domenica 9 settembre 2018

Piacevoli sorprese - 09 settembre 2018


Dopo un libro letto più per dover di viaggio (dopo che stai ancora una volta in India, non ci si può esimere) che per piacere, sono passato a tre letture che, in crescendo, mi hanno ridato il piacere di trovare autori che non sempre ultimamente mi avevano convinto. Così ho letto con gusto, rivalutato dove serviva, confermato dove ero sicuro dell’autore, ed ho potuto lasciare in me un buon ricordo di Ondaatje, di Kundera e di Ghosh. Spero sarà così anche per voi.
Siddhesh Inamdar “The story of a long-distance Marriage” Harper euro 2,5
[A: 01/05/2018 – I: 04/05/2018 – T: 08/05/2018] - && +
[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 176; anno 2018]
Libro comprato a scatola chiusa all’aeroporto di Delhi, al ritorno del bel viaggio con Ale, perché avanzavo delle rupie e volevo un libro di autore indiano. Questo libro soddisfaceva le condizioni ed allora, preso, letto e digerito. Non è un bel libro (come si nota dal limitato numero di libri di gradimento), eppur tuttavia ha alcuni pregi, soprattutto personali. La storia segue una coppia, Ira e Rohan, conosciutasi al liceo, sposatasi ad un certo punto, con Ira che ora (scusate il bisticcio fonetico) decide di fare un phD in America (d’altronde è una under 30, quindi ci può stare). Tutto il libro, visto e scritto dalla parte di Rohan, segue l’evolversi di questa problematica della lontananza amorosa, su cui torneremo più avanti. Che prima c’è bisogno di parlare appunto di quei meriti personali del libro, che me lo rendono caro al di là della riuscita del libro stesso. Primo elemento, il matrimonio tra i due, che è un matrimonio “fuori casta” e “non combinato”. Entrambe le affermazioni ancora forti nell’India attuali, come abbiamo scoperto parlando a lungo con l’amico Mahindra. Rohan è hindu e Ira è cattolica. Non sono ferventi nelle loro religioni, ma è un dato che c’è e non si può negarlo. Si sono conosciuti studenti, si ritrovano pochi anni dopo, e scoppia un amore incontenibile. Per cui, benché da posti diversi (Rohan è sicuramente di Mumbai, Ira l’ho dimenticato), convergono e vanno a vivere a Delhi. Un matrimonio completamente diverso da quello cui assistiamo alla fine tra l’amico di Rohan, Tanuj, ed una signorina scovata dalla madre di lui. Combinato. Come combinati sono il 60% dei matrimoni indiani tuttora. E funzionano molto di più di quanto ci si aspetti. Poi ci sono i luoghi indiani. Delhi in primo piano. Dalla zona dove abitano, leggermente fuori mano. Dall’Università dove studia Ira. Dal luogo di lavoro di Rohan (giornalista come l’autore del libro). Per non tacere della passeggiata per Chandni Chowk, con il Forte Rosso sullo sfondo. O una puntata a Connaught Place. O altre menzioni che mi riportano a questo ed altri giri indiani. Gli accenni a Mumbai, a Kolkata. Ma soprattutto, tutto il viaggio della terza parte in Sikkim. Dove vorrei andare, prima o poi. E dove, leggendo le descrizioni di Inamdar, si intuisce una similitudine ed un parallelismo con le strade ed i paesaggi del mio amato Ladakh, con la sua aria pulita, con gli ampi spazi, con la mancanza di fiato dovuta all’altitudine. Con Ira e Rohan che viaggiano sballottolati nella macchina, lei in preda al “mal di montagna”, che si appoggia alla sua spalla. Infine alcuni accenni minimali, ma che toccano sempre il mio cuore, come la canzone che sente sempre in ripetizione Rohan: “Hoppipolla” dei Sigur Ros, bellissima canzone d’amore del gruppo islandese. Il resto è la storia di un amore e di una presa di coscienza. Ira decide di studiare a New York per seguire il suo sogno di vita, lasciando solo Rohan, nonostante il grande amore. O forse proprio per quello, che Ira si accorge che, preso da mille altre cose, Rohan non ha più la testa al modo in cui, al di là di ogni convenienza, era iniziata la loro storia d’amore. Rohan, ora, pensa al lavoro, egotisticamente si pone al centro del mondo e vede tutto, compresa la partenza di Ira, come qualcosa legata a sé stesso, come un torto che lui subisce. E non capisce. Per molte pagine e molti avvenimenti, non capisce, non entra in sintonia. Ci si domanda perché si siano sposati, che da quello che emerge, non sembrano essere in un rapporto idealmente convergente. Soprattutto Rohan non è per nulla in sintonia con le cose che dice Ira. Ira parla di massimi sistemi, lui capisce altro: che guadagna poco, che non aiuta in casa, che pensa poco al cane. Ed altre stupidaggini. Quando il vero problema è appunto che