Forse
sarebbe stato più giusto collocare questi “saggi” la prossima settimana, ma,
forse, li avreste troppo mescolati alla congerie di info che viaggiano gli
ultimi giorni prima di Natale. Per cui, alla fine, ho deciso di proporveli
oggi. Laddove c’è un superlativo Terzani che vi dono senza altri commenti ed un
interessante ultimo Bauman. Non poteva mancare, prima che finisca il cinquantenario,
un pensiero al ’68. Infine, quale miglior momento di ragionare sul consumo?
Marie-Emmanuelle Chessel
“Histoire de la consommation” La Découverte s.p. (regalo di Marina)
[A: 03/04/2018 – I: 26/05/2018 – T: 30/05/2018] - &&&
-
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 101;
anno 2012]
Un saggio interessante, anche se ad un certo punto mi aspettavo di più.
Comunque iniziamo dai sentiti ringraziamenti per l’amica Marina, che, non
sopportando i romanzi, continua a leggere saggi. Ed a regalarli. Inciso: tanto
per i romanzi, basta che legga le mie trame. Questo saggio, intanto,
discretamente agile, ha un pregio ed una difficoltà. È chiaro e lineare, e
questo non è da tutti gli scritti. Tuttavia, anche se giustamente cercando di
corroborare lo scritto con informazioni aggiuntive, riempie le pagine (anche)
con riquadri fuori contesto. Che ovvio, possono essere tralasciati seguendo il
filo del ragionamento. Ma se poi al ragionamento vogliamo dare sostanza non si
può che inglobarne la lettura. Ed allora il filo si aggroviglia, si perdono
riferimenti mentali che si stavano costruendo. Insomma, tutto viene reso più
difficile. Soprattutto per le persone anziane, che un ragionamento alla volta
sanno seguire (e spesso neanche quello). La storia del consumo dal XVII° secolo
ad oggi, passando per l’inizio dei consumi di massa, per il ruolo delle donne
come consumatrici onnivore o della produzione e distribuzione dei beni e delle
merci, la Chessel ci accompagna gradevolmente da un mondo polveroso e da “Re
Sole” dove i ricchi consumano e sprecano e gli altri barattano per
sopravvivere, sino al mondo odierno, al mondo del superfluo più che dell’utile.
Certo, da buona francese, si concentra sulla storia e sulle problematiche
dell’esagono (ricordo che se noi chiamiamo “stivale” la nostra terra, i
francesi chiamano “esagono” la loro). Ma non può, per ovvie ragioni di
influenza sul mercato, dimenticare il ruolo e le scelte che operano gli Stati
Uniti, per loro e (purtroppo) anche per noi. L’idea di fondo, e da cui si
parte, è semplice e stimolante: consumo o società dei consumi che sia, bisogna
capire cosa c’è dietro e dentro la produzione, la distribuzione, l’acquisto e
l’utilizzo delle merci da parte di persone che assumono gradualmente una
propria identità. Quella di “consumatori”. E nel corso delle pagine, la Chessel
prova a dare una risposta a tre domande fondamentali: quando inizia la
“consumazione”? In quali territori fisici si svolge questa storia? Chi ne sono
gli attori? Se queste sono le domande, e se le risposte sono nelle pieghe del
discorso, un altro punto fondante che mi ha fatto riflettere è la presenza
attuale, ma che da lungo si profila all’orizzonte del consumo: la
contrapposizione tra il consumo etico e il consumismo. Entrambe, alla fine, si
pongono come scopo quello del benessere dei consumatori, soprattutto
nell’attenzione (o nella mancanza di attenzione) verso il consumo operato dalle
classi meno abbienti. Fondamentalmente, non è proteggendo i lavoratori e
gli operai che si partecipa al loro benessere, ma considerandoli come
consumatori che in quanto tali sono in grado di pretendere prezzi competitivi,
poche il mercato del lavoro garantisce loro un soddisfacente potere d'acquisto.
Convince, in fin dei conti, un’affermazione che contrasta teorie astratte
seppur discusse ed approfondite nel corso degli anni (“la mano invisibile” di
Adam Smith, il “libero mercato” di David Ricardo, e via a studiare come non
faceva di tempi di “Salario, prezzo e profitto” che spero qualcuno ricordi). Non
si tratta quindi di riformare il capitalismo secondo dottrine astratte, ma di
impegnarci quotidianamente "consumando in modo diverso". Vero Franco?
Certo, il libro non tocca né approfondisce tutto (in fondo sono solo cento
pagine). Non si studia il legame tra consumo e sviluppo economico. La storia
della distribuzione delle merci è solo tratteggiata. Eppur tuttavia rimangono
piccoli brandelli di “nuovo” che mi hanno ancora ed ancora aiutato nelle
riflessioni. Uno, se vogliamo banale, è la variazione della misura dei carrelli
nei centri commerciali. Sappiamo che tali centri nascono negli Stati Uniti,
dove le famiglie entrano, prendono carrelli e li riempiono di tutto, con una
corsa all’acquisto (anche) del superfluo che ci fa inorridire. Ebbene,
all’inizio, importato in Europa, tale modello funziona poco. I carrelli sono
troppo grandi, la gente non li riempie, e si sente frustrata nel bisogno di
consumo emulativo. L’idea vincente: produrre carrelli più piccoli, che più
facilmente di riempiono e rendono soddisfatto il consumatore. Altri esempi
minori, anche se forti nel processo produttivo, sono ad esempio la diffusione
del fordismo come utilizzo della catena di montaggio per produrre beni in poco
tempo, con pochi costi, così che l’utilitaria sarà per tutti. O l’introduzione
della Coca-Cola nel mercato europeo, che avviene solo nel 1919 alla fine della
Prima Guerra Mondiale (ma ricordo che in Italia non entrò sino al 1927), nonché
dell’utilizzo di Babbo Natale come testimonial della Coca-Cola stessa a partire
dal 1931. Infine, qui termino analisi e spigolature, mi ha interessato la
nascita di “Big Mac”, inteso come indice del potere d’acquisto di un bene, in
questo caso un prodotto McDonald’s, per misurare il potere economico di una
nazione: così vediamo come lo stesso panino in Svizzera costa €5,53 mentre in
Egitto costa €1,58. Cifre che si commentano da sole.
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” TEA euro 7,50
[A: 05/07/2016 – I: 29/06/2018 – T: 04/07/2018] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 576;
anno 2004]
Per me, tutto il senso del libro,
e tutto il mio senso per il libro, è chiuso in quella frase che riporto in
fondo. Il più grande viaggio, quello immancabile, ad un certo punto. E se
vogliamo quello che vorremmo fare con la coscienza di farlo. Un viaggio verso
sé stessi, per trovarci in fondo alla strada, dopo aver girato, anche con
Terzani (ma anche no) da New York all’India, dal Tamil Nadu all’Himalaya.
Terzani gira il mondo e le sue diverse situazioni per cercare di capire il
rapporto tra il sé stesso malato ed il cancro. All’inizio, anche, e
soprattutto, per capire se e come fosse possibile una cura. Se e come si
potesse uscire dal tunnel. Terzani comincia con la medicina tradizionale, con
il centro anti-tumori di New York. Con i bombardamenti chemioterapici. Ci
colpisce la serenità con cui inizia ad affrontare questo viaggio. E la tranquillità
di affidarsi alla allopatia. Quando il primo ciclo finisce, ed i dottori gli
danno tregua, Terzani decide di cominciare a spendere il suo tempo in altre
ricerche. Intraprende allora anche un viaggio fisico, oltre che mentale, che lo
porta in India, in Tibet, nelle Filippine. Dialoga con tutti, parla con tutti,
non si tira indietro, non esaurisce mai la sua curiosità. Dalle sue pagine
escono fuori maghi, saggi, santoni. Prova tutte le medicine cosiddette
alternative: le diete con le erbe, i digiuni, i canti sacri, la meditazione
yoga, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la pranoterapia, fino al Qi gong ed
al Tai Chi. Sono bellissime tutte queste pagine dove il nostro fiorentino
errante non mette mai il tono del ridicolo in nessuna possibile cura. Come laicamente
facemmo noi, durante gli studi sugli approcci psicoterapici, la medicina buona
è quella che ti fa sentire bene. Lo psicologo buono non dipende da questa o
quella branca di pensiero, ma se quel pensiero arriva al tuo corpo, al tuo
cuore, alla tua mente. Come diceva sempre allora uno dei miei mentori “Il corpo
non mente”. Terzani è tuttavia sempre stato scettico su tutte le cose che ha
incontrato nella vita, adottando sempre ed ovunque il motto di capire prima di
riproporre (non di giudicare, che mi sembra sia sempre stato alieno a questo
metro di espressione). Quello che trova in Oriente, non è, non sarà una cura al
suo male, ma il modo di rovesciare il problema, di accettarlo. Di trovare una
sua pace interiore. Quando anche l’ultima medicina ha rivelato la sua
fallacità, Terzani ci fa capire che il suo viaggio attraverso tutti i possibili
modi di curare il proprio corpo malato, è in realtà un viaggio che deve servire
a curare LA malattia (scusate l’uso del maiuscolo ma qui ci vuole). Una
malattia che colpisce tutti, la paura della morte. Quindi non siamo in cerca,
soltanto, di una cura per il corpo, ma di una cura per l’anima. Una cura che
devo portare a cambiare il proprio punto di vista, che ci deve portare ad
essere in armonia con tutte le cose, visibili ed invisibili, animali e
minerali. Terzani, con la sua barba bianca, con il dhoti gandhiano, assume un
andamento “naturalmente” francescano. Dopo aver girato il mondo, dopo aver
salutato i suoi amati monti himalayani, si ritira per l’ultima fase della vita
ad Orsigna, nell’Appennino Toscano, chiudendo il cerchio vitale con la sua
nascita fiorentina. Lui ha ritrovato il senso del vivere e del morire. E non
finisce mai di esserci utile, quando continua, ricordando anche i suoi
trascorsi giornalistici, a farci ragionare sui rapporti umani. Ci parla delle
guerre che ha visto, sperando di portarci verso quella pace che non vede e non
vedrà. La bellezza dello scritto è che in ogni elemento che incontra nella vita
vede qualcosa e ce lo comunica. Dal piccolo al grande. Chi è malato, chi vede
da vicino, in sé o in altri, le malattie, anche le più terribili, sente, con
me, una terribile angoscia leggendo queste pagine. Non perché facciano vincere
quella malattia invincibile che è la paura della morte stessa. Ma perché
sappiamo, so, che non saprò mai affrontarla. Il grande merito di Terzani, ed il
grande “odio” che provo per lui (e capitemi perché l’ho virgolettato), è che mi
ha ricordato che non possiamo dimenticarci della morte. In questi anni, dove
molte persone a me care ci hanno lasciate, papà, mamma, Gastone, Paolo, Carlo…
In questi anni dove anche noi stiamo accumulando anni e mesi. E di sicuro,
anche se non so come né con quale angoscia, è più vicina una fine che un
inizio. Ti odio Terzani che me lo ricordi. Ti amo profondamente, perché so che
non ne sarò mai capace, ma so che qualcuno ci prova e forse ci riesce. Ti
voglio infintamente bene per come hai saputo mostrare il tuo amore per Angela.
Così bello che non voglio parlarne di più. Caro Tiziano, infine, il tuo libro è
talmente denso, che lo citerei tutto. Ma per ora tante e tante sono le frasi
che mi rimangono, che solo alcune riesco a condividerle. E qualcuno leggendone
ne saprà.
“In Ladakh le malattie di cuore sono pressoché sconosciute perché la
gente vive all’aria aperta, mangia cibi biologici e non ha bisogno di andare in
palestra per tenersi in forma.” (62)
“La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i
rapporti tra le persone.” (70)
“La caotica, indiscriminata valanga di informazioni prodotta da
internet ha creato quell’ormai diffusissimo sapere a metà che è la peggiore e
la più pericolosa forma di ignoranza.” (90)
“Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. …
L’India … fa sentire ognuno parte del creato.” (153)
“Viaggiare mi esaltava, mi ricaricava, mi dava da pensare, mi faceva
vivere.” (196)
“Non c’è felicità per chi non viaggia.” (204)
“L’apparente indifferenza [degli indiani] mi colpì ricordandomi quello
che mi è sempre sembrato il buco nero dell’induismo: l’assenza di compassione.”
(223)
“Nel corso della ita tante cose possono andarci storte, e di solito lo
fanno.” (297)
“Il problema sono io e io sono la soluzione … L’onda non ha bisogno di
diventare oceano, deve solo rendersi conto di essere oceano.” (350)
“Il Kathakali [è] la vecchia forma teatrale
del Kerala … Sulla sinistra del palcoscenico stavano i tamburisti, capaci con
le mani o le bacchette di ricreare il frastuono di una battaglia, lo scorrere
di un torrente o il quieto tic-tic di una goccia d’acqua che cade su una
foglia. Sulla destra stavano i cantanti. Con l’aiuto di cimbali, di un gong e
di un’orchestra d’una ventina di uomini, tutti a torso nudo, allineati dietro,
loro raccontavano la storia e pronunciavano le battute dei vari personaggi,
perché nel Kathakali gli attori sono muti, al massimo emettono dei suoni
gutturali. Gli attori «parlano» coi loro movimenti; comunicano pensieri ed
esprimono stati d’animo coi gesti delle mani; ‘dicono’ con le smorfie e con gli
occhi.” (400)
“La malattia è una forma di disarmonia con l’ordine cosmico.” (450)
“Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile
andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sé.”
(516)
“Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso
la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per
il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo
preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più
impegnativo, il più intenso.” (Prologo)
Micromega “1 e 2 – 2018 / Il Sessantotto” Repubblica editore euro 19,50
[A: 26/01/2018 – I: 24/09/2018 – T: 28/09/2018] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 431;
anno 2018]
Comprato
all’inizio delle “celebrazioni” del cinquantenario e letto quasi alla fine, ma
letto. Non sono particolarmente amante di MicroMega né tanto meno del suo
direttore Paolo Flores d’Arcais (anche se ricordo con piacere l’amicizia
giovanile con Alberto), tuttavia questo numero speciale non ho potuto fare a
meno di comprarlo. E di leggerlo. Non è omogeneo, non ha pretese (e sono
contento di questo) di analisi dotte (ci sono altri luoghi ed altri spazi,
secondo me). Tuttavia ha due elementi sicuramente positivi: alcune
testimonianze, o meglio ricordi, del periodo, ed alcuni documenti contestuali
alla data. E se su questo secondo punto torneremo più avanti, non posso fare a
meno di rilevarne alcuni aspetti “estremi”, come le righe che riporto in
finale. Indubbiamente, pur nella loro disomogeneità, dovuta anche alla diversa
età dei narranti, una delle parti che più mi hanno attratto è la “memoria” di
chi ha partecipato a quegli anni cruciali. Ribadisco subito: plurale, che il
’68 in Italia è stato uno degli anni più lunghi che conosco, partendo
dall’aprile del ’66 quando muore Paolo Rossi sulla scalinata di Giurisprudenza
e finendo il maggio del ’78 con l’uccisione di Aldo Moro. Un anno durato 13
anni! Cruciali, poi, che la vita in Italia, bene o male, è stata diversa prima
o dopo quegli anni. Dove molti dei protagonisti hanno fatto strade e percorsi
diversi, dove la stessa politica, lo stesso modo di intrecciare rapporti tra
forza lavoro e capitale economico ha avuto impennate e cambiamenti. E dove lo
stesso vivere sociale è mutato. Senza l’anno cruciale, non credo ci sarebbe
stato il divorzio, l’aborto, il sindacalismo sfrenato, i colletti bianchi,
l’assistenzialismo, il culto del minimale. Forse una serie di conquiste
avrebbero impiegato più tempo ad entrare nelle coscienze. Forse una serie di
arretramenti sarebbero stati vissuti in modo diverso. Forse, e sottolineo molte
e molte volte il dubitativo, non saremmo in questa contingenza invivibile di
questi anni 2000. Ma torniamo al testo ed ai suoi contenuti. Dicevo delle
memorie, di cui si legge con piacere, con le loro varie esperienze e che elenco
in ordine discendente di età nell’anno fatidico: Camilleri (43 anni), Luciana
Castellina (39 anni), Nicola Piovani (32 anni), Renzo Piano (31 anni), Piera
Degli Esposti (30 anni), Francesco Guccini (28 anni), Gian Carlo Caselli (29
anni), Paolo Flores d’Arcais (24 anni), Massimo Cacciari (24 anni), Paolo Mieli
(19 anni), Carlo Verdone (18 anni). Sono anche ripotati ricordi e memorie di
vari esponenti della lotta di quegli anni provenienti da tutta Europa e
dall’America (in fondo, un altro inizio si ebbe alla Columbia University a New
York e ne parla Paul Auster, un altro nel maggio francese con Daniel
Cohn-Bendit, uno in Germania con Rudy Dutschke, e via discorrendo). Ma io
ritornavo sempre alle memorie italiane, a gli Uccelli di Architettura, a “La
Zanzara” del Parini di Milano, e Bologna, a Torino. Ripensando ai miei di
quegli anni. Io, giovane liceale, scaraventato in questo mondo in folgorante
ascesa. Io che manifestavo contro i colonnelli davanti all’Ambasciata Greca a
Piazza Ungheria, alle assemblee dl mio liceo, il Righi di via Sicilia (sempre
surclassato dai vicini del Tasso), alle prese di posizione con Piervittorio,
con Fabrizio. Ma anche alle discussioni con mio padre, che in quegli anni stava
mettendo su l’impresa della sua vita, quell’agenzia di stampa, coordinamento
tra i cattolici di base, con cui tornerà a fare politica, e con cui andrà
avanti lottando e soffrendo sino alla morte, quaranta anni dopo il ’68. L’altra
parte molto interessante invero dell’operazione MicroMega è la ripresentazione
di alcuni documenti dell’epoca. Alcuni che avevo perso e di cui avevo sentito
vagheggiare, li ho letti con estremo interesse. La poesia di Pasolini “Il PCI
ai giovani” sui fatti di Valle Giulia, ed il successivo dibattito pubblicato
dall’Espresso nel giugno del ’68. La stessa cronaca della battaglia di
Architettura, in un articolo firmato da Giampaolo Bultrini e Mario Scaloja, ma
scritto sulla base della testimonianza di prima mano di Paolo Mieli. Anche se
non coevo, il dibattito a vent’anni dal ’68, che coinvolgeva in una tavola
rotonda protagonista dell’anno mirabile, ma che già avevano fatto scelte
diverse: Adriano Sofri e Paolo Flores d’Arcais, ancora a discutere, Fabio
Mussi, entrato e restato a piè pari nel PCI, Gianni De Michelis, rampante del
PSI, Roberto Formigoni, passato al tempo in Comunione e Liberazione, e poi con
tutto il percorso che si conosce. Ma ancora più interessanti, e con una
difficoltà enorme di lettura sono gli estratti di una rivista che ben si
conosceva, “Servire il popolo” con il suo maoismo estremo, e l’articolo già del
’64 di Mario Tronti, intitolato “Lenin in Inghilterra” e di cui riproduco
alcune righe di una chiarezza estrema (!!). Di certo, tanto altro si può dire
su questo scritto. Tanti spunti che sobbollano nella mente: la classe operaia,
il rapporto operai-studenti, le contraddizioni della borghesia. Tanto si può
anche dire di come il disgregarsi in momenti e rivoli vari (da quelle lotte,
come non ricordare “Lotta Continua” di Sofri, “Potere Operaio” di Oreste
Scalzone e Franco Piperno, "Avanguardia Operaia" di Silverio
Corvisieri, ed a cui aderì in gioventù anche Claudio Bisio) che portarono
(anche) alla lotta armata, di cui nulla so se non di quello che si diceva in
assemblea negli anni ’70. E di cui il vero e forte ricordo è la mia avversione
all’etichetta “compagni che sbagliano”. Ma non voglio tornare sopra queste
macerie. Voglio solo tornare alle idee di quegli anni, forti, coinvolgenti. Ed
ai fari che illuminarono la mia strada buia e tortuosa. In primis, Mario Mineo
che mi diede un sentiero che seguii per molti anni. E poi, subito dopo, quelli
che sono ancora tra i miei amici più cari. Luciano, Ciccio, Giuzzo. Ed altri
che ho perso per strada, sia per scelte diverse sia, purtroppo, perché gli anni
passano e qualcuno ci lascia. Corradino, Massimo, Cesare. Non sono mai stato un
teorico, solo un ricercatore di tante cose. Forse la definizione più azzeccata
è quella che mi si attaccò alla scrivania di Praxis in quegli anni. Io ero il
“funZioMario”. E forse, in fondo, lo sono ancora. Per finire però con lo
scritto, dicevo, non sempre ha una sua compattezza, non sempre riporta quello
che ci si aspetta, e spesso le omissioni sono più pesanti delle presenze.
Tuttavia un numero di rivista che, con tutte le difficoltà del caso, ho letto,
anche molto lentamente. Per tornare, ogni tanto, alle mie vicende di cinquanta
anni fa. A quando si lottava, certo, ma anche si cercava un’identità, sociale e
personale. Ed ai rapporti liberi che tutti avevano (o dicevano di avere), ed io
che cercavo ancora di uscire dall’adolescenza. Non dico altro, e vado a
ripensare ai miei amici ed alle mie amiche di allora.
PS:
varie volte citati negli articoli, per ragioni di formato non possono essere
inclusi in un libro, ma vanno, andrebbero e saranno visti gli spezzoni
cinematografici girati dal grande Silvano Agosti.
“Sofri (gennaio 1988): Dico tre cose. La
prima: il protagonista di ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’, dopo il
fallimento del suo tentativo di fuga dice ‘perlomeno ci ho provato’. … La
seconda: mi piace molto il verso di quella poesia [di Kafavis nota mia] che
dice ‘felice chi come Ulisse ha fatto un bel viaggio’, anche se poi deve
tornare a casa. La terza: … non è detto che l’esser stati sconfitti provochi
per forza rabbia. Si può anche fare un buon uso della sconfitta.” (1/227)
“Comprai una cinepresa … me la vendette
Isabella Rossellini … così cominciai a fare i miei primi film … non erano
parlati, c’era solo una colonna sonora strumentale, spesso di Iannis Xenakis”
[allora forse non sono il solo a conoscerlo… dai ricordi di Carlo Verdone]
(2/116)
“Si contraddicono … il momento politico
della tattica e il momento teorico della strategia, in un rapporto complesso e
molto mediato tra organizzazione rivoluzionaria e scienza operaia”
[dall’articolo di Mario Tronti “Lenin in Inghilterra”, gennaio 1964] (2/165)
Zygmunt Bauman “L’ultima lezione” Laterza euro 9
[A: 03/04/2018 – I:
01/11/2018 – T: 05/11/2018] - &&&&
[tit. or.: mixed title see below; ling. or.: inglese; pagine: 75; anno 2018]
Un libro, pur nella sua complessità,
imperdibile e fortuitamente breve. Prima di tutto perché, appunto, contiene la
brevissima, eppur tuttavia densa di riflessioni, ultima lezione di Bauman,
morto or quasi sono due anni. Lezione tenuta al Centro per l’Arte Contemporanea
Luigi Pecci di Prato nell’ottobre 2016 (Bauman morirà a gennaio del 2017), nel
corso della manifestazione intitolata “La fine del mondo”. Inciso: ricordo con
piacere la mia visita al Centro nel momento dell’inizio dell’opera di
riqualificazione di Valdemaro Beccaglia nel 2005. E chi sa sappia. Il veloce
libro, oltre alla lezione, contiene un saggio inedito di Bauman dal titolo
“L’eredità del XX secolo e come ricordarla” [tit. or. “Categorial Murder,
or the Legacy of the Twentieth Century and How to Remember It”] ed un lavoro
sull’autore a firma Wlodek Goldkorn, per anni responsabile culturale de
“L’Espresso”. Tutti e tre I
pezzi sono ben degni di nota. Intanto, Goldkorn serve, a chi conosce poco
l’autore, ad inquadrare Bauman nel suo tempo e nel suo ruolo di intellettuale
pubblico. Goldkorn ci fa rivivere la storia di Bauman dalla natia Polonia (ove
nacque nel 1925), alla guerra che segnò una svolta epocale nel suo pensiero, al
dopo guerra difficile oltre cortina fino all’emigrazione in Inghilterra nel
1956 (dopo i fatti d’Ungheria) ed agli ultimi 50 anni di pensiero pubblico
sempre coerente e curioso. Con quell’accento sulla liquidità della vita
moderna, ben sviscerato in molti suoi scritti di cui spesso ho parlato. Vita
che sfugge ad imbrigliamenti, ma che scorre, fluisce, inarrestabile. I testi
sono talmente brevi che si farebbe prima a leggerne che a parlarne. Vorrei solo
tirarne fuori delle impressioni a caldo. L’ultima lezione fonda la “paura”
della fine del mondo (o del proprio mondo), sulla impossibilità, rispetto al
passato, che abbiamo di controllare le nostre vite. Con tre esempi folgoranti:
il crollo degli istituti di credito, che ha drasticamente ridimensionato le
spinte al consumo; l’afflusso degli stranieri nel nostro quotidiano,
inducendoci a pensare che potrebbe succedere anche a noi; e per ultimo
l’aspetto ambientale, i terremoti e gli tsunami che distruggono
inaspettatamente la nostra vita. Tutto ciò distrugge la fiducia nel futuro, ci
fa rivolgere all’oggi, e ci fa “consumare” il presente, producendo ogni volta
catastrofi più ampie. Eppure non sarebbe difficile pensare a controllare le
banche, ad impedire, sul nascere, guerre ed esodi, ad operare affinché la
natura sia di nuovo benigna. Chiuderei questa prima parte ricordando il detto
cinese spesso citato dallo stesso Bauman: “Se pensi all’anno prossimo, semina
il granturco. Se pensi ai prossimi 10 anni, pianta un albero. Se pensi ai
prossimi 100 anni, istruisci le persone”. Questo ci fa transire al secondo
saggio, che si basa su premesse identiche: la sfiducia del futuro reca le
premesse degli sconquassi presenti. Ci si ricorda di Hobbes che confidava nello
Stato perché il cittadino potesse avere fiducia nella vita. Ma lo Stato deve
eliminare i rami secchi, e le conseguenze, fettina di salame dopo fettina, sono
presenti e precipitate in quello che Bauman non chiama “Olocausto” (che
etimologicamente è un sacrificio offerto a qualcosa o qualcuno) ma “Omicidio
categoriale”, cioè omicidi che colpiscono una categoria di persone: gli ebrei
sotto il nazismo, gli armeni da parte dei turchi, e via uccidendo. Quindi, non
possiamo, non dobbiamo dimenticarci che lo Stato sono le persone che lo
guidano, che tutti hanno responsabilità, nel bene e nel male. Non c’è soltanto,
come diceva Hannah Arendt “La banalità del male”, ma c’è, ci deve essere,
presente sempre nella nostra mente la possibilità di operare. E ricollegando i
due scritti, operare per fermare catastrofi immani che rendono inguardabile il
nostro futuro, lavorando come nella prima delle frasi che ho riportato. Certi
che la conseguenza della non operatività verso queste catastrofi porta sempre
più ognuno ad isolarsi, ad essere “soli con il proprio cellulare” (e non vorrei
riprendere vecchie a sempre nuove storie sui social media). Le piccole cose ci
permettono di uscire dalla conseguenza più detrimente di queste catastrofi: la
solitudine. Che non vuol dire essere soli, ma non interagire con il mondo. Una
riflessione che faccio pienamente e completamente mia.
“Mi
permetto di suggerire che … le piccole cose che possiamo fare nei limiti delle
nostre capacità … sono moltissime, tanto da poterci impegnare per l’intera
nostra esistenza.” (18)
“Stalin
proclamò che la fine dell’ingiustizia … era dietro l’angolo.” [e Di Maio,
allora?] (32)
“La
memoria seleziona e interpreta … tenere vivo il passato è un obiettivo che può
essere raggiunto solo mediante l’opera attiva della memoria … ricordare è
interpretare il passato … raccontare una storia significa prendere posizione
sul corso degli eventi passati.” (42)
Visto
che siamo alla terza settimana, e si avvicina il “dolce” Natale, non può
mancare l’allegato dedicato ai libri che di rendono felici.
Credo
di aver detto già molto in questa trama prenatalizia. Non avendo altro da
condividere, che viaggi ed altre piacevolezze sono ancora ferme al palo, prendo
l’occasione natalizia per rinverdire i legami amicali con tutti voi e abbracciarvi forte.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
DICEMBRE 2018
Direi che ci sta tutto: un po’ di cioccolato sotto Natale!
RIMEDI GHIOTTI (II)
DOLCE COME IL
CIOCCOLATO di LAURA ESQUIVEL (1989)
Un
pizzico di trama
Tra Tita e Pedro è amore a prima vista, ma a causa di
un’assurda tradizione non possono sposarsi, perché la ragazza è costretta a
badare alla (terribile) madre. Se il destino è beffardo, però, i due sfortunati
e passionali amanti provano a loro volta a beffare il destino e, pur di
rimanere accanto a Tita, Pedro sposa la sorella Rosaura. Ma non è anche questa
una beffa per Tita? Alla ragazza non resta che sfogare ai fornelli la sua
focosa passione, trasformando il cibo nel veicolo di un’inusuale comunicazione
erotica.
Un
cucchiaio di saggezza
Il sottotitolo di “Dolce come il cioccolato” è «romanzo
piccante in dodici puntate con ricette, amori e rimedi casalinghi». Ogni
capitolo, infatti, inizia con una ricetta, dodici in tutto, la cui spiegazione
viene interrotta dal racconto della vita di Tita. Ognuna aggiunge un
ingrediente a quel piatto piccante, dolce e amaro rappresentato dalle vicende
della protagonista e della sua travagliata storia d’amore, imbevuta di magico
realismo e ambientata negli armi della rivoluzione messicana. Ma non vi
aspettate uno zuppone di latte su cui versare calde lacrime di tristezza,
perché il romanzo è sì dolce come il cioccolato, ma non stucchevole come un
marshmallow. A fare la differenza stemperando i toni dolciastri è quel pizzico
di magia surreale e di originale ironia che sono ingredienti tipici della
cultura sudamericana, a cui si mescola una buona dose di piccante passione che
neanche il dolore per un amore negato può mettere a tacere. Il titolo
originale, che ne restituisce il vero sapore, è “Como agua para chocolate”. In
Messico la cioccolata calda si fa con l’acqua e non con il latte, quindi
l’autrice allude alla fusione perfetta di due ingredienti che diventano una
cosa sola: una voluttuosa, dolce e sensuale cioccolata bollente, e il paragone
culinario è messo in relazione non tanto all’amo-re di Tita quanto alla sua
rabbia di avere la felicità a portata di mano senza poterla afferrare. Ciò che
sente la protagonista alla vista di Pedro è ciò che prova una frittella quando
entra a contatto con l’olio bollente, altro che sdolcinatezze zuccherose in cui
sciogliersi, quindi, qui si frigge di pulsioni erotiche per una storia che,
raccontata con uno stile carico d’ironia, scorre “veloce come il desiderio”
(titolo di un altro romanzo di Laura Esquivel). L’autrice è una raffinata cuoca
e così trasforma la vicenda amorosa di Tita e Pedro in un appetitoso ménage à
trois in cui la punta del triangolo è il cibo, non un piatto di contorno, ma la
portata principale, un modo per esprimere stati d’animo e scatenare forti
emozioni. Come ogni chef sa bene, in cucina non si butta via niente e così Tita
trasforma i sentimenti per Pedro in ingredienti che inavvertitamente aggiunge
alle sue ricette, sublimando in succulenti manicaretti la sua passione. Spesso
le emozioni riversate nei piatti che prepara sono così forti da provocare
surreali effetti collaterali, come quando, nella torta nuziale per il
matrimonio del suo amato mette amarezza e lacrime, provocando un’ondata di
malinconia e rimpianto per gli amori perduti, che intristisce tutti gli
invitati causando loro una memorabile intossicazione; o quando nelle quaglie
con salsa ai petali di rosa riversa passione erotica mista a sangue e sua
sorella viene contagiata da una travolgente eccitazione sessuale che la
costringe a correre nuda per le strade fino a sfogare tale ardore in un
amplesso epocale. Ma sono inconvenienti che capitano in cucina. Nel romanzo il
cibo non è inteso come surrogato del sesso ma come sensuale linguaggio
dell’anima che può rivelarsi più eloquente e nutriente di molte parole, unico
modo possibile in cui i due protagonisti possono concedersi insolite relazioni
erotiche. Quando si dice “fare l’amore con il sapore”. Ma l’inaspettato finale
rivela che la consumazione di nessun cibo, per quanto gustoso, potrà mai
competere con la consumazione di una vera passione che incendia il cuore come
un piatto flambé. L’amore fa perdere la testa ma in cucina non ci si può
distrarre, basta un niente e il flambé si trasforma in un incendio. Così Tita
si distrae con Pedro, il fuoco della passione divampa, i due amanti
s’incendiano come una scatola di fiammiferi e.… mi fermo qui per non rovinare
il dessert.
Posologia
“Dolce come il cioccolato” è un rimedio casalingo, una
piccante ricetta alternativa per curare più di un malessere. Formulata per
animi sensibili all’amore, ma ben tollerata anche da chi manifesta forme di
dermatite da contatto per storie eccessivamente sdolcinate, è una crema dalle
speciali proprietà lenitive utile a medicare i disagi causati da vuoti d’amore,
amori ostacolati e amori noiosi. Ma i maggiori benefìci si ottengono nel caso
in cui la propria vita sessuale sia piuttosto insipida o desolante, come un
frigo vuoto, se non per quello squallido pezzo di formaggio ammuffito che non è
gorgonzola. Con la sua formulazione speciale, quasi magica, a base di cibo e
amore, rafforza la convinzione che cucinare con sentimento (o cucinare i
sentimenti) sia una validissima medicina per esaltare il gusto della vita e
trovare conforto quando tocca ingoiare bocconi amari. Il libro è risolutivo per
curare la frigidità culinaria che solitamente corrisponde a un atteggiamento
freddo e poco passionale anche nei confronti della cita. Con il suo potenziale
afrodisiaco dovrebbe stimolare il desiderio di cedere alla passione anche per
il buon cibo.
Se come Tita siete infastiditi da un buco nero nel petto
dentro il quale s’insinua un freddo infinito, frizionare con energia il romanzo
sul petto vi riscalderà rapidamente; se vi sentite svuotati come un piatto su
cui rimangono soltanto le briciole di una torta prelibata, Laura Esquivel vi
offrirà un’altra porzione di dolce riempiendo di nuovo il vostro piatto (e il
vostro vuoto emotivo); se pensate che niente riuscirà più a far ardere di
passione la vostra anima, troverete tra le righe un fiammifero per riaccendere
il fuoco. A proposito, si raccomanda l’assunzione di “Dolce come il cioccolato”
soprattutto quando si presenta il bisogno di infiammarsi d’amore. Secondo
l’autrice, infatti, ognuno di noi ha dentro di sé una scatola di cerini. Per
accenderli abbiamo bisogno di una candela, che può essere il cibo, la musica o
una qualunque passione, ma soprattutto è necessario il fiato della persona
amata. La combustione nutre la nostra anima tenendoci vili. Ciascuno deve
scoprire ciò che innesca la propria personale combustione per tenere sempre
accesa la fiamma prima che la scatola di fiammiferi si inumidisca così come la
nostra energia vitale. La domanda è: ma se manca il fiato della persona amata
come lo accendiamo questo cerino? Suggerisco di prendere fiato dalla lettura di
amori altrui. I libri sono la candela, le storie l’ossigeno.
Avvertenza: si consiglia di evitare il contatto con le
persone dal fiato gelido perché cercheranno in tutti i modi di spegnere la vostra
fiamma. Ma fate attenzione anche a non accendere i cerini tutti insieme. La
passione è un sentimento da maneggiare con cura.
Effetti
collaterali
L’effetto collaterale più frequente è il desiderio di
chiudersi in cucina per riversare la propria eventuale tempesta emozionale in
una serie di manicaretti. Viste le controindicazioni segnalate nel romanzo, si
consiglia di procedere con cautela. Soprattutto i lettori affetti da quel
disagio piuttosto comune che consiste nell’incapacità di esprimere i propri sentimenti
a parole, potrebbero essere tentati di provare a farlo con il cibo. Ma se in
cucina non siete pratici, evitate di lanciarvi nella preparazione di piatti
troppo elaborati per evitare il rischio di essere fraintesi e accusati di
tentato omicidio quando volevate solo dichiarare il vostro amore.
Consigli
dello chef
Potrebbe giovare alla salute cimentarsi nella preparazione
dei gustosi piatti messicani di Tita: focaccine di Natale, chilaquiles, torta
chabela, champandongo, torrejas di panna, fagioli alla tezcucana e peperoni in
salsa di noci. Ma tengo a precisare che la ricerca degli ingredienti potrebbe
non essere facile e l’esecuzione lunga ed elaborata. Se volete un consiglio
spassionato, per rendere più confortevole la cura può essere più che sufficiente
un’inebriante tazza di cioccolata calda preparata con l’acqua, come vuole la
tradizione messicana. Da gustare leggendo il libro rigorosamente sotto una
bella, lunga c calda coperta (durante la cura capirete il perché della
coperta).
Terapia
cinematografica sostitutiva
Con la cucina e l’eros come ingredienti principali, “Dolce
come il cioccolato” non poteva non ingolosire il cinema. Nel 1992 Alfonso Arau
ha portato sullo schermo la storia di Laura Esquivel, che ha collaborato alla
sceneggiatura. Il risultato è “Come l’acqua per il cioccolato”, in cui il
regista messicano è riuscito a mantenere lo stesso sapore del romanzo
muovendosi tra toni da fiaba, atmosfere calde e quel pizzico di realismo magico
(che ogni tanto vira verso il soprannaturale) che è la cifra narrativa
sudamericana. Il film è decisamente dolce come il cioccolato, cioccolato al
latte, ma come nel romanzo il finale lascia quel sapore amaro che non ne
intacca il gusto.
Commenti
Il cioccolato, purtroppo, come tutti i cibi, invecchia. Va
mangiato e gustato nel gusto tempo. Questo libro, invece, forse l’ho letto
quando un po’ di patina imbiancava i quadratini.
Laura Esquivel “Dolce
come il cioccolato” Garzanti euro 9,90
[pubblicato il 29 settembre 2015]
Finalmente
leggo questo antico (nel senso di trentennale, ma che sono molti per una simile
scrittura) libro, presente da anni nelle mie famose liste, sollecitatomi dalle
mie amate-odiate libropatiche non che spinto sulla cresta dell’onda anche dalla
collezione di libri legati alla cucina in uscita con il “Corriere della Sera”.
Intanto, una bella tirata d’orecchi agli editor della Garzanti che stravolgono
in “Dolce” uno sfogo della protagonista che ad un certo punto si sente
ribollire “come l’acqua per il cioccolato”, che si dice essere di poco sapore,
ma che, come Dario Bressanini insegna ed io riporto in calce, è l’occasione per
una gustosissima mousse. Inoltre, non ho neanche visto il film che nel ’92 ne
fece il messicano Arau, anch’esso di buon successo come il libro. Che uscì in
Messico a puntate, ognuna delle quali con una ricetta, e solo così se ne può
gustare il filo conduttore, che nel libro sembra perdersi. La storia è semplice
e molto messicana. Abbiamo la bella Tita de la Garza, la minore delle figlie di
Donna Elena, acida vedova messicana. Che fin da piccola vive in cucina, e ne
capisce e carpisce i segreti più intimi. Di lei si innamora il bel Pedro, amore
ostacolato da Donna Elena, in quanto ancora non maritate le figlie maggiori,
Rosaura e Gertrudis. Messo alle corde da Donna Elena, pur di rimanere vicino a
Tita, Pedro decide di sposare Rosaura. Da quel momento, Tita riverserà il suo
amore nella cucina, producendo manicaretti elaborati e con effetti
sorprendenti. Tanto che in uno particolarmente pieno di affetto si trasfigura
Gertrudis, che scappa nuda nella prateria insieme ad un rivoluzionario
messicano. Noi però rimaniamo nel ménage familiare, con la madre tiranna, Pedro
e Rosaura che fanno un figlio che però muore giovane. Pedro è sempre lì, tra
l’essere vicino e fare il tontolone, che una qualsiasi donna normale (non Tita,
purtroppo) l’avrebbe mandato a ramengo molto presto. Poi muore Donna Elvira,
Tita esce allo scoperto e Rosaura si fa prendere da crisi di nervi ed altre
strampalitudini. Ritorna anche Gertrudis alla testa di manipoli rivoluzionari
(in fondo siamo nel Messico dell’epoca di Pancho Villa) che cerca di svegliare
Tita. Che forse sembra avere un sussulto di indipendenza quando anche Rosaura
ci lascia, insalutata salma. Ma l’ombra di Donna Elena aleggia sulla casa, e dopo
un’unica notte d’amore (in fondo abbiamo aspettato quasi 150 pagine che
succedesse “o’ miracolo”), ecco un’altra catastrofe. Senza nessun preavviso si
accendono fuochi strani e Pedro e Tita bruciano insieme al loro amore. La
storia è durata tanti anni, ci sono stati intermezzi, c’è stato l’amore di John
per Tita, che molto le insegnò ma che non le tolse Pedro dal cuore, ci sono
stati figli (che non sono morti), c’è la bella nipote Esperanza che sposerà
Alex, il figlio di John. E c’è questa storia, narrata dalla figlia dei due. La
storia di un grande amore, ma soprattutto di tanti belle. Dalle focaccine di
Natale alla torta Chabla, dalle quaglie ai petali di rosa ai peperoni in salsa
di noci. Ma seppur queste sono belle (e ne consiglio la lettura a chi sa di
cucina), il resto del libro, con quel “realismo magico” latino-americano che mi
lascia assai freddo, quelle situazioni inspiegabili, e soprattutto
l’indecisione di tutti i protagonisti ad essere sul serio protagonisti e non
vittime della vita che passa, non mi ha fatto amare in particolar modo questo
libro. Con tutte le metafore che poi il libro porta con sé, sia a livello
sentimenti che della rappresentazione della realtà messicana. Sui primi, c’è
una correlazione quasi ingenua (le cipolle che sono cagione di lagrime, i
petali di rosa che risvegliano passioni, ed altre similitudini di piccolo
livello). Sull’altra, per rappresentare il grande affresco del Messico dei
primi anni del XX secolo (pieno di oppressi, oppressori, rivoluzioni) si fa un
semplice traslato con i personaggi: Tita e Pedro sono gli oppressi, Donna Elena
e Rosaura gli oppressori, Gertrudis la rivoluzione). Ma è molto datato come
scrittura e come descrizione delle atmosfere. Insomma, mi aspettavo di più da
come se ne parlava negli anni del suo maggior successo.
“La verità vera è che la verità non esiste,
dipende dal punto di vista di ognuno.” (141)
Ricetta
del cioccolato con acqua presa dal blog di Dario Bressanini:
“Sono
partito da 100 g di fondente 70%. Ho sciolto il cioccolato in un pentolino
antiaderente di buon spessore su fuoco bassissimo. Mescolate il cioccolato con
una spatola per facilitare la fusione. Fuso il cioccolato si deve aggiungere
l'acqua. Ho versato nel pentolino i 115 grammi di acqua, tutta in una volta.
Ora mescolate bene, a fuoco spento, sino a quando il cioccolato è completamente
emulsionato. Quando il cioccolato è ben emulsionato versate la miscela in una
bacinella raffreddata esternamente con del ghiaccio. Un paio di minuti di
frusta elettrica (o a mano se preferite) e il risultato è cioccolato puro, ma con
la consistenza di una mousse. Una vera delizia per chi ama il fondente.”
Finalino
Non mi ripeto, ribadendo quanto sopra: cioccolato approvato,
libro bocciato.