Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo”
Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 19/01/2016 – I: 08/04/2018 – T:
13/04/2018] - &&
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[tit. or.: Love in a Cold Climate;
ling. or.: inglese; pagine: 280; anno 1949]
Certo è consigliato dalle mie libropeute
come coadiuvante per il raffreddore, ma se non avessi letto “Inseguendo
l’amore” non credo che avrei avuto voglia di affrontare questo secondo libro di
Nancy Mitford, né tanto meno il raffreddore (che poi sarebbe un po’ duro usarlo
come fazzolettino…). Infatti, questo libro ha un senso proprio perché lei ha
scritto e noi abbiamo letto “Inseguendo l’amore”. Questo infatti è il volume
centrale di una ipotetica trilogia che verrà conclusa con “Non dirlo ad Alfred”
(che tuttavia non è al momento tra i miei piani di lettura). Qui, la nostra
signorina di buona famiglia (anche se all’epoca della scrittura già
quarantacinquenne) continua a mostrarci il lato fatuo del mondo snobissimo
inglese tra le due guerre. Ma se nel primo c’era afflato, c’era pathos sia
umano che politico, qui si va tutto molto più sul leggero. C’è, ed è ovvio
nella storia della Mitford, la feroce critica al mondo fatuo e senza prospettive
della nobiltà inglese. Con tutta la grande famiglia che viene rappresentata,
cugini, zii, cognati, suoceri, perfino vicini di casa o di castello. Tutti
belli, tutti piani di gioielli in cassaforte, tutti senza una sterlina da
spendere per la casa. La narratrice qui diventa Fanny, che dal suo punto di
incontro con i parenti (più o meno tali) ci narra le gesta della famiglia
Montdore. Un a famiglia da poco tornata dall’India, dove il Lord signor padre
aveva pur un incarico di prestigio, ma dove c’è la figlia Polly, che ormai è in
odore di matrimonio. E non si può farla sposare con un meticcio indiano. La
madre, volenterosa e senza un briciolo di cervello, continua ad organizzare
balli e ricevimenti affinché Polly metta la testa a posto e faccia girare la
testa ai giovani di buon partito che ronzano intorno a tutto ciò. Tuttavia
Polly non metterà proprio la testa a posto. Anzi, con un colpo di testa decide
di sposare il vecchio e supersciocco zio. Un altro essere che gravita in quel
mondo fatiscente, che aveva l'unico pregio di essere stato per anni l’amante
della madre. Nancy ci descrive allora tutta una sequela di avvenimenti, che ci
lasciano non dico freddi, come l’more del titolo, ma addirittura gelati per lo
scarso coinvolgimento. Feste, scenate, cacce, abiti da giorno ed abiti da sera,
chiacchiere e pettegolezzi (sembra quasi di assistere al matrimonio di Harry e
Megan …), adulteri a ripetizione. Nonché lunghe pagine dedicate alla pesca
delle trote, che è una delle attività che a me hanno sempre fatto una repulsione
fisica (a meno di non parlare del libro di Richard Brautigan, ma quella è tutta
un’altra cosa). La nostra riesce a riempire pagine e pagine con i dialoghi tra
questi nobili carichi di una geniale stupidità. Ma alla fine, Polly non viene
perdonata per il suo colpo di testa. Anzi viene diseredata ed allontanata da
casa. Così, il bel patrimonio cui avrebbe avuto diritto, unica figlia di Lord
Montdore, viene a cadere sulla testa di un lontano cugino, unico erede maschio,
che vive in Nuova Scozia (che per i non informati non è in Inghilterra ma in
Australia). Rintracciato e convinto a venire, l’erede sarà la sorpresa finale
della vicenda: bello, frivolo, allegro. Ma soprattutto, molto, ma molto gay.
Proprio questa sua non coinvolgibilità, fa in modo di dare nuova linfa a Lady
Montdore, che al suo braccio riprende la vita mondana ripudiata per la vergogna
di Polly. Vi lascio, se vi interessa, gustare gli ultimi intrecci e la fine
della fiaba. A me, ripeto, il primo libro era sembrato interessante ed esemplificativo.