Rohan non pensa ad Ira, non pensa all’altra come si dovrebbe pensare in un sano rapporto, non pensa a cosa sia “bene” per l’altro e non per sé o per il rapporto. Bellissima la trovata d’agnizione quando, per cercare di far capire sé stessa a Rohan, Ira gli fa vedere il film “Kirschblüten – Hanami”, film tedesco della regista Doris Dörrie, che unisce il termine tedesco generale “Fiori di ciliegio” con lo specifico termine giapponese “hanami” che indica l’amore verso i fiori. Non so se lo conoscete, ma è un film interessante, e la regista ha fatto film degni di nota. E, anche se non è un film allegro, ruota intorno all’amore, ed alla comprensione che, appunto, l’amore è sintonizzarsi sull’altro. Rohan ha una forte agnizione a questo punto, capendo che non è la distanza fisica la tomba del matrimonio e dell’amore, ma la distanza mentale. A volte poco incisivo, si svolge in un facile inglese, ed in descrizioni del mondo indiano che fanno rivivere bei momenti. Per questo, pur nel non completo piacere del testo, lo sollevo leggermente su libri analoghi.
“We'll always have each other to come back to” [ci saremo sempre l'un l'altro per stare insieme (più o meno)] (7)
“How will you fix it when you don’t know what’s broken?” [come puoi riparare una cosa se non sai che cosa è rotto?] (61)
“Travel … lets us get in touch with our inner selves and gives us the pause to pursue what really matters.” [Viaggiare ... ci mette in contatto con il nostro io interiore e ci concede la pausa per perseguire ciò che conta davvero] (166)
Michael Ondaatje “Nella pelle del leone” Garzanti euro 8,26 (in realtà, scontato a 7 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 09/05/2018 – T: 12/05/2018] - &&& +
[tit. or.: In the skin of a lion; ling. or.: inglese; pagine: 220; anno 1987]
Una conferma piuttosto che una sorpresa. Anche se de “Il paziente inglese” ricordo più il film che il libro, e se, come suggeriva la mia amica Luana, sono anni che cerco “Le opere complete di Billy the Kid”. Ma il buon Michael autore poco più che quarentenne all’epoca del libro in questione, è una penna poco prolifica ma di sicura presa. Nato da origini olandesi (come dice il cognome) in quello Sri Lanka allora Ceylon, e dopo studi ed altre peripezie, ora vive in Canada. Ed in questo libro il Canada è, forse, il protagonista silente che lo attraversa tutto. Costruito con sapiente dosaggio di elementi, è anche un po’ spaesante, se non si è attenti alle premesse, e non si seguono altrettanto attentamente gli avvenimenti. Che il romanzo è costruito a mosaico, con la chiave di volta nelle prime righe (racconto che una ragazza alla guida ascolta) e richiusa dalle ultime (quando vediamo Hana salire in macchina e Patrick che comincia a narrare le “sue” storie). Sembra quasi un marchio di fabbrica canadese (perché penso ad Alice Munro, ovvio), quello di costruire storie con dei piccoli racconti che si raccordano (tecnica portata all’estremo da Elisabeth Strout). Qui, infatti, ogni capitolo è una ministoria, dove a volte i protagonisti scompaiono per poi riapparire decine e decine di pagine dopo. Alla fine, comunque, si riesce a capire che il nostro eroe è Patrick, un “vero” canadese, rispetto alla marea di immigrati che incontriamo man mano. Ne seguiamo l’infanzia, nei boschi con il padre (senza nessuna madre di cui non si parlerà mai, tanto che ci viene il dubbio che tutto il rapporto cercato con l’altro sesso sia una ricerca subliminale proprio della madre). Entriamo quindi nel mondo selvaggio del Canada dei grandi spazi, degli alberi, dei fiumi che li portano a valle. Vediamo il padre specializzarsi in piccole esplosioni di dinamite, proprio per spostare a proprio agio gli alberi. Tecnica che trasmette al figlio, e che al figlio servirà quando sarà grande. Padre morto, e Patrick che vaga, fino a trovarsi nella grande città, a Toronto, occupato in mille lavori, dal grande impegno al piccolo guadagno. Si troverà a fare anche da galoppino ad investigatori privati, alla ricerca dello scomparso miliardario Ambrose. Non lo trova, ma ne trova traccia presso la di lui amante Clara. Di cui lui si prende in maniera esagerata. Clara sfuggente, Clara misteriosa, Clara che gli presenta la sua amica Alice. Che noi abbiamo seguito per pagine traverse, ascoltando la storia dell’immigrato macedone Nicola, che costruisce ponti, e che salva dal precipitare nel vuoto una suora. Suora che, sconvolta dal salvataggio e da Nicola, abbandonerà il saio, prenderà una forte coscienza politica, e si trasformerà