Martin Suter “Allmen e le dalie” Corriere
della Sera Arte 3 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 08/04/2018 – T:
10/04/2018] - &&
-
[tit. or.: Allmen und die Dahlien;
ling. or.: tedesco; pagine: 219; anno 2013]
Una
prova decisamente poco riuscita. Per la collocazione e per il romanzo in sé.
Perché se parliamo dello spirito della collana, “l’arte come un romanzo”,
dobbiamo dire che tutto il libro, pur girando intorno alle “Dalie” dipinte da
Henri Fantin-Latour, non tocca né il pittore né altro vicino a lui, ma qualcosa
forse di vicino ai quadri, anche se in modo trasversale: quadri rubati,
nascosti, collezionisti rapaci, ed altre vicissitudini laterali. Tra l’altro,
il protagonista, l’Allmen del titolo fa di nome completo Johann Friederich von
Allmen, un “nobile” molto blasé, decaduto tanto da aver venduto le proprietà
avite, e che, per vivere decide di sfruttare l’unica cosa che conosce: l’arte.
Non potendo diventare un mercante d’arte, tuttavia, si accontenta di fare il
ritrovatore di bellezze perdute (in genere rubate). In questo aiutato dal
cameriere tuttofare Carlos, bravo, intelligente ma senza permesso di soggiorno,
e dalla di lui donna Maria. Questo tuttavia lo desumiamo da qualche brano del
romanzo e da un po’ di ricerche in rete per informazioni ed altro. Che questo,
in effetti, è il terzo volume delle gesta del nobile in questione, scritte,
insieme a tante altre cose non tradotte in italiano, dallo scrittore svizzero
di lingua tedesca Martin Suter. Ora, fatto salve le simpatie o meno verso la
nostra vicina nazione, non è che ci siano grandi masse di scrittori svizzeri.
Io poi di svizzeri tedeschi in realtà conosco solo Max Frisch e Friedrich
Dürrenmatt. Ovviamente di tutt’altra levatura. Ma torniamo al punto di
partenza. Scrittore svizzero, ambientazione zurighese, sentori di decadenza e
ricordi asburgici. Eppur tuttavia una scrittura poco coinvolgente. Così come la
trama. Una ricca ereditiera ritiratasi dalle scene pubbliche ingaggia il nostro
Allmen per ritrovare un quadro di dalie di appunto Fantin-Latour che le è stato
rubato. Quadro che a sua volta deriva da una refurtiva per cui non può
intervenire la polizia. Quando la nostra signora Dalia Gutbauer (capite perché
le regalavano certi quadri…) era al centro dei pettegolezzi e dei gossip si
accompagnava con un bel signorino che tuttavia non era altro che il secondo di
un ladro gentiluomo. Sfarzi, bel mondo, poi il ladro viene preso, ma i due
continuano a fare la bella vita. Tanto appunto che Frey ruba le Dalie per lei.
Poi i due fuggono lontano dai riflettori in Sud America, finché Frey non
tradisce Dalia, lei lo lascia affondare, ritornando a fare vita ritirata a
Zurigo. Prendendosi però le sue rivincite: compra lo Schlosshotel dove ora
vive, compra la direttrice facendola diventare sua schiavetta, e fa rifugiare
nelle sue stanze sia Frey che la sua amante, anche se entrambi sulla via del
declino. Ad un certo punto compare un nipote di Frey, anche lui legato al
demi-monde tra ricchezza e malaffare. Legato ad un mafiosetto che sta insieme
ad una escort italiana, le vuole a sua volta regalare un quadro di dalie di
Fantin-Latour (e sui quadri torneremo poi). Perde l’asta, ma quando il nipote
gli dice del quadro nell’hotel organizza un nuovo grande furto. Convince il
nipote a circuire la factotum, i due insieme rubano il quadro e lo portano a
casa dell’italiana. Allmen capisce tutto il giro, con l’aiuto di Carlos e Maria
(soprattutto di questa che fa assumere in albergo per vedere le segrete mosse
dei personaggi lì raccolti) inscena una contromossa mettendo in difficoltà il
nipote, che deve scegliere tra galera e delazione. Così restituisce il quadro
alla signora. Tutto bene? Tutto finito? no, perché nelle ultime pagine il
mafioso rapisce Maria chiedendo ad Allmen uno scambio. Ora vi aspetterete che
io parli di cosa succede a questo punto. Invece no, e non perché sia
particolarmente cattivo, ma perché il libro inopinatamente finisce qui. Il
seguito al successivo libro di Suter, che guarda caso si intitola “La
sparizione di Maria”, che io tuttavia non credo che leggerò. Anche se,
stranamente, a parte questa poco brillante collana, i libri di Suter escono in
Italia per i tipi della Sellerio, che generalmente produce sempre delle opere
di buon livello. Torniamo per finire allo spirito della collana. Perché questo
è un giallo poco convincente in cui in duecento pagine si parla in un paio di
quadri. Si descrivono le dalie del buon francese, con qualche accenno ai
colori. E niente più. Che passò lateralmente alla stagione degli impressionisti
francesi, benché coevo di Monet, di Renoir e degli altri. Ma non aderì al
movimento, rimanendo legato ai suoi due temi principali: le nature morte ed i
quadri affollati di persone (come il bellissimo “Le coin du table” dove tra gli
altri ritrae Verlaine e Rimbaud). Tra le nature morte i critici ritengono che
siano le rose quelle maggiormente dipinte dal pittore, anche se anch’io ricordo
le sue Dalie al Museo d’Orsay. O anche le Dalie in un vaso cinese, il cui
particolare è riprodotto nella copertina del libro. Non si ha invece notizia di
Dalie rubate (o almeno io non ne ho trovate). Speriamo meglio altrove.
