lunedì 17 settembre 2018

Lasciate l'arte agli italiani - 16 settembre 2018


Martin Suter “Allmen e le dalie” Corriere della Sera Arte 3 euro 7,90
[A: 11/10/2016 – I: 08/04/2018 – T: 10/04/2018] - && -
[tit. or.: Allmen und die Dahlien; ling. or.: tedesco; pagine: 219; anno 2013]
Una prova decisamente poco riuscita. Per la collocazione e per il romanzo in sé. Perché se parliamo dello spirito della collana, “l’arte come un romanzo”, dobbiamo dire che tutto il libro, pur girando intorno alle “Dalie” dipinte da Henri Fantin-Latour, non tocca né il pittore né altro vicino a lui, ma qualcosa forse di vicino ai quadri, anche se in modo trasversale: quadri rubati, nascosti, collezionisti rapaci, ed altre vicissitudini laterali. Tra l’altro, il protagonista, l’Allmen del titolo fa di nome completo Johann Friederich von Allmen, un “nobile” molto blasé, decaduto tanto da aver venduto le proprietà avite, e che, per vivere decide di sfruttare l’unica cosa che conosce: l’arte. Non potendo diventare un mercante d’arte, tuttavia, si accontenta di fare il ritrovatore di bellezze perdute (in genere rubate). In questo aiutato dal cameriere tuttofare Carlos, bravo, intelligente ma senza permesso di soggiorno, e dalla di lui donna Maria. Questo tuttavia lo desumiamo da qualche brano del romanzo e da un po’ di ricerche in rete per informazioni ed altro. Che questo, in effetti, è il terzo volume delle gesta del nobile in questione, scritte, insieme a tante altre cose non tradotte in italiano, dallo scrittore svizzero di lingua tedesca Martin Suter. Ora, fatto salve le simpatie o meno verso la nostra vicina nazione, non è che ci siano grandi masse di scrittori svizzeri. Io poi di svizzeri tedeschi in realtà conosco solo Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt. Ovviamente di tutt’altra levatura. Ma torniamo al punto di partenza. Scrittore svizzero, ambientazione zurighese, sentori di decadenza e ricordi asburgici. Eppur tuttavia una scrittura poco coinvolgente. Così come la trama. Una ricca ereditiera ritiratasi dalle scene pubbliche ingaggia il nostro Allmen per ritrovare un quadro di dalie di appunto Fantin-Latour che le è stato rubato. Quadro che a sua volta deriva da una refurtiva per cui non può intervenire la polizia. Quando la nostra signora Dalia Gutbauer (capite perché le regalavano certi quadri…) era al centro dei pettegolezzi e dei gossip si accompagnava con un bel signorino che tuttavia non era altro che il secondo di un ladro gentiluomo. Sfarzi, bel mondo, poi il ladro viene preso, ma i due continuano a fare la bella vita. Tanto appunto che Frey ruba le Dalie per lei. Poi i due fuggono lontano dai riflettori in Sud America, finché Frey non tradisce Dalia, lei lo lascia affondare, ritornando a fare vita ritirata a Zurigo. Prendendosi però le sue rivincite: compra lo Schlosshotel dove ora vive, compra la direttrice facendola diventare sua schiavetta, e fa rifugiare nelle sue stanze sia Frey che la sua amante, anche se entrambi sulla via del declino. Ad un certo punto compare un nipote di Frey, anche lui legato al demi-monde tra ricchezza e malaffare. Legato ad un mafiosetto che sta insieme ad una escort italiana, le vuole a sua volta regalare un quadro di dalie di Fantin-Latour (e sui quadri torneremo poi). Perde l’asta, ma quando il nipote gli dice del quadro nell’hotel organizza un nuovo grande furto. Convince il nipote a circuire la factotum, i due insieme rubano il quadro e lo portano a casa dell’italiana. Allmen capisce tutto il giro, con l’aiuto di Carlos e Maria (soprattutto di questa che fa assumere in albergo per vedere le segrete mosse dei personaggi lì raccolti) inscena una contromossa mettendo in difficoltà il nipote, che deve scegliere tra galera e delazione. Così restituisce il quadro alla signora. Tutto bene? Tutto finito? no, perché nelle ultime pagine il mafioso rapisce Maria chiedendo ad Allmen uno scambio. Ora vi aspetterete che io parli di cosa succede a questo punto. Invece no, e non perché sia particolarmente cattivo, ma perché il libro inopinatamente finisce qui. Il seguito al successivo libro di Suter, che guarda caso si intitola “La sparizione di Maria”, che io tuttavia non credo che leggerò. Anche se, stranamente, a parte questa poco brillante collana, i libri di Suter escono in Italia per i tipi della Sellerio, che generalmente produce sempre delle opere di buon livello. Torniamo per finire allo spirito della collana. Perché questo è un giallo poco convincente in cui in duecento pagine si parla in un paio di quadri. Si descrivono le dalie del buon francese, con qualche accenno ai colori. E niente più. Che passò lateralmente alla stagione degli impressionisti francesi, benché coevo di Monet, di Renoir e degli altri. Ma non aderì al movimento, rimanendo legato ai suoi due temi principali: le nature morte ed i quadri affollati di persone (come il bellissimo “Le coin du table” dove tra gli altri ritrae Verlaine e Rimbaud). Tra le nature morte i critici ritengono che siano le rose quelle maggiormente dipinte dal pittore, anche se anch’io ricordo le sue Dalie al Museo d’Orsay. O anche le Dalie in un vaso cinese, il cui particolare è riprodotto nella copertina del libro. Non si ha invece notizia di Dalie rubate (o almeno io non ne ho trovate). Speriamo meglio altrove.
Susan Hill “L’uomo nel quadro” Corriere della Sera Arte 25 euro 7,90
[A: 10/01/2017 – I: 23/05/2018 – T: 25/05/2018] - &-- 
[tit. or.: The Man in the Picture; ling. or.: inglese; pagine: 153; anno 2007]
Forse sono un poco ripetitivo, ma continuo a lamentarmi di questa promettente ma deludente collana. Ancora un libro che parla di quadri, ma utilizzandoli in modo “altro”. Perché, come dice il titolo originale, non riportato nelle edizioni italiane, questa è una “Ghost story”. Quindi, mentre io mi aspetto qualcosa alla moda di “L’orecchino di perla” o simili, qui si continua invece ad usare la collana come veicolo di libri che poco spazio hanno avuto nella distribuzione normale. Sarà inoltre un caso, ma molte delle iniziative del Corriere utilizzano i libri della “Polillo editore”, quasi ci fosse un patto di aiuto più o meno velato. Ma si sa, io sono malfidato e della scuola andreottiana (“A pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina”, anche se la frase, realmente, appartiene a Pio XI). Comunque, veniamo al libro ed all’esimia autrice, ormai quasi più vicino agli ottanta che ai settanta, autrice “cult” in alcune zone inglesi, sia per una sua serie particolarmente seguita (dedicata all’Ispettore capo Simon Serrailler), sia per alcune sue scelte di vita negli ultimi dieci – quindi anni (divorzio dal marito, e convivenze con signore) diventando un alfiere, anche se non proprio eclatante, del mondo LGBT inglese. Mondo verso cui non ho alcuna preclusione, ma che tuttavia, in libri come questo, potrebbe essere accantonato. E lo dico perché alcune affermazioni mi sono sembrate stonate, e dedite a mostrare il libro in una luce non sua. Libro che d’altronde, non ho certo trovato né eccelso, né di gradevole leggibilità. Certo le 150 pagine scorrono velocemente, anche perché stampate in caratteri larghi (forse per ipovedenti). Ma la storia non prende, non ha sugo, non ha spiegazioni plausibili, e lascia molto di già sentito e rimasticato. Certo una “ghost story” non è una “crime story” dove sarebbe un delitto (ah, ah) non spiegare gli avvenimenti. Qui l’autrice cerca di inserirci nel clima delle campagne inglesi, dove un giovane professore di storia va a trovare un suo anziano maestro in quel di Cambridge. E dove questi, logorato da anni di pensieri, non trova di meglio che scaricare sul giovane Oliver le sue angosce riguardo ad un quadro, che si trova appeso nella sua biblioteca, e che ci viene descritto con dovizia di particolari (scena carnevalesca in quel di Venezia, con alcuni elementi di spicco: una persona affacciata ad una finestra, una dama con una maschera bianca, una persona in primo piano presa tra due energumeni e con la faccia spaventata). Il vecchio Theo ci racconta quindi la storia del quadro (abbiamo quindi Oliver che racconto come Theo racconti), che ben presto risale alla storia di una strana contessa della campagna inglese (Oliver che racconta di Theo che racconta della contessa che racconta). E per fortuna ci si ferma qui, nella nidificazione. A questo punto dipaniamo noi la storia. La contessa si innamora di Lord Lawrence, che per lei lascia l’italiana Clarissa. Questa giura vendetta, tremenda vendetta, e dona, come regalo di nozze, un quadro alla coppia. Sì è ovvio, quello di stile veneziano. Appena ricevuto il quadro, muore il padre di Lawrence. Per riposarsi di un periodo particolarmente faticoso, poi, sapete cosa fa la coppia? Decide di andare a Venezia! Se siete smaliziati, vi domanderete, così come di fronte ai film “horror”: ma se c’è un pericolo in cantina, ci si va forse senza lampade? Se Venezia fa paura (nel quadro, e la contessa già comincia ad aver paura), si va a Venezia? Ovvio che Lawrence a Venezia scompare, per apparire “nel quadro” (pare sia lui quello con la faccia spaventata). Non solo, mala contessa è incinta, nasce Henry che a 18 anni viene circuito dalla vegliarda Clarissa (che ha almeno venti anni più di Henry). Seguono peripezie poco importanti, fino a che Henry e Clarissa muoiono, la contessa torna in possesso della magione avita, ma non del quadro. Che sembra scomparso, ma che viene acquistato ad un’asta da Theo. Che lo tiene per anni, fino a che la contessa non riesce a rintracciarlo. Ma Theo è caparbio e non lo cede. Peccato che mentre Theo finisce il racconto, anche lui muoia (ma perché se Clarissa aveva maledetto la famiglia di Lawrence, muoiono quelli che entrano in contatto con il quadro anche se non c’entrano nulla?). Oliver tornato a Londra turbato decide di sposarsi. E sapete dove va in viaggio di nozze? Ma a Venezia (no comment). E sapete cosa riceve in eredità dalla morte del vecchio Theo? Ma il quadro (ari no comment). Non vi toglierò le castagne dal fuoco svelandovi il finale, leggetene se ne avete il coraggio. Tuttavia, nessuno spiegherà come mai il quadro ha il potere del ritratto di Dorian Grey di interagire con il mondo. Qualche pennellata sul mondo di Cambridge, sulla campagna inglese, e qualche stereotipo su Venezia ed il suo Carnevale. Molto poco d’altro. Soprattutto nulla di artistico. Lo eviterei, se non costretto.