Questo invece solo ripetitivo. Ma come detto c’è un legame forte tra i due, pur
nel mutare dei nomi. O anche nel non cambiarli, laddove vediamo ad esempio
Fabrice de Sauveterre (che nel primo ha un suo ruolo ma che non ripetiamo qui)
a colloquio con Fanny, dove, esemplificando la leggerezza mondana del libro, la
Mitford gli fa descrivere come le donne francesi sappiano meglio tenersi i loro
amanti vicino, rispetto all’insipienza delle donne inglesi. Lettura fuori di
metafora, che Fabrice è nient’altro che la trasposizione di Gaston, amante per
anni entrato e uscito dalla vita di Nancy, e ultimo uomo cui la nostra diede la
mano stringendola mentre moriva del linfoma di Hodgkin. Grazie per le lezioni
di snobismo, cara sorella Mitford, ma penso che la nostra frequentazione
finisca qui.
“Ti ho preparato per il matrimonio, che a
mio parere … è di gran lunga il lavoro migliore per una donna.” (115)
“I cani e gli esseri umani non sono la
stessa cosa … ma per … invece lo erano, anzi, per loro i cani erano tutto
sommato più reali delle persone.” (127)
“Passare il tempo a leggere libri va bene
per gentucola come voi.” (194)
Elena Ferrante “Storia di chi fugge e di
chi resta” E/O s.p. (Regalo di Natale di Bene&Fra)
[A: 25/12/2017– I: 13/05/2018 – T: 18/05/2018]
- &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 382; anno 2013]
Concludevo la lettura e la trama del secondo
libro della geniale amicizia di Elena Ferrante con il voto di poter leggere gli
altri volumi sperando di averne in regalo da chi mi aveva omaggiato con i primi
due. Per ironia della sorte o del caso, i due ultimi (ultimi?) volumi mi sono
stati invece sempre regalati da una coppia, passando da Rosemilio a Benefra. Ma
non di questo voglio parlare, ma solo ricordare di passaggio. Vorrei invece
andare subito al libro e nel libro. Di quelli ad ora letti, devo dire che è
quello che meno mi è piaciuto, quello con cui meno sono entrato in sintonia.
Anzi, la parte finale l’ho trovata dura da leggere, non riuscivo a progredire,
laddove la trama ed il testo si andavano infilando in cul de sac prevedibile e
scontato. L’altro dato che emerge da questo terzo libro è lo spostamento sempre
più accentuato dell’attenzione da Lila a Lenù. Sebbene non sappia dirvi se sia
un bene o un male, è da constatare e sottolineare. Lenù ormai ha la maggior
parte della vita lontana da Napoli, ed i suoi rapporti con la città e con l’amica
sono sempre più telefonici e distanti. Abbiamo così le loro due storie che
proseguono, a volte si intrecciano, ma come i binari forse si incontreranno
solo all’infinito (vedremo nel prossimo volume). Quindi a Napoli abbiamo Lila
che continua a vivere con Enzo e Rinuccio in quel di San Giovanni a Teduccio,
in quelli che saranno gli anni Settanta (e quindi con le protagoniste che si
avviano ai trenta anni essendo nate, come sappiamo, nel 1944). Lila lavora in
fabbrica, sopporta angherie varie. Enzo fa lavori oscuri e studia la sera su
libri di programmazione, capendo, intuitivamente, quale sarà il prossimo
futuro. Lila fa uscire la sua coscienza politica con le prime lotte in
fabbrica, e lì la nostra autrice ha buon gioco nel descrivere il clima italiano
e napoletano di quegli anni. Studenti velleitari a volantinare davanti alle
fabbriche, operai che non capiscono che cosa si vuole da loro, padroni e
fascisti alleati a reprimere, con la forza, tutte le manifestazioni del
dissenso. Lila si ribella, Lenù l’aiuta pubblicando un articolo sulla fabbrica,
Lila viene licenziata, anche perché sono sempre i cattivi Solara che hanno in
mano la fabbrica. Lenù che con i suoi contatti derivanti dallo sposo (su cui si
tornerà) procura un nuovo posto di lavoro a Enzo e Lila, nel centro informatico
che la IBM inaugura a Bagnoli (e la storia dell’informatica di allora di
intreccia con la mia storia, che alla fine degli anni ’70 anche io entrai in
quel mondo, pensando durasse poco, e ne sono uscito solo 35 anni dopo). Enzo e
Lila che, forse, cominciano ad avere una “loro” storia d’amore, ma lì, in IBM,
Enzo guadagna più di Lila (solita disparità uomo-donna) tanto che alla fine
Lila accetta il ruolo di capo informatico nella nuova industria messa in piedi
proprio da Michele Solara, il cattivo, mafioso ed antipatico, che dal primo
libro la insidia. Lila dice che sarà lei ad usare Michele, mentre Lenù sostiene
il contrario. Vedremo. In parallelo, ma sempre più in primo piano, seguiamo
invece la storia di Elena Greco. L’avevamo lasciata all’uscita del suo libro ed
all’incontro con il mai sopito amore di Nino Serratore. Ma Lenù procede, anche
se non a grandi passi. Sposa, ma solo civilmente, Pietro Airota, alla cui
famiglia si è appoggiata per allontanarsi da Napoli ed avere una sua
indipendenza. Aiuta Lila nelle lotte sindacali, inimicandosi l’ala estrema dei
movimenti napoletani, esemplificata da Pasquale Peluso (il primo che si
innamorò di Lenù) e da Nadia Galiani (la figlia della professoressa). Ma la
vita di famiglia la prende oltre misura. Fa due figlie, Dede e Elsa. Si inimica
la sorellina Elisa che si fidanza con l’orrido Marcello Solara (si quello dei
camorristi). Vede passare da Firenze Pasquale e Nadia, avviati (noi lo
sappiamo, loro no), alla lotta armata. Elena prova a continuare a scrivere, ma
non ci riesce più. Trova un aiuto, parziale e laterale, da Mariarosa, la
sorella di Pietro, diventata super-femminista. Per tutto il libro assistiamo
alla caduta verso lo sfacelo della vita di Elena, ce ne accorgiamo noi, forse
anche gli amici, ma lei no. Sarà il ritorno alla ribalta di Nino che provocherà
una svolta. Nino che ha fatto un figlio (Rinuccio) con Lila, Nino che ha fatto
un figlio (Mirko) con Silvia di Milano, Nino che ha sposato Eleonora ed ha
fatto un figlio (Albertino) con lei. Nino che le professa il suo immutato amore
sin dai tempi di Ischia (ma perché non lo fece allora? Perché si mise con
Lila?). Ed Elena cade con tutte e due i piedi nel trappolone amoroso. Certo,
questo gli dà la spinta di riprendere la scrittura, che la quotidianità e la
poca verve di Pietro le avevano spento. Il libro finisce con la fuga d’amore di
Elena e Nino, che abbandonano i rispettivi figli per una settimana a
Montpellier. Finisce anche con Lila che questa volta prende lei a male parole Elena,
così come questa aveva fatto all’epoca del matrimonio dell’amica. Trovo che il
libro (non la scrittura) si stia troppo scentrando. Come parlare a nuora perché
suocera intenda. Proclamare tutto l’interesse per l’amica geniale, e passare
quasi mille pagine a parlare di sé. Vedremo nel quarto libro come tutto ciò
andrà verso il suo fine. Sono stato contento, andando in giro per il mondo di
vedere i libri della Ferrante in molte librerie, soprattutto anglosassoni. Sono
contento del successo di una scrittura che non può che portare lo straniero
ignaro a cercare di capire meglio Napoli ed il nostro tormentato Sud. Tuttavia
questa svolta non mi è piaciuta, penso che questo sia il meno belli dei tre
libri che ho letto. Troppa carne al fuoco, perché si passa anche dall’analisi
della sola Napoli ad un voler mescolare tutto, nel calderone dell’avanzare dei
giorni e degli anni: economia, politica, carriera universitaria, nascita
dell’informatica, terrorismo. Un romanzo non è (sempre) un calderone che
contiene tutto. Basta alla sua esistenza che contenga anche una sola idea che
ci coinvolga, che ci faccia pensare. Vorrei sempre leggere un libro, non una
sintesi wikipediana del mondo. Vedremo, vedremo, vedremo.