nell’attrice Alice. Anche se per poco abbiamo seguito Nicola, comunque interessante, non è lui il centro, rimandone sempre Patrick, anche se serve per introdurlo nelle varie comunità di immigrati. Ed a presentarlo ad un altro operaio protempore, che in realtà è un vero ladro, soprannominato Caravaggio. Quando Clara scompare anche lei al seguito da Ambrose, Patrick ritrova miracolosamente Alice (sono ormai passati almeno 10 anni), con una figlia al seguito, Hana. Patrick e Alice iniziano la loro piccola grande storia, importante per Patrick che gli fa nascere coscienza politica. Siamo, mi ero scordato di dirlo, all’inizio degli anni Trenta, epoca di grande depressione sociale, di scioperi, di rivolte. Rivolte che vedono Alice sempre in prima fila, che vedono Patrick presente ma ancora non cosciente, dedita spesso più a proteggere Hana che sé stesso. Ma Alice, in seguito ad una molotov mal confezionata muore. Patrick, usando le sue tecniche dinamitarde, cerca di vendicarla, rimediando solo alcuni anni di carcere. Dopo si lega al Caravaggio di cui sopra, non prima di aver consegnato Hana a Nicola perché la protegga. Il libro finisce con una disperata telefonata di Clara che cerca il “suo” Patrick, che Ambrose ora è realmente morto, e lei è realmente sola. Patrick ha un braccio rotto (così come Nicola quando salvò Alice), e per andarla a prendere convince la sedicenne Hana a guidare lei, anche se con cautela (sappiamo che negli States è possibile avere la patente a sedici anni). Per tenerla sveglia durante il lungo viaggio per recuperare Clara, Patrick le promette di raccontarle le storie della sua vita, dei suoi amici e della madre di lei. Cosa che ha fatto, e che noi abbiamo seguito leggendo il libro. E se siete attenti cultori di nomi e trame, non vi meraviglierete certo di ritrovare Hana ne “Il paziente inglese”. Comunque, un ringraziamento a Ondaatje, per le sue origini che lui non dimentica, e per la sua scrittura, che noi non dimenticheremo.
“Tu credi nella solitudine … Puoi permetterti di essere romantico perché sei autosufficiente.” (115)
Milan Kundera “L’immortalità” Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 19/05/2018 – T: 23/05/2018] - &&&&--
[tit. or.: Nesmrtelnost; ling. or.: ceco; pagine: 366; anno 1988]
In genere non sono particolarmente tenero verso Milan Kundera, che ho letto a sprazzi, e non sempre mi ha convinto o coinvolto. Devo dire che questo libro, che non conoscevo, e che sono stato spinto dal volume “Curarsi con i libri” a leggere, invece mi è discretamente piaciuto. Intanto, credo che posso affermare con tranquillità che, come cura per i centenari, non è efficace. Ma questo sarà oggetto di altre riflessioni. Qui vediamo intanto il profugo ceco che da più di dieci anni si è rifugiato a Parigi scrivere l’ultimo libro nella sua lingua madre. Dopo di questo, scriverà soltanto in francese. La vera sfida di questo libro è quanto poi riporto preso da pagina 257: Kundera afferma che un romanzo per essere sé stesso deve essere letto e non può essere raccontato. Il suo alter-ego, nel libro, gli fa presente che “I tre moschettieri” può essere ben raccontato, ma Milan rimane con il suo assunto, e noi qui si accetta la sfida. Non per raccontarlo, ma per attraversarlo. Un romanzo con tanti fili, tante storie che si intrecciano, ma che tendono a dimostrare l’assunto di fondo da cui nasce: che senso ha la scrittura in questo mondo dominata dall’immagine? Una domanda viva trenta anni fa e che ora è, se vogliamo, ancora più viva. Ed il mondo dell’immagine, se mi consentite (citazione ovvia) è un mondo che tende a rendere tutto superficiale, dimenticabile, sostituibile. Non voglio entrare in questioni politiche che però le mie parole hanno già adombrato, e chi ne sa, sa anche come si potrebbe proseguire. Io, molto modestamente, torno allo scritto. Che, appunto per la sua inenarrabilità, contiene tante storie che si intrecciano, e che alla fine hanno un filo conduttore che tutte le collega. Intanto, l’autore è presente nel testo dalla prima all’ultima pagina. Di persona, che ci narra come nasce lo spunto che gli fa inanellare gli avvenimenti. Ed alla fine, ci scioglie le riserve e chiude il libro. Con una chiusura aperta, così com’è la vita. Perché è questo il bello del romanzo, che parla di storie, come se parlasse di articoli giornalistici. Un gesto di Agnés scatena la fantasia di Milan che aspetta il suo amico Avenarius. Un gesto femminile, uno slancio del polso teso ad un saluto. Da lì, andando a spasso per il