Un’altra
settimana di massimo relax di lettura, anche se solo di quella. Due autori
ormai classici delle mie letture, Patricia Cornwell con la sua Kay Scarpetta e Michael
Connelly con il numero due, l’avvocato Heller, che non convincono molto
rimanendo su di una scrittura onesta. Il giovanilista Pullman che preferisco
qui piuttosto che nelle sue uscite fantasy. Ed un’ottima prova dell’israeliano
Mishani, che mi riporta nella ridente Tel Aviv. La prova migliore della
settimana. Da leggere per tornare in quelle terre sempre interessanti.
[A: 21/11/2015 – I: 17/03/2018 – T:
19/03/2018] - &&&&
[titolo: Tik Ne’edar; lingua: ebraico; pagine: 299; anno:
2011]
Un libro strano, che all’inizio ho stentato
molto nel comprendere e nell’entrare in empatia con l’autore ed i personaggi.
Verso metà è iniziato un modo di sospensione del giudizio, che stava scivolando
verso il basso, chiedendomi io lettore cosa stesso combinando l’autore. Dai 2/3
in poi, una volta compreso meglio tutto l’andamento, è cominciato a risalire,
ponendosi senz’altro come una delle buone letture di quest’anno. Per una serie
di buone ragioni: un giallo ambientato in Israele, una trama che sembra banale
e non lo è, il personaggio principale che alla fine ti entra un po’ nel cuore.
Insomma una costruzione insolita, che spesso spiazza, che sembra portare il
lettore verso uno scioglimento visto e rivisto, ma che contiene dei colpi di
coda inaspettati. Incominciamo dall’ambiente, un Israele reale, non da
cartolina. Siamo a Holon, sei chilometri a sud di Tel Aviv, tanto che possiamo
considerarne parte. Ed a Tel Aviv e dintorni si svolge l’azione, le ricerche
intorno alla scomparsa del giovane Ofer, sedicenne. Che appunto da Holon la
mattina prende un autobus per la scuola a Tel Aviv. Ed una mattina, così
denuncia la madre, scompare. E ad Holon e Tel Aviv si concentrano le ricerche
della squadra di polizia, comandata dall’ispettore Avraham (Avi) Avraham. La
difficoltà iniziale, per me, è stata che, per una buona metà le descrizioni
delle attività e dei pensieri di Avi si alternano ai capitoli in cui in
soggettiva entriamo nella testa e nella penna di Zeev, un professore vicino di casa
di Ofer, che, sinceramente, oltre ad essere discretamente schizzato, è un
personaggio che non mi è stato mai simpatico. Perché se Avi indaga, cerca di
mettere tasselli intorno ad una vicenda che lascia fin da principio
sconcertati, Zeev è egotisticamente preso da sé stesso, dalla sua voglia di
scrivere, arenatasi dopo il matrimonio e la paternità. Poiché inoltre aveva
frequentato a lungo Ofer per dargli ripetizioni di inglese, si sente in grado
di conoscerne le mosse, di capire perché e come è scomparso. Tanto da
surrogarsi il diritto di fare azioni, a dir poco sconclusionate, che
ingarbugliano non poco le indagini. Fa una telefonata anonima per far cercare
Ofer tra le dune della spiaggia solo per aver modo di parlare con Avi. Poi
comincia ad inviare lettere ai genitori di Ofer, firmandosi Ofer ed asserendo
di essere vivo, di esser fuggito, accusando i genitori di incomprensione nei
suoi confronti. Sembra quasi, e questa è la prima svolta che Mishani ci fa
seguire, e ci fa imboccare con tutte le scarpe, che Zeev non solo sappia molto,
ma che sia in qualche modo direttamente coinvolto nella vicenda. Sarà vero?
Avi, all’oscuro delle manovre di Zeev, intanto ceca con i suoi di ricostruire
il “personaggio Ofer”, perché solo in questo modo pensa di poter sbrogliare la
matassa. Interroga a lungo la madre, che risponde sempre con aria dimessa. Si
aggira nella stanza di Ofer. Fa ricostruire alcune amicizie, una frequentazione
femminile. Infine, riesce a parlare anche con il padre, un marinaio imbarcato
il giorno della scomparsa, e che può tornare solo quando la sua nave si ferma a
Trieste. Anche con il padre ha lunghi colloqui, cerca di capire la tranquillità
del marinaio. Capisce anche meglio la struttura familiare. Perché i due, oltre
ad Ofer, hanno avuto due anni dopo una femmina, Danit, affetta da sindrome di
down abbastanza fortemente (ha anche problemi uditivi) e poi sette anni dopo un
secondo maschio. Anche se nelle more c’è una terza vicenda sottesa, la vita
nell’ambiente poliziesco, con il capo di Avi, una donna, cui lui è legato da un
forte senso di ammirazione e devozione, ed un collega, giovane, che ha tutta
l’aria di mettere i bastoni tra le ruote e di fargli le scarpe. Volendo, c’è
anche una quarta storia, che nel bel mezzo delle indagini Avi è mandato in
missione interforze a Bruxelles, missione inutile, ma dove conosce l’immigrata
slovena Marianke, che gli fa da guida nella città belga (altro punto che mi ha
fatto amare la seconda parte del libro). Marianke che, alla fine delle
indagini, lo verrà a trovare in Israele, e se da cosa nasce cosa, ne vedremo
delle belle in un successivo capitolo. Ma proprio durante la missione in Belgio
le cose precipitano. Zeev ha un senso di pentimento, confessa le malefatte, e
poi dice delle lettere che ha inviato alla famiglia. Avi, e noi con lui, si
domanda perché i genitori ne tacciano. Da qui, precipitano gli avvenimenti,
arrivando ad una conclusione, coerente, ma che non vi delucido. Coerente
soprattutto con l’atteggiamento dei personaggi della vicenda. La pulce che alla
fine Marianke mette a noi e ad Avi, è la possibile lettura delle stesse vicende
in un’ottica simile, eppur diversa. Questa doppia lettura del finale è molto
interessante, come elemento di sorpresa. Che fa scopa con un elemento
altrettanto interessante che tira fuori Avi ad un certo punto: il nostro è un
attento lettore di polizieschi, dove cerca di vedere se sia possibile e come e
dove, che il detective che sbroglia le indagini possa aver commesso un errore.
Un bel giallo ebraico allora, come non se ne leggeva da molto. Ultimo appunto,
per quanto ho capito dall’ebraico, il titolo originale recita “Un file
mancante”. Vicino ma non uguale al titolo italiano.