“Ebbi
la certezza che gli volevo bene, era una persona che sapeva il suo valore e
tuttavia, se necessario, si dimenticava di sé con naturalezza.” (83)
Elena Ferrante “Storia della bambina
perduta” E/O s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A: 07/05/2018 – I: 02/06/2018 – T: 12/06/2018]
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e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 451; anno 2014]
E con questo quarto volume si chiude la
grande “saga” di Elena Ferrante intitolata “L’amica geniale”. Per i maniaci
della precisione riporto in fondo l’elenco completo delle “puntate” così come
risulta dallo scritto stesso dell’autrice. Intanto, riprendo, ribadisco ed
approfondisco il giudizio, che questo libro mi è piaciuto ancora meno del
precedente. Sarà che finalmente esce allo scoperto (ma lo dirà solo a pagina 438,
e io non vi dico cosa dirà), sarà che abbraccia un arco di tempo lungo, troppo
lungo, sarà che questo è il tempo (anche) mio, ma la lettura che ne dà
Greco/Ferrante è troppo poco incisiva. Non che io abbia desiderato un libro
politico, non è questo il luogo, ma se si danno pennellate sulla vita che ci ha
visto presenti ed attivi, avrei bisogno di qualche scatto in più. Scatto
morale, scatto politico. Invece, continuando l’equilibrismo tra pubblico e
privato, non si dà luce né all’uno né all’altro. Continuiamo così a seguire le
vicende delle due amiche. Come sappiamo Elena lascia il marito per Nino, che
però non lascia la moglie. Nino è sempre stato un personaggio a me antipatico.
E qui, pagina dopo pagina, scopriamo fino a che punto lo è. Non lascia la
moglie, con cui fa un altro figlio. Fa una figlia con Lenù, che verrà chiamata
Imma. Continua a tradirla senza che lei se ne accorga. Ci impiegherà una vita,
ma alla fine lo caccia via. E di Nino seguiamo tutta la parabola personale e
politica: barricadero in gioventù, poi comunista ma moderato, negli anni ’80
socialista ed onorevole, quindi travolto da “Mani pulite” (ma che la Ferrante
non cita mai con il suo nome), poi riciclato in qualcosa tipo “Forza Italia” o
giù di lì. Insopportabile. Soprattutto, nell’atteggiamento verso le donne. Non
se ne lascia scappare una. E Lenù, occhi foderati d’amore, faticherà una vita a
capirlo. Lenù che scrive di meno, affogata tra la cura di Dede, di Elsa, di
Imma. Che è tornata a Napoli. Che ha ripreso le vecchie ragnatele di rapporti.
Che si ritrova con Lila. Lila fa anche lei una carriera folgorante, ma nel ramo
informatico. Si mette in proprio con Enzo, sfrutta per prima le molte
possibilità dell’elettronica, continua a fare sgarbi ai Solara, a tutti e due i
fratelli camorristi, ed alla fine con Enzo fa anche una figlia Tina. Qui la
Ferrante mette il pezzo forte di questo ultimo libro: non si sa come, né forse
esattamente perché, durante un momento convulso della vita di Lila, Lenù, Nino
e le figlie, scompare Tina. E non sarà più ritrovata. Ormai la strada è in discesa,
ed il libro non farà altro che percorrerla tutta, attorcigliandosi intorno ai
rimpianti di cosa poteva essere e non è stato. Ma se Lila si “liquefà” intorno
a questo avvenimento, non ne uscirà più (e con ragione), andando sempre più
alla deriva, con mestizia, a volte, ed a volte con cattiveria. Sino alla
conclusione che conosciamo sin dal primo libro. Perché è quella conclusione che
ci viene presentata nel prologo, e che ora ci si ripresenta. Senza soluzioni,
che la vita non sempre chiarisce tutto (non siamo certo in un romanzo giallo).