tempo, ci narra la complessa storia di Agnés e della sua famiglia. Di suo marito Paul, di sua figlia Brigitte, di sua sorella Laura. Un esempio dell’entrata ed uscita del romanzo dalla vita è ad esempio il sentire con Milan le notizie mattutine del giornale radio, lette e commentate da tal Bernard, figlio di un insulso deputato di nome Bertrand (voluta confusione di nomi). Con l’andare del tempo, scopriamo che Bernard è l’amante di Laura, e che Avenarius, sempre in vena di tirar fuori il ridicolo dalla vita (sostiene che è l’unica cosa seria), confondendo padre e figlio in un’unica persona, dona a Bernard una targa che lo elegge “asino integrale” (una specie di “tapiro d’oro” ante-litteram). Bernard va in depressione, non riesce a risolverla con l’aiuto di Laura, che medita il suicidio da cui è salvata da Paul e Agnés. Ma Agnés è ben incartata nella sua difficile vita, insoddisfatta dal marito e dalla figlia, anche se li ama profondamente. È anche divisa tra Parigi e la Svizzera, da dove proviene, e dove ogni tanto si rifugia per stare in solitudine con i suoi monti. Tanto che medita di accettare il trasferimento a Ginevra. Nel sesto capitolo, un capitolo tutto dedicato a Rubens, un tizio così soprannominato per la facilità pittorica giovanile, e che passa la sua vita a cercare soddisfazioni erotiche, vediamo come ad un certo punto della sua vita Agnés diventi amante saltuaria proprio di Rubens. E quando questi la cerca perché ne sente la mancanza, scopre che Agnés è morta. Sì, muore in un incidente stradale, di cui discettano Kundera e Avenarius (questo sempre per la capacità dell’autore di entrare ed uscire dal testo). Laura, lasciato Bernard, trova consolazione in Paul, che ha sempre amato. Scatenando le ire di Brigitte, la figlia, che va via insalutata. Per vie traverse, scopriamo anche che Laura è saltuariamente anche l’amante di Avenarius. Fino alla chiusura finale del cerchio, sempre nella piscina che vide l’inizio dell’avventura. Lì si ritrovano tutti, Paul, Kundera, Avenarius e Laura. Che per prima se ne va, ripetendo il gesto fatta da Agnés anni prima. C’è anche qualche altro cerchio che si chiude, ma non ha importanza. Perché questa è la storia nel senso “romanzesco” del termine. Il libro è, proprio per quell’assunto sopra riportato, ben altro. Anche altro. Non a caso il secondo capitolo è interamente dedicato alla storia tra Goethe e Bettina Brentano. Lì dove si discetta di gesti, di immortalità, di atteggiamenti di Bettina, dei suoi amori e dei suoi amanti. Tra i quali lei volle iscrivere anche il sommo Goethe, che già solitario si avviava all’immortalità, facendo in qualche modo caderne qualche goccia anche su di lei. È un capitolo intenso che non ha senso percorrere, ma che a senso leggere. Sia in sé, sia nel contesto del libro. Con quelle chiuse di passeggiate nell’aldilà tra due immortali come Goethe e Hemingway. Ma è proprio in questo capitolo che si gettano le fondamenta dell’essere e dell’apparire. Goethe è. Bettina appare, e lo fa talmente bene, che alla fine è e sarà così come il suo maestro. Mi sono divertito ad ogni incrocio improbabile della scrittura, seguendo le casualità folli che immagina Kundera: come il susseguirsi di alcuni episodi che mi hanno ricordato Peter Sellers e Hollywood Party. Avenarius, nelle sue folli scorribande, decide di bucare con un coltello le ruote di alcune macchine a caso. Buca due ruote di una macchina, rimane con il coltello in mano, si volta, una signora lo vede e pensa che lo stia minacciando, un gendarme lo vuole arrestare. Paul esce di casa, ed in quanto avvocato gli offre il suo patrocinio. Poi va a prendere la macchina ma è quella con le due ruote bucate. E lui deve correre in ospedale dove è ricoverata Agnés vittima dell’incidente che risulterà mortale. Un magistrale fuoco di fila. Un’ultima osservazione logistica prima di lasciarvi. A pagina 312, Rubens visita il Palazzo Barberini, poi esce e va a Villa Borghese dove incontrerà Agnés che non conosce ma che, tra i busti del Pincio, scatenerà la loro passione erotica. Ora, Kundera afferma che Rubens sale la scalinata di Piazza di Spagna, ma da Palazzo Barberini al Pincio, facendo via Sistina, non si fanno le scale. Svista? Non so. Comunque un altro momento intrigante di un libro piacevole. Proprio perché, l’essere di noi tutti, normali mortali, sarà sempre lontano dall’apparire. Purtroppo anche dall’immortalità. Che forse ha senso se si hanno figli, come si accenna ad un certo punto. Ma questa è tutta un’altra discussione.