Patricia Cornwell “Carne e sangue”
Mondadori euro 14 (in realtà, scontato a 11,20 euro)
[A: 21/03/2016 – I: 04/06/2018 – T: 10/06/2018] - && -
[tit. or.: Flesh and Blood; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 2014]
Continua a convincermi poco il proseguire
delle inchieste di Kay Scarpetta e della sua tribù. Non disgiunto dal
fastidioso scrivere dell’autrice che continua a dilatare i tempi descrittivi,
come nel precedente. Tanto che anche qui ci vogliono 272 pagine per svoltare le
prime 24 ore, 70 pagine per il primo sottofinale due giorni dopo e una decina
per un calmo epilogo che non è altro che l’introduzione al libro successivo
(almeno credo, conoscendo l’autrice ed anche se non so niente del 23° libro
della dottoressa Scarpetta). Intanto la Cornwell consolida la tribù
“Scarpetta”: c’è Kay ormai sposata felicemente con Bentley, il profiler
dell’FBI (felicemente è un po’ forte che c’è sempre un po’ di attrito, e Kay
non è mai serena); c’è la nipote Lucy che sembra ormai avere una storia
tranquilla con Janet, ma anche lei non è mai tranquillo; c’è l’amico poliziotto
Marino, rientrato da qualche libro nella polizia ufficiale. E poi c’è la trama,
che cerca di avere il ritmo di un C.S.I. televisivo, ma la Cornwell non è la
Reichs. Kay e Benton stanno per partire per una settimana in Florida dove
festeggiare il compleanno di Kay (che scopro essere nata il 12 giugno, un
giorno prima di mio padre), ma… Prima trovano monete di rame nuove ma con la
data 1981 (anno di nascita di Lucy) attaccate al muro, poi Marino li chiama che
c’è un morto, ucciso da un colpo di fucile, senza testimoni. Tutto chiaro,
tutto normale? Ma scherziamo! Allora Marino, rientrato in polizia allettato
dall’amico Machado, ora entra in competizione con lui che ha sempre notizie
fresche, anche perché si è messo con una dottoressa del team di Kay. Ma Machado
è ottuso, e Marino gli sta facendo le scarpe. Prima lotta senza esclusione di
colpi sotterranea a tutto il libro. Seconda lotta, Lucy ha un comportamento incostante:
fa acquisti di lusso come quando le capita di lasciare la sua ultima amante
(nella fattispecie si compera una … Ferrari!), si toglie l’anello di
fidanzamento, ed è sempre più adombrata dal fatto che i sistemi di sicurezza
della società della zia sono sempre più diventati una groviera. Inoltre, a
questo prima delitto senza movente, se ne aggiungono altri, come se ci fosse un
infallibile cecchino che prende a casaccio delle persone (e non sarebbe una
cosa nuova in un mondo guerrafondaio e trumpista come quello americano). Come
sanno tutti i lettori di gialli, poi, se il serial killer è casuale, non si
troverà mai. Così seguiamo impotenti la striscia di delitti che unisce il New
Jersey, il Massachusetts e la Florida. Tuttavia, abbiamo Benton il profiler,
Kay la patologa, Marino l’astuto poliziotto e Lucy genio dell’informatica. E
vuoi che non si trovi un filo conduttore? Un dubbio c’era venuto, data
l’insistenza sul dettaglio della violazione dei sistemi di sicurezza del bunker
di Kay. Sistemi che Lucy aveva sviluppato quando era in FBI, e stava con una
certa Carrie, che, libri e libri fa, dovrebbe essere morto. Ma vuoi vedere che…
Una volta accettata l’ipotesi, tutto gira nel verso giusto. Carrie che si fa
aiutare dal figlio di un mafioso nelle sue azioni criminali (scoperta diciamo
come sottoprodotto di una uccisione misteriosa in una piscina di Boston).
Carrie che non è morta, ma che sta cercando, uccidendo persone che alla fine si
scopre possono avere un legame con Benton e Kay, di fare piazza pulita intorno
a Lucy, per convincerla a tornare con lei. ma i nostri buoni sono più forti dei
malvagi. nelle 70 pagine in Florida scopriamo una serie di collegamenti, che
non vi dico, una serie di possibilità, che tralascio, ed una lotta finale tra
buoni e cattivi, dove vinceranno i … Leggiamoci questo libro allora, che è un
po’ risalito rispetto alle precedenti e poco convincenti prove. Sperando che la
successiva puntata, come pensato, si mantenga a livello. Un ultimo chicca: Lucy
sbroglia la matassa trovando il filo conduttore seguendo le vicende di una
serie di bottiglie di birra. Non vi dico le vicende, ma vi parlo della birra.
Si tratta della “St. Pauli Girl”, una dark lager tedesca che viene venduta solo
sul mercato americano, dove risulta tra le marche più vendute. Anche perché
ogni anno, sull’etichetta, c’è una modella vestita in costume tradizionale
bavarese. Per i conoscitori del malto fermentato, comunque, io a queste lager,
preferisco una forte ed amara IPA. E vediamo chi ne sa…
“Raramente i malvagi fanno la fine che
meritano, e in realtà i buoni non vincono mai.” (204)
“Fare quello che è giusto complica sempre la
vita.” (249)
Philip Pullman “L’ombra nel Nord” Salani
euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 30/07/2018 – T: 31/07/2018] - && e ½
[tit. or.: The Shadow in the North; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 1986]
Avevo letto il primo libro della trilogia di
Sally Lockhart nell’ambito dei “noir junior” di Repubblica. E come avevo detto
allora, mi era sembrato un onesto e dignitoso prodotto, che sicuramente si
staccava dall’anonimità di tentativi simili. Annunciai allora che avrei cercato
di leggere la trilogia (anche se ora pare si sia aggiunto un quarto volume).
Fatto sta che, almeno questo secondo episodio è stato acquistato, catalogato,
ed ora letto. Devo dire che, da un certo punto di vista, Pullman fa un passo
avanti e due indietro, tanto da perdere un librino di gradimento. La storia si
porta avanti di qualche anno, dato che ci eravamo lasciati Sally sedicenne, ed
ora la ritroviamo a 22 anni, e con una carriera avviata ed un solco di vita
abbastanza ben tracciato. Tuttavia, il tono generale rimane quello degli
“junior”, che credo leggano con meno entusiasmo storie di ventenni. Mentre i/le
ventenni non sembrano essere in linea con queste letture. L’altro punto in
sospeso è un raccordo non completo con il precedente. Sì, abbiamo gli stessi
protagonisti, ma c’eravamo lasciati con la sparizione di una bambina di nome
Alessandra, e che qui non compare. Si sono consolidati i diversi lavori: Sally
ha aperto una piccola agenzia di consulenza finanziaria (anche se per le donne
è un mestiere non ancora “open”), Frederick prosegue con la Garland&Co. per
le foto e con le sue piccole investigazioni. Jim Taylor rimane il ragazzo
tuttofare, anche se tende al melo e cerca di scrivere commedie e tragedie (che
nessuno vuole interpretare). Anche se indirizzato ai meno junior, rimane il
pallino di Pullman di indirizzare i giovani verso nozioni da approfondire, magari
fuori del contesto del romanzo. Abbiamo così gli accenni a Edward Muybridge con
i suoi esperimenti di fotografie in movimento, antesignane del lancio delle
macchine da ripresa cinematografiche alla “fratelli Lumière” (ricordo che
l’azione qui si svolge nel 1878 ed il cinema nasce nel 1895). I possibili
agganci con le realizzazioni belliche di Nordenfelt, uno svedese che produsse
cannoni e brevetti per sommergibili. Una parte consistente è anche dedicata
agli spettacoli di “magia”, telepatia e psicometria, che fanno un po’ da sotto
testo a tutto il romanzo (inteso come aiuto all’azione e spunto per la stessa).