Susan Hill “L’uomo nel quadro” Corriere
della Sera Arte 25 euro 7,90
[A: 10/01/2017 – I: 23/05/2018 – T:
25/05/2018] - &--
[tit. or.: The Man in the Picture;
ling. or.: inglese; pagine: 153; anno 2007]
Forse sono un poco ripetitivo, ma continuo a
lamentarmi di questa promettente ma deludente collana. Ancora un libro che
parla di quadri, ma utilizzandoli in modo “altro”. Perché, come dice il titolo
originale, non riportato nelle edizioni italiane, questa è una “Ghost story”.
Quindi, mentre io mi aspetto qualcosa alla moda di “L’orecchino di perla” o
simili, qui si continua invece ad usare la collana come veicolo di libri che
poco spazio hanno avuto nella distribuzione normale. Sarà inoltre un caso, ma
molte delle iniziative del Corriere utilizzano i libri della “Polillo editore”,
quasi ci fosse un patto di aiuto più o meno velato. Ma si sa, io sono malfidato
e della scuola andreottiana (“A pensar male degli altri si fa peccato ma spesso
ci si indovina”, anche se la frase, realmente, appartiene a Pio XI). Comunque,
veniamo al libro ed all’esimia autrice, ormai quasi più vicino agli ottanta che
ai settanta, autrice “cult” in alcune zone inglesi, sia per una sua serie
particolarmente seguita (dedicata all’Ispettore capo Simon Serrailler), sia per
alcune sue scelte di vita negli ultimi dieci – quindi anni (divorzio dal
marito, e convivenze con signore) diventando un alfiere, anche se non proprio
eclatante, del mondo LGBT inglese. Mondo verso cui non ho alcuna preclusione,
ma che tuttavia, in libri come questo, potrebbe essere accantonato. E lo dico
perché alcune affermazioni mi sono sembrate stonate, e dedite a mostrare il
libro in una luce non sua. Libro che d’altronde, non ho certo trovato né
eccelso, né di gradevole leggibilità. Certo le 150 pagine scorrono velocemente,
anche perché stampate in caratteri larghi (forse per ipovedenti). Ma la storia
non prende, non ha sugo, non ha spiegazioni plausibili, e lascia molto di già
sentito e rimasticato. Certo una “ghost story” non è una “crime story” dove
sarebbe un delitto (ah, ah) non spiegare gli avvenimenti. Qui l’autrice cerca
di inserirci nel clima delle campagne inglesi, dove un giovane professore di
storia va a trovare un suo anziano maestro in quel di Cambridge. E dove questi,
logorato da anni di pensieri, non trova di meglio che scaricare sul giovane
Oliver le sue angosce riguardo ad un quadro, che si trova appeso nella sua
biblioteca, e che ci viene descritto con dovizia di particolari (scena
carnevalesca in quel di Venezia, con alcuni elementi di spicco: una persona
affacciata ad una finestra, una dama con una maschera bianca, una persona in
primo piano presa tra due energumeni e con la faccia spaventata). Il vecchio
Theo ci racconta quindi la storia del quadro (abbiamo quindi Oliver che
racconto come Theo racconti), che ben presto risale alla storia di una strana
contessa della campagna inglese (Oliver che racconta di Theo che racconta della
contessa che racconta). E per fortuna ci si ferma qui, nella nidificazione. A
questo punto dipaniamo noi la storia. La contessa si innamora di Lord Lawrence,
che per lei lascia l’italiana Clarissa. Questa giura vendetta, tremenda
vendetta, e dona, come regalo di nozze, un quadro alla coppia. Sì è ovvio,
quello di stile veneziano. Appena ricevuto il quadro, muore il padre di
Lawrence. Per riposarsi di un periodo particolarmente faticoso, poi, sapete
cosa fa la coppia? Decide di andare a Venezia! Se siete smaliziati, vi
domanderete, così come di fronte ai film “horror”: ma se c’è un pericolo in
cantina, ci si va forse senza lampade? Se Venezia fa paura (nel quadro, e la
contessa già comincia ad aver paura), si va a Venezia? Ovvio che Lawrence a
Venezia scompare, per apparire “nel quadro” (pare sia lui quello con la faccia
spaventata). Non solo, mala contessa è incinta, nasce Henry che a 18 anni viene
circuito dalla vegliarda Clarissa (che ha almeno venti anni più di Henry).
Seguono peripezie poco importanti, fino a che Henry e Clarissa muoiono, la
contessa torna in possesso della magione avita, ma non del quadro. Che sembra
scomparso, ma che viene acquistato ad un’asta da Theo. Che lo tiene per anni,
fino a che la contessa non riesce a rintracciarlo. Ma Theo è caparbio e non lo
cede. Peccato che mentre Theo finisce il racconto, anche lui muoia (ma perché
se Clarissa aveva maledetto la famiglia di Lawrence, muoiono quelli che entrano
in contatto con il quadro anche se non c’entrano nulla?). Oliver tornato a
Londra turbato decide di sposarsi. E sapete dove va in viaggio di nozze? Ma a
Venezia (no comment). E sapete cosa riceve in eredità dalla morte del vecchio
Theo? Ma il quadro (ari no comment). Non vi toglierò le castagne dal fuoco
svelandovi il finale, leggetene se ne avete il coraggio. Tuttavia, nessuno
spiegherà come mai il quadro ha il potere del ritratto di Dorian Grey di
interagire con il mondo. Qualche pennellata sul mondo di Cambridge, sulla
campagna inglese, e qualche stereotipo su Venezia ed il suo Carnevale. Molto
poco d’altro. Soprattutto nulla di artistico. Lo eviterei, se non costretto.
Antoine Choplin “L’airone di Guernica”
Corriere della Sera Arte 23 euro 7,90
[A: 20/12/2016 – I: 26/05/2018 – T:
28/05/2018] - & e ½
[tit. or.: Le Heron de Guernica; ling.
or.: francese; pagine: 158; anno 2011]
Continua la cattiva performance di questa
collana, cui avevo riposto più speranze di quante buone notizie ho ricevuto.