Antoine Choplin “L’airone di Guernica” Corriere della Sera Arte 23 euro 7,90
[A: 20/12/2016 – I: 26/05/2018 – T: 28/05/2018] - & e ½  
[tit. or.: Le Heron de Guernica; ling. or.: francese; pagine: 158; anno 2011]
Continua la cattiva performance di questa collana, cui avevo riposto più speranze di quante buone notizie ho ricevuto. Ora, non è che il buon Choplin sia scarso di lettere e di talento. Ha comunque un diploma in matematica, e già questo lo colloca tra le persone da osservare. È poeta, innanzi tutto, e soprattutto direttore del festival teatrale “de l’Arpenteur” in Auvergne. La cosa che mi ha sorpreso è leggere che questo libro fu scelto come miglior romanzo francese dell’autunno 2011. Ora, niente contro questo libro, e poco sulle uscite post estive d’oltralpe, ma se questo è il migliore… Ripeto, non è che sia brutto, né che sia scritto male, né infine che non abbia un tema accattivante. Ma la resa complessiva è di poco rilievo. È un libro che si scaglia conto la guerra e tutti i massacri, e lo fa molto sottovoce, ma lo fa. È un libro che uno legge il titolo e dice: “Ok, dov’è Picasso?”. C’è il buon Pablo, con il suo dipinto (ricordo che è un olio su tela grezza, iuta credo, di 3,50 metri x 7,80 m), che fa capolino nel prologo, e si prende alcune pagine nell’epilogo, anche se non se ne descrive mai il contenuto pittorico. Un quadro commissionato dai Repubblicani Spagnoli per l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937, e che Picasso, dopo aver iniziato altro, cambiò totalmente alla notizia della distruzione della città basca di Guernica da parte dei bombardieri tedeschi. Il bombardamento di Guernica avvenne il 26 aprile del 1937, praticamente nel 570 anniversario della fondazione della città. Picasso iniziò a lavorare al progetto il 1 maggio e terminò il dipinto il 4 giugno. Sebbene l’Esposizione si aprì il 25 maggio, il dipinto fu portato nel Padiglione Spagnolo solo nel luglio del ’37. Suscitando scalpore, come ovvio, dato anche lo svolgimento ancora in corso della Guerra Civile in Spagna. Guerra che terminò solo nel 1939, con la vittoria di Franco, motivo per cui Picasso decise di spostare il dipinto oltreoceano. Dove, dal 1940 al 1981 ebbe dimora al Moma. Solo nel 1981 fece ritorno in Spagna, ed ora è visibile al Museo Nazionale Reina Sofía. Purtroppo, non è di questo che ci parla Choplin, ma di tal pastore – pittore Basilio, residente appunto in quel di Guernica, e lì dedito a dipingere aironi. Certo, lavora per mantenersi, si fa aiutare dall’amica Maria e dallo zio Alfonso. Ma la sua attività principale è andare per stagni, e star lì ore ed ore a dipingere aironi. Di certo bellissimi, di certo colti in molte sfaccettature. Ma non è di arte che vive Basilio. Infatti, lo vediamo andare al mercato a vendere un maiale e un sacco di fagioli. Lo vediamo aiutare un plotone della Guardia Repubblicana a ripararsi per la notte vicino al cimitero. Lo vediamo andare al ballo, dove intreccia una tenera storia di amore con la bella Celestina. Tutto ciò, negli ultimi giorni d’aprile. Anzi, proprio la mattina del 26 aprile Basilio è nello stagno a dipingere un airone con il quale sembra essere entrato in confidenza, e la cui realizzazione vuole regalare come pegno d’amore alla sua Celestina. Poi c’è l’attacco dei bombardieri, la descrizione della distruzione che questi fanno, praticamente radendo al suolo la maggior pare della città (anche se gli storici parlano di una distruzione al 45%). Basilio prima cerca di salvare lo zio (riuscendoci), poi si rifugia nella chiesa con don Eusebio. E tramite la sua macchina fotografica documenta gran parte dell’attacco. Ma distrutta anche la chiesa, cerca di ritrovare Celestina, che invece è nella parte distrutta della città. La sera, con l’anima sotto i calcagni, torna allo stagno per finire il suo quadro. E lo finisce, che trova il suo airone sempre lì. Peccato sia anche lui ferito. Per cui ne dipinge anche la morte. Un dipinto forte, secondo le parole del prete. Che paga a Basilio la trasferta a Parigi per vedere il quadro di Picasso. E con l’incontro tra i due, davanti al dipinto, senza scambiarsi una parola, termina il romanzo. C’è una critica per accumulazione d’indizi, c’è un dolore per accumulazione di morti e di macerie. Ma non c’è presa sul lettore. Soprattutto, non c’è niente di Picasso (o molto poco). Se non nel titolo, appunto. Che quando si legge Guernica (anzi Gernika, come si dice correttamente in basco) pensa subito al quadro. Sensazione che permane sospesa per tutto il testo, ma che non si scoglie mai. Leggere le avventure di Basilio in fondo è salutare per non dimenticarsi le guerre ed i suoi orrori, ma il titolo e il contesto fanno pensare ad altro. Che purtroppo non arriva mai. Un tentativo poco riuscito.
Roberto Fagiolo “L’ombra del Caravaggio” Corriere della Sera Arte 28 euro 7,90
[A: 26/01/2017 – I: 27/05/2018 – T: 29/05/2018] - &&&--  
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 168; anno 2007]
Finalmente un libro che rispecchia lo spirito della collana, che ti lega (abbastanza) alla pagina, e dove alla fine esci anche un po’ nervoso. Perché si parla di furti. E di quadri spariti. Devo dire anche che il primo impatto è stato abbastanza conflittuale, quando mi sono accorto che, invece di essere un libro su Caravaggio, è un libro sui furti d’arte. Di cui uno dei sei esempi è proprio il Caravaggio. Quindi, sembrando ricalcare schemi di racconto, cominciavo a storcere il naso. Fortunatamente Roberto Fagiolo sa avvincere alla pagina, anche forse per le sue derivazioni televisive (autore per anni di “Sfide”). Così anche il gradimento generale sale di conseguenza, lasciandoci un libro agile, e molto, molto innervosente. Fagiolo ci accompagna con sei storie di furti e/o di sparizioni. Di cui solo due vanno a buon fine, cioè solo in due casi la refurtiva viene ritrovata. Anche se, pur ritrovata, misteri permangono a iosa. Per dovere di cassetta, ovvio, si comincia con il furto della Gioconda. Riuscendo tuttavia ad appassionare non tanto per le ben note vicende di Vincenzo Peruggia, quanto per i possibili intrighi nascosti dietro al furto. Come ad esempio quello delle vicende truffaldine dell’argentino marchese di Valfierno, vere o false, che approfittò del furto per commissionare al falsario Yves Chaudron sei copie del quadro, e venderle ad altrettanti allocchi. Anche la seconda finisce in gloria, pur se meglio orchestrata e condotta. Si tratta del furto di sette quadri (due Tiepolo, due Tintoretto, un Giorgione e due Raffaello, tra cui la “Madonna Esterhazy”) avvenuto il 5 novembre 1983 al Museo di Belle Arti di Budapest. Un furto complesso, organizzato da una banda italiana con collegamenti locali, e probabilmente legata ad un mercante d’arte greco. In fatti in Grecia furono poi ritrovati i dipinti e la banda sgominata dai Carabinieri italiani. Ma dopo due successi, la narrazione si fa cupa, perché dobbiamo registrare quattro pesanti insuccessi. Del primo parlerò per ultimo, che sembra quello più intrigante ed interessante. La prima delle altre scomparse si riferisce invece ad un dipinto dello svizzero Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”. Un dipinto degli anni intorno al 1880, pieno di simbolismi tanto da affascinare l’autore, che ne fece cinque versioni, e molta intellighenzia mondiale. Fu amato da Lenin, da D’Annunzio, Strindberg lo volle nella scena finale della “Sonata degli spettri”, Freud lo analizzò psicanaliticamente. Ma lo spunto è la passione che ne ebbe Hitler, tanto da essere presente in una fotografia con lui, von Ribbentrop e Molotov. Pare fosse anche nel bunker che ne vide la fine, e che da lì scomparve senza più essere ritrovato. Come non è stato ritrovato il Bambinello della chiesa di Santa Maria dell’Aracoeli, trafugato nel febbraio del 1994, ed ora sostituito da una copia. Sempre in Italia, patria di tanti tesori e di tanti furti, nel febbraio del 1997, a Piacenza, durante i lavori di allestimento di una mostra scompare il “Ritratto di Signora” di Gustav Klimt. Ritratto particolare, dove alcuni intravedono le fattezze di Alma Mahler (su cui ci sarebbe da scrivere un libro a parte, lei che venne chiamata “la vedova delle quattro arti”, ma non vi dico perché). E che pare avesse ricoperto un precedente dipinto, “La signora dal cappello rosso” sempre di Klimt e scomparso negli anni ’20. Ma la vicenda più intrigante, che forse per questo dà il titolo al volume, è quella della “Natività coi SS. Francesco e Lorenzo”, trafugata dall’Oratorio di San Lorenzo in Palermo nel 1969. Uno dei dipinti più antichi trafugati (a parte quelli durante le guerre). Con un intreccio complesso ed affascinante tra ladri, mafia e politica. Tanto che Sciascia ci fece il plot di “Una storia semplice”. Pare accertato che la mafia sia all’origine del furto. Ma con tanti intrecci. La banda di ladri avrebbe lavorato in un territorio di spettanza di un altro mandamento, creando una lotta interna. Grandi pentiti di mafia, tra cui Mannino e Brusca, hanno partecipato o avuto un ruolo nel furto o nel dopo furto. Qualcuno lo vuole sotterrato in un bosco di ulivi, altri ne parlano come distrutto nel terremoto di Laviano. Altri ancora dicono che se ne interessò anche Andreotti. Ma dopo quasi cinquanta anni ancora avvolto nel mistero. E forse anche distrutto. Mistero che avvolge ancora (ma Fagiolo non ne parla che il libro finisce qui), il Raffaello trafugato dai nazisti nel 1945, il Vermeer e i due Rembrandt rubati a Boston nel 1990, per finire con il Van Gogh sparito dal Museo del Cairo nel 2010. La simpatia di Fagiolo nello scrivere, è che ci presenta, insieme al furto, molti retroscena, antecedenti e conseguenti. Nonché ipotesi sulla nascita stessa di alcuni dei quadri rubati (in particolare quello di Böcklin). Sarà un caso, ma dei libri d’arte del Corriere quelli meglio riusciti, ad ora, sono quelli relativi alle descrizioni dei furti e dei ritrovamenti dei dipinti. Staremo a vedere.
Pierluigi Panza “La croce e la sfinge” Corriere della Sera Arte 30 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 17/06/2018 – T: 20/06/2018] - &&& e ½   
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 203; anno 2017]
Ecco come mi aspettavo fossero tutti i libri della collana. Anche se non sempre la scrittura di Panza mi prende, con piglio sicuro svolge il tema che si prefigge fin dal sottotitolo “Vita scellerata di Giovan Battista Piranesi”. Non solo riuscendo a darci il senso della vita e dell’opera di Piranesi, ma aggiungendo una coda che ci consente di seguire le vicende del figlio Francesco e di dare uno sguardo, rapido ed a volo d’uccello, sulle vicende (o su alcuni aspetti delle vicende) dei Templari o cavalieri di Malta o del sacro ordine di San Giovanni Gerosolomitano o come altro si sono chiamati nella loro vita. Attraverso alcuni rimandi a cronache dell’epoca, vediamo il ventenne Piranesi muovere dalla natia Venezia verso la meta che tutti gli artisti, grandi o piccoli, nel Settecento, agognano come punto d’approdo. Lui, figlio di un tagliapietre emigrato dall’istriana Pirano (ora in Slovenia, e da cui la famiglia prende il cognome), portato senza dubbio per il disegno, ha però in mente di divenire un grande architetto, sulla scia dei grandi che in Roma hanno portato la loro opera (come ricorderebbe mio cugino, senza dubbio Bernini e Borromini). Purtroppo, non è facile avere commesse remunerative, ed il giovane Zuane (questo in realtà il nome nativo) deve arrangiarsi. Si industria ad approfondire le tecniche del disegno, impara presto anche l’acquaforte, prova ad andare a Napoli, per trovare ispirazione in quel di Ercolano. Ma sono i Fori Imperiali di Roma che scatenano la sua fantasia e la sua mano. Con queste sue prime tavole si fa ben presto un nome tra i riproduttori di vedute, spesso ad uso dei turisti. Fino a pubblicare i suoi primi lavori, dodici tavole firmate Giovan Battista Piranesi, nome che diventerà il suo ufficiale. Diventando, per campare, ufficialmente incisore. Solo vendendo incisioni, e trovando supporto nel clero romano, può pensare di sviluppare i suoi sogni, quello di essere ricordato come archeologo, pittore e soprattutto architetto. Intanto si deve sistemare, che gli scapoli non sono ben visti in Roma. Verso i 37-38 anni sposa Angela Pasquini, figlia del giardiniere di Palazzo Corsini, che, tra gli altri figli, gli darà Francesco, su cui torneremo. Ma come detto grandi sono le lotte in corso in Roma, in particolare sotto la spinta del sopraintendente alle antichità, quel Giovanni Winckelmann della cui vita altrettanto avventurosa sarebbe interessante parlare. Un inciso, per i conoscitori di Roma e delle zone nomentane: il predecessore di Winckelmann al posto di sovraintendente fu … Ridolfino Venuti. Dicevo delle lotte, che Winckelmann spingeva per la grecità dell’arte, mentre Piranesi si buttava a corpo morto su Roma, e magari sulle ascendenze etrusche. Tanto da tornare più e più volte nel napoletano per dimostrare che anche lì c’era romanità. Il tutto avveniva sotto l’egida del nuovo papa Clemente