Dal punto di vista sociale c’è sempre il discorso sul ruolo della donna, e
sulle scarse possibilità che aveva al tempo (mentre ora!!), ovviamente personificato
da Sally e dai suoi atteggiamenti. Oltre ad un accenno alla nascita del
sindacalismo nelle fabbriche. Infine, qualche carrellata sul teatro, inclusa
una piccola stoccata al direttore del Lyceum Theatre e ad una sua tirata contro
un dramma proposto da Jim, troppo pieno di vampiri (peccato che tal direttore
sia proprio Bram Stoker, non solo autore di “Dracula” ma anche laureato in
matematica!). Il romanzo prende le mosse dalla necessità di recuperare un
investimento di una cliente di Sally, mandata in rovina dal fallimento di una
società altresì solida. Indagando e cercando Sally risale ad un personaggio che
lega questa ad altre imprese finanziarie, un misterioso Bellmann che sta
mandando in rovina tutta una serie di società (ed i relativi investitori) per
far convergere i soldi in una sua opera che scopriremo essere un “cannone a
vapore”, una specie di mitragliatrice su rotaia, che fa molto gola allo zar di
Russia. Questa storia si intreccia con quella di un prestigiatore che chiede
aiuto a Jim (e quindi a Frederick) essendo minacciato di morte per aver “visto”
in un delirio psicometrico la morte di tal Nordfels (vedete il parallelo con il
nome di cui sopra) per mano di … Bellmann. Come ovvio le storie si intrecciano,
Sally, Jim e Fred si aiutano nei vari passi che porteranno alla scoperta di
cosa sia realmente la “Stella del Nord” di cui molti parlano ma di cui nessuno
sa molto. Nel solito gran calderone si intrecciano momenti di tensione,
inseguimenti, lotte, agnizioni, personaggi che non sono quello che sembrano.
Insomma, il solito bagaglio di elementi che fanno, tutti insieme, il grosso del
romanzo di Pullman. Momenti di amore, fanno da contraltare a momenti di
tristezza, come la morte del cane Chaka, e … (altro che non narro). Alla fine,
Sally riuscirà a sconfiggere il cattivo, a recuperare soldi e crediti.
Lasciando aperta la porta per il terzo volume della serie. Una piccola chicca
per finire è la scoperta dei brevetti di Nordfels, laddove tutti i pezzi di
ferro presenti hanno inciso “норд”, dove con un po’ di fantasia si può leggere
“HOPA”, per poi scoprire che, se lo leggiamo in cirillico, leggiamo appunto …
“NORD” (con un piccolo ringraziamento a Nico che mantiene sempre vivo il mio
interesse per le lingue).
“Gli
attori e le attrici non sono crudeli come la gente comune; anche se pensano
qualcosa di cattivo, sono più bravi a nasconderlo. E poi sono vanitosi … e non
sempre si accorgono degli altri.” (165)
Michael Connelly “Il dio della colpa”
Pickwick euro 10,90 (in realtà, scontato a 9,30 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 20/08/2018 – T: 23/08/2018] - && e ¾
[tit. or.: The Gods of Guilt; ling. or.: inglese; pagine: 415; anno 2013]
È dall’aprile dello scorso anno che non
mettevo mano ad un libro di Connelly, così sono contento che la roulette libraria
me ne chieda una lettura. Anche se parliamo di un libro della serie spin-off
della principale, dove il ruolo del protagonista viene assunto da Mickey
Heller, fratellastro del nostro amato Bosch. Ma soprattutto, avvocato. Quindi
siamo nel pieno del “legal thriller” americano, laddove, in effetti, poco ci si
cura (anche se non si dimentica) la parte nera e/o investigativa (quella in cui
era maestro Perry Mason), ma dove l’accento e l’attenzione è posta su tutti
quei meccanismi legali che seguiamo con tanta difficoltà noi cultori del
diritto latino (anche se qualche cosa c’è ormai entrata in testa da Grisham in
poi). Ed in questo caso particolare, che sembra servire di raccordo ad altro
che non capiamo, seppur abbiamo un piccolo mistero da risolvere, la maggior
parte della storia serve a mostrare come si riesca a condannare il vero
responsabile di quanto è accaduto. Usando poi quella metafora che, pur sensata,
poi non riveste un ruolo centrale come dal titolo parrebbe. Mickey definisce la
giuria “The Gods of Gulit” (Gli Dei della colpevolezza, o della colpa), laddove
in italiano il plurale viene ricondotto al singolare (perché “Dio”, visto che i
giurati sono 12, come gli apostoli?). E laddove, inoltre, seppur il nostro
avvocato ed il suo avversario PM, si rivolgono alla giuria, questa non entrerà
mai in campo. Perché il campo è occupato dagli avvocati stessi (tanti) e dal
giudice. Al solito, in questa sotto serie, Connelly mescola più che altrove
pubblico e privato, lasciando fluire il racconto su diversi binari. Quello
privato di Mickey segue sempre i binari del suo difficile rapporto con la
figlia avuta dal primo matrimonio, che in alcuni libri si avvicina, ed in
altri, come in questo, si allontana. Anche per alcuni colpi non ortodossi dello
stesso avvocato. Mickey lavora sempre al suo meglio, come quando fa assolvere
un tizio, per altro poco raccomandabile. Il fatto è che lo stesso, uscito dal
carcere, investe ed uccide due persone conosciute dalla figlia del nostro. E
lei non gli perdona l’assoluzione. Per tutto il libro, questo rapporto va
avanti ed indietro, e solo alla fine, anche se la figlia si allontana
fisicamente (va ad abitare dall’altro capo di Los Angeles) sembra possibile un
riavvicinamento morale. Altra incursione è la descrizione di un paio di
incontri con il fratellastro Harry, quello della serie maggiore, che però non
hanno molto senso nello sviluppo della trama. La trama stessa poi parte da un
fatto quasi privato: la morte di una prostituta, Gloria Dayton, che Mickey
aveva difeso in passato e che aveva aiutato (almeno formalmente) ad uscire dal
giro. Cosa che invece era ben lontana dal vero. Gloria rimane a fare la escort,
e del suo brutale omicidio viene accusato Andre, un omosessuale che gestiva i
suoi siti web. Mickey comincia ad indagare ignaro, ma le indagini sue, e del
suo team (la seconda ex-moglie e segretaria Lorna, il di lei marito Cisco e
l’aiuto avvocato Jennifer) portano alla descrizione di un ben diverso scenario.