Ora, non è che il buon Choplin sia scarso di lettere e di talento. Ha comunque
un diploma in matematica, e già questo lo colloca tra le persone da osservare.
È poeta, innanzi tutto, e soprattutto direttore del festival teatrale “de
l’Arpenteur” in Auvergne. La cosa che mi ha sorpreso è leggere che questo libro
fu scelto come miglior romanzo francese dell’autunno 2011. Ora, niente contro
questo libro, e poco sulle uscite post estive d’oltralpe, ma se questo è il
migliore… Ripeto, non è che sia brutto, né che sia scritto male, né infine che
non abbia un tema accattivante. Ma la resa complessiva è di poco rilievo. È un
libro che si scaglia conto la guerra e tutti i massacri, e lo fa molto
sottovoce, ma lo fa. È un libro che uno legge il titolo e dice: “Ok, dov’è
Picasso?”. C’è il buon Pablo, con il suo dipinto (ricordo che è un olio su tela
grezza, iuta credo, di 3,50 metri x 7,80 m), che fa capolino nel prologo, e si
prende alcune pagine nell’epilogo, anche se non se ne descrive mai il contenuto
pittorico. Un quadro commissionato dai Repubblicani Spagnoli per l’Esposizione
Internazionale di Parigi del 1937, e che Picasso, dopo aver iniziato altro,
cambiò totalmente alla notizia della distruzione della città basca di Guernica
da parte dei bombardieri tedeschi. Il bombardamento di Guernica avvenne il 26
aprile del 1937, praticamente nel 570 anniversario della fondazione della
città. Picasso iniziò a lavorare al progetto il 1 maggio e terminò il dipinto
il 4 giugno. Sebbene l’Esposizione si aprì il 25 maggio, il dipinto fu portato
nel Padiglione Spagnolo solo nel luglio del ’37. Suscitando scalpore, come
ovvio, dato anche lo svolgimento ancora in corso della Guerra Civile in Spagna.
Guerra che terminò solo nel 1939, con la vittoria di Franco, motivo per cui
Picasso decise di spostare il dipinto oltreoceano. Dove, dal 1940 al 1981 ebbe
dimora al Moma. Solo nel 1981 fece ritorno in Spagna, ed ora è visibile al
Museo Nazionale Reina Sofía. Purtroppo, non è di questo che ci parla Choplin,
ma di tal pastore – pittore Basilio, residente appunto in quel di Guernica, e
lì dedito a dipingere aironi. Certo, lavora per mantenersi, si fa aiutare
dall’amica Maria e dallo zio Alfonso. Ma la sua attività principale è andare
per stagni, e star lì ore ed ore a dipingere aironi. Di certo bellissimi, di
certo colti in molte sfaccettature. Ma non è di arte che vive Basilio. Infatti,
lo vediamo andare al mercato a vendere un maiale e un sacco di fagioli. Lo
vediamo aiutare un plotone della Guardia Repubblicana a ripararsi per la notte
vicino al cimitero. Lo vediamo andare al ballo, dove intreccia una tenera
storia di amore con la bella Celestina. Tutto ciò, negli ultimi giorni
d’aprile. Anzi, proprio la mattina del 26 aprile Basilio è nello stagno a
dipingere un airone con il quale sembra essere entrato in confidenza, e la cui
realizzazione vuole regalare come pegno d’amore alla sua Celestina. Poi c’è
l’attacco dei bombardieri, la descrizione della distruzione che questi fanno,
praticamente radendo al suolo la maggior pare della città (anche se gli storici
parlano di una distruzione al 45%). Basilio prima cerca di salvare lo zio
(riuscendoci), poi si rifugia nella chiesa con don Eusebio. E tramite la sua
macchina fotografica documenta gran parte dell’attacco. Ma distrutta anche la
chiesa, cerca di ritrovare Celestina, che invece è nella parte distrutta della
città. La sera, con l’anima sotto i calcagni, torna allo stagno per finire il
suo quadro. E lo finisce, che trova il suo airone sempre lì. Peccato sia anche
lui ferito. Per cui ne dipinge anche la morte. Un dipinto forte, secondo le
parole del prete. Che paga a Basilio la trasferta a Parigi per vedere il quadro
di Picasso. E con l’incontro tra i due, davanti al dipinto, senza scambiarsi
una parola, termina il romanzo. C’è una critica per accumulazione d’indizi, c’è
un dolore per accumulazione di morti e di macerie. Ma non c’è presa sul
lettore. Soprattutto, non c’è niente di Picasso (o molto poco). Se non nel
titolo, appunto. Che quando si legge Guernica (anzi Gernika, come si dice
correttamente in basco) pensa subito al quadro. Sensazione che permane sospesa
per tutto il testo, ma che non si scoglie mai. Leggere le avventure di Basilio
in fondo è salutare per non dimenticarsi le guerre ed i suoi orrori, ma il
titolo e il contesto fanno pensare ad altro. Che purtroppo non arriva mai. Un
tentativo poco riuscito.
