta la trama, ed il suo sviluppo. Ho apprezzato, questo sì, alcuni squarci descrittivi della Milano del boom economico, che Buzzati d’altronde tratteggiava altrettanto bene dalle pagine della sua “Domenica del Corriere”. Trovo infine, per collegarmi allo scritto precedente, bellissima e da incorniciare la copertina del libro, disegnata appunto dallo stesso autore, con quello sguardo “alla Lichtenstein” di una rapita bellezza. Purtroppo, per il mio cuore, poco altro.
Mario Soldati “America primo amore” Sellerio euro 12 (in realtà scontato a 10,20 euro)

[A: 09/02/2016 – I: 11/05/2018 – T: 16/05/2018] - &&&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327; anno 1935]
Ricordo, nelle nebbie della memoria, di aver letto, venti anni fa almeno, “La giacca verde” di Soldati, forse perché entrò in qualche lettura paterna di campagna. Ma Soldati lo ricordavo e lo ricordo per l’immagine con il sigaro e la regia di “Piccolo Mondo Antico” (soprattutto per quella filastrocca “Ombretta sdegnosa…” che risuonava nella mia mente di bimbo intorno ai dieci anni). Così, ho accolto con interesse l’invito a leggere questo libro, che le mie “amiche” di libro sostengono essere utile a chi raggiunge i novanta anni. Cosa sulla quale fin da ora dissento. Anche perché il libro, o meglio la serie di articoli giornalistici scritti dall’autore nel suo primo soggiorno americano, sono interessanti, intensi, ed aiutano a scoprire (o riscoprire) quel mondo di là dell’oceano, che tanto è presente sia nel nostro immaginario che nel nostro reale. Soldati ha 23 anni, da poco laureato, vince una borsa di studio di un anno alla Columbia University, e, deluso dal clima italiano post Patti Lateranensi, va in America deciso, internamente, di emigrare. Vi passerà due anni (uno di borsa ed uno nel tentativo di restare laggiù), ma non trovando sbocchi, dovrà, amante deluso, tornare in Italia. Dove pubblica diversi articoli sulla sua esperienza americana. Articoli che nel 1935, assemblati e ripensati, decide di pubblicare in un libro. Un libro d’amore per la sua “idea America”, con le sue speranze, le sue scoperte, i suoi giudizi. Siamo nel pieno dell’ondata fascista degli anni Trenta, e non tutto quello che Soldati pensa riesce ad essere espresso. Fortunatamente riprenderà più volte il libro nel corso degli anni, e, come magistralmente ci mostra la post-fazione di Salvatore Silvano Nigro, lo renderà un insieme compatto e coeso. Riordinare gli articoli, limarli, raccordare i tempi, serve, a lui ed a noi, per fare un viaggio insieme al possibile emigrante. L’imbarco sul “Conte Biancamano”, la traversata, la conoscenza con i primi italo-americani (magistrale l’incontro con il fallito baritono), e tutte le traversie che il nostro passa sul suolo americano. È stato bellissimo, per me che avevo a trent’anni il mito americano, e che proprio sul limitare di quell’età, per la prima volta varcai l’oceano (con un improbabile volo Roma – Belgrado – New York), ripercorrere con i suoi occhi alcune delle tappe che mi hanno fatto amare – odiare quel mondo. L’arrivo nella Grande Mela, il passeggiare tra le “street” e le “avenue”, gustare Battery Park, entrare e rimanere, più e più volte, nel coacervo di suoni e di odori di Times Square. Ricordo ancora lo stupore di vedere, oltre il Greenwich e verso Tribeca, le scale antincendio esterne. Come nei film. Come se anche io fossi in un film americano. Soldati incontra la comunità italo-americana e non ha parole di elogio per questi immigrati che di italiano, ormai, hanno solo il cognome. Lo capisco. Come capisco, una volta che finiscono i soldi, il suo immergersi nel mondo dei poveri: fare lo sguattero in condizione miserrime, cercare di coniugare il pranzo con la colazione del giorno dopo (che la cena si può saltare). Come non stargli vicino quando viene rapinato a Chicago (ed io che ricordo quel ristorante vicino al Palazzo delle Nazioni Unite dove assistetti ad un inseguimento tra un ladruncolo ed un poliziotto). Quanta nostalgia leggere di pezzi di New York che erano già scomparsi quando ci sono andato la prima volta, cinquanta anni dopo Soldati, e che ancor di più sono spariti ora. Anzi più che ora, due anni fa quando ci sono andato per l’ultima volta (anche se spero di tornarci ancora). Le chiese, i cattolici americani, ma anche i gospel di Harlem, lassù, oltre la 105^ strada. Dopo il percorso, che le sue parole ricostruiscono (l’arrivo, New York, Chicago, i risentimenti, l’addio), due articoli sono rimasti impressi, fuori dagli schemi del girovagare diurno, delle parole, dei gangster, degli amori fugaci. La bellissima disamina dei film americani, con quell’affermazione che riporto e che condivido in pieno. La cattivissima sparata contro il mondo accademico americano. Certo viziata un poco dal fatto di essere stato rifiutato. Ma di un’esattezza scientifica: in un mondo basato sul mito del denaro, fare il professore risulta a volte un ripiego per chi si tira fuori dal mondo “di lotta” in stile americano. Tanto che spesso i professori sono falliti (o quasi) e tentano di perpetuare il mondo sulla falsariga del loro fallimento. Da un lato riecheggiano le distruttive parole berlusconiane (con la cultura non si mangia). Dall’altro, ricordo perfettamente lo scontro con i colleghi d’oltre oceano, ai tempi universitari, che sapevano perfettamente “come” funzionasse ad esempio un telefono, ma non si erano mai domandati “perché”. Ciliegina sulla torta americana, i due ricordi incrociati, di Soldati e del suo grande amico Carlo Levi, su come nacque la copertina della prima edizione, all’alba dell’arresto e dell’avvio al confino dello stesso Levi. Da leggere assolutamente. Come va letto il libro. Che mi riporta ad amare quell’America che non aveva ancora Trump, ma di cui ricordo lo spaesamento, un dì, in un caffè di Flagstaff, guardato con meraviglia da un locale, quando gli dissi che vivevo a Roma, vicino al papa. Esperienze che non si scordano.
“Meglio vere paure che orribili fantasie.” (207)
“Un film americano innanzi tutto e sempre è un film. Cioè non annoia.” (209)