Gloria era servita per incastrare un sicario e narcotrafficante messicano,
Horatio Moya, nascondendo una pistola nel suo appartamento, dietro istigazione
di un corrotto investigatore della sezione narcotici, Juan Marco. Ora gli
avvocati di Moya avevano trovato delle prove di ciò, e volendo tirar fuori di
prigione Moya mandano un mandato di comparizione a Gloria. I mandati sono
pubblici, il cattivo di turno lo scopre, ed imbastisce una messa in scena alla
“finta Pretty Woman” dove incastra Andre ed uccide Gloria. Mickey capisce il
complotto, ma non ne ha le prove, e cerca di tirarle fuori agendo su quello che
ritiene l’anello debole della catena. Alla fine, riuscirà nell’intento di far
assolvere Andre, anche se non di catturare il o i colpevoli. Nelle more del
racconto, intanto, conosce una ex-amica di Gloria, uscita dal giro ed ora
insegnante di yoga, con la quale sembra nascere un timido rapporto. Comunque,
tutto il libro, e tutta l’eventuale suspense, si basa sulle procedure penali ed
investigative americane, decisamente aliene a noi del Vecchio Mondo. Quindi,
dopo anni di letture, seppur si possono seguire, a me lasciano perplesso per il
margine di discrezionalità ed arbitrarietà che a volte comportano. Incidenti
procedurali, dichiarazioni emesse fuori tempo, affermazioni avventate durante i
dibattimenti in aula. Certo, Connelly è bravo nel muoversi in questa giungla
(anche se forse non come il primo Scott Turow o come John Grisham). Ed è anche
bravo a sottolineare come i cattivi non sempre siano da una stessa parte. Il
mondo è inevitabilmente grigio, e non tutto bianco o tutto nero. Una lettura
rilassante, ma meglio tornare a Bosch, il prima possibile.
Essendo in
modo non usuale la quinta settimana di settembre mi permetto di recuperare
qualche trama dedicate alle letture che ci consentono di affrontare malanni e
disagi.
Niente viaggi, ancora, solo idee e poca
concretezza. Si va nel finale della ricostruzione della casa di campagna (che
si finirà prima o poi). Si va ad affrontare un mese di compleanni e di ricordi,
che commenteremo a poco a poco. Si spera che gli acciacchi si fermino lì dove
sono.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
SETTEMBRE 2018 – QUINTA DOMENICA
Oltre a qualche festa non
domenicale, mettiamoci a recuperare in quei mesi che presentano cinque domeniche.
Eccoci quindi con quattro uscite da leggere ex-novo.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
ADOLESCENZA, USCIRE DALLA
L'adolescenza non deve essere un inferno.
Ricordatevi che, se siete adolescenti, pure i vostri coetanei stanno lottando
per valicare lo stesso abisso e, se ce la fate, lottate insieme a loro. Con gli
amici o senza, assicuratevi di fare tutte quelle cose stupide e folli che fanno
gli adolescenti. Se non ci riuscite prima del diploma, allora prendetevi un
anno di pausa e aspettate a iscrivervi all'università (badando bene di leggere,
nel frattempo, i libri giusti). Poi, quando sarete più grandi, almeno potrete
guardarvi indietro, ripensare a questo tempo inebriante, eccitante, ormonale, e
riderne.
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE TRA LE SUPERIORI E L'UNIVERSITÀ
Chimamanda Ngozi Adichie L'ibisco viola
Albert Camus Lo
straniero
Elias Canotti La
lingua salvata
Truman Capote Colazione
da Tiffany
Beppe Fenoglio La
paga del sabato
Ernest Hemingway Festa mobile
Daniel Keyes Fiori
per Algernon
Cesare Pavese La
luna e i falò
Alessandro Piperno Con le peggiori intenzioni
Charles
Webb Il laureato
CENT’ANNI, AVERE PIÙ DI
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CHI HA PIÙ DI CENT’ANNI
1.
Thomas Bernhard Estinzione
2.
Andrew Sean Greer Le confessioni di Max Tivoli
3.
Jonas Jonasson Il
centenario che saltò dalla finestra e scomparve
4.
Yasunari Kawabata La casa delle belle addormentate
5. Milan Kundera L’immortalità
6.
Cormac McCarthy Oltre
il confine
7. A. A. Milner Winnie the Pooh
8.
Georges Perec La
scomparsa
9.
Osvaldo Soriano Un’ombra
ben presto sarai
10. Giuseppe
Tomasi di Lampedusa Il gattopardo
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
ADOZIONE
Ann Patchett “Corri”
Nei Gaiman “Il
figlio del cimitero”
Ed
in aggiunta:
Frances
H. Burnett “Il giardino segreto”
Rudyard
Kipling “Il libro della
giungla”
Emily Bronte “Cime tempestose”
T. H. White “Re in eterno”
La
letteratura per l’infanzia è piena di bambini adottati. Mary Lennox, ne “Il
giardino segreto”, è una bambina viziata che impara ad amare in un nuovo,
gelido clima; Mowgli, ne “Il libro della giungla”, viene allevato dai lupi;
Tarzan, nei romanzi di Edgar Rice Burroughs, dalle scimmie. Un alone romantico
sembra circondare questi trovatelli - e a ben guardare a chi, da bambino, non è
capitato di litigare coi propri genitori e immaginare di essere figlio altrui?
I bambini adottati si sono fatti strada anche nella letteratura per adulti: per
esempio Heathcliff, in “Cime tempestose”, che sconvolge il delicato equilibrio
della propria famiglia adottiva; “Wart”, in Re in eterno di T. H. White, uno
dei rari casi di bambini adottati di successo in questo elenco - scopriremo
infatti che si tratta di Artù, re di Camelot.
In
realtà, l’adozione è meno romantica e può essere una faccenda complicata per
tutti gli interessati - per i genitori naturali che decidono di rinunciare al
loro bambino; per i bambini che scoprono la verità in modo tutt’altro che
ideale; per i bambini che incolpano i genitori adottivi della propria
confusione, e che possono mettersi in cerca dei genitori naturali solo per
restare delusi; infine, per i genitori adottivi che devono decidere quando dire
ai propri figli che sono «speciali» e non consanguinei. L’intera questione è
irta di insidie - ma anche piena di amore, e può significare la fine della
sofferenza per chi non ha figli - e a tutti quelli che ne sono coinvolti
farebbe bene esplorarne la complessità con chi ci è già passato.
Uno
dei più belli tra i romanzi recenti con bambini adottati è “Corri”, di Ann
Patchett. Doyle, ex sindaco di Boston, bianco, ha tre figli: Sullivan, Teddy e
Tip – uno è bianco coi capelli rossi, due sono neri, atletici e molto alti. Sua
moglie Bernadette, dai capelli rosso fuoco e madre di Sullivan, è morta. La
madre biologica di Teddy e Tip è la «spia che venne dal freddo» - ha guardato i
figli crescere da lontano, consapevole dei loro successi e dei loro fallimenti,
delle loro amicizie e rivalità, come un angelo custode.
Quando
Kenya, undici anni - la ragazzina che corre del titolo - viene a vivere
inaspettatamente in casa Doyle, le complesse dinamiche famigliari cominciano a
prendere nuove direzioni. Teddy e Tip sembrano destinati ad avere successo,
come scienziato e futuro sacerdote, ma Doyle avrebbe voluto che seguissero il
suo esempio in politica. Il fratello maggiore, Sullivan, ha passato un po’ di
tempo in Africa per cercare di contribuire alla lotta contro l’AIDS, oltre che
per fuggire al passato e a un terribile incidente. Con i nuovi problemi posti
dalla presenza di Kenya le storie delle diverse origini dei fratelli salgono
gradualmente in superficie - ed è il suo semplice, ma irresistibile bisogno di
correre, splendidamente descritto da Patchett («era una forza sovrumana, fuori
dalle norme fondamentali della natura. La gravità, con lei, non funzionava»), a
riunirli tutti. Il messaggio complessivo del romanzo è chiaro, e trasmesso
senza sentimentalismi: il sangue è importante, ma l’amore lo è ancora di più.
La
conferma del fatto che anche i genitori meno convenzionali possono fare un buon
lavoro adottando un bambino arriva dalle pagine de “Il figlio del cimitero” di
Neil Gaiman. Un ragazzino, una sera, va in giro in esplorazione e così riesce a
evitare la morte per mano di «Jack del Mazzo», che uccide il resto della sua
famiglia. Finito in un vicino cimitero, viene adottato da una coppia di
fantasmi. Il signore e la signora Owens, ora defunti, in vita non avevano avuto
figli e accolgono con gioia quella inattesa occasione per diventare genitori.
Il bambino si chiama «Nobody», ma per tutti è «Bod». Durante la sua eccentrica
infanzia, Bod sviluppa poteri speciali come «svanire, infestare certi luoghi,
entrare nei sogni altrui» - che in seguito si riveleranno molto utili.
Gli
spettrali genitori di Bod fanno un ottimo lavoro. «Sei vivo, Bod. Questo
significa che hai un potenziale infinito. Puoi fare qualunque cosa, costruire
qualunque cosa, sognare qualunque cosa. Se potrai cambiare il mondo, il mondo
cambierà». La loro saggezza di defunti spinge Bod a vivere la propria vita al
massimo, malgrado la tragedia dei suoi primi anni, e lui sicuramente ci riesce.
L’adozione
non è mai una cosa semplice. È essenziale che tutti siano onesti, perché ognuno
possa accettare chi e quali rapporti lo legano agli altri. Qualunque ruolo
interpretiate, questi romanzi vi mostreranno che non siete soli. Leggeteli, e
poi passateli ai vostri famigliari - comunque sia formata la vostra famiglia.
Incoraggiateli a dare voce ai propri sentimenti.
Bugiardino
Senza ripetermi, devo dire che
dell’adolescenza ne scrisse in una trama del marzo 2014, dei centenari parlai
nella Pasqua del 2016, e sull’adozione scrissi qualcosa per Ognissanti del
2017. Quindi non mi ripeto e riporto qui le “nuove” letture.
ADOLESCENZA, USCIRE DALLA
Charles Webb “Il laureato” Sonzogno euro 5,95 (in realtà scontato a
1,80 euro)
[tramato
l’11 marzo 2018]
Secondo
le mie libropeute andrebbe letto da tutti gli studenti universitari. Io
allargherei il brodo, proponendolo un po’ a tutti, con l’avvertenza che: se
conoscete a memoria il film avrete molte immagini sovrapposte (e non sempre
giuste), se non conoscete Webb, sarebbe bene capire anche chi sia l’autore.
Intanto, non so dirvi cosa sia meglio, anche se è certo che il film, con la sua
risonanza, è un punto fermo nel panorama ideale di molti di noi. Ed è anche
certo che senza il film, questo libro sarebbe rimasto uno dei tanti buoni
propositi letterari americani. Scritto per di più da un irregolare della
scrittura, da questo Charles Webb che (sembra anche in modo
para-auto-biografico) produce questo libro, di protesta, verso un mondo che già
vedeva stretto per i suoi orizzonti. Poco prima si era sposato con la sua Eve
(cui dedica il romanzo), e comincia una vita strana ed errabonda. Eve si taglia
i capelli a zero e decide di farsi chiamare Fred, come un noto gruppo
femminista californiano. Charlie cede i diritti del libro per ventimila
dollari. Charlie e Fred-Eve hanno due figli e, tanto per gradire, gestiscono un
campo nudisti, divorziano per protesta verso il modo in cui vengono trattate le
donne, ma ancora vivono insieme, fanno mille lavori: uomo delle pulizie, cuoco,
raccoglitore di frutta, commesso in un supermercato. Attualmente, quasi
ottantenne, vive nella costa sud dell’Inghilterra, sulla Manica. Ma veniamo al
libro, che non è un capolavoro di scrittura, pur avendo alcuni presupposti
interessanti, e che vengono intuiti da Mike Nichols, il regista del film.
Perché il libro è tutto un dialogo, come ci si può aspettare da un libro dei
primi anni sessanta, che cerca di farci intuire delle cose. Ma che con
difficoltà ce le descrive. un dialogo tanto ben fatto, che, come dice qualcuno,
sembra già di leggere il copione del film e non il libro da cui ne viene
tratto. Ed attraverso i dialoghi vediamo (o meglio sentiamo) la ribellione del
protagonista, Benjamin Braddock detto Ben, verso il mondo perbenista ed
omologato della California del tempo. Illuminanti, pur nella loro essenzialità,
gli scontri verbali tra Ben e il padre. Illuminanti, per un verso opposto, i
mancati dialoghi tra Ben e Mrs. Robinson. Moglie di un amico del padre,
conosciuta alla festa al ritorno dal suo “Graduate” (che più o meno equivale
alla nostra laurea triennale), è una donna disillusa dalla vita e per ripicca
alcolizzata ed un filino perversa. Ma anche, americanamente, diretta: vuole Ben
come oggetto di piacere, e lo prende, lo usa, quasi gli fa da mamma. Tanto che
lo istruisce e lo maltratta, come in molte famiglie non solo americane. Ed alla
fine lo ripudia, quando il suo vibratore privato ha l’ardire di mettere gli
occhi sulla figlia, unico suo punto debole. Elaine Robinson è pura, Ben è
traviato. Ed ecco la buona, sana, mamma americana fare di tutto per allontanare
i due. Arrivando a confessare i suoi misfatti, pur indorando la pillola,
dicendo cioè che è Ben che le ha messo le mani addosso. Ma Ben, dopo tutta la
noia dello studio, del padre, dell’insulsa vita familiare, nonché delle scopate
senza amore con la signora Robinson, capisce le potenzialità del suo rapporto
con Miss Robinson. La corteggia, dichiara il suo amore, rischia di perderla
dopo la confessione, che Elaine fugge e non lo vuole più vedere, anche in
questo sobillata dalla madre. Per arrivare all’epilogo che tutti conosciamo per
aver visto il film (e quindi non scopro certo misteri): Ben vuole impedire che
Elaine sposi un altro, entra in chiesa ma non riesce ad arrivare alla navata
principale, è costretto a salire al primo piano, e dalla ringhiera vede Elaine
andare verso l’altare, comincia a prendere a pugni la ringhiera, ad urlare, si
precipita giù, lotta con tutti, e poi finalmente prende la mano di Elaine,
corre fuori dalla chiesa Presbiteriana di Santa Barbara, e si avvia in autobus
verso l’aeroporto. Avrete di certo notato le piccole differenze con il film, ma
non importa, tanto non è un libro giallo di cui non dovreste sapere il finale.
È un libro pieno di archetipi della vita americana (non ultima la Duetto rossa
che il padre regala a Ben), ed ha in nuce i prodromi di quella ribellione che
anche il film (che è del 1967) anticipa, e che proprio in California
scoppieranno l’anno seguente. Ripeto e concludo: non un libro indimenticabile,
ma un libro che funziona da madeleine proustiana, e che invoglia, ad un certo
punto, di prendere un qualsiasi diffusore sonoro, e mettere su la colonna
sonora mirabile di Simon e Garfunkel. E continuare a leggere mentre nella mente
scivolano le parole “Hello darkness my old friend”, l’inizio di quel suono del
silenzio che ad un certo punto riporta due versi scolpiti nella memoria per la
capacità di rendere tutto un mondo: “People talking without speaking, People
hearing without listening” [“Persone che parlano senza dir niente, persone che
sentono senza ascoltare”]. Ascoltate e pensate, amici mei.
CENT’ANNI, AVERE PIÙ DI
Milan Kundera “L’immortalità” Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 9,75
euro)
[tramato
il 9 settembre 2018]
In
genere non sono particolarmente tenero verso Milan Kundera, che ho letto a
sprazzi, e non sempre mi ha convinto o coinvolto. Devo dire che questo libro,
che non conoscevo, e che sono stato spinto dal volume “Curarsi con i libri” a
leggere, invece mi è discretamente piaciuto. Intanto, credo che posso affermare
con tranquillità che, come cura per i centenari, non è efficace. Ma questo sarà
oggetto di altre riflessioni. Qui vediamo intanto il profugo ceco che da più di
dieci anni si è rifugiato a Parigi scrivere l’ultimo libro nella sua lingua
madre. Dopo di questo, scriverà soltanto in francese. La vera sfida di questo
libro è quanto poi riporto preso da pagina 257: Kundera afferma che un romanzo
per essere sé stesso deve essere letto e non può essere raccontato. Il suo
alter-ego, nel libro, gli fa presente che “I tre moschettieri” può essere ben
raccontato, ma Milan rimane con il suo assunto, e noi qui si accetta la sfida.
Non per raccontarlo, ma per attraversarlo. Un romanzo con tanti fili, tante
storie che si intrecciano, ma che tendono a dimostrare l’assunto di fondo da
cui nasce: che senso ha la scrittura in questo mondo dominata dall’immagine?
Una domanda viva trenta anni fa e che ora è, se vogliamo, ancora più viva. Ed
il mondo dell’immagine, se mi consentite (citazione ovvia) è un mondo che tende
a rendere tutto superficiale, dimenticabile, sostituibile. Non voglio entrare
in questioni politiche che però le mie parole hanno già adombrato, e chi ne sa,
sa anche come si potrebbe proseguire. Io, molto modestamente, torno allo
scritto. Che, appunto per la sua inenarrabilità, contiene tante storie che si
intrecciano, e che alla fine hanno un filo conduttore che tutte le collega.
Intanto, l’autore è presente nel testo dalla prima all’ultima pagina. Di
persona, che ci narra come nasce lo spunto che gli fa inanellare gli
avvenimenti. Ed alla fine, ci scioglie le riserve e chiude il libro. Con una
chiusura aperta, così com’è la vita. Perché è questo il bello del romanzo, che
parla di storie, come se parlasse di articoli giornalistici. Un gesto di Agnés
scatena la fantasia di Milan che aspetta il suo amico Avenarius. Un gesto
femminile, uno slancio del polso teso ad un saluto. Da lì, andando a spasso per
il tempo, ci narra la complessa storia di Agnés e della sua famiglia. Di suo
marito Paul, di sua figlia Brigitte, di sua sorella Laura. Un esempio
dell’entrata ed uscita del romanzo dalla vita è ad esempio il sentire con Milan
le notizie mattutine del giornale radio, lette e commentate da tal Bernard,
figlio di un insulso deputato di nome Bertrand (voluta confusione di nomi). Con
l’andare del tempo, scopriamo che Bernard è l’amante di Laura, e che Avenarius,
sempre in vena di tirar fuori il ridicolo dalla vita (sostiene che è l’unica
cosa seria), confondendo padre e figlio in un’unica persona, dona a Bernard una
targa che lo elegge “asino integrale” (una specie di “tapiro d’oro”
ante-litteram). Bernard va in depressione, non riesce a risolverla con l’aiuto
di Laura, che medita il suicidio da cui è salvata da Paul e Agnés. Ma Agnés è
ben incartata nella sua difficile vita, insoddisfatta dal marito e dalla
figlia, anche se li ama profondamente. È anche divisa tra Parigi e la Svizzera,
da dove proviene, e dove ogni tanto si rifugia per stare in solitudine con i
suoi monti. Tanto che medita di accettare il trasferimento a Ginevra. Nel sesto
capitolo, un capitolo tutto dedicato a Rubens, un tizio così soprannominato per
la facilità pittorica giovanile, e che passa la sua vita a cercare
soddisfazioni erotiche, vediamo come ad un certo punto della sua vita Agnés
diventi amante saltuaria proprio di Rubens. E quando questi la cerca perché ne
sente la mancanza, scopre che Agnés è morta. Sì, muore in un incidente
stradale, di cui discettano Kundera e Avenarius (questo sempre per la capacità
dell’autore di entrare ed uscire dal testo). Laura, lasciato Bernard, trova
consolazione in Paul, che ha sempre amato. Scatenando le ire di Brigitte, la
figlia, che va via insalutata. Per vie traverse, scopriamo anche che Laura è
saltuariamente anche l’amante di Avenarius. Fino alla chiusura finale del
cerchio, sempre nella piscina che vide l’inizio dell’avventura. Lì si ritrovano
tutti, Paul, Kundera, Avenarius e Laura. Che per prima se ne va, ripetendo il
gesto fatta da Agnés anni prima. C’è anche qualche altro cerchio che si chiude,
ma non ha importanza. Perché questa è la storia nel senso “romanzesco” del
termine. Il libro è, proprio per quell’assunto sopra riportato, ben altro.
Anche altro. Non a caso il secondo capitolo è interamente dedicato alla storia
tra Goethe e Bettina Brentano. Lì dove si discetta di gesti, di immortalità, di
atteggiamenti di Bettina, dei suoi amori e dei suoi amanti. Tra i quali lei
volle iscrivere anche il sommo Goethe, che già solitario si avviava
all’immortalità, facendo in qualche modo caderne qualche goccia anche su di
lei. È un capitolo intenso che non ha senso percorrere, ma che a senso leggere.
Sia in sé, sia nel contesto del libro. Con quelle chiuse di passeggiate
nell’aldilà tra due immortali come Goethe e Hemingway. Ma è proprio in questo capitolo
che si gettano le fondamenta dell’essere e dell’apparire. Goethe è. Bettina
appare, e lo fa talmente bene, che alla fine è e sarà così come il suo maestro.
Mi sono divertito ad ogni incrocio improbabile della scrittura, seguendo le
casualità folli che immagina Kundera: come il susseguirsi di alcuni episodi che
mi hanno ricordato Peter Sellers e Hollywood Party. Avenarius, nelle sue folli
scorribande, decide di bucare con un coltello le ruote di alcune macchine a
caso. Buca due ruote di una macchina, rimane con il coltello in mano, si volta,
una signora lo vede e pensa che lo stia minacciando, un gendarme lo vuole
arrestare. Paul esce di casa, ed in quanto avvocato gli offre il suo
patrocinio. Poi va a prendere la macchina ma è quella con le due ruote bucate.
E lui deve correre in ospedale dove è ricoverata Agnés vittima dell’incidente
che risulterà mortale. Un magistrale fuoco di fila. Un’ultima osservazione
logistica prima di lasciarvi. A pagina 312, Rubens visita il Palazzo Barberini,
poi esce e va a Villa Borghese dove incontrerà Agnés che non conosce ma che,
tra i busti del Pincio, scatenerà la loro passione erotica. Ora, Kundera
afferma che Rubens sale la scalinata di Piazza di Spagna, ma da Palazzo
Barberini al Pincio, facendo via Sistina, non si fanno le scale. Svista? Non
so. Comunque un altro momento intrigante di un libro piacevole. Proprio perché,
l’essere di noi tutti, normali mortali, sarà sempre lontano dall’apparire.
Purtroppo anche dall’immortalità. Che forse ha senso se si hanno figli, come si
accenna ad un certo punto. Ma questa è tutta un’altra discussione.
“Un figlio è l’essenza di ogni amore e non
ha nessuna importanza se sia stato realmente concepito e messo al mondo.” (71)
“Non sapremo mai come e perché irritiamo la
gente, in che modo risultiamo simpatici, in che modo risultiamo ridicoli: la
nostra immagine è per noi il nostro più grande mistero.” (141)
“Se un pazzo che oggi scrive ancora romanzi
vuole salvarli, deve scriverli … in modo che non si possano raccontare.” (257)
“È una pura illusione voler iniziare … una
‘nuova vita’ … La vostra vita sarà sempre fatta … degli stessi problemi, e ciò
che in un primo momento vi apparirà come una ‘nuova vita’ ben presto si
dimostrerà una semplice variazione di quella precedente.” (294)
ADOZIONE
Ann Patchett “Corri” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato a 7,31 euro)
[scritto
il 18 agosto 2018 e non ancora pubblicato]
Pensavo che le cure delle mie
dottoresse malate di libri si riferissero a quella brutta malattia chiamata
razzismo. Invece no, anche se qualcosa c’entra, il maggior interesse cui viene
sottoposto il libro riguarda il tema delle adozioni. Anche se poi, su questo
tema, l’autrice imbastisce tutto un suo mondo dedicato ai rapporti. Rapporti
tra adulti, rapporti tra giovani, rapporti tra giovani e adulti. Ma prima di
entrare nel merito, due parole sullo stile. Si sente, dallo scorrere del testo,
dalla presa delle parole, che la Patchett ha lavorato a lungo nel mondo della
carta stampata, pubblicando articoli per una decina d’anni su settimanali e
mensili. Una scrittura fluente, anche se, passando dal giornalismo al romanzo,
ogni tanto si nota qualche intoppo: un passaggio a volte brusco di scena (da un
ospedale ad una casa di riposo, dalla stanza di Tip al suo laboratorio). Il
romanzo in sé è articolato in un mini prologo ed un mini epilogo, intervallati
dal corpus di più di 200 pagine che descrive 24 ore nella vita della famiglia
Doyle, e di alcuni personaggi al contorno. La famiglia è composta da Bernard,
il padre, sessantenne ex-sindaco di Boston (ed a Boston si svolge tutta la
trama), cui una quindicina (o poco più) di anni prima è morta la moglie
Bernadette, entrambi eponimi di famiglie irlandesi, cattolici e devoti. I due
hanno un figlio, Sullivan, che all’epoca della storia ha una trentina d’anni.
Colpito dalla morte della madre, non riesce mai ad avere un buon rapporto con
il padre, che in lui sperava per “onori e glorie”, così come spesso fanno i
padri con i figli. I due rompono definitivamente quando, guidando ubriaco,
Sullivan ha un incidente di macchina dove muore la sua fidanzata Nathalie. Per
coprirlo, Bernard inventa una complicata menzogna, che però mette fine alla sua
carriera politica. Sullivan allora si allontana sempre più. E qui lo ritroviamo
tornante da un lungo soggiorno in Africa, dove si è dedicato ad affari poco
chiari. La coppia Doyle, quattro o cinque anni prima della morte di Bernadette,
adotta un bambino negro, Teddy. Ma per farlo, la madre naturale chiede loro di
prendersi cura anche del fratello di lui, Thomas detto Tip, di soli quattordici
mesi. Così i due si trovano ad avere una coppia di ragazzi coloured da
crescere. Che poi crescerà Bernard da solo, riversando su di loro le
aspettative che Sullivan ha deluso. Ma anche i due decidono di avere delle
strade proprie. Tip si appassiona all’ittiologia, e, benché studente in
medicina, passa tutto il suo tempo a studiare e catalogare i pesci. Teddy, più
solare, e sempre con la testa tra le nuvole, trova i suoi momenti migliori
andando a trovare il vecchio zio, il padre Sullivan, malato ed avviato ad una
serena vecchiaia, pur contrappuntata da momenti di intensa religiosità.
Bernard, pur non più sindaco, si appassiona sempre alla politica ed ai diritti
civili, costringendo Tip e Teddy ad accompagnarlo in tutte le riunioni ed i
dibattiti pubblici. Questo sarà l’elemento scatenante del libro: all’uscita da
una conferenza di Jesse Jackson, Tip sta per andare sotto un SUV ma viene
salvato da una donna, Tennessee, che viene investita al suo posto. Tip ha solo
una slogatura, mentre Tennessee viene ricoverata in gravi condizioni
all’ospedale. L’intrigo è che Tennessee ha con sé una ragazza undicenne di nome
Kenya, e dalle parole di Kenya veniamo a sapere che Tennessee potrebbe essere
la madre naturale di Tip e Teddy. E quindi Kenya ne è la sorellastra. Tutto il
romanzo si costruisce intorno a questo intreccio. Ai sentimenti tra i ragazzi,
ai dubbi di Bernard, ai rapporti con Dio e con gli uomini di padre Sullivan.
Alle maturità della stessa Kenya, ed alla sua bravura nella corsa (da cui il
titolo). Rimarranno dei dubbi se sia Tennessee la madre dei tre ragazzi negri,
o se qualcuno di loro sia invece figlio della sua amica Beverly. Ma non è
questo che importa. Noi seguiamo la crescita esponenziale della maturità di
ognuno in queste 24 ore cruciali. E ne seguiremo l’epilogo nel breve capitolo
di 4 anni successivo, dopo che Tennessee muore in ospedale ed anche Kenya entra
a far parte della famiglia Doyle. Le cose migliori sono però proprio i rapporti
che si instaurano tra Tip, Teddy e Kenya. E nei pensieri del fratello maggior,
unico bianco in questa famiglia allargata. Una America come ci piacerebbe
fosse, e come mi piacerebbe potesse essere ovunque. Senza barriere di colori,
ma solo con le persone e con le loro personalità. Purtroppo credo che sia una
visione un filo utopistica e buonista, che abbia poco riscontro nel reale. Ma
la speranza, anche in noi anziani come Bernard, non viene mai meno. Ci sarà, io
spero ancora, un mondo migliore per tutti. Intanto, rallegriamoci che, almeno
sulla carta, qualcosa c’è. Anche se poi, nel finale, non tutto va o andrà verso
lieti fini che sfortunatamente non sono (ancora) di questo mondo.
Neil Gaiman “Il figlio del cimitero” Mondadori euro 10,50 (in realtà,
scontato a 8,90 euro)
[scritto
il 22 agosto 2018 e non ancora pubblicato]
Ero
molto curioso di leggere qualcosa di questo complesso autore inglese:
scrittore, giornalista, fumettista ed altro ancora. Ma in particolare ero
curioso di un duplice aspetto di questo autore. Scrive libri per ragazzi, vincendo
con questo la “Carnegie Medal for children book”. E nello stesso anno, con
questo stesso libro, vince il Premio Hugo di fantascienza. Chi sa i miei
trascorsi giovanili, non potrà che convenire con me nella curiosa coincidenza.
Da adolescente, avevo praticamente tutti i libri vincitori dei Premi Hugo (in
onore di Hugo Gernsback, fondatore nel 1926 della prima rivista di Sci-Fi al
mondo). Parliamo ad esempio di Robert Heinlein, di Fritz Leiber, di Philip K.
Dick, di Roger Zelazny ino a Ursula Le Guin, Philip Farmer e Isaac Asimov. Ma
la spinta finale me la donò il libro sulle cure librarie, accostando questo a
quell’altro da poco letto (“Corri” della Patchett). Devo dire che confermo la
gradevolezza del testo, la sua scorrevolezza, nonché rimandi sapienti a
classici della letteratura gotica (da “Il castello di Otranto” Horace Walpole a
“L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson). Ma anche lo stile un po’ troppo
didattico: certo in un “educational book” ci può stare, seppur a volte troppo
palese. Fidarsi delle persone, ma controllare. Non aver paura dei diversi.
Studiare. Osteggiare i bulli. Insomma, tutta una serie di codici civili che
qualcuno dovrebbe ricordare a M6S (vediamo se capite a chi mi riferisco!). La
storia, in sé, è di quelle che si pongono sul limitar del vero, dove, facendo
un piccolo sforzo, si entra nel gioco e non se ne esce. Come cento anni prima
di Neil era stato fatto per l’operazione Peter Pan. Un bambino sfugge ad una
strage (ed in questo c’è un ricalco palese dell’inizio di Harry Potter), e
viene accolto dalla comunità dei morti in un cimitero. Sotto l’egida della
Signora con la falce, i morti si palesano al bambino. Due ne diventano i
genitori adottanti. Uno, Silas, il tutore. In quanto Silas non è né vivo né
morto, quindi può uscire dal cimitero e procurare al bimbo almeno da mangiare.
Non esseno noto a nessuno, così viene chiamato; cioè, in inglese, Nobody, che
verrà usato solo con il diminutivo Bod. Nel corso dei capitoli, assistiamo alla
crescita di Bod, su per l’infanzia, sino allo scoccare dei 16 anni, che sembra
un limite “fisico” per continuare a vivere con i morti (ossimoro cercato a
lungo). E Bod attraversa tutte le tappe dell’infanzia e dell’adolescenza,
contando solo sui suoi amici “tombali”. Che escono, girano per il cimitero, e
non invecchiano (questo il peccato maggior per Bod che invece cresce). Ci sono
i teneri genitori Owens, l’antico romano, il poeta, lo scrittore, e tanti
altri. Oltre a Silas, che accoglie le richieste di Bod, risponde alle sue
domande, cerca di indirizzarlo, ed anche di proteggerlo. C’è Liza, una falsa
strega, bruciata per invidia e sepolta in terra sconsacrata. Che tuttavia è
gentile e molto innamorata di Bod (anche senza possibilità di futuro). E poi
c’è Scarlett, una bimba reale che incontra Bod intorno ai cinque anni. E che
poi, dopo una parentesi scozzese, ritrova dieci anni dopo. Con immutata gioia e
forse con l’idea che possa nascere qualcosa in più. Ma dietro tutti i momenti
di formazione e di cauto divertimento, incombe la storia cupa. Chi è che voleva
uccidere Bod? Ed il pericolo esiste ancora? Qui vediamo la parte più gotica del
libro, dove ci sono i “buoni”, chiamati anche “Mastini di Dio”, che cercano e
riescono alla fine a sconfiggere i cattivi. I buoni che sono amici i Bod:
Silas, ad esempio, che scopriamo essere un vampiro pentito, e la signorina
Lupescu, un lupo mannaro molto materno. I cattivi fanno parte di una non meglio
“Confraternita”, un “Deck of People” (vedrete meglio il perché dell’inglese),
che gestisce un non meglio fantomatico potere. Se si sente minacciata,
interviene uccidendo a più non posso. Per fare ciò utilizza “gente di basso
livello”, diremo i fanti dei battaglioni. Qui c’è appunto la parte
intraducibile del libro e del gioco di Gaiman. Il potere è gestito da quell’insieme
di persone numericamente ristretto, che costituiscono il mazzo (“Deck”). I
sicari sono i Fanti, che in inglese vengono chiamati “Jack”. E sono proprio
quattro Jack (come dice il capitolo “Tutti i fanti del mazzo” cioè “All the
Jack of the Deck”) che cercano di eliminare Bod. Soprattutto il primo, quello
che aveva ucciso la famiglia di Bod. Primo che si mimetizza in ricercatore
stralunato, facendosi chiamare Mr. Frost, che raggira Scarlett per usarla
contro Bod, minaccia che Bod sventa, facendo uccidere il cattivo da un mostro
delle tombe. Ovviamente la parte “ironica” di Gaiman si mostra anche in questo
passo, dove il cattivo, alla fine, si presenta come Jack Frost. Che a noi
italiani non dice nulla, ma che nella letteratura inglese, e nei racconti popolari,
è il nomignolo di Mastro Inverno, quello che porta freddo e gelo, e fa morire
campagne e persone. Tornando al romanzo, Scarlett, pur volendo bene a Bod,
rimane sconvolta da questi fatti. Sarà Silas a farle dimenticare tutto e
rimandarla in Scozia. Dove forse, in un futuro libro, incontrerà di nuovo Bod,
e tutto potrà cambiare. Ma Bod deve lasciare il cimiero, ormai è grande, e deve
percorrere le strade del mondo. Come gli canta mamma Owens nella ninnananna che
lo segue per tutta la storia: “Face your life / Its pain, its pleasure / Leave
no path untaken” (“Affronta la vita / Son gioie e dolori / Non lasciar cammini
inesplorati”; dove purtroppo nella traduzione l’ultimo verso viene aggiustato
con “Che non siano inesplorate / le strade di ieri”. Perché ieri? Misteri).
Alla fine, certo, libro per adolescenti, ma ce ne vogliono come questi per
farli crescere. Ben scritto, Neil.
“È come chi crede che se va a vivere da
qualche altra parte sarà felice, ma poi scopre che non è così che funziona.
Ovunque tu vada, porti te stesso con te.” (118)
Conclusioni
Nulla da dire sulle adozioni e
sull’adolescenza. Siamo d’accordo ed in sintonia. Meno, l’ho detto già e lo
ripeto ora, sui libri consigliati ai centenari. Anche se Kundera, rispetto ad
altre prove, mi è sembrato leggibile e da consigliare.
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