Roberto Fagiolo “L’ombra del Caravaggio”
Corriere della Sera Arte 28 euro 7,90
[A: 26/01/2017 – I: 27/05/2018 – T:
29/05/2018] - &&&--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 168; anno 2007]
Finalmente un libro che rispecchia lo spirito della
collana, che ti lega (abbastanza) alla pagina, e dove alla fine esci anche un
po’ nervoso. Perché si parla di furti. E di quadri spariti. Devo dire anche che
il primo impatto è stato abbastanza conflittuale, quando mi sono accorto che,
invece di essere un libro su Caravaggio, è un libro sui furti d’arte. Di cui
uno dei sei esempi è proprio il Caravaggio. Quindi, sembrando ricalcare schemi
di racconto, cominciavo a storcere il naso. Fortunatamente Roberto Fagiolo sa
avvincere alla pagina, anche forse per le sue derivazioni televisive (autore
per anni di “Sfide”). Così anche il gradimento generale sale di conseguenza,
lasciandoci un libro agile, e molto, molto innervosente. Fagiolo ci accompagna
con sei storie di furti e/o di sparizioni. Di cui solo due vanno a buon fine,
cioè solo in due casi la refurtiva viene ritrovata. Anche se, pur ritrovata,
misteri permangono a iosa. Per dovere di cassetta, ovvio, si comincia con il
furto della Gioconda. Riuscendo tuttavia ad appassionare non tanto per le ben
note vicende di Vincenzo Peruggia, quanto per i possibili intrighi nascosti
dietro al furto. Come ad esempio quello delle vicende truffaldine
dell’argentino marchese di Valfierno, vere o false, che approfittò del furto
per commissionare al falsario Yves Chaudron sei copie del quadro, e venderle ad
altrettanti allocchi. Anche la seconda finisce in gloria, pur se meglio
orchestrata e condotta. Si tratta del furto di sette quadri (due Tiepolo, due
Tintoretto, un Giorgione e due Raffaello, tra cui la “Madonna Esterhazy”)
avvenuto il 5 novembre 1983 al Museo di Belle Arti di Budapest. Un furto
complesso, organizzato da una banda italiana con collegamenti locali, e
probabilmente legata ad un mercante d’arte greco. In fatti in Grecia furono poi
ritrovati i dipinti e la banda sgominata dai Carabinieri italiani. Ma dopo due
successi, la narrazione si fa cupa, perché dobbiamo registrare quattro pesanti
insuccessi. Del primo parlerò per ultimo, che sembra quello più intrigante ed
interessante. La prima delle altre scomparse si riferisce invece ad un dipinto
dello svizzero Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”. Un dipinto degli anni
intorno al 1880, pieno di simbolismi tanto da affascinare l’autore, che ne fece
cinque versioni, e molta intellighenzia mondiale. Fu amato da Lenin, da
D’Annunzio, Strindberg lo volle nella scena finale della “Sonata degli
spettri”, Freud lo analizzò psicanaliticamente. Ma lo spunto è la passione che
ne ebbe Hitler, tanto da essere presente in una fotografia con lui, von
Ribbentrop e Molotov. Pare fosse anche nel bunker che ne vide la fine, e che da
lì scomparve senza più essere ritrovato. Come non è stato ritrovato il
Bambinello della chiesa di Santa Maria dell’Aracoeli, trafugato nel febbraio
del 1994, ed ora sostituito da una copia. Sempre in Italia, patria di tanti
tesori e di tanti furti, nel febbraio del 1997, a Piacenza, durante i lavori di
allestimento di una mostra scompare il “Ritratto di Signora” di Gustav Klimt.
Ritratto particolare, dove alcuni intravedono le fattezze di Alma Mahler (su
cui ci sarebbe da scrivere un libro a parte, lei che venne chiamata “la vedova
delle quattro arti”, ma non vi dico perché). E che pare avesse ricoperto un
precedente dipinto, “La signora dal cappello rosso” sempre di Klimt e scomparso
negli anni ’20. Ma la vicenda più intrigante, che forse per questo dà il titolo
al volume, è quella della “Natività coi SS. Francesco e Lorenzo”, trafugata
dall’Oratorio di San Lorenzo in Palermo nel 1969. Uno dei dipinti più antichi trafugati
(a parte quelli durante le guerre). Con un intreccio complesso ed affascinante
tra ladri, mafia e politica. Tanto che Sciascia ci fece il plot di “Una storia
semplice”. Pare accertato che la mafia sia all’origine del furto. Ma con tanti
intrecci. La banda di ladri avrebbe lavorato in un territorio di spettanza di
un altro mandamento, creando una lotta interna. Grandi pentiti di mafia, tra
cui Mannino e Brusca, hanno partecipato o avuto un ruolo nel furto o nel dopo
furto. Qualcuno lo vuole sotterrato in un bosco di ulivi, altri ne parlano come
distrutto nel terremoto di Laviano. Altri ancora dicono che se ne interessò
anche Andreotti. Ma dopo quasi cinquanta anni ancora avvolto nel mistero. E
forse anche distrutto. Mistero che avvolge ancora (ma Fagiolo non ne parla che
il libro finisce qui), il Raffaello trafugato dai nazisti nel 1945, il Vermeer
e i due Rembrandt rubati a Boston nel 1990, per finire con il Van Gogh sparito
dal Museo del Cairo nel 2010. La simpatia di Fagiolo nello scrivere, è che ci
presenta, insieme al furto, molti retroscena, antecedenti e conseguenti. Nonché
ipotesi sulla nascita stessa di alcuni dei quadri rubati (in particolare quello
di Böcklin). Sarà un caso, ma dei libri d’arte del Corriere quelli meglio
riusciti, ad ora, sono quelli relativi alle descrizioni dei furti e dei
ritrovamenti dei dipinti. Staremo a vedere.
Pierluigi Panza “La croce e la sfinge”
Corriere della Sera Arte 30 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 17/06/2018 – T:
20/06/2018] - &&&
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 203; anno 2017]
Ecco come mi aspettavo fossero tutti i libri della
collana. Anche se non sempre la scrittura di Panza mi prende, con piglio sicuro
svolge il tema che si prefigge fin dal sottotitolo “Vita scellerata di Giovan
Battista Piranesi”. Non solo riuscendo a darci il senso della vita e dell’opera
di Piranesi, ma aggiungendo una coda che ci consente di seguire le vicende del
figlio Francesco e di dare uno sguardo, rapido ed a volo d’uccello, sulle
vicende (o su alcuni aspetti delle vicende) dei Templari o cavalieri di Malta o
del sacro ordine di San Giovanni Gerosolomitano o come altro si sono chiamati
nella loro vita. Attraverso alcuni rimandi a cronache dell’epoca, vediamo il
ventenne Piranesi muovere dalla natia Venezia verso la meta che tutti gli
artisti, grandi o piccoli, nel Settecento, agognano come punto d’approdo. Lui,
figlio di un tagliapietre emigrato dall’istriana Pirano (ora in Slovenia, e da
cui la famiglia prende il cognome), portato senza dubbio per il disegno, ha
però in mente di divenire un grande architetto, sulla scia dei grandi che in
Roma hanno portato la loro opera (come ricorderebbe mio cugino, senza dubbio
Bernini e Borromini). Purtroppo, non è facile avere commesse remunerative, ed
il giovane Zuane (questo in realtà il nome nativo) deve arrangiarsi. Si
industria ad approfondire le tecniche del disegno, impara presto anche
l’acquaforte, prova ad andare a Napoli, per trovare ispirazione in quel di
Ercolano. Ma sono i Fori Imperiali di Roma che scatenano la sua fantasia e la
sua mano. Con queste sue prime tavole si fa ben presto un nome tra i
riproduttori di vedute, spesso ad uso dei turisti. Fino a pubblicare i suoi
primi lavori, dodici tavole firmate Giovan Battista Piranesi, nome che
diventerà il suo ufficiale. Diventando, per campare, ufficialmente incisore.
Solo vendendo incisioni, e trovando supporto nel clero romano, può pensare di
sviluppare i suoi sogni, quello di essere ricordato come archeologo, pittore e
soprattutto architetto. Intanto si deve sistemare, che gli scapoli non sono ben
visti in Roma. Verso i 37-38 anni sposa Angela Pasquini, figlia del giardiniere
di Palazzo Corsini, che, tra gli altri figli, gli darà Francesco, su cui
torneremo. Ma come detto grandi sono le lotte in corso in Roma, in particolare
sotto la spinta del sopraintendente alle antichità, quel Giovanni Winckelmann
della cui vita altrettanto avventurosa sarebbe interessante parlare. Un inciso,
per i conoscitori di Roma e delle zone nomentane: il predecessore di Winckelmann
al posto di sovraintendente fu … Ridolfino Venuti. Dicevo delle lotte, che
Winckelmann spingeva per la grecità dell’arte, mentre Piranesi si buttava a
corpo morto su Roma, e magari sulle ascendenze etrusche. Tanto da tornare più e
più volte nel napoletano per dimostrare che anche lì c’era romanità. Il tutto
avveniva sotto l’egida del nuovo papa Clemente XIII, nato Carlo della Torre di
Rezzonico. E Giovan Battista entra contemporaneamente sotto l’ala del nipote
del papa, Giovan Battista anch’esso, molto legato all’Ordine di Malta. Il Papa
lo protegge, sotto la spinta dell’uscita del secondo volume delle Carceri, ne
caldeggia la pubblicazione della “magnificenza de’ romani”. Così che il nipote
cardinale commissiona a Piranesi la ristrutturazione della Chiesa di Santa
Maria del Priorato, all’Aventino. Chiesa che ricordo nelle vedute della mia
infanzia nonnesca, anche se, essendo in territorio non italiano, non è
possibile visitarla. Fortunatamente, Panza si dilunga con dovizia di
particolari sulla chiesa stessa, particolari che invito a leggere, che se ne
trae giovamento di intelletto. E dallo scritto scopro che pare sia proprio
Piranesi ad inventarsi il buco della chiave da cui dall’Aventino si vede San
Pietro. Le fortune dei Piranesi però volgono al brutto, che il nuovo papa
cambia rotta nelle sue protezioni, Giovan Battista torna a fare l’incisore,
cerca di scoprire altro in quel di Pompei, prendendone solo febbri malsane. Che
lo porteranno alla morte, a soli 58 anni, nella sua casa in quella che ora è
via Sistina. Una succosa appendice del libro è dedicata alle alterne fortune
del figlio Francesco, che cerca di proseguire l’opera paterna, ma che dovrà
soccombere a scelte sbagliate politicamente (almeno per Roma). Si fa pagare dal
regno di Svezia, entrando in sordite diatribe di spionaggio. Da cui cercherà di
salvarlo una lettera redatta da … Vincenzo Monti. Poi si entusiasma di
Napoleone, della ragion francese, tanto da dover emigrare a Parigi, quando il
papato sconfiggerà la Repubblica Romana del 1799. Dove morirà in povertà, anche
se sopravviveva cercando di produrre acqueforti dai disegni paterni. Ma intanto
Giovan Battista riposava in pace, nella sua unica Chiesa in cui fu architetto.
In pace perché, anche se non mi sono dilungato, molta parte della sua vita fu
in contrasto violento con tanti altri. Forse arrivando anche a risse o peggio.
Ma la sua vita fu “scellerata” anche senza orrendi delitti. Perché fu senza
centro. E fu quasi sempre volta a cercar protezione nelle fazioni perdenti.
Altra chicca, su cui non entro, ma chi vuol leggere il libro troverà gustosa,
l’intrecciarsi tra architettura ed Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro (di
cui ricordo solo un mio personale episodio, quando per la prima volta vidi il
Caravaggio de La Valletta). Insomma, un buon libro, esempi forte di quello che
mi aspettavo dalla collana.
Terza trama di settembre, e per far contento
i miei amici ipocondriaci, un po’ di felicità legata all’ipertensione potrebbe
giovare.
Mi scuso del ritardo di poche ore, ma oggi lo
abbiamo dedicato io, Ale ed i miei amici scozzesi ad una splendida gita in quel
di Bologna, con tanto di visita a FICO. Una bella giornata, tanti amici
impagabili che riscaldano il cuore.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
SETTEMBRE 2018
Direi che questo serve proprio: una po’ di tensione in modo
che, dopo il rilassamento delle vacanze estive, si possa affrontare ben svegli
il lungo inverno.
TRE PILLOLE PER L’IPERTENSIONE
Libri citati
James Ellroy “Dalia nera”
James Ellroy “American Tabloid”
James Ellroy “L.A.
Confidential”
James Ellroy “Sei
pezzi da mille”
James Ellroy “Perfidia”
Sascha Arango “La
verità e altre bugie”
John Buchan “I
trentanove scalini”
Margaret Mitchell “Via
col vento”
Bram Stoker “Dracula”
Se
siete affetti da un’insana passione per i casi senza soluzione e cercate un
intrigante compromesso tra giallo e noir, i romanzi di James Ellroy fanno al
caso vostro. Da “Dalia nera” a “American Tabloid”, da “L.A. Confidential” a “Sei pezzi da mille” fino al recente “Perfidia”, l’obiettivo di questo
originale scrittore è raccontare l’America, la sua storia e le sue storie,
immergendosi negli abissi più profondi dell’abiezione e del male. Complice uno
stile frammentato, ritmato e adrenalinico, è una lettura al cardiopalmo che può
causare palpitazioni e apnee notturne. Preparate le bombole d’ossigeno per
usarle quando l'atroce sospetto di non riemergere da questi abissi si trasforma
in certezza perché le indagini portano sempre a un’unica, sconcertante verità:
è impossibile liberarsi da menzogna, infamia e decadenza e il colpevole non si
può acciuffare perché non c’è un unico colpevole, ma lo siamo tutti, tutti
siamo complici. Il Male è parte della società, è parte di noi. A questo non c’è
soluzione? Come direbbe Hercule Poirot, parbleu!, speriamo di sì!
A
proposito di casi irrisolvibili in cui la menzogna contamina a tal punto la
verità che non è più possibile distinguere l’una dall’altra, giova decisamente
alla salute mentale per la sua buona dose di intelligenza, tensione e ironia, “La verità e altre bugie”. Ogni pagina
del brillante thriller di Sascha Arango contiene un colpo di scena, una battuta
fulminante, una trovata spiazzante. Tra omicidi, incidenti, coincidenze,
risate, tante bugie e qualche atroce verità che non contempla prospettive
rincuoranti, l’autore conduce una seria indagine sul ruolo del caso (o del
destino, se preferite) nella vita. Il protagonista, scrittore di successo e
bugiardo con lode, è praticamente l’incarnazione del male, perfettamente lucido
e consapevole delle sue azioni criminali con l’aggravante di risultare perfino
simpatico per via di un micidiale humor nero. Questo meccanismo psicologico con
cui l’autore si diverte a torturarci conquistandoci con la simpatia del male è
inquietante per quanto provoca piacere, come preoccupante è l’idea che, forse,
anche la verità altro non è se non una bugia, ma raccontata meglio. Oltre ad
appassionare in modo elettrizzante, la lettura del romanzo aiuta a guarire
dalla tendenza a dire balle, per le quali sembra essere necessaria una tale
padronanza della tecnica che, tutto sommato, si fa meno fatica ad essere
sinceri. Sarebbe opportuno assumere il romanzo in gocce, per prolungarne
l’effetto, ma è inutile provarci perché una volta iniziato si beve tutto d’un
fiato, come una birra fresca quando fa caldo. Anzi, come un Martini, perché
come dice il protagonista “i bugiardi tra di noi sapranno che ogni menzogna
deve contenere un pizzico di verità per essere credibile. Una spruzzata di
verità spesso basta, ma deve esserci, come l’oliva nel Martini”. Tenetelo a
mente quando sarete tentati di inventare una bugia pur di restare chiusi in
casa a finire il romanzo.
...un
Martini, “agitato, non mescolato” è il drink preferito di James Bond. A
proposito di agenti segreti e spionaggio, dopo il giallo tradizionale,
l’hard-boiled, il noir e il thriller mixato con la black comedy, non possiamo
non considerare tra i rimedi da brivido (di puro divertimento) anche una
pillola di spy story. John Buchan è lo scrittore a cui tutti i successivi
autori di romanzi di spionaggio si sono ispirati, da Graham Greene a Ian
Fleming fino a John Le Carré, che ha usato questo genere d’evasione per veicolare
argomenti più complessi. Proprio Graham Greene ha individuato la novità di
Buchan che “fu il primo a comprendere l’enorme valore drammatico dell’avventura
che coinvolge uomini non avventurosi in un ambiente che ci è familiare”, ovvero
l’idea vincente che potrebbe accadere a chiunque, anche a noi, quello che
capita a Dick Hannay, uomo poco avventuroso che si ritrova coinvolto in
intricate trame di misteri e inseguimenti in alcuni fortunati romanzi dello
scrittore britannico. Capolavoro assoluto è “I trentanove scalini”, il primo della serie dedicata a Dick Hannay.
Asciutto, scattante, praticamente perfetto, è stato portato sullo schermo da
Alfred Hitchcock in una delle migliori pellicole del periodo inglese, “Il club
dei 39”. Libro e film sono indicati per contrastare la noia e stimolare il
divertimento.
John
Buchan ha scritto “I trentanove scalini” quando era convalescente a causa di
un’ulcera duodenale. Considerando anche che “Via col vento” è nato quando Margaret Mitchell era costretta a
letto per un incidente e che Bram Stoker ha pensato “Dracula” dopo un’indigestione di gamberi, possiamo affermare che
raccontare e ascoltare storie facilita il percorso di guarigione (non solo
spirituale).
Commenti
Lessi una ventina di anni fa, appena uscirono, alcuni libri
di Ellroy, che, in effetti, erano pieni di noir e pessimismo (un doppio nero,
quindi). Eppur tuttavia sono anni che per un motivo o l’altro sono lontani dai
miei scrittoi. Con sorte analoga al Dracula primario e come il libro di Sascha
Arango, che, rispetto agli altri, medito di leggere tra non molto, essendo già
nei miei scaffali. Rimangono così Buchan come esempio primario e la grande saga
del Sud come effetto guaritore della letteratura.
John Buchan “The thirty-nine steps” Oxford s.p.
(dalla biblioteca di Tolemaide)
[pubblicato
il 7 febbraio 2016]
Avevo messo questo libro tra i ricercabili, per gli accenni
libropeutici e per un vago ricordo del film di Hitchcock. Vago, che pensavo
fosse un film giallo, ed invece era d’azione. E quanta! Trovo poi il libro non
in una biblioteca, bensì negli scatoloni del trasloco della mia ampia e pur
tuttavia sparsa collezione di libri duranti i grandi lavori estivi di
quest’anno che stanno portando a traslochi e ricollocamenti di nipoti in quel
di Prati. Fatta questa premessa, il libro era presente in originale, e, girando
per le strade americane, mi è sembrato un giusto omaggio all’inglese (o
all’americano). Stranezza poi scoprire che John Buchan, I° barone di Tweedsmuir,
è in realtà scozzese. Che, come ci ricorda il titolo appena riportato, è stato
un Lord inglese. Non solo, ma questo traspare sicuramente dal testo, ha avuto
un’attiva vita politica, tanto da essere nominato nel 1935 Governatore Generale
del Canada (cioè il facente funzione del re inglese quando questo non è
presente nel territorio canadese, cioè per il 90% del tempo). E che in Canada
muore accidentalmente, nel febbraio del 1940, cadendo dalle scale a seguito di
un piccolo ictus. All’ictus sarebbe sopravvissuto, ma nella caduta batte
ripetutamente la testa, e dopo 5 giorni muore. Coincidenza strana, dal
settembre precedente, cioè dall’invasione della Cecoslovacchia da parte delle
truppe naziste, Buchan stava lavorando febbrilmente per un tentativo di
soluzione della crisi, essendo un convinto pacifista, dopo aver visto cosa
successe durante la Prima Guerra Mondiale. Il romanzo è di una complicazione
incredibile, e sembra un prototipo di quelle che saranno le avventure di James
Bond, solo con meno tecnologia. E con un protagonista capitato per caso negli avvenimenti,
ma che vi si getta a capofitto come se fossimo nel film “Tutto in una notte”.
Siamo nel mese di maggio del 1914; la guerra è alle porte in Europa, Richard
Hannay il protagonista e narratore, scozzese, torna nella sua nuova casa, un
appartamento a Londra, dopo una lunga permanenza in Rhodesia. Una notte, un suo
vicino di casa, l'americano Frank Scudder, lo ferma mentre sta tornando a casa
e lo convince a farsi invitare in casa. Una volta entrato gli racconta una
strana storia su un complotto ai danni del primo ministro greco, Karolidis che
secondo Scudder, sarà ucciso di lì a tre settimane, il 15 giugno, durante una
riunione che si terrà a Londra. Scudder gli racconta anche che, per sfuggire ai
suoi nemici, ha portato nel suo appartamento un cadavere che ha sfigurato per
fare in modo che possa esser scambiato per lui. Hannay nasconde Scudder nel
proprio appartamento, ma quattro giorni dopo Hannay torna a casa e trova
Scudder morto con un coltello nel cuore. Hannay teme che gli assassini verranno
a cercarlo, ma non può chiedere aiuto alla polizia perché è lui il più
sospettabile dei due omicidi. Inoltre, si sente in dovere di proseguire l’opera
di Scudder e salvare Karolidis. La mattina successiva Richard trova, per puro
caso, il taccuino di Scudder, e si prepara a sparire dalla circolazione: per
cercare di farlo senza lasciare tracce, convince il lattaio con una scusa a
prestargli la sua divisa da lavoro (e spesso si travestirà o convincerà
qualcuno a nasconderlo). Nonostante lo stratagemma si sente osservato, ma
riesce ad arrivare in Scozia, dove la mattina seguente legge sul giornale che
la polizia lo sta cercando. Scappa, ma, individuato, riesce a fuggire
riparandosi in una locanda per la notte. Inventa una storia per il locandiere
che si convince ad aiutarlo. Durante la permanenza presso la locanda, Hannay
decritta il cifrario utilizzato nell’agenda dell’americano. Il giorno dopo, due
uomini arrivano alla locanda alla sua ricerca, ma l'oste riesce ad ingannarli,
consentendo ad Hannay di rubare la loro auto e scappare. Sulla sua strada,
Hannay riflette su ciò che ha appreso dagli appunti di Scudder. Il vero
mandante dell'omicidio è la Germania: gli uomini che hanno ucciso Scudder,
infatti, appartengono a un'organizzazione chiamata "Pietra Nera", un gruppo
di spie tedesche infiltrate in Inghilterra con il preciso scopo di raccogliere
segreti militari e di far scoppiare la guerra. Pur avendo mezzi (automobili ed
anche un aereo) e uomini in abbondanza, sono un po’ ingenui e, benché varie
volte lo scoprano, Richard, con moltissima fortuna e un pizzico di astuzia,
riesce sempre a fuggire. Nell’ultimo inseguimento però, onde evitare una
macchina, va a sbattere contro un albero. Ma l'altro guidatore gli offre un
passaggio: è Sir Harry, un onesto politico locale, che, scoperte le esperienze
di Hannay in Sudafrica, ne diventa amico e scrive una lettera di presentazione
per mettere in contatto Hannay con una persona fidata al Ministero degli
Esteri. Poco dopo, inseguito ancora dalla polizia, finisce per rifugiarsi nel
posto peggiore: un casolare occupato da un uomo anziano. Purtroppo, l'uomo si
rivela essere uno dei nemici, e con i suoi complici blocca Hannay nella
cantina. Per sua fortuna, la stanza in cui Hannay è rinchiuso è piena di
materiali per fabbricare bombe, che egli usa per uscire dalla casa, pur
tuttavia ferendosi. Dopo alcuni giorni, rimessosi dalle ferite, Hannay riesce a
tornare a Londra, dove finalmente incontra Sir Walter, il conoscente di Sir
Henry. Mentre discutono gli appunti di Scudder, Sir Walter riceve una
telefonata che lo avverte dell’assassinio di Karolidis. Sir Walter svela ad
Hannay alcuni segreti militari prima di lasciarlo tornare a casa. Ma Hannay non
sa tirarsene fuori, e, preso da un’idea improvvisa, torna di nuovo a casa di
Sir Walter, dove è in corso una riunione ad alto livello. Quando un Ammiraglio
della Marina lascia la riunione, Hannay lo riconosce come uno dei suoi ex
inseguitori in Scozia. Hannay avverte Sir Walter e gli altri funzionari che
l'uomo è un impostore e rivela il motivo del suo ritorno: la frase "i
trentanove scalini" potrebbe riferirsi al punto di sbarco in Inghilterra,
da cui la spia è in procinto di salpare. Per tutta la notte, Hannay e i capi
militari inglesi cercano di capire il significato della frase misteriosa,
ipotizzando al fine che sia una città costiera nel Kent. Dove trovano, in
effetti, una scogliera che con trentanove scalini scende in mare. Ed in mare
aperto vedono uno yacht. Fingendosi pescatori, alcuni poliziotti visitano lo
yacht e scoprono che almeno uno dei membri dell'equipaggio sembra essere
tedesco. Le altre persone ospiti della barca sono a terra impegnate in una
partita di tennis, e sembrano invece essere inglesi. Tuttavia corrispondono
alla descrizione fattagli da Scudder (un uomo senza una falange ad un dito).
Hannay, da solo, li affronta e dopo una lotta, due degli uomini vengono
catturati mentre il terzo cerca di fuggire verso lo yacht ma viene anche lui
arrestato dalla polizia. Il complotto è sventato. Il Regno Unito recupera le
carte con i segreti militari. Poche settimane dopo, l'attentato di Sarajevo
farà comunque scoppiare la prima guerra mondiale. Il tutto in meno di cento
pagine. Tanto che alla fine della lettura viene voglia di stendersi in un prato
e rifiatare. Come diceva un oscuro spettatore ad un film similare, caro Richard
guadagnerai due soldi, ma fai una vita… Comunque è stata una lettura
divertente, anche se non eccelsa, probabilmente troppo datata. Molto di più lo
fu il film del grande maestro, ancora nel suo periodo inglese, e poco dopo il
successo della prima versione de “L’uomo che sapeva troppo”.
Margaret Mitchell
“Via col vento” Mondadori euro 12
[pubblicato
il 25 febbraio 2018]
Devo
dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può
che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine.
Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e
discretamente coinvolgente. Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte
il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta
della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la
lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra
film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett
O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e
Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark
Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi
principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi
nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla
fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film
abbiano raggiunto i loro scopi. Ma qui si parla di scrittura, ed al libro
torniamo. Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’
dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si,
proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita
che, forse, ha ancora strascichi, passati che siano 150 anni. Il libro in
realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche,
proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le
persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche
rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in
ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione. Una parte storica
che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano
funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli.
Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anche ben poche)
erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o non
molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che, per
far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella) compera
dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta. Era una vita
di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe permesso, a
chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come avrebbe
voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il soldato. Che
sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati greci. E che,
una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi “schiavi”
negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle “Dodici
Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli “yankee”.
Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori di
situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano.
Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo
bianchi e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che
quello era il Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank
Kennedy, ma anche (e tuttora) razzisti e profittatori. Insomma, c’è molto di
più di quello che potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà
sopra). Anche perché lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di
quelle terre. È un miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche
(e lo confesserà), ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire,
fin dall’inizio, che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il
Nord. Una su tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito
(soprattutto all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di
professione (come sono le giacche blu che da tempo combattono per tutto il
territorio americano). Secondo risvolto del libro è quello dei risvolti umani,
delle relazioni, delle storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che
attraversa le mille pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per
matrimonio). E con uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui
la ami. Per questo sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza
lasciare traccia. Che per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica
Tara, sposa Frank (Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo
ruolo, anche se non ben accetto, all’interno della società georgiana
post-guerra. Diventa imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno
stupro, che porterà i suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e
tutti glia altri) a cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi
cadendo nella trappola delle giacche blu. Da cui vengono salvati proprio dal
“malvagio” Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui
la tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti
migliori (spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti
di Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due.
Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì
il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla
morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che
fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte
che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte
romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per
maturare. Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che
Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come
eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se
mai lo si capirà). Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17
più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo
bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed
ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato,
amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di
Rhett). Insomma, un libro che è un vero microcosmo di quasi tutto. Un libro che
fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta)
l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare
che aspettare risposte a richieste non fatte. Un libro che mi è piaciuto, che
tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e
con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la
lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara.
Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore
per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di
zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono
nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i
quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da
campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita
nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo
antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la
prima scelta, che era Erroll Flynn). Quindi, anche se avete visto il film,
leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto
Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato
neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne
infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o,
come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is
another day”).
Finalino
Lascerei da parte i commenti su Scarlett O’Hara, ma i 39
scalini sono veramente un libro degno di essere letto per chi non sa come
occupare le giornate. Non so di ipertensione o altro, ma Hannay non aveva certo
tempo per prendersi un caffè…
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