Prima uscita di agosto, e quindi ecco i quindici libri letti nel mese di maggio. Tutti di buon livello, nessun autore in fondo alla scala, anzi con quattro testi che si sollevano ben oltre la media. Soldati, di cui sopra ho narrato. Kundera in una prova che mi ha convinto. Carrère verso cui sono un po’ ondivago. Ed una bella antologia regalatami per il mio compleanno.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
David Foenkinos
Il mistero Henri Pick
Mondadori
s.p.
3
2
Siddhesh Inamdar
The story of a long-distance Marriage
Harper
2,5
3
3
Wilbur Smith
Quando vola il falco
TEA
9,80
2
4
Michael Ondaatje
Nella pelle del leone
Garzanti
8,26
3
5
Mario Soldati
America primo amore
Sellerio
12
4
6
Elena Ferrante
Storia di chi fugge e di chi resta
E/O
s.p.
3
7
Armando D’amaro
La controbanda
Repubblica Italia Noir
7,90
2
8
Milan Kundera
L’immortalità
Adelphi
13
4
9
Susan Hill
L’uomo nel quadro
Corriere della Sera Arte
7,90
1
10
Maurizio De Giovanni
L’ultimo passo di tango
BUR
s.p.
1
11
Autori Vari
Un anno in giallo
Sellerio
s.p.
4
12
Antoine Choplin
L’airone di Guernica
Corriere della Sera Arte
7,90
2
13
Roberto Fagiolo
L’ombra del Caravaggio
Corriere della Sera Arte
7,90
3
14
Marie-Emmanuelle Chessel
Histoire de la consommation
La Découverte
s.p.
3
15
Emmanuel Carrère
L’avversario
Repubblica Duemila
9,90
4

Niente viaggi, ora, seguendo problemi di ristrutturazioni e di convalescenze. Fortuna che Soriano ci accoglie con la sua calma, e che ci consente di rifiatare dalle calure estive. 

Nessun commento:

Posta un commento