Ecco, dopo una settimana dedicata
ad un grande, un’altra settimana monotematica. Questa volta è solo una onesta
scrittrice, dalla vita abbastanza contorta. Per chi non ricordasse le mie prime
trame, ricordo che Anne Perry, da minorenne, fu condannata in Nuova Zelanda per
omicidio. Dopo alcuni anni di carcere, uscita e girellante per il mondo in
cerca di sé, trova questa sua dimensione di scrittrice di gialli ambientati
nell’Inghilterra vittoriana. Dove segue le vicende dell’ispettore Pitt verso la
fine del secolo e della guardia fluviale Monk a metà dello stesso. Oggi
parliamo di quattro episodi di Thomas Pitt (ho messo per ognuno il numero dell’episodio).
Anne Perry “Assassinio a Brunswick Gardens” Mondadori euro 5,90
[A: 12/04/2017 – I: 13/09/2018 – T: 14/09/2018] &&
e ½
[titolo: Brunswick Gardens; lingua: inglese; pagine: 285;
anno: 1998]
PITT 18
Riprendiamo dopo
un lungo lasso di tempo le letture della serie maggiore di Anne Perry, dedicata
alla gesta dell’ispettore Thomas Pitt, della sua famiglia, e di quanto gira
intorno alla Londra del 1890. Non torno ancora sulla scrittrice, che tanto di
lei ho scritto, e forse un giorno anche di lei si farà un sunto. Comunque, qui
si torna indietro nella cronologia, come vedete nel sotto titoletto. Siamo
infatti alla 18^ avventura, dove ormai siamo arrivati a più di 30 episodi. Ma
soprattutto siamo tornati indietro nel tempo. ricordo che il primo romanzo che
lessi, circa sei anni fa, era il 16° della serie. Ed allora, piombiamo di nuovo
agli inizi della carriera dell’ispettore Pitt. Che qui è ancora di sede vicino
al Covent Garden, a Bow Street, con un capo che gli dà piena fiducia, e con la
famiglia intorno: la moglie Charlotte, i figli Jasmina e Daniel, la tuttofare
Gracie. Nonché il sergente Tellman, suo unico e vero aiutante. La vicenda è
imperniata sulla morte di una giovane signorina, impiegata come aiutante presso
un reverendo che sta effettuando studi storici. Ricordo che nella Chiesa
Anglicana i preti si possono sposare, come fa il rev. Parmenter, che sposò la
ancora piacente Vita, ed ha due figlie tra i venti ed i venticinque anni,
Clarice e Tryphena, ed un figlio di poco più grande, Mallory. Parmenter si
occupa di studi storici su antichi testi biblici e la giovane Unity entra nella
sua casa come esperta appunti di lingue antiche. La composizione della casa è
completata da Dominic, già cognato della famiglia Pitt, in quanto vedovo di
Sharon, morta tragicamente in uno dei primi episodi. Qui, lo scatenarsi del
giallo è dato appunto dall’inspiegabile morto di Unity, dopo un suo alterco con
Parmenter su questioni religiose. E pare proprio che qualcuno l’abbia spinta
giù dalle scale, facendole rompere l’osso del collo. La situazione viene
affidata a Pitt proprio per la delicatezza del caso. Dato che tutti gli indizi
fanno ritenere proprio il reverendo come sia il colpevole della vicenda. Qui si
svelano tutte le arti di intreccio di Anne Perry, nonché la sua capacità di
annodare le vicende e le inchieste non solo dell’ispettore Pitt, ma anche della
moglie Charlotte, sempre pronta a dargli una mano. Anche perché c’è la presenza
inquietante di Dominic, a suo tempo malvisto dalla famiglia Pitt, ma che ora,
dietro i buoni uffici proprio di Parmenter, sembra redento a nuova vita. L’inchiesta
è discretamente lineare, Pitt è sul pezzo, anche se deve scontrarsi con una
serie di complicazioni dovute alla posizione del reverendo ed agli incroci che
si verificano nella casa. Intanto Unity non solo era un’attiva suffragetta, non
solo non si capisce come sia potuta cadere dalle scale, ma era anche incinta.
Nella casa, poi c’è Tryphena che la difende a spada tratta, scontrandosi con
tutta la famiglia. Ma c’è la posizione dei tre maschi di casa. Il reverendo
sembra troppo anziano per essere l’amante di Unity. Dominic, dati i suoi
trascorsi, è un papabile candidato, anche se Charlotte ora lo difende contro
tutti. Mallory, infine, è in lizza per trasferirsi a Roma, in quanto abbandona
la Chiesa Anglicana per passare in quella Cattolica Romana, dove non sono
previsti preti sposati. Il secondo intoppo è il fatto che nell’intermezzo tra
le bravate giovanile ed il suo incontro con Parmenter, Dominic ha vissuto in
modo sregolato, in case quasi comuni ante litteram, dove aveva già conosciuto,
anche carnalmente, la bella Unity. Ma tutto, anche il racconto delle grida che
si sono sentite prima della caduta di Unity, continuano a far pendere la
bilancia verso il povero reverendo. Stranamente, poi, sembra che anche Vita,
pur difendendolo nominalmente, lascia aperti spiragli consistenti di dubbi. La
svolta? Quando Dominic si dichiara a Clarice, e Vita non la prende bene. Quando
Charlotte scopre che le scarpe che indossa Unity non sono le sue. Quando Vita,
sostenendo che lo ha assalito in un momento di folle rabbia, uccide per
difendersi lo stesso reverendo. Sarà ovviamente Pitt che, collegando i vari
puntini, farà uscire fuori il quadro completo del come e del perché della morte
della povera Unity. Noi, astuti lettori, da alcuni indizi seminati bravamente
dalla Perry nei primi capitoli, avevamo già intuito dove si stava andando a
parare. Quindi, al solito, come ho già detto in altre trame della scrittrice,
un impianto giallo matura ma non avvincente, e di contro una bella
ricostruzione degli anni londinesi verso la fine dell’Ottocento.
“[vai avanti] un giorno alla volta, aggrappati alla fiducia che nutri
nel tuo valore e costruisci su quella, senza fretta, un piccolo passo dopo
l’altro.” (58)
“[La teologia] non è una materia per donne, sono costituzionalmente
inadatte.” (96)
“Cosa vuol saperne lei della vecchiaia, del corpo che non funziona più,
delle persone care morte e del non vedere davanti a sé più niente, se non la
morte stessa?” (118)
“La marmellata d’arance gli piace troppo.” (130)
Anne Perry “Il complotto di Whitechapel” Mondadori euro 4,05 (in realtà
scontato a 1,50 euro)
[A: 05/10/2017 – I: 15/09/2018 – T: 17/09/2018] &&
--
[titolo: The Whitechapel
Conspiracy; lingua: inglese; pagine: 297; anno:
2001]
PITT 21
Avendo deciso i dare fondo a
tutti i libri che Anne Perry ha dedicato alle vicende di Thomas Pitt, che sono
presenti nella mia biblioteca, eccoci ora che affrontiamo un libro nodale nelle
sue storie. Certo, abbiamo saltato due episodi, ma, a quanto ne so, erano due
episodi del Pitt così detto classico, con morti strane ed inchieste ben
condotte dal nostro. Qui entriamo subito in un ambito nuovo. Dove il nostro
sovraintendente non sa bene come muoversi. C’è una morte poco spiegabile, di Fetters,
un signorotto locale, molto dedito agli studi e con qualche velleità
repubblicana, di certo poco consona in un ambiente monarchico come quello
inglese. Le indagini di Pitt, che però non sono parte del racconto, dimostrano
che è un omicidio e che solo un amico del defunto, John Adinett, può essere
stato l’assassino. Sebbene siano solo prove indiziarie, e sebbene si tenti in
tutti i modi di screditare Pitt, le giurie di primo e secondo grado condannano
Adinett, che sarà in poco tempo giustiziato. Certo, Pitt non è contento di non
aver trovato un movente. Ma quello che più importa è che la sua presa di
posizione ha scatenato una non meglio identificata Confraternita, ben legata ai
poteri forti. Così, di punto in bianco, Pitt si trova sollevato dai suoi
incarichi, e scaraventato nei Reparti Speciali, comandati da Victor Narraway.
Certo, noi che abbiamo già letto puntate successive, sappiamo che tra i due
nascerà un forte sodalizio, ma al momento assistiamo ai primi approcci, dove
nessuno dei due si fida dell’altro. Fatto sta, che i Reparti Speciali devono
controllare facinorosi ed altre frange “estremiste”, così che Pitt si ritrova a
dover vivere in posti malfamati di Londra, specialmente a Whitechapel, e sotto
copertura. Il tutto mentre scorre il 1892, e Londra è anche attraversata da
aneliti strani. La monarchia, non ben guidata dall’anziana Regina Vittoria,
spende e spande, e comincia ad essere malvista dalle classi lavoratrici. Che
basano, in quei quartieri malfamati, la loro esistenza, sulla produzione dello
zucchero. Si avvicina quindi una miscela esplosiva: lì, ci sono ebrei
rifugiati, ci sono repubblicani esaltati, ci sono anarchici, ci sono
irredentisti irlandesi. Basta poco per far nascere tumulti e rivolte. Anche
perché, mentre Pitt si addentra in questi luoghi, non si fanno passi avanti
nella vicenda “Adinett”. Benché Charlotte, la pugnace moglie di Pitt, cerchi,
parlando con la moglie del defunto e cercando tra i libri della biblioteca,
motivi e spiegazioni. Il tutto ben complicato dalla presenza di un giornalista
che sta scavando in una sordida relazione tra vari elementi, che coinvolgono le
strane uccisioni che il famigerato “Jack lo Squartatore” aveva perpetrato
proprio 4 anni prima sempre lì a Whitechapel. Qui si inserisce tutta una
digressione della storia nella storia, dove si cerca di “raccordare” sacro e
profano. Poiché tutto si svolge proprio a Whitechapel. Ed allora, la nostra
scrittrice, sposando la tesi del complotto reale, cerca di far quadrare il
cerchio. Ora, né io né nessun altro ha mai risolto i dubbi su chi sia stato e
perché siano stati commessi i famosi delitti imputati a Jack lo Squartatore.
L’idea che ci ripropone la nostra storica scrittrice è lineare, anche se ben
complicata. Alberto Vittorio di Sassonia-Coburgo-Gotha, duca di Clarence
(1864-1892), nipote della regina Vittoria, è un erede al trono, con molte
pecche al suo arco. Frequenta Whitechapel e sposa una prostituta cattolica, cosa
ben grave nella rigida monarchia anglicana. I ministri del regno, attraverso
collegamenti con la massoneria e la malavita locale, usano tale Jack perché
uccide tutte le testimoni della relazione tra il rampollo della famiglia
regnante e l'ex prostituta. Quindi, se qualcuno, ad esempio il giornalista di
cui sopra, trovasse delle prove del complotto, ben grave sarebbe la posizione
della monarchia inglese. Quindi, è sempre a Whitechapel che girano i ribelli
repubblicani, in cerca di notizie e cospirazioni. Adinett è uno di questi, così
come Marco Corona, repubblicano italiano un tempo sodale della zia di Charlotte
Pitt. Fetters, pur anelando riforme sociali, rifugge i metodi violenti. Per
questo, alla fine, Adinett, pur suo sodale, non può che ucciderlo. Mentre
Corona tenta un ultimo colpo, per inguaiare la monarchia con attentati nella
zona calda degli zuccherifici. Sarà Pitt che troverà il bandolo della matassa,
facendo acquisire le industrie direttamente dal Principe di Galles, dopo che
sia il giornalista che Corona trovano repentine morti. Tutto risolto,
ovviamente. Ma il tentativo di mescolare Storia e storia non risulta
particolarmente coinvolgente. Unico punto, è la spiegazione del passaggio di
Pitt da un ruolo ad un altro. Ne vedremo l’evoluzione, anche se già sappiamo
che sarà tutto a vantaggio suo, della sua famiglia, e dei suoi sodali.
“Gli uomini che non sanno ridere di sé stessi mi spaventano più di
quelli che ridono di tutto.” (229)
Anne Perry “L’amante egiziana” Mondadori euro 3,60 (in realtà scontato
a 1,50 euro)
[A: 28/01/2017 – I: 18/09/2018 – T: 20/09/2018] &&
[titolo: Seven Dials; lingua: inglese; pagine: 280;
anno: 2003]
PITT 23
Qui saltiamo un
solo episodio, dove credo non ci sia molto da aggiungere, tanto che in questa
nuova storia non sembra ce ne siano strascichi. Certo, gli editor italiani non
hanno invece risparmiato sull’idea di usare un titolo “acchiappino”, puntando
sull’esotico e sull’erotico, quando il titolo originale, come quasi sempre
nelle storie di Thomas Pitt, si riferiva ad un luogo di Londra. Nella
fattispecie, “Seven Dials”, che si trova come al solito vicino a Covent Garden,
una delle zone più a rischio all’epoca dei fatti (ricordo che siamo sempre
intorno al1892), ed altrettanto vicino a Keppel Street, la strada dove abita la
famiglia Pitt. Per quanto riguarda la storia, invece, siamo nelle punte più
basse della scrittura e del coinvolgimento che ci offre Anne Perry. Si batte e
ribatte su argomenti ripetuti, su situazioni similari, senza darci più quegli
spunti che ci offrivano i primi volumi. Sarà che il passaggio di Pitt dalla
Polizia ai Reparti Speciali, frena molto le ricerche poliziesche, spostandosi
sempre più su intrighi, complotti ed altre amenità. Tenta la Perry di mescolare
indagini poliziesche, come nel primo Pitt, con il suo incarico attuale, molto
più sul versante diplomatico relazionale. Ma il romanzo procede a rilento,
senza prendere mai una sua andatura coinvolgente. C’è un morto, il tenente
Lovat, ex-ufficiale ora diplomatico, trovato morto nel giardino della bella
egiziana Ayesha Zakhari, che ha ancora in mano la pistola. Ma l’omicida pare
essere il di lei amante, il ministro del governo Gladstone, Saville Ryerson.
Per questo lo stesso primo ministro chiede l’intervento dei Progetti Speciali.
Il comandante Narraway, che ancora non entra in intimità con la famiglia Pitt,
decide quindi di affidare tutto a Thomas. Che indaga, ma sia l’egiziana che il
ministro tacciono. Mentre gossip mirati escono sui giornali. Anche perché
Ryerson è deputato in Manchester, grosso centro del commercio del cotone. Dove
ci sarebbero grossi problemi se venisse a mancare la materia prima che, guarda
caso, viene proprio dall’Egitto. Al fine di togliere veli alla vicenda, Pitt va
anche ad Alessandria per indagare su Ayesha. Scoprendo che è copta e non
islamica, che ci sono torbide vicende alle spalle, avvenuti proprio durante
l’occupazione inglese. Sembra che ci sia stata una carneficina innescata da
ufficiali britannici. Ma Pitt scopre poco altro, se non l’ambiguo comportamento
di un console britannico. Nel frattempo, sulla vicenda principale si innesca la
storia della scomparsa di Martin, fratello di un’amica di Gracie, la tata dei
Pitt. Che coinvolge il vecchio (temporalmente non anagraficamente) sottoposto
di Pitt, nella ricerca. Ricerca che si complica dato che anche il principale
del detto fratello è scomparso. Come ci si immagina, noi astuti lettori delle
opere della scrittrice già pensiamo di sapere che ci sia una possibile
convergenza tra le due storie. Tutto si snoderà nel momento del processo.
Qualcuno vuole creare lo scandalo per vendicarsi della carneficina,
coinvolgendo il servitore di Ayesha, lui sì mussulmano, e colpendo Lovat e il
padrone di Martin. Ma cercando anche di scatenare una guerra commerciale sul
cotone, come aveva previsto Narraway. Quindi Ayesha, copta, viene mandata
dall’Egitto in Inghilterra per “affascinare” Ryerson, diventandone amante, dato
che sono comunque cristiani, e cercando di convincerlo ad aumentare i soldi
inviati in Egitto per il cotone. Come servitore, qualcuno le appioppa il mussulmano
Tariq, la cui famiglia fu sterminata in un incendio doloso provocato da Lovat e
compagni. Tutte queste “pedine” poi erano manovrate da un personaggio, che
vediamo alla fine palesarsi, ma che si poteva suppore un po’ prima. La fine,
come spesso accadde nei romanzi della Perry, è sempre un po’ frettolosa.
Condensata in poche pagine, si arriva a sistemare tutti puntini sulle “i” ed a
sventare tutte le possibili minacce, in un crescendo, dove inizia Charlotte, la
moglie di Pitt, a risolvere il mistero di Martin, a collegarlo agli egiziani, e
Pitt, mettendo sotto torchio Ayesha, scopre gli intenti di Tariq. Ma anche del
vendicatore di cui sopra. Tuttavia, la storia decolla poco, come detto
ampiamente. Anche perché, questa mescolanza tra storia e Storia, è poco
congeniale alle corde della scrittura di Anne Perry. Che meglio si trova nel
narrare l’ambiente vittoriano, i suoi orpelli, le sue formalità, i suoi
personaggi vacui, ma che ha anche un buon tocco quando scende sul versante
opposto, dei poveri e degli oppressi (come meglio gli riesce però nella serie
di Monk). Rimane sempre sospesa tra questi due versanti, il patrizio ed il
plebeo. Dove qui si privilegia il primo, e dove io continuo a pensare che,
invece, alla fine, sia più interessante e meglio descritto, il secondo.
Speriamo torni presto anche Monk.
Anne Perry “Mezzanotte a Marble Arch” Mondadori euro 5,90
[A: 24/06/2016 – I: 21/09/2018 – T: 22/09/2018] &&--
[titolo: Midnight at Marble
Arch; lingua: inglese; pagine: 273; anno:
2012]
PITT 28
Ed invece, eccoci ad un nuovo
capitolo delle vicende di Thomas Pitt. C’è un salto di ben cinque libri, che
però io ho già letto e tramato. Motivo per cui sappiamo come si sia evoluta la
storia di Pitt, come sia diventato a sua volta il capo dei Progetti Speciali,
mentre il suo vecchio capo, “promoveatur ut amoveatur”, diviene membro della
Camera dei Lord. Dopo tutte le vicende che hanno portato a questi cambiamenti,
che coinvolgevano da vicino anche l’Irlanda ed i movimenti irredentisti locali,
in questa nuova avventura, pur toccata da elementi diplomatici, torniamo quasi
a vedere le movenze del vecchio sovraintendente. Ovviamente, anche l’entourage
di Pitt è cambiato, essendo la tata Gracie finalmente andata in sposa al
sergente Tellman. Fortunatamente rimane ad aiutare i nostri con le sue
conoscenze aristocratiche, la prozia lady Vespasia Cumming-Gould.
Temporalmente, intanto, siamo arrivati al 1896, data importante per uno degli
aspetti del romanzo. Non per il principale, che qui la nostra scrittrice affronta
un argomento delicato, in tutte le età: lo stupro. Dopo aver fatto morire molte
donne in molti modi nei precedenti 27 romanzi, qui, pur mantenendo un
linguaggio raffinato, la scrittrice si cala nella descrizione della brutalità
sessuale tra le classi superiori. Le donne violate (nei romanzi, nella vita,
sempre) dicono in modo sincero e crudele che le loro vite sono rovinate. Ancor
più nell’era vittoriana, anche se le parole del patologo della polizia che
esegue l’autopsia su di una di queste donne possono venir ripetute in ogni età:
"Molte donne non superano mai lo stupro. Non possono sopportarne la
vergogna e l'orrore". Non solo le vittime si sentono danneggiate
irreparabilmente, ma assistiamo spesso a come siano i mariti stessi che incolpano
le loro mogli di comportamenti provocatori. Ma non voglio entrare in una
disamina morale degli accaduti, per cui ritorno alla finzione. Laddove, a mano
a mano che si svolge il romanzo, scopriamo diversi stupri e diversi
comportamenti seguenti alla triste vicende. C’è Angeles Castelbranco, la figlia
sedicenne dell'ambasciatore portoghese, che si ritrae quando viene avvicinata
dal perfido Neville, tanto da buttarsi coscientemente oltre la finestra. C’è
una prostituta che lo stupratore uccide. C’è Alice, che riesce a fuggire benché
violata. C’è Catherine Quixwood, che muore bevendo del laudano dopo essere
stata violentata da qualcuno di cui si fidava, non essendoci traccia di scasso
in casa. Poiché alcune morti sono in ambienti aristocratici, Pitt comincia ad
indagare, ma deve lasciare il compito al suo vecchio capo, Narraway, essendo
lui invece convolto in questioni delicate di sicurezza a fronte di una
possibile guerra con i boeri nell'Africa meridionale. L’abilità della Perry è
nel cercare di portare avanti i due filoni, di collegarsi a fatti storici reali
(uno dei nodi centrali della parte economica e storica del romanzo è la
spedizione Jameson, che, sostenuta dal magnate Cecil Rhodes, quello della
Rhodesia appunto, doveva scacciare i boeri e permettere agli inglesi di
sfruttare oro e diamanti sudafricani; spedizione che appunto nel 1896 fallì,
anche se poi l’Inghilterra meno di dieci anni dopo avrebbe avuto la meglio), e
nel trovare il modo di risolvere il tutto, in modo che i cattivi siano puniti. Il castello che Narraway deve affrontare e
smantellare è complesso: c’è un banchiere violento che, anni prima, uccide la
moglie che stava per fuggire con il suo amante. Il quale cerca il modo di
vendicarsi, inducendo il banchiere, con carte falsificate, ad investire nella
spedizione Jameson. Tuttavia la moglie del banchiere, subodorando le malefatte
del marito, e volendo invece fermarlo, si lega di forte amicizia ad un
impiegato di alto livello del Tesoro, che le fornisce prove di quanto sta
accadendo. Ma il banchiere se ne accorge, e fa una contromossa che rischia di
essere fatale: convince l’altrettanto violento figlio del banchiere, già autore
di diversi stupri, a violentare la moglie, avendo nel frattempo avvelenato il
vino presente nel suo salone, sicuro che, dopo lo stupro, la donna avrebbe
bevuto per poter reagire allo shock. Inoltre il banchiere fa in modo che tutti
i sospetti possano cadere sul misero impiegato di cui sopra. Alla fine, Pitt,
una volta circoscritto il pericolo di una guerra anglo-boera (che scoppierà solo
da lì a tre anni), viene in aiuto a Narraway, fornendo le prove bancarie
dell’accaduto. La fine, come ho già detto nella precedente trama, è di una
velocità spasmodica, tanto che tutto si risolve nelle cinque pagine finali. Con
un respiro affannoso, dove vediamo coinvolti, nella scena madre che serve a
salvare l’impiegato dalla forca, ed a portare la giusta punizione i cattivi,
Pitt, Narraway e pesino Lady Vespasia. Ed è con il fiato corto che arriviamo
all’ultima riga, dove ancora alcune cose vengono lasciate in sospeso. Come ad
esempio uno sguardo strano tra Narraway e Lady Vespasia. Ne sapremo forse di
più in altre puntate. Certo è che il punto di svolta è stato il coinvolgimento
dell’unica vittima sopravvissuta, Alice, con una forzatura, che non credo sia
credibile il suo atteggiamento proprio in quel mondo vittoriano che tanto bene
la Perry andava descrivendo. Alla fine, queste storie recenti di Pitt sembrano
veleggiare un po’ troppo verso momenti rarefatti, lasciandoci il ricordo del
buon sapore delle prime storie di Thomas e Charlotte. Vedremo cosa ci riserverà
il futuro.
“Io mi ricordo di essermi innamorata una buona dozzina di volte di
uomini che, se li avessi sposati, bè… non oso immaginare il disastro.” (46)
Dopo un allegato di cura, vi
propongo anche uno dedicato ai guasti dell’amore, in cui vi farò trovare un’altra
sventagliata libri: tutto Bridget Jones, per chi ha il coraggio di seguirmi.
Continuiamo intanto a seguire con
il fiato sospeso la possibilità del viaggio indiano che tarda a maturare. Ma
non ci mancano attività da seguire e momenti tristi-allegri da ricordare.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GENNAIO 2019
Iniziamo quest’anno di splendida felicità, riprendendo il
percorso terapeutico per risollevare il cuore dai suoi poveri acciacchi.
TERAPIE D’AMORE (VIII)
IL DIARIO DI BRIDGET JONES di HELEN FIELDING (1996)
Pillole
di trama
È il diario schietto e sincero di un anno vissuto
comicamente da una trentenne pasticciona e inguaribilmente romantica, tra buoni
propositi mai mantenuti (mettersi a dieta, smettere di bere, di fumare e di
spendere più di quello che guadagna...), un lavoro insoddisfacente, amici
insostituibili, una madre oppressiva con l’ansia di sistemarla e, soprattutto,
la ricerca incessante dell’uomo dei sogni. Anzi di un uomo e basta, una persona
«normale» con cui avere una relazione «adulta». Quando finalmente non uno, ma
ben due uomini irrompono nella goffa vita di Bridget, nessuno dei due
assomiglia neanche lontanamente all’immagine del principe azzurro. Uno è il suo
capo, un donnaiolo impenitente e poco raccomandabile dal fascino irresistibile,
l’altro è un noioso, rigido, borioso e presuntuoso avvocato che indossa
improbabili golf regalati da mammà che da soli basterebbero a tenerlo alla
larga. Quale sarà quello giusto? Ovviamente il più sbagliato. Vi dico, però che
l’avvocato si chiama Mark Darcy (in caso non coglieste il richiamo, rimando a
“Orgoglio e pregiudizio”. Se non lo avete mai letto, rimediate al più presto).
Supposta-saggezza
Bridget Jones è l’eroina di tutte le donne che si sentono
piene di difetti. Bridget è l’Indiana Jones delle single irrequiete e inquiete,
alla perenne e instancabile ricerca dell’Arca dell’Alleanza tra i sessi
(includendo anche il sesso, se possibile) e del Tempio Maledetto delle
relazioni stabili. È il cavaliere in gonnella (corta, cortissima) in missione
per l’Ultima Crociata del Terzo Millennio: trovare un fidanzato, ovvero il
Sacro Graal.
Impossibile che una qualsiasi donna dotata di senso
dell’umorismo e di una forte dose di autoironia non s’innamori di Bridget
all’istante, immedesimandosi anche solo in minima parte in questo disastroso e
disastrato personaggio che è la summa di quasi tutte le insicurezze e debolezze
femminili. In perenne lotta con la bilancia, in guerra costante con i bilanci
(di vita e di soldi), alla continua ricerca della realizzazione personale, che
quasi mai coincide con quella professionale ma sempre con quella sentimentale
(e in tempi precari come questi non si sa quale sia più difficile da
raggiungere), è piena di nevrosi, vizi e difetti in eccesso: mangia, beve e
fuma troppo, parla anche di più e ha una fantasia straordinariamente fervida...
in una parola è smisuratamente umana e quindi irresistibilmente simpatica.
Lontana dallo stereotipo della single sfigata ma anche dall’immagine della
virago emancipata e aggressiva con tutti i difetti degli uomini ma in
equilibrio sui tacchi a spillo, Bridget segna la rivincita della donna insicura
di sé e sicura delle proprie insicurezze che, con le ciccette barocche, i
capelli spettinati, i mutandoni della nonna e l’unica abilità sportiva di
accumulare figuracce, riesce a tranquillizzare la stragrande maggioranza delle
sue consimili (quelle che sui tacchi traballano e per le quali il tanga è un
retaggio degli strumenti di tortura dell’Inquisizione). Bridget è l’Indiana
Jones della vita imperfetta e dell’amore perfettibile, un’eroina cosi
improbabile da essere diventata un’icona di stile. Di free style, ovviamente.
Nella scrittura del suo best seller, Helen Fielding si è
dichiaratamente ispirata a quel cult della letteratura inglese che è “Orgoglio
e pregiudizio”. Nonostante alcune dinamiche emozionali non cambino mai (la
ricerca di un uomo è sempre al centro della vita di una donna, sia essa una
figlia che sogna il principe azzurro o una madre che mira al buon partito), “Il
diario di Bridget Jones” ha messo in luce alcuni cambiamenti epocali. Se la
mamma è sempre la mamma e il suo unico scopo continua a essere la sistemazione
della progenie (la signora Jones ha la stessa mania ossessivo compulsiva di Mrs
Bennet con in più timidi slanci adulteri da “Madame Bovary”), la povera Bridget
è costretta dalla società a impegnarsi in nuovi calcoli, ancor più frustranti e
complicati. Non si trova tanto a dover soppesare la rendita dell’ipotetico
spasimante, ma le calorie che minacciano la sua linea, una linea di condotta
imposta dai media che è una forma addolcita (con l’edulcorante perché lo
zucchero ingrassa) di repressione sociale. Ma Bridget Jones si ribella alle
convenzioni rivendicando il diritto al piacere dissociato dal senso di colpa.
Bridget sceglie di essere emancipata e non emaciata. Altro cambiamento sociale
è il passaggio dalla famiglia tradizionale a quella allargata. Se Elizabeth ha
quattro sorelle, Bridget, figlia unica e single incallita, può contare su
quella che definisce una “famiglia metropolitana”, composta da amici
sgangherati che, rispetto ai familiari, non toccano in sorte ma presentano il
vantaggio di poter essere scelti. E per questo non sarà mai zitella ma sempre
in allegra compagnia, desiderosa di un uomo come dell’ossigeno ma
autosufficiente con le bombole dell’amicizia (fino a esaurimento scorte).
Posologia
Grazie alla sua composizione che lo rende uno dei più
efficaci esempi di “chick lit” (letteratura post femminista e post Liala per
ragazze spigliate, ironiche ed emancipate), il romanzo di Helen Fielding è un
antibiotico ad ampio spettro per contrastare un vasto assortimento di dolori
femminili. Risulta fondamentale, per esempio, quando si ha il morale a terra
per travagli sentimentali e/o professionali e/o familiari e/o legati ai chili
di troppo. Utile anche come antidepressivo, la lettura di qualche pagina
riporta immediatamente il buonumore. Scritto come un diario, è perfetto se si
ha poco tempo per leggere: non è necessario divorare il romanzo d’un fiato, può
essere tranquillamente assunto a piccole dosi senza perdere il filo della trama
né diminuirne i benefici.
“Il diario di Bridget Jones” è un’efficace cardioaspirina
per contrastare gli stati infiammatori e dolorosi del cuore malconcio delle
single quasi arrese alla speranza di trovare l’uomo giusto, terrorizzate
all’idea di restare sole (e divorate dai cani alsaziani) e nelle quali si è
insinuato questo malefico, ossessivo e comune pensiero: «Ma sarò io a essere
sbagliata? Sono troppo grassa, non abbastanza bella, poco brillante, insipida,
oppure, Dio ce ne scampi, sono “un tipo”?». Consiglio, in questi casi, di
massaggiare dolcemente sul petto fino al graduale assorbimento la sincera
dichiarazione d’amore che Mark Darcy fa a Bridget: «Mi piaci così come sei», un
balsamo più efficace del tradizionale “ti amo”. Si dice che l’amore è cieco, ma
è sempre augurabile trovare qualcuno che veda i nostri difetti e ci apprezzi
comunque.
Avvertenza: l’allegria di Bridget è contagiosa. Il suo
diario garantisce abbondanti dosi di risate terapeutiche e liberatorie, utili
sempre per affrontare la vita con lo spirito giusto e non solo per curare gli
acciacchi del cuore.
Effetti
collaterali
Rivedere alcuni dei propri difetti in un personaggio innegabilmente
simpatico come Bridget potrebbe causare un’eccessiva indulgenza nei confronti
delle proprie debolezze, portando a usarle come una scusa per adagiarsi e
crogiolarsi con compiacimento in quelle imperfezioni che rischiano di diventare
vizi insopportabili. Nell’attesa di trovare qualcuno che ci apprezzi per come
siamo, conviene lavorare un po’ sul carattere per evitare di mettere in fuga
tutti i possibili pretendenti, anche i più volenterosi.
Potreste essere contagiati dall’idea di scrivere un diario.
In questo caso, raccomando di fare attenzione perché annotare i propri pensieri
può essere una pratica terapeutica liberatoria che consente di far esplodere
sulla carta le emozioni ma può rivelarsi anche devastante qualora si
scrivessero solo sciocchezze con il pericolo di vergognarsi rileggendole a
distanza di tempo. A volte è meglio non lasciare traccia dei propri pasticci.
Consigli
Suggerisco di rendere la cura ancora più efficace leggendo
il secondo capitolo delle vicende della nostra eroina, “Che pasticcio Bridget
Jones!”, in cui la protagonista è alle prese con la vita di coppia, difficile e
insidiosa quanto quella da single.
Se avete superato da un pezzo i trent’anni, potreste trovare
beneficio nel terzo capitolo della saga: “Bridget Jones. Un amore di ragazzo”.
Immancabilmente pasticciona, sempre in lotta con i chili di troppo, ma anche
con le rughe, Bridget è una madre single ancora alla ricerca dell’amore. E Mark
Darcy? Vi avviso: pena la vanificazione della terapia del buonumore, è meglio
che le più romantiche non leggano il libro.
Terapia
cinematografica sostitutiva
Nel 2001 l’irruenza spumeggiante di
Bridget è arrivata al cinema. “Il Diario di Bridget Jones”, diretto da Sharon
Maguire, è un successo di pubblico a cui segue nel 2004 “Che pasticcio, Bridget
Jones!” di Beeban Kidron. Nonostante alcune differenze, i film non deludono le
aspettative (soprattutto il primo) ma aggiungono ulteriore divertimento e
spensieratezza alla terapia. Se ne raccomanda pertanto la visione. Renée
Zellweger nei panni larghi di Bridget, Colin Firth in quelli ingessati di Mark
Darcy e Hugh Grant in quelli del bastardo Daniel sono irresistibili.
Commenti
Ho aspettato del tempo prima di comporre questa scrittura,
di modo che sono riuscito a leggere (ma non a farmi piacere) i tre libri di
Helen Fielding. Dove il primo ha un suo perché, anche storico forse. Ma gli
altri vanno in un calando direi disastroso.
Helen Fielding “Il
diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12
[pubblicato il 27 maggio 2018]
Certo riparleremo a lungo di questo libro nell’ambito delle
terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho ripreso in mano dopo tanti
anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco, almeno nei dettagli, se non
nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è stato corroborato dal fatto di
averne inseguito visto il film. Che devo dire mi aveva anche fatto sorridere.
Nonché incuriosire con quell’ottimo tris d’attori dei tre protagonisti. Ricordate
certamente Renée Zellweger nella parte di Bridget Jones, Colin Firth in quella
di Mark Darcy e Hugh Grant che interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il
luogo di critiche cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero
sappiate, deriva dalla trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen
Fielding teneva sul giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di
parlare di una donna trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo
della rubrica, vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un
diario, questo, in cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno
della sua vita. Con tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse
esperienze di single avevano avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una
specie di summa di piccoli comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si
rivelano disastri, più o meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre
abortito, di controllare il peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59
e qualcosa), di smettere di fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi
che si perdono lungo la via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in
ogni luogo, cerca di farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se
lei a volte non lo capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di
cucinare cene deliziose ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti.
Ricordo solo un inciso che mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed
altri pezzi animali, legati da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago
blu. A cena gli amici si sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in
una casa editrice, è perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo
Daniel, che invece pensa solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli
capitano a tiro. Ha una corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista
sputa sentenze, Jude, che si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni
venti pagine, e Tom, omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la
sua più cara amica. Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre
di essere stata troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa,
comincia a fare l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con
le sue pazzie (di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante
portoghese, che si rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del
redde rationem, nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel,
Bridget decide anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una
televisione, dove viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la
sua aria innocente con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni
successi, ed un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che
incontriamo già nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso
un terrificante maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo
sempre qualche parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge.
Tipica la scena dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente
suonare il campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico.
Ma alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da
cui è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le
cure, e probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce
ne sono almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati
hanno lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era
di concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti
(di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce
di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della
madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come
sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di
comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano
molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo
colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social
non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura
dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo
letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del
football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti
anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben
altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando
un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget
& soci.
“Siamo nella cultura
dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata limitata.” (192)
Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones!” BUR
euro 9,90
[pubblicato il 23 dicembre 2018]
Tre
anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua
fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco
riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza
della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente fuori
fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non variando
molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior parte dei
protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile, ripercorrendo
senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista dell’attività
umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce quasi del tutto
“il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace invece la quasi
totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori americani. Invece le
pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili ricette derivate dai
libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia nell’inglese self-help).
Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel momento giusto. Precipitando
sempre più in basso la stima e l’autocomprensione di Bridget. Grande spazio,
invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a cercare di soffiare il buon
Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e quant’altro riesca a mettere in
difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare a Mark, c’è la solita tirata
sui genitori di Bridget. Con la madre con non vuole crescere, e questa volta
passa dall’improbabile indiano al fasullo keniota. Fortunatamente non viene
ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe la stessa solfa del primo.
Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice cose sagge inascoltate e se
ne torna tranquillo e felice nella sua Africa. Lasciando mamma Jones alle prese
con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento esilarante: il rifiuto di
rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones, perché dovrebbe mettere una
foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per riprendere il filo, sembra
sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto innamorato, ma incapace a) di
mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto incapace di capire il modo di
comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non puoi stare solo lì sulla porta
a vedere passare quello che succede, senza mai una volta intervenire, dire,
fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un bruto momento sembra rinsavire
e capisce che sia bene fare qualcosa. E facendolo, tira finalmente fuori dai
guai la nostra eroina. In tutto questo Bridget prende al solito il centro della
scena, ma continua a ripetere i suoi stereotipi: ingrassare/dimagrire,
fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere una fiducia cieca dell’altro che
la porta ai tre momenti topici del libro. Il primo, unico, positivo ed
esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin Firth (e suggerisco di tornare
ai film che ne sono tratti, con il momento double face: intervista con Colin e
rapporti con Mark interpretato da Colin; gustoso). Il secondo è il conflitto
con Gary il muratore, con la ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano,
e con la finale scoperta che Gary non è altro che un piccolo topo
d’appartamenti, che ha l’unico intento di rubacchiare dove può (anche poco,
vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e punto forte del libro, è invece
il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo di alcolici e funghi “eccitanti”,
con la comparsa del perfido Jed, e con l’incastro che questi le procura
nascondendo droga nel trolley di Bridget. Qui Helen fa un’operazione che
vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge giornali e sa del mondo,
risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga in Thailandia è
perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della settimana nelle
carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa che, una volta
finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un congruo lasso di
tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo (almeno nello
scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla morte di Diana.
Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il tutto finisce poi
come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un po’ scontato. E non
capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida continuano a citare la
Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione: il titolo. Perché
modificare l’originale “limite della ragione” con questo “pasticcio”? Certo,
Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo visto, ma credo che
l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel solco fra razionale
ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di fondo. Tutti siamo un
po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere perseguendo una
razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per la nostra povera
Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi l’ardua sentenza.
Helen Fielding
“Bridget Jones: Un amore di ragazzo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 23 dicembre 2018]
Ed ecco che dopo quasi quindici anni la
creatrice del “fenomeno” Bridget cerca di reinventarsi proponendo una nuova
tappa della saga. Super-scontata! Non nel senso che costa poco, ma le
situazioni, l’impianto e tutto il resto è visto, rivisto e senza nessuna
innovazione. Certo, gli anni passano per tutti: per Helen, per Bridget e per
Renée che continua ad interpretarla sullo schermo. Ma la formula del
diario-verità, inaugurata venti anni or sono sul Telegraph e su Indipendent era
vincente. Quindi, eccoci di nuovo ad un anno vissuto spericolatamente.
Dall’inizio però abbiamo subito l’impatto con le novità. Come ci si aspettava
dalla fine del precedente libro (sottolineo qui, che da un certo punto in poi
libri e film divergono in modo marcatissimo), Bridget e Mark si sposano. Ed
hanno due figli: William detto Billy e Mabel. Poi, con Mabel di pochi mesi,
Mark muore in una missione di pace in Afghanistan. Per quattro anni Bridget fa
la vedova inconsolabile, cercando di portare ordine alla sua vita: tata per i
figli, impeccabile e molto simpatica, lavoro di sceneggiatrice (anche se non
riesce a far uscire neanche una produzione), e solita routine con gli amici
storici (in particolare Tom il gay, Shaz e Jude). Visto che sono passati un
botto di anni, sono morti anche il padre di Bridget ed il suo amico Geoffrey.
Così mamma Jones con l’amica Una sono a riposo in una casa che si prende cura
di loro, e dove loro cercano di portare avanti l’invenzione di una giovane
vecchiaia. La zeppa in tutto il meccanismo è l’introduzione dei social network,
così come nei primi Bridget c’era il telefono con annessa segreteria. Qui si fa
un uso sproposito e malaccorto di Twitter. Ma solo perché, usando frasi corte,
è più gestibile sia degli SMS (che sono in parte presenti) sia di Facebook (che
invece è praticamente assente). Però non c’è sugo, non c’è ironia, non c’è
comicità in questo uso dei nuovi media. Jude e Shaz continuano ad entrare ed
uscire da siti di incontri altamente improbabili, riuscendo a coinvolgere
Bridget in alcune loro uscite. In una di queste, Bridget si imbatte in Roxter,
giovane quasi trentenne, spigliato e con un grande bisogno di sicurezze, che
Bridget, con la sua età matura riesce a dargli. Bridget, in realtà, si avvia ai
cinquanta. Questo, anche se non in modo esplicito, lo deduciamo incrociando il
film “Bridget Jones’s Baby” dove partorisce Billy a 43 anni, e qui dove Billy
di anni ne ha sei. Lunghi sproloqui sull’ansietà di Bridget di aver un rapporto
con un ragazzo così giovane, tanto che le amiche le parlano di “toy boy” (da
Devoto-Oli: “uomo giovane, spesso molto attraente,
che ha una relazione con una donna più avanti di lui negli anni”), altrettanto
lunghi giri di pagine su Roxter e sulla sua gioventù (ma anche sulla freschezza
di ridere, cosa che Bridget è sempre disposta a fare). Giri di frasi sui
bambini di Bridget (anche se Helen non sembra saper gestire l’età infantile,
sia nei due bimbi sia nei rapporti con gli altri bimbi coevi). Alcuni momenti
di finta ilarità si avranno nei momenti scolastici, con l’introduzione di un
nuovo personaggio, Mr. Wallaker. Che capiamo ben presto avrà un peso ed un
ruolo determinante. Perché sembra serio, determinato, maturo. Insomma quello
che poteva essere Mark se Mark non fosse morto. Ma con alcuni punti in più: più
ironia, più atletismo, più sicurezza. Bridget e Roxter faranno un piccolo
percorso insieme, tanto per uscire ognuno dalle proprie paranoie. Poi, ognuno per
la sua strada. Dove quella di Bridget incontrerà … Vi lascio aperta l’ultima
parte del libro, con l’unica avvertenza che, finalmente, mamma Jones deciderà
di diventare nonna Jones. Senza neanche lamentarsi troppo. Allora, tra i vari
libri di suggerimenti, mi erano arrivati questi tre tomi di Helen Fielding. Li
ho letti, diligentemente. E diligentemente li metto da parte. Se volete vedere
i film, tanto per rilassare la mente, ben venga. Ma credo che non sia il caso
di insistere su questo filone. Come si dice, una lettura veloce, e poi in
libreria a prendere la polvere.
Finalino
Ripeto un po’ quanto detto nelle pieghe delle trame. Se il
primo diario ha un qualche divertimento esistenziale (anche per come inizia una
parodia intelligente su “Orgoglio e pregiudizio”), gli altri non solo non sono
all’altezza, ma probabilmente provano serie crisi di rigetto. Quindi
astenetevi, soprattutto dall’ultimo.
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