XIII, nato Carlo della Torre di Rezzonico. E Giovan Battista entra contemporaneamente sotto l’ala del nipote del papa, Giovan Battista anch’esso, molto legato all’Ordine di Malta. Il Papa lo protegge, sotto la spinta dell’uscita del secondo volume delle Carceri, ne caldeggia la pubblicazione della “magnificenza de’ romani”. Così che il nipote cardinale commissiona a Piranesi la ristrutturazione della Chiesa di Santa Maria del Priorato, all’Aventino. Chiesa che ricordo nelle vedute della mia infanzia nonnesca, anche se, essendo in territorio non italiano, non è possibile visitarla. Fortunatamente, Panza si dilunga con dovizia di particolari sulla chiesa stessa, particolari che invito a leggere, che se ne trae giovamento di intelletto. E dallo scritto scopro che pare sia proprio Piranesi ad inventarsi il buco della chiave da cui dall’Aventino si vede San Pietro. Le fortune dei Piranesi però volgono al brutto, che il nuovo papa cambia rotta nelle sue protezioni, Giovan Battista torna a fare l’incisore, cerca di scoprire altro in quel di Pompei, prendendone solo febbri malsane. Che lo porteranno alla morte, a soli 58 anni, nella sua casa in quella che ora è via Sistina. Una succosa appendice del libro è dedicata alle alterne fortune del figlio Francesco, che cerca di proseguire l’opera paterna, ma che dovrà soccombere a scelte sbagliate politicamente (almeno per Roma). Si fa pagare dal regno di Svezia, entrando in sordite diatribe di spionaggio. Da cui cercherà di salvarlo una lettera redatta da … Vincenzo Monti. Poi si entusiasma di Napoleone, della ragion francese, tanto da dover emigrare a Parigi, quando il papato sconfiggerà la Repubblica Romana del 1799. Dove morirà in povertà, anche se sopravviveva cercando di produrre acqueforti dai disegni paterni. Ma intanto Giovan Battista riposava in pace, nella sua unica Chiesa in cui fu architetto. In pace perché, anche se non mi sono dilungato, molta parte della sua vita fu in contrasto violento con tanti altri. Forse arrivando anche a risse o peggio. Ma la sua vita fu “scellerata” anche senza orrendi delitti. Perché fu senza centro. E fu quasi sempre volta a cercar protezione nelle fazioni perdenti. Altra chicca, su cui non entro, ma chi vuol leggere il libro troverà gustosa, l’intrecciarsi tra architettura ed Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro (di cui ricordo solo un mio personale episodio, quando per la prima volta vidi il Caravaggio de La Valletta). Insomma, un buon libro, esempi forte di quello che mi aspettavo dalla collana.
Terza trama di settembre, e per far contento i miei amici ipocondriaci, un po’ di felicità legata all’ipertensione potrebbe giovare.
Mi scuso del ritardo di poche ore, ma oggi lo abbiamo dedicato io, Ale ed i miei amici scozzesi ad una splendida gita in quel di Bologna, con tanto di visita a FICO. Una bella giornata, tanti amici impagabili che riscaldano il cuore.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
SETTEMBRE 2018
Direi che questo serve proprio: una po’ di tensione in modo che, dopo il rilassamento delle vacanze estive, si possa affrontare ben svegli il lungo inverno.

TRE PILLOLE PER L’IPERTENSIONE

Libri citati

James Ellroy            “Dalia nera”
James Ellroy            “American Tabloid”
James Ellroy            “L.A. Confidential”
James Ellroy            “Sei pezzi da mille”
James Ellroy            “Perfidia”
Sascha Arango        “La verità e altre bugie”
John Buchan            “I trentanove scalini”
Margaret Mitchell   “Via col vento”
Bram Stoker            “Dracula”
Se siete affetti da un’insana passione per i casi senza soluzione e cercate un intrigante compromesso tra giallo e noir, i romanzi di James Ellroy fanno al caso vostro. Da “Dalia nera” a “American Tabloid”, da “L.A. Confidential” a “Sei pezzi da mille” fino al recente “Perfidia”, l’obiettivo di questo originale scrittore è raccontare l’America, la sua storia e le sue storie, immergendosi negli abissi più profondi dell’abiezione e del male. Complice uno stile frammentato, ritmato e adrenalinico, è una lettura al cardiopalmo che può causare palpitazioni e apnee notturne. Preparate le bombole d’ossigeno per usarle quando l'atroce sospetto di non riemergere da questi abissi si trasforma in certezza perché le indagini portano sempre a un’unica, sconcertante verità: è impossibile liberarsi da menzogna, infamia e decadenza e il colpevole non si può acciuffare perché non c’è un unico colpevole, ma lo siamo tutti, tutti siamo complici. Il Male è parte della società, è parte di noi. A questo non c’è soluzione? Come direbbe Hercule Poirot, parbleu!, speriamo di sì!
A proposito di casi irrisolvibili in cui la menzogna contamina a tal punto la verità che non è più possibile distinguere l’una dall’altra, giova decisamente alla salute mentale per la sua buona dose di intelligenza, tensione e ironia, “La verità e altre bugie”. Ogni pagina del brillante thriller di Sascha Arango contiene un colpo di scena, una battuta fulminante, una trovata spiazzante. Tra omicidi, incidenti, coincidenze, risate, tante bugie e qualche atroce verità che non contempla prospettive rincuoranti, l’autore conduce una seria indagine sul ruolo del caso (o del destino, se preferite) nella vita. Il protagonista, scrittore di successo e bugiardo con lode, è praticamente l’incarnazione del male, perfettamente lucido e consapevole delle sue azioni criminali con l’aggravante di risultare perfino simpatico per via di un micidiale humor nero. Questo meccanismo psicologico con cui l’autore si diverte a torturarci conquistandoci con la simpatia del male è inquietante per quanto provoca piacere, come preoccupante è l’idea che, forse, anche la verità altro non è se non una bugia, ma raccontata meglio. Oltre ad appassionare in modo elettrizzante, la lettura del romanzo aiuta a guarire dalla tendenza a dire balle, per le quali sembra essere necessaria una tale padronanza della tecnica che, tutto sommato, si fa meno fatica ad essere sinceri. Sarebbe opportuno assumere il romanzo in gocce, per prolungarne l’effetto, ma è inutile provarci perché una volta iniziato si beve tutto d’un fiato, come una birra fresca quando fa caldo. Anzi, come un Martini, perché come dice il protagonista “i bugiardi tra di noi sapranno che ogni menzogna deve contenere un pizzico di verità per essere credibile. Una spruzzata di verità spesso basta, ma deve esserci, come l’oliva nel Martini”. Tenetelo a mente quando sarete tentati di inventare una bugia pur di restare chiusi in casa a finire il romanzo.
...un Martini, “agitato, non mescolato” è il drink preferito di James Bond. A proposito di agenti segreti e spionaggio, dopo il giallo tradizionale, l’hard-boiled, il noir e il thriller mixato con la black comedy, non possiamo non considerare tra i rimedi da brivido (di puro divertimento) anche una pillola di spy story. John Buchan è lo scrittore a cui tutti i successivi autori di romanzi di spionaggio si sono ispirati, da Graham Greene a Ian Fleming fino a John Le Carré, che ha usato questo genere d’evasione per veicolare argomenti più complessi. Proprio Graham Greene ha individuato la novità di Buchan che “fu il primo a comprendere l’enorme valore drammatico dell’avventura che coinvolge uomini non avventurosi in un ambiente che ci è familiare”, ovvero l’idea vincente che potrebbe accadere a chiunque, anche a noi, quello che capita a Dick Hannay, uomo poco avventuroso che si ritrova coinvolto in intricate trame di misteri e inseguimenti in alcuni fortunati romanzi dello scrittore britannico. Capolavoro assoluto è “I trentanove scalini”, il primo della serie dedicata a Dick Hannay. Asciutto, scattante, praticamente perfetto, è stato portato sullo schermo da Alfred Hitchcock in una delle migliori pellicole del periodo inglese, “Il club dei 39”. Libro e film sono indicati per contrastare la noia e stimolare il divertimento.
John Buchan ha scritto “I trentanove scalini” quando era convalescente a causa di un’ulcera duodenale. Considerando anche che “Via col vento” è nato quando Margaret Mitchell era costretta a letto per un incidente e che Bram Stoker ha pensato “Dracula” dopo un’indigestione di gamberi, possiamo affermare che raccontare e ascoltare storie facilita il percorso di guarigione (non solo spirituale).

Commenti

Lessi una ventina di anni fa, appena uscirono, alcuni libri di Ellroy, che, in effetti, erano pieni di noir e pessimismo (un doppio nero, quindi). Eppur tuttavia sono anni che per un motivo o l’altro sono lontani dai miei scrittoi. Con sorte analoga al Dracula primario e come il libro di Sascha Arango, che, rispetto agli altri, medito di leggere tra non molto, essendo già nei miei scaffali. Rimangono così Buchan come esempio primario e la grande saga del Sud come effetto guaritore della letteratura.
John Buchan “The thirty-nine steps” Oxford s.p. (dalla biblioteca di Tolemaide)
[pubblicato il 7 febbraio 2016]
Avevo messo questo libro tra i ricercabili, per gli accenni libropeutici e per un vago ricordo del film di Hitchcock. Vago, che pensavo fosse un film giallo, ed invece era d’azione. E quanta! Trovo poi il libro non in una biblioteca, bensì negli scatoloni del trasloco della mia ampia e pur tuttavia sparsa collezione di libri duranti i grandi lavori estivi di quest’anno che stanno portando a traslochi e ricollocamenti di nipoti in quel di Prati. Fatta questa premessa, il libro era presente in originale, e, girando per le strade americane, mi è sembrato un giusto omaggio all’inglese (o all’americano). Stranezza poi scoprire che John Buchan, I° barone di Tweedsmuir, è in realtà scozzese. Che, come ci ricorda il titolo appena riportato, è stato un Lord inglese. Non solo, ma questo traspare sicuramente dal testo, ha avuto un’attiva vita politica, tanto da essere nominato nel 1935 Governatore Generale del Canada (cioè il facente funzione del re inglese quando questo non è presente nel territorio canadese, cioè per il 90% del tempo). E che in Canada muore accidentalmente, nel febbraio del 1940, cadendo dalle scale a seguito di un piccolo ictus. All’ictus sarebbe sopravvissuto, ma nella caduta batte ripetutamente la testa, e dopo 5 giorni muore. Coincidenza strana, dal settembre precedente, cioè dall’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe naziste, Buchan stava lavorando febbrilmente per un tentativo di soluzione della crisi, essendo un convinto pacifista, dopo aver visto cosa successe durante la Prima Guerra Mondiale. Il romanzo è di una complicazione incredibile, e sembra un prototipo di quelle che saranno le avventure di James Bond, solo con meno tecnologia. E con un protagonista capitato per caso negli avvenimenti, ma che vi si getta a capofitto come se fossimo nel film “Tutto in una notte”. Siamo nel mese di maggio del 1914; la guerra è alle porte in Europa, Richard Hannay il protagonista e narratore, scozzese, torna nella sua nuova casa, un appartamento a Londra, dopo una lunga permanenza in Rhodesia. Una notte, un suo vicino di casa, l'americano Frank Scudder, lo ferma mentre sta tornando a casa e lo convince a farsi invitare in casa. Una volta entrato gli racconta una strana storia su un complotto ai danni del primo ministro greco, Karolidis che secondo Scudder, sarà ucciso di lì a tre settimane, il 15 giugno, durante una riunione che si terrà a Londra. Scudder gli racconta anche che, per sfuggire ai suoi nemici, ha portato nel suo appartamento un cadavere che ha sfigurato per fare in modo che possa esser scambiato per lui. Hannay nasconde Scudder nel proprio appartamento, ma quattro giorni dopo Hannay torna a casa e trova Scudder morto con un coltello nel cuore. Hannay teme che gli assassini verranno a cercarlo, ma non può chiedere aiuto alla polizia perché è lui il più sospettabile dei due omicidi. Inoltre, si sente in dovere di proseguire l’opera di Scudder e salvare Karolidis. La mattina successiva Richard trova, per puro caso, il taccuino di Scudder, e si prepara a sparire dalla circolazione: per cercare di farlo senza lasciare tracce, convince il lattaio con una scusa a prestargli la sua divisa da lavoro (e spesso si travestirà o convincerà qualcuno a nasconderlo). Nonostante lo stratagemma si sente osservato, ma riesce ad arrivare in Scozia, dove la mattina seguente legge sul giornale che la polizia lo sta cercando. Scappa, ma, individuato, riesce a fuggire riparandosi in una locanda per la notte. Inventa una storia per il locandiere che si convince ad aiutarlo. Durante la permanenza presso la locanda, Hannay decritta il cifrario utilizzato nell’agenda dell’americano. Il giorno dopo, due uomini arrivano alla locanda alla sua ricerca, ma l'oste riesce ad ingannarli, consentendo ad Hannay di rubare la loro auto e scappare. Sulla sua strada, Hannay riflette su ciò che ha appreso dagli appunti di Scudder. Il vero mandante dell'omicidio è la Germania: gli uomini che hanno ucciso Scudder, infatti, appartengono a un'organizzazione chiamata "Pietra Nera", un gruppo di spie tedesche infiltrate in Inghilterra con il preciso scopo di raccogliere segreti militari e di far scoppiare la guerra. Pur avendo mezzi (automobili ed anche un aereo) e uomini in abbondanza, sono un po’ ingenui e, benché varie volte lo scoprano, Richard, con moltissima fortuna e un pizzico di astuzia, riesce sempre a fuggire. Nell’ultimo inseguimento però, onde evitare una macchina, va a sbattere contro un albero. Ma l'altro guidatore gli offre un passaggio: è Sir Harry, un onesto politico locale, che, scoperte le esperienze di Hannay in Sudafrica, ne diventa amico e scrive una lettera di presentazione per mettere in contatto Hannay con una persona fidata al Ministero degli Esteri. Poco dopo, inseguito ancora dalla polizia, finisce per rifugiarsi nel posto peggiore: un casolare occupato da un uomo anziano. Purtroppo, l'uomo si rivela essere uno dei nemici, e con i suoi complici blocca Hannay nella cantina. Per sua fortuna, la stanza in cui Hannay è rinchiuso è piena di materiali per fabbricare bombe, che egli usa per uscire dalla casa, pur tuttavia ferendosi. Dopo alcuni giorni, rimessosi dalle ferite, Hannay riesce a tornare a Londra, dove finalmente incontra Sir Walter, il conoscente di Sir Henry. Mentre discutono gli appunti di Scudder, Sir Walter riceve una telefonata che lo avverte dell’assassinio di Karolidis. Sir Walter svela ad Hannay alcuni segreti militari prima di lasciarlo tornare a casa. Ma Hannay non sa tirarsene fuori, e, preso da un’idea improvvisa, torna di nuovo a casa di Sir Walter, dove è in corso una riunione ad alto livello. Quando un Ammiraglio della Marina lascia la riunione, Hannay lo riconosce come uno dei suoi ex inseguitori in Scozia. Hannay avverte Sir Walter e gli altri funzionari che l'uomo è un impostore e rivela il motivo del suo ritorno: la frase "i trentanove scalini" potrebbe riferirsi al punto di sbarco in Inghilterra, da cui la spia è in procinto di salpare. Per tutta la notte, Hannay e i capi militari inglesi cercano di capire il significato della frase misteriosa, ipotizzando al fine che sia una città costiera nel Kent. Dove trovano, in effetti, una scogliera che con trentanove scalini scende in mare. Ed in mare aperto vedono uno yacht. Fingendosi pescatori, alcuni poliziotti visitano lo yacht e scoprono che almeno uno dei membri dell'equipaggio sembra essere tedesco. Le altre persone ospiti della barca sono a terra impegnate in una partita di tennis, e sembrano invece essere inglesi. Tuttavia corrispondono alla descrizione fattagli da Scudder (un uomo senza una falange ad un dito). Hannay, da solo, li affronta e dopo una lotta, due degli uomini vengono catturati mentre il terzo cerca di fuggire verso lo yacht ma viene anche lui arrestato dalla polizia. Il complotto è sventato. Il Regno Unito recupera le carte con i segreti militari. Poche settimane dopo, l'attentato di Sarajevo farà comunque scoppiare la prima guerra mondiale. Il tutto in meno di cento pagine. Tanto che alla fine della lettura viene voglia di stendersi in un prato e rifiatare. Come diceva un oscuro spettatore ad un film similare, caro Richard guadagnerai due soldi, ma fai una vita… Comunque è stata una lettura divertente, anche se non eccelsa, probabilmente troppo datata. Molto di più lo fu il film del grande maestro, ancora nel suo periodo inglese, e poco dopo il successo della prima versione de “L’uomo che sapeva troppo”.
Margaret Mitchell “Via col vento” Mondadori euro 12
[pubblicato il 25 febbraio 2018]
Devo dire che anche un lettore discretamente veloce come il sottoscritto, non può che riservare un congruo lasso di tempo ad un libro che supera le 1000 pagine. Un libro, inoltre, per diversi versi interessante, ben riuscito, e discretamente coinvolgente. Certo, se uno ha visto una mezza dozzina di volte il film (come il sottoscritto) non c’è più di tanto il piacere della scoperta della trama. Ma c’è il piacere della scrittura, che non stanca nonostante la lunghezza. C’è il piacere di scoprire le piccole differenze che ci sono tra film e libro. C’è il piacere di veder scorrere le avventure di Katie Scarlett O'Hara Hamilton Kennedy Butler (o solo Rossella nella versione tradotta) e Rhett K. Butler e degli altri personaggi, avendo in mente Vivian Leigh, Clark Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland (tanto per ricordare i personaggi principali). Perché, come quasi tutti, ho visto il film prima di lanciarmi nella lettura. Quindi le immagini si sovrappongono, lasciando comunque alla fine la sensazione che, pur con due mezzi espressivi diversi, libro e film abbiano raggiunto i loro scopi. Ma qui si parla di scrittura, ed al libro torniamo. Un libro che celebra l’epopea del Sud, poco prima, durante ed un po’ dopo quella grande ferita americana che fu la Guerra Civile del 1860. Si, proprio mentre noi si celebrava l’Unità d’Italia, lì si consumava una ferita che, forse, ha ancora strascichi, passati che siano 150 anni. Il libro in realtà è un grande affresco, che tocca varie corde romanzesche e storiche, proprio per dipingere, con gli occhi del Sud, gli avvenimenti e la vita e le persone di quegli anni. Proprio la parte storica, benché tinta di qualche rimpianto di troppo, è quella più curata dall’autrice, che spese lungo tempo in ricerche, e che riporta date e fatti con notevole precisione. Una parte storica che vede certo alcuni lati della medaglia della Georgia. I neri erano funzionali al sistema, fornivano manodopera a basso costo, ed altri dettagli. Non erano solo carne da macello. Ma di converso, non tutte (anche ben poche) erano le famiglie “alla O’Hara”, che avevano un rapporto non conflittuale (o non molto conflittuale) con la manovalanza. Era il sistema di vita, tale che, per far piacere al suo capoccia nero, Gerald O’Hara (il padre di Rossella) compera dai vicini la schiava che il suo amato Pork aveva messo incinta. Era una vita di feste, di cavalli, di pizzi e merletti femminili. Che avrebbe permesso, a chi voleva, anche di poter fare il “gentiluomo di campagna”. Come avrebbe voluto fare l’esimio Ashley Wilkes, che mai avrebbe voluto fare il soldato. Che sarebbe stato contento di stare in casa a leggere i suoi amati greci. E che, una volta diventato capo-famiglia, avrebbe anche liberato i suoi “schiavi” negri, facendo scegliere loro se e come restare nella casa delle “Dodici Querce”. Una ricerca storica che presenta anche un solo lato degli “yankee”. Loro, come tutti i soldati del tempo, come tutti gli approfittatori di situazioni estreme, sono “brutti, sporchi e cattivi”. E di certo ce n’erano. Come ovunque. Come anche nei gentiluomini del Sud, che puniscono nottetempo bianchi e neri malvagi. Ma Mitchell lo dice (cosa che non fa il film) che quello era il Ku Klux Klan. E non erano solo buoni vendicatori come Frank Kennedy, ma anche (e tuttora) razzisti e profittatori. Insomma, c’è molto di più di quello che potrebbe mostrare un romanzo (e prima o poi ci si tornerà sopra). Anche perché lo stesso Rhett è un emblema del difficile momento di quelle terre. È un miserabile che sfrutta situazioni favorevoli, che ruba anche (e lo confesserà), ma che ha anche la sua schiettezza, quella che gli fa dire, fin dall’inizio, che il Sud ha tutte le ragioni per perdere una guerra con il Nord. Una su tutte: non ha fabbriche di armi. Seconda su tutte: l’esercito (soprattutto all’inizio) è fatto da gentiluomini e non da soldati di professione (come sono le giacche blu che da tempo combattono per tutto il territorio americano). Secondo risvolto del libro è quello dei risvolti umani, delle relazioni, delle storie d’amore. Con al centro la nostra Rossella. Che attraversa le mille pagine del romanzo con tre matrimoni e tre figli (uno per matrimonio). E con uno sbaglio di fondo: pensa di amare Ashley e pensa che lui la ami. Per questo sposa Charles (Carlo) Hamilton che muore subito e senza lasciare traccia. Che per trovare soldi per mantenere la fattoria, la mitica Tara, sposa Frank (Franco) Kennedy. Non solo trova soldi, ma anche un suo ruolo, anche se non ben accetto, all’interno della società georgiana post-guerra. Diventa imprenditrice, si fa spavalda. Tanto da subire quasi uno stupro, che porterà i suoi vecchi sodali (i Wilkes, i Kennedy, i Tarleton e tutti glia altri) a cercare di vendicarla uccidendo il bianco cattivo. E quasi cadendo nella trappola delle giacche blu. Da cui vengono salvati proprio dal “malvagio” Rhett. Tutti meno il povero Kennedy che ci lascia le penne. Da qui la tormentata storia d’amore tra Vivian e Clark ha i suoi punti e spunti migliori (spesso espunti nel film, che ci fa perdere tutte le battute pungenti di Rhett). Avrà tutto ciò il suo culmine con la morte della figlia dei due. Diletta Butler (“Bonnie Blue” nell’originale) cade da cavallo come cadde e morì il vecchio Gerald. Una ferita insanabile tra i due. Che diventa rottura alla morte di Melania, l’unico elemento equilibratore di tutta la storia. Morte che fa capire a Rossella che per 950 pagine non aveva capito nulla di Ashley. Morte che nelle ultime meno di 100 pagine cerca di tirare le fila della parte romanzesco-rosa del libro. Che ci serve solo a capire quanto tempo ci vuole per maturare. Ma d’altra parte, se guardiamo le date, il libro comincia che Rossella ha 16 anni e finisce quando ne ha sui 28. Vi ricordate voi, come eravate in quel lasso di tempo? Ce ne vuole di tempo pe capire sé stessi (se mai lo si capirà). Inciso, alla fine del libro, Rhett di anni ne ha 45, cioè 17 più della sua amata. Perché nonostante alla fine si lascino (e lo sappiamo bene, avendo visto il film), sappiamo anche, sebbene il libro lanci luci ed ombre sul loro rapporto, che quello tra Rossella e Rhett è, tutto sommato, amore. Infarcito da incomprensioni, immaturità (di Rossella), presupponenza (di Rhett). Insomma, un libro che è un vero microcosmo di quasi tutto. Un libro che fa riflettere sulla poca lucidità di chi non capisce (e non accetta) l’evolversi del tempo. Un libro che ci fa pensare quanto sia meglio domandare che aspettare risposte a richieste non fatte. Un libro che mi è piaciuto, che tutti i miei sostegni di cura per la vanità e per la felicità consigliano, e con ragione. Un libro che, pur essendo uguale, è diverso dal film. Dove c’è la lunga storia del viaggio dalla natia Irlanda alle nuove terre di Gerald O’Hara. Dove c’è la storia di Elena la madre di Rossella, e del suo sfortunato amore per il cugino Philippe. C’è la storia di Mammy (quella di “Missrossella…”), di zia Pittypat, di Bella, di Wade ed Ella (i due figli di Rossella che spariscono nel film), di Suele (la sorella di Rossella), della famiglia Tarleton con i quattro maschi che muoiono in guerra, del dr. Meade e del suo ospedale da campo. E di tanti altri personaggi. Soprattutto, nel libro è meglio scolpita nella pietra la figura di Rhett, nel bene e nel male, che sarebbe troppo antipatico da far interpretare a Clark Gable (anche se sempre meglio lui che la prima scelta, che era Erroll Flynn). Quindi, anche se avete visto il film, leggete il libro. E poi leggete “La guerra civile americana” di Roberto Meccarini, per mettere un po’ di puntini sulle “i” opportune. (E non ho citato neanche una volta le due battute leggendarie del libro: “Francamente, me ne infischio” di Rhett e “Dopotutto, domani è un altro giorno!” di Rossella, o, come dall’originale, ““My dear, I don’t give a damn” e “After all, tomorrow is another day”).

Finalino

Lascerei da parte i commenti su Scarlett O’Hara, ma i 39 scalini sono veramente un libro degno di essere letto per chi non sa come occupare le giornate. Non so di ipertensione o altro, ma Hannay non aveva certo tempo per prendersi un caffè…

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