“Un figlio è l’essenza di ogni amore e non ha nessuna importanza se sia stato realmente concepito e messo al mondo.” (71)
“Non sapremo mai come e perché irritiamo la gente, in che modo risultiamo simpatici, in che modo risultiamo ridicoli: la nostra immagine è per noi il nostro più grande mistero.” (141)
“Se un pazzo che oggi scrive ancora romanzi vuole salvarli, deve scriverli … in modo che non si possano raccontare.” (257)
“È una pura illusione voler iniziare … una ‘nuova vita’ … La vostra vita sarà sempre fatta … degli stessi problemi, e ciò che in un primo momento vi apparirà come una ‘nuova vita’ ben presto si dimostrerà una semplice variazione di quella precedente.” (294)
Amitav Ghosh “Il palazzo degli specchi” Beat euro 11 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 09/02/2016 – I: 29/05/2018 – T: 02/06/2018] - &&&&-
[tit. or.: The Glass Palace; ling. or.: inglese; pagine: 631; anno 2000]
Torno sempre con piacere ai libri di Ghosh, sia perché indiano di Calcutta (o di Kolkata) sia perché sono sempre dei grandi affreschi. Sociali, politici, storici, personali. Tanto che aspetto con piacere che tra qualche tempo mi verrà in mano l’ultimo libro della trilogia della Ibis (di cui qui non parlerò). Intanto mi sono goduto questo libro, con un’odissea indo-birmano che si stende per circa 110 anni. L’esimio libro di cure librarie lo consiglia come uno dei migliori libri per combattere la voglia di girovagare. Sarà. A me invece ha dato voglia di tornare in Birmania, dove forse manco da troppi anni. Ghosh, in questa grande saga, mette molto (anche) di personale, trasponendo fatti della propria storia familiare, ma la bellezza del libro è che se ne prescinde tantissimo. Si viene presi dalla grande avventura che si svolge laggiù, ai margini dell’Oceano Indiano. E da tutti i suoi personaggi. Con la capacità, lieve ma di assoluta precisione, dell’autore di mescolare un po’ di elementi correttamente storici con le vicende personali e private dei suoi personaggi. Con i quali gioca abilmente, facendocene seguire lunghi tratti come se fossero i soli perni della vicenda. Quando poi i perni sono tanti, e quello che Ghosh ci vuole comunicare è anche la vita ed i sentimenti di tutti i popoli che si affacciano in quell’angolo di mondo. Infatti cominciamo a seguire Rajkumar, che dovrebbe nascere in India intorno al 1875, che vede morire tutta la sua famiglia in una epidemia, che tenta di diventare mozzo, per poi arenarsi a Mandalay. In un anno cruciale, il 1885, quando le forze inglesi decidono che hanno bisogno dei proventi delle piantagioni di tek, e per questo invadano e sbaragliano il timido regno di re Thibaw. Nella cui corte, a far da governante alle principesse reali, c’è anche la giovane Dolly, orfana indiana. I due, al colmo dei loro dieci anni di età, si guardano negli occhi, mentre l’entourage reale lascia il “Palazzo degli Specchi”, la residenza birmana del re (ricordo la città, e l’Irawaddy, il Gange dei birmani, ed altro ancora, ma non è di questo che si parla). Poi seguiamo la crescita di Rajkumar, la sua abilità nel commercio, dietro le direttive e i consigli di un meticcio, Saya John. Seguiamo la vita in esilio a Ratnagiri, poco sotto Goa (quindi dalla parte opposte dell’India rispetto alla Birmania), del re, di Dolly, e del console indiano in rappresentanza della corona inglese. Nonché di sua moglie Uma Day, dell’amicizia di Uma con Dolly. Dell’arrivo, ormai quasi trentenne, di Rajkumar, delle dichiarazioni d’amore, della fuga di lui con Dolly, della crescita della coscienza della situazione locale di Uma, della morte del marito. Poi arrivano i figli di Raj e Dolly, Neel, ed il giovane Dinu, gli altri giovani, come i gemelli Arjun e Marjun. C’è il ritorno dall’America di Matthews il figlio di Saya John, il suo matrimonio con la bella Elisabeth, la nascita di Neel, di Allison. Il lavoro intrecciato tra Raj e Matthews, gli amori e i dolori. Dinu con la poliomielite, da cui guarisce, anche se rimane claudicante. Tutto intrecciato con la storia della dominazione inglese, della crescita di una coscienza sociale, l’emigrazione di Uma in America, dove prende coscienza piena della situazione e dove diventa un’attivista, prima “guerreggiante”, poi, al ritorno in India, conquistata dalla non violenza di Gandhi. Ci sono matrimoni, ci sono rotture, ci sono riconciliazioni. Raj tenta di riprendere il vigore dei tempi andati durante la Seconda Guerra mondiale, anche se ormai si avvia alla settantina. L’accidentale morte di Neel, il dolore insostenibile di Marjun, la vita militare di Arjun, la breve storia d’amore di Dinu e Allison. Tanti piccoli elementi che costruiscono un grande puzzle. Che non si parla solo del privato. Si parla della presa di coscienza degli indiani, della lotta con gli inglesi, della rottura interna durante la guerra dei soldati indiani che disertano per andare dai giapponesi a combattere gli inglesi ed accorgersi di essere caduti dalla padella nella brace. Si parla della Birmania, della sua indipendenza, di come abbia vissuto un grande periodo di pace, poi sconvolto dal golpe dei militari. L’intreccio pubblico-privato è potente e ben gestito. Anche se, per forza di cose, gli ultimi anni scorrono velocemente. Che la saga finisce nel 1996, quando Amitav decide di cominciare a scrivere la sua storia. Finisce con piccoli tocchi di pennello, così come era cominciata con grandi colpi di cannone. Delicata la figura di Dinu, che decide di occuparsi per sempre di fotografia. Coinvolgente la figura di Bela, anche nel poco spazio dedicatole. Ammirevole il ritirarsi in un convento buddista di Dolly quando vede finiti i suoi spazi pubblici. C’è tanto sali e scendi delle fortune di tutti, anche se poi la fine ci lascia amaro in bocca. Pochi i personaggi che hanno uno svolgimento allegro delle loro vite. Ma Ghosh ci vuole far intendere non tanto questo dolore privato, quanto il fatto che questi dolori riflettono i dolori pubblici della vita nello scacchiere indo-birmano. Un libro complesso, in fine, che non ci farà dire come vedendo Tara, che domani è un altro giorno. Ma che ci dà la speranza che qualcuno riprenda le fila di Uma, di Dinu, di Bela, per arrivare ad una vera pace delle proprie sensazioni. E della vita di ognuno. Che si ritorni presto in Myanmar, ce n’è bisogno.
“È così che succede con la politica, se ti lasci coinvolgere, cancella dalla tua vita tutto il resto.” (264)
“Negli ultimi anni avevo cominciato a occuparmi di molte cose che prima erano appannaggio di mamma o di papà… [ora non ci sono più, ma] quando mi sveglio la mattina … continuano a venirmi in mente … devo dire questo alla mamma. … Ma non è esattamente una pena o in dolore … ma ti manca il respiro e sembra di soffocare.” (383)
Seconda trama (a destra, dritto è il camino, come diceva...) ed ecco un bell’allegato molto “personale”, laddove io per primo dovrei vincere la tendenza a rimandare le cose da fare.
Certo, anche settembre sarà pieno di compleanni (ormai son pieni i mesi e i giorni), ma se ne parlerà a tempo debito. Come di viaggi, come di gite, come di altro.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2018
Un argomento che mi tocca da vicino e che dovrei affrontare senza perdere altro tempo…

PROCRASTINARE, TENDENZA A

Kazuo Ishiguro               “Quel che resta del giorno”
Perché fare oggi quello che può essere rimandato a domani? Perché ogni giorno che si lascia qualcosa di incompiuto questo qualcosa diventa più grande, mentre la motivazione per farlo diventa più piccola.
La procrastinazione, l’arte di rimandare le cose, non ha nulla a che vedere con la pigrizia, e nemmeno con l’essere troppo occupati. Le sue origini sono emotive. Molto semplicemente (e, potremmo dire, sensatamente) il temporeggiatore evita quei compiti che, consciamente o inconsciamente, lui o lei associa a sensazioni sgradite, come la noia, l’ansia o la paura di fallire. Il problema è che, una volta rinviato, un compito che probabilmente all’inizio era abbastanza realizzabile diventa più gravoso sia nella nostra immaginazione sia (spesso) nella realtà - finché non si trasforma in qualcosa di così opprimente che comincia a essere ragionevole differirlo a chissà quando. Se non fosse che mentre siamo occupati a posticipare per eludere quelle sensazioni spiacevoli, innumerevoli opportunità di felicità e successo - vite intere, di fatto - ci passano accanto. È questo senso di una vita vissuta a meta, e il forte rammarico che ne consegue, che dovremmo cercare di scongiurare - non qualche incresciosa emozione che comunque passa in fretta. Quello che serve ai temporeggiatori è dunque una lezione sulle conseguenze catastrofiche del loro atteggiamento. E a chi rivolgersi, meglio che al maggiordomo molto inglese e riservato di Darlington Hall, in “Quel che resta del giorno” di Kazuo Ishiguro?
Il signor Stevens è un vero esperto nello schivare le emozioni - tutte le emozioni. Il suo è il lavoro perfetto per questo, perché è convinto che ciò che distingue un grande maggiordomo da un maggiordomo che sia solo competente è la capacità di reprimere il proprio animo e mostrare in ogni momento una facciata esclusivamente professionale - come esempio, usa il maggiordomo che “non si fece prendere dal panico” scoprendo una tigre sotto il tavolo. Giustificando e proteggendo a questo modo il suo dominio di sé, Stevens passa la vita a concentrarsi su come essere il miglior maggiordomo possibile - anche quando capisce che il proprio capo, Lord Darlington, è un simpatizzante nazista, e anche mentre il padre sta morendo e vuole dargli l’ultimo saluto, ma lui non riesce a pensare ad altro che a correre al piano di sopra per servire il porto. E se la signorina Kenton, la governante, mostra interesse per lui, lui la respinge con freddezza e distacco, dalla sua fortezza inespugnabile.
Gli ci vogliono venti anni per rendersi conto di ciò che ha perduto. Per non avere agito quando si presentava un “momento di svolta” nella sua relazione con la signorina Kenton - ah, se avesse avuto il coraggio di rendersi vulnerabile, avrebbe potuto calare il ponte levatoio, uscire dalla sua roccaforte e permettersi di provare dei sentimenti - ha perduto la possibilità di sposarsi, e forse assicurare a entrambi una vita matrimoniale felice. Al contrario, ha vissuto come se avesse davanti a sé “una quantità infinita di giorni, mesi, anni in cui poter risolvere i capricci del [suo] rapporto con la signorina Kenton”. Adesso, naturalmente, è troppo tardi, e gli sono rimasti solo i miseri avanzi di ciò che resta della “sua giornata”. Quando se ne rende conto, anche una persona impassibile come il signor Stevens ha un cuore che può spezzarsi.
Temporeggiatore, sappilo: non hai a disposizione un numero infinito di giorni in cui portare a termine i compiti che ti impegni così tanto a rimandare. A forza di farlo, le emozioni negative si trasformeranno in ostacoli a una vita altrimenti produttiva e protesa in avanti. Che siano l’ansia o la paura ad accompagnare quei compiti, allargate le braccia e accogliete le vostre emozioni una per una. Invitatele a entrare e a sedersi, fatele mettere comode. Poi affrontate i vostri compiti in loro compagnia. Una volta iniziato, vi accorgerete che non si tratterranno a lungo; in realtà, probabilmente si alzeranno e se ne andranno immediatamente Quando avrete quasi finito, alzerete gli occhi e scoprirete sensazioni assai più piacevoli sedute al loro posto, in attesa di festeggiare con voi la conclusione delle vostre fatiche.

Bugiardino

Devo dire che, dopo aver visto il film, la lettura del libro conferma la bellezza delle idee alla base della scrittura del premio Nobel, ma anche la mia difficoltà a leggerne.
Kazuo Ishiguro “Quel che resta del giorno” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[tramato l’11 marzo 2018]
Avevo preso il libro di Ishiguro consigliato dalle libropeute per curare la tendenza a procrastinare. Poi, ne ho accelerato la letteratura sia per la sua nomina a Premio Nobel sia perché stavo visitando il suo paese natale. Pur apprezzando il libro, queste due ultime qualità non ne costituiscono un punto forte. Certo, l’autore è giapponese, e si nota nella cura dei dettagli, nella particolare attenzione alle atmosfere. Ma la scrittura, il senso che ne viene fuori è tipicamente, intrinsecamente inglese. Inoltre, non sempre il Nobel va ad autori a me congeniali, anche perché io da anni sostengo che vada assegnato ad Amos Oz, ed anche quest’anno sono stato deluso. Tra l’altro, ed in maniera del tutto casuale, nell’ultimo periodo ho letto diversi libri in seguito trasformati in film. Ed anche in questo caso, devo dire che il film, nella magistrale trasposizione di James Ivory, nonché nelle superbe interpretazioni di Anthony Hopkins ed Emma Thompson, si apparenta al libro, facendo diventare il complesso libro-film un oggetto leggermente superiore alle sue parti costituenti. Ma qui si parla del libro, che pur nella sua ben costruita struttura, in parte mi ha lasciato distante. Certo, il messaggio finale, su cui tornerò, fa riflettere, ma il personaggio Stevens spesso mi ha fatto innervosire, non riuscendomi empaticamente a calarmi nei suoi ragionamenti. Stevens è stato per decenni il maggiordomo di una nobile magione inglese, la dimora di Lord Darlington. Dove ha passato la vita, essendo figlio del maggiordomo precedente, ed ha visto anche passare la vita, assistendo, da spettatore e fedele servitore a diverse situazioni importanti. Ora, la dinastia dei Darlington è finita, e lui e la casa sono al servizio di un americano, mr. Faraday. Già lì, nella contrapposizione tra Vecchio e Nuovo mondo, Ishiguro riesce a farci percepire sia l’atmosfera inglese, sia la difficoltà di Stevens di stare al passo con i tempi. Lui non è fatto per un mondo di velocità ed informalità. L’occasione scatenante il lungo flusso di coscienza del maggiordomo è una lettera di una governante, a suo tempo a servizio nella stessa casa, Miss Kenton, che ora è sposata e vive altrove. Ma lui prende a pretesto la missiva per chiedere una settimana di ferie, e fare un giro nella campagna inglese per andarla a trovare. Il tragitto tra la casa e la Cornovaglia gli innesca un percorso a ritroso nella sua esistenza, dove va ripercorrendo i fasti di Darlington Hall, ma anche le sue piccole tappe private. Con la speranza, che quasi non vuole confessare a sé stesso, di poter recuperare occasioni perdute. Intanto ripercorre le sue tappe fondamentali, tutti i piccoli e grandi avvenimenti della sua vita, lui educato a reprimere ogni emozione, abitante di un ruolo che non dismette mai, in nessun momento della vita. Si sente anche parte della Storia, quando per la magione sembrano passare i destini dell’Europa, anche se dalla parte sbagliata che Lord Darlington era propenso ad una alleanza con la Germania hitleriana. Stevens rimane sempre e comunque impassibile, impassibile alla morte del padre, fermo nell’aderire alle richieste di Lord Darlington di licenziare due cameriere ebree, impassibile ai sentimenti che sembra, pare, ipotizza (ma lo pensa solo ora) possa aver avuto Miss Kenton nei suoi confronti. Ripercorrendo con onestà tutta la sua vita, si rende conto che avrebbe potuto fare altro, che avrebbe potuto far fronte in modo diverso ai piccoli incidenti che resero irrealizzabili i suoi grandi sogni. Sarà proprio Miss Kenton alla fine che gli aprirà gli occhi: non è possibile far andare indietro l’orologio del tempo, e poiché non esistono esistenze perfette, non ci resta che godere di quello che resta del giorno, e fare di questa che viviamo la parte migliore della propria esistenza. Ripercorrendo ora il libro, mi rendo conto che quello che più mi ha irritato è la mia somiglianza con l’atteggiamento di Stevens di ripercorrere ogni minima azione, per analizzarla, motivarla, inquadrarla, e accorgersi della mancanza di spontaneità che ne deriva. Certo, il punto centrale di Stevens è il concetto di dignità, di capacità di mantenersi coerente ad un ruolo in tutti i momenti della vita. Ma come Stevens alla fine ci domandiamo se sia giusto soffocare la propria personalità, oppure sia meglio reagire in nome di quell’onestà intellettuale che è parte integrante della coscienza. Una risposta, tacita, alla fine Stevens ce la propone, in un sussulto di coerenza con tutti i ragionamenti che lo hanno portato fino a lì. Se infine, ci rendessimo conto, al tramonto della nostra esistenza, di aver fatto le scelte sbagliate e di aver perso l'opportunità di essere veramente felici, dovremmo risponderci come fa sotto Miss Kenton.
“Ci si deve convincere che la nostra vita è altrettanto buona, forse addirittura migliore, di quella della maggior parte delle persone, e di questo si deve essere grati.” (263).

Conclusioni

Una volta tanto che c’è una concordanza piena. Se hai la tendenza a non affrontare i problemi, questo “è” il libro per noi.


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