D’altra parte invece, abbiamo Lenù, che si rimette a camminare con le proprie
gambe, che non dipende (cerca di non dipendere) né da Pietro né da Nino. Ma
trascura le figlie, che ben presto crescono ed avranno voglia di vedere altro
nel mondo. In questo aiutate più da Pietro che da altri. Elena, in questo
crescere tormentato, (ri-)scopre l’amore per la madre Immacolata e la assiste
nella sofferenza e nel trapasso. Elena continua a combattere per continuare a
scrivere, per essere sé stessa, anche se la colpa di non seguire le figlie da
vicino la spezza interiormente. Ma lei ha bisogno di scrivere, di viaggiare, di
girare l’Europa, e tanto altro. Ha bisogno di tempo per continuare a scoprire sé
stessa, per continuare a sentirsi o ad essere indipendente. Lina e Lenù vivono
l’approssimarsi della vecchiaia, della morte, in parallelo, vicine ma ognuna
per proprio conto. Lila affoga le sue angosce nel tentativo di scoprire i
misteri di Napoli, leggendone e scrivendone, ma solo per sé stessa. Ma quando
Elena le chiede di ripensare a questi cinquanta, e poi sessanta anni, e poi
quanti altri ancora, ecco che Lila esce fuori con una delle sue frasi che vanno
dritte al cuore, al cuore dell’amica e dei problemi: “Stai invecchiando come si
deve … hai smesso di essere figlia, sei diventata veramente madre.” Poi le
figlie di Elena vanno a vivere all’estero, Elena scrive un’ultima storia sulla
sua amicizia con l’amica. Con la speranza che Lila possa finalmente vivere una
vita sua, secondo i suoi canoni, che i legacci della vita le avevano impedito
di seguire. Speranza vera? Speranza folle? Speranza di due amiche che forse
sono entrambi geniali, almeno in alcuni ambiti. Perché come sappiamo, è
difficile, forse impossibile, essere geniali, essere intelligenti “a tutto
tondo”. Ci saranno sempre per ognuno delle zone d’ombra. Ci sarà sempre qualche
pagina di troppo scritta dalla Ferrante per questa storia, che, finalmente,
dopo più di 1500 pagine giunge al suo termine. Come ho più volte ripetuto, la
scrittrice è potente, è da leggere, è da seguire. Ma solo il secondo di questi
quattro libri mi ha coinvolto e convinto. Il resto l’ho letto, e lo rileggerei
se non lo avessi fatto. Ma lasciandomi tutte le perplessità del caso. Troppo
lontano dalle mie sensazioni il primo libro sull’infanzia, troppo privo delle
mie sensazioni questo che dovrebbe parlare degli avvenimenti a me
contemporanei. Comunque, sono anche contento che questi libri mi siano stati
regalati. Che un pensiero è trapelato tra tutte queste ombre e tutte queste
luci. Un pensiero che è mio, e lì rimarrà. Buona fortuna, Ferrante, che in
tutto il mondo ormai c’è la “Ferrante fever”.
“Quando la testa mi dice: è meglio che fai
in questo modo, lo faccio e non ci penso più. Se ci torni sopra fai solo guai.”
(233)
“Ogni rapporto intenso tra esseri umani è
pieno di tagliole e se si vuole che duri bisogna imparare a schivarle.” (429)
Indice
completo dell’opera “L’amica geniale” (1630 pagine)
PROLOGO Cancellare le tracce
INFANZIA Storia di don Achille
ADOLESCENZA Storia delle scarpe
GIOVINEZZA Storia del nuovo cognome
TEMPO
DI MEZZO Storia di chi fugge e di chi
resta
MATURITÀ Storia della bambina perduta
VECCHIAIA Storia del cattivo sangue
EPILOGO Restituzione
Patricia Highsmith “Carol” Bompiani euro 10
[A: 25/03/2016 – I: 28/06/2018 – T: 02/07/2018] - &&&&
[tit. or.: Carol or The Price of Salt; ling. or.: inglese; pagine: 284; anno 1952]
Assolutamente da leggere, sia che si sia
visto il film con Cate Blanchett, sia che lo si ignori completamenti. Anche se
uno conosce la saga di mr. Ripley (soprattutto nella splendida trasposizione
che ne fece Wim Wenders, e che vidi con il mio allora cognato al cinema
Arlecchino vicino Piazzale Flaminio, ora scomparso) e conosce o meno Patricia,
va letto. Anche se uno sa soltanto l’esistenza della splendida idea di
“Sconosciuti in treno” che Hitchcock fece diventare il meraviglioso “Delitto
per delitto”, va letto. Il secondo libro della scrittrice americana, dopo il
precedente degli sconosciuti, invero ebbe difficoltà ad essere pubblicato, per
la sua tematica “forte” per gli anni Cinquanta americani. Tanto che la
scrittrice preferì utilizzare lo pseudonimo di Claire Morgan, al fine di non
essere etichettata come spesso il mondo delle lettere americane fa. Perché dopo
gli sconosciuti, era diventata una scrittrice di “gialli”; dopo Carol, sarebbe
diventata una paladina LGBT; dopo la saga di Ripley, una scrittrice di “noir
psicologici”. Insomma, nessuno avrebbe visto lei come una scrittrice e basta.
Pesante, la cappa americana di censura sessuale, che costrinse, moralmente
Patricia ad emigrare in Svizzera nel 1982, ed a riconoscersi autrice di questo
libro solo nel 1989. Un libro, che come lei stessa dice nella breve post-fazione,
riflette l’inizio di una sua personale vicenda: aver visto una splendida donna
fare acquisti, mentre lei, Patricia, per guadagnarsi da vivere, faceva la
commessa da Bloomingdale nel periodo natalizio in un reparto per bambini. A
contatto con i “piccoli mostri”, Patricia prese la varicella, si mise a letto
per un mese, e rielaborò la vicenda in questo libro. Che non ha una grande
storia, non ha dei grandi passaggi, ma è pieno di amore, di descrizioni delle
sensazioni che si provano durante il rapporto tra due persone (vicinanza, lontananza,
attrazione, repulsione, ed anche un totale miscuglio di tutto ciò). Therese
commessa, vicina a Richard “perché è buono”, ma senza esserne innamorata, viene
folgorata da Carol. Che acquista una bambola per la figlia. Therese, essendo
vicino il Natale, le manda un biglietto di auguri, e da lì comincia la storia.
Da un lato c’è Therese con il mondo maschile: commessa per avere qualche
dollaro, ma scenografa, anche con talento, di professione. Non riesce a trovare
incarichi, si accompagna con Richard, un amico del quale gli procura un piccolo
ingaggio. È abbastanza vicina, con la testa, a Dennie. Ma non è quello il “suo”
universo. Certo, è una giovane anche colta, ha letto James Joyce e Gertrude
Stein, cita Picasso e Mondrian e Cezanne. Insomma, non è lì per caso. Ma è il
caso che le mette Carol davanti. Una donna sposata “per convenzione”, con una
figlia che adora ed un ex-marito che vuole il divorzio perché Carol è un po’
“deviante”. Fin da bambina ha avuto, ha una storia con Abby, anche se è più nel
ricordo infantile di loro due bambine sui dodici-quattordici anni, che sulla
loro vita attuale di trentenni. Ma Abby, pur ormai ex, è sempre presente, la
aiuta, la consiglia. Fa anche un esame, suo, alla giovane Therese, che ha 19
anni, è immigrata (quindi straniera), ha vissuto in un orfanotrofio perché
abbandonata dalla madre. Ma Therese una volta vista Carol, non ha più altro in
mente. Riesce a mandare a quel paese l’inutile Richard. Entra ed esce dagli
appuntamenti con Carol, con tutta la leggerezza di una persona innamorata. Finché
le due decidono di fare una scorribanda in macchina per le strade americane.
Momenti di piena felicità, ma anche di angoscia. Che il marito cattivo le fa
pedinare da un investigatore, al fine di usare la sessualità di Carol per
toglierle la figlia. Non solo ma per arrivare ad una ordinanza di “completo
allontanamento”. Assistiamo all’alternanza, sempre comunque con gli occhi di
Therese, tra i suoi momenti soggettivi d’amore, e l’analisi del comportamento
degli altri, ed in particolare di Carol. Che, colpita quasi a morte, torna a
New York per la causa, lasciando Therese a girellare tra la Iowa ed il
Missouri, prima di tornare anche lei A New York, via Illinois e Pennsylvania.
Le ultime 40 pagine sono le più intense. Patricia scopre le carte sino in
fondo: una lettera di Carol illuminante, i pensieri di Therese che sta
maturando, la delusione che prova vedendo Carol “costretta” a scegliere tra lei
e la figlia. Fino ad un finale che finalmente non vi svelo. Avete visto il
film? Lo conoscete. Non lo conoscete? Leggete il libro. Una maestria di parole,
a volte acerbe (l’autrice è anche lei under 30). Ma che svelano, e con il suo
cuore in mano, tutta la vita di Patricia. Quella prima e quella futura fino alla
morte più che settantenne in una Svizzera più tollerante dell’intollerante,
ingiusta, impossibile America.
“Cosa
fa di una commedia un classico? … Un classico è qualcosa che ha alla base una
situazione umana.” (157)
Ancora alle prese con tutte le sistemazioni
di case e cose, ancora alle prese con scuse che girano e che non riesco a far
partire. Ancora alle prese con una programmazione prossima ventura che non mi
dà serenità. Ma sempre con qualche amico da incontrare e salutare (vero Vito?).
E tanti altri da abbracciare e salutare.
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