domenica 20 gennaio 2019

Perryana - 20 gennaio 2019


Ecco, dopo una settimana dedicata ad un grande, un’altra settimana monotematica. Questa volta è solo una onesta scrittrice, dalla vita abbastanza contorta. Per chi non ricordasse le mie prime trame, ricordo che Anne Perry, da minorenne, fu condannata in Nuova Zelanda per omicidio. Dopo alcuni anni di carcere, uscita e girellante per il mondo in cerca di sé, trova questa sua dimensione di scrittrice di gialli ambientati nell’Inghilterra vittoriana. Dove segue le vicende dell’ispettore Pitt verso la fine del secolo e della guardia fluviale Monk a metà dello stesso. Oggi parliamo di quattro episodi di Thomas Pitt (ho messo per ognuno il numero dell’episodio).
Anne Perry “Assassinio a Brunswick Gardens” Mondadori euro 5,90
[A: 12/04/2017 – I: 13/09/2018 – T: 14/09/2018] && e ½
[titolo: Brunswick Gardens; lingua: inglese; pagine: 285; anno: 1998]
PITT 18
Riprendiamo dopo un lungo lasso di tempo le letture della serie maggiore di Anne Perry, dedicata alla gesta dell’ispettore Thomas Pitt, della sua famiglia, e di quanto gira intorno alla Londra del 1890. Non torno ancora sulla scrittrice, che tanto di lei ho scritto, e forse un giorno anche di lei si farà un sunto. Comunque, qui si torna indietro nella cronologia, come vedete nel sotto titoletto. Siamo infatti alla 18^ avventura, dove ormai siamo arrivati a più di 30 episodi. Ma soprattutto siamo tornati indietro nel tempo. ricordo che il primo romanzo che lessi, circa sei anni fa, era il 16° della serie. Ed allora, piombiamo di nuovo agli inizi della carriera dell’ispettore Pitt. Che qui è ancora di sede vicino al Covent Garden, a Bow Street, con un capo che gli dà piena fiducia, e con la famiglia intorno: la moglie Charlotte, i figli Jasmina e Daniel, la tuttofare Gracie. Nonché il sergente Tellman, suo unico e vero aiutante. La vicenda è imperniata sulla morte di una giovane signorina, impiegata come aiutante presso un reverendo che sta effettuando studi storici. Ricordo che nella Chiesa Anglicana i preti si possono sposare, come fa il rev. Parmenter, che sposò la ancora piacente Vita, ed ha due figlie tra i venti ed i venticinque anni, Clarice e Tryphena, ed un figlio di poco più grande, Mallory. Parmenter si occupa di studi storici su antichi testi biblici e la giovane Unity entra nella sua casa come esperta appunti di lingue antiche. La composizione della casa è completata da Dominic, già cognato della famiglia Pitt, in quanto vedovo di Sharon, morta tragicamente in uno dei primi episodi. Qui, lo scatenarsi del giallo è dato appunto dall’inspiegabile morto di Unity, dopo un suo alterco con Parmenter su questioni religiose. E pare proprio che qualcuno l’abbia spinta giù dalle scale, facendole rompere l’osso del collo. La situazione viene affidata a Pitt proprio per la delicatezza del caso. Dato che tutti gli indizi fanno ritenere proprio il reverendo come sia il colpevole della vicenda. Qui si svelano tutte le arti di intreccio di Anne Perry, nonché la sua capacità di annodare le vicende e le inchieste non solo dell’ispettore Pitt, ma anche della moglie Charlotte, sempre pronta a dargli una mano. Anche perché c’è la presenza inquietante di Dominic, a suo tempo malvisto dalla famiglia Pitt, ma che ora, dietro i buoni uffici proprio di Parmenter, sembra redento a nuova vita. L’inchiesta è discretamente lineare, Pitt è sul pezzo, anche se deve scontrarsi con una serie di complicazioni dovute alla posizione del reverendo ed agli incroci che si verificano nella casa. Intanto Unity non solo era un’attiva suffragetta, non solo non si capisce come sia potuta cadere dalle scale, ma era anche incinta. Nella casa, poi c’è Tryphena che la difende a spada tratta, scontrandosi con tutta la famiglia. Ma c’è la posizione dei tre maschi di casa. Il reverendo sembra troppo anziano per essere l’amante di Unity. Dominic, dati i suoi trascorsi, è un papabile candidato, anche se Charlotte ora lo difende contro tutti. Mallory, infine, è in lizza per trasferirsi a Roma, in quanto abbandona la Chiesa Anglicana per passare in quella Cattolica Romana, dove non sono previsti preti sposati. Il secondo intoppo è il fatto che nell’intermezzo tra le bravate giovanile ed il suo incontro con Parmenter, Dominic ha vissuto in modo sregolato, in case quasi comuni ante litteram, dove aveva già conosciuto, anche carnalmente, la bella Unity. Ma tutto, anche il racconto delle grida che si sono sentite prima della caduta di Unity, continuano a far pendere la bilancia verso il povero reverendo. Stranamente, poi, sembra che anche Vita, pur difendendolo nominalmente, lascia aperti spiragli consistenti di dubbi. La svolta? Quando Dominic si dichiara a Clarice, e Vita non la prende bene. Quando Charlotte scopre che le scarpe che indossa Unity non sono le sue. Quando Vita, sostenendo che lo ha assalito in un momento di folle rabbia, uccide per difendersi lo stesso reverendo. Sarà ovviamente Pitt che, collegando i vari puntini, farà uscire fuori il quadro completo del come e del perché della morte della povera Unity. Noi, astuti lettori, da alcuni indizi seminati bravamente dalla Perry nei primi capitoli, avevamo già intuito dove si stava andando a parare. Quindi, al solito, come ho già detto in altre trame della scrittrice, un impianto giallo matura ma non avvincente, e di contro una bella ricostruzione degli anni londinesi verso la fine dell’Ottocento.
“[vai avanti] un giorno alla volta, aggrappati alla fiducia che nutri nel tuo valore e costruisci su quella, senza fretta, un piccolo passo dopo l’altro.” (58)
“[La teologia] non è una materia per donne, sono costituzionalmente inadatte.” (96)
“Cosa vuol saperne lei della vecchiaia, del corpo che non funziona più, delle persone care morte e del non vedere davanti a sé più niente, se non la morte stessa?” (118)
“La marmellata d’arance gli piace troppo.” (130)
Anne Perry “Il complotto di Whitechapel” Mondadori euro 4,05 (in realtà scontato a 1,50 euro)
[A: 05/10/2017 – I: 15/09/2018 – T: 17/09/2018] && --
[titolo: The Whitechapel Conspiracy; lingua: inglese; pagine: 297; anno: 2001]
PITT 21
Avendo deciso i dare fondo a tutti i libri che Anne Perry ha dedicato alle vicende di Thomas Pitt, che sono presenti nella mia biblioteca, eccoci ora che affrontiamo un libro nodale nelle sue storie. Certo, abbiamo saltato due episodi, ma, a quanto ne so, erano due episodi del Pitt così detto classico, con morti strane ed inchieste ben condotte dal nostro. Qui entriamo subito in un ambito nuovo. Dove il nostro sovraintendente non sa bene come muoversi. C’è una morte poco spiegabile, di Fetters, un signorotto locale, molto dedito agli studi e con qualche velleità repubblicana, di certo poco consona in un ambiente monarchico come quello inglese. Le indagini di Pitt, che però non sono parte del racconto, dimostrano che è un omicidio e che solo un amico del defunto, John Adinett, può essere stato l’assassino. Sebbene siano solo prove indiziarie, e sebbene si tenti in tutti i modi di screditare Pitt, le giurie di primo e secondo grado condannano Adinett, che sarà in poco tempo giustiziato. Certo, Pitt non è contento di non aver trovato un movente. Ma quello che più importa è che la sua presa di posizione ha scatenato una non meglio identificata Confraternita, ben legata ai poteri forti. Così, di punto in bianco, Pitt si trova sollevato dai suoi incarichi, e scaraventato nei Reparti Speciali, comandati da Victor Narraway. Certo, noi che abbiamo già letto puntate successive, sappiamo che tra i due nascerà un forte sodalizio, ma al momento assistiamo ai primi approcci, dove nessuno dei due si fida dell’altro. Fatto sta, che i Reparti Speciali devono controllare facinorosi ed altre frange “estremiste”, così che Pitt si ritrova a dover vivere in posti malfamati di Londra, specialmente a Whitechapel, e sotto copertura. Il tutto mentre scorre il 1892, e Londra è anche attraversata da aneliti strani. La monarchia, non ben guidata dall’anziana Regina Vittoria, spende e spande, e comincia ad essere malvista dalle classi lavoratrici. Che basano, in quei quartieri malfamati, la loro esistenza, sulla produzione dello zucchero. Si avvicina quindi una miscela esplosiva: lì, ci sono ebrei rifugiati, ci sono repubblicani esaltati, ci sono anarchici, ci sono irredentisti irlandesi. Basta poco per far nascere tumulti e rivolte. Anche perché, mentre Pitt si addentra in questi luoghi, non si fanno passi avanti nella vicenda “Adinett”. Benché Charlotte, la pugnace moglie di Pitt, cerchi, parlando con la moglie del defunto e cercando tra i libri della biblioteca, motivi e spiegazioni. Il tutto ben complicato dalla presenza di un giornalista che sta scavando in una sordida relazione tra vari elementi, che coinvolgono le strane uccisioni che il famigerato “Jack lo Squartatore” aveva perpetrato proprio 4 anni prima sempre lì a Whitechapel. Qui si inserisce tutta una digressione della storia nella storia, dove si cerca di “raccordare” sacro e profano. Poiché tutto si svolge proprio a Whitechapel. Ed allora, la nostra scrittrice, sposando la tesi del complotto reale, cerca di far quadrare il cerchio. Ora, né io né nessun altro ha mai risolto i dubbi su chi sia stato e perché siano stati commessi i famosi delitti imputati a Jack lo Squartatore. L’idea che ci ripropone la nostra storica scrittrice è lineare, anche se ben complicata. Alberto Vittorio di Sassonia-Coburgo-Gotha, duca di Clarence (1864-1892), nipote della regina Vittoria, è un erede al trono, con molte pecche al suo arco. Frequenta Whitechapel e sposa una prostituta cattolica, cosa ben grave nella rigida monarchia anglicana. I ministri del regno, attraverso collegamenti con la massoneria e la malavita locale, usano tale Jack perché uccide tutte le testimoni della relazione tra il rampollo della famiglia regnante e l'ex prostituta. Quindi, se qualcuno, ad esempio il giornalista di cui sopra, trovasse delle prove del complotto, ben grave sarebbe la posizione della monarchia inglese. Quindi, è sempre a Whitechapel che girano i ribelli repubblicani, in cerca di notizie e cospirazioni. Adinett è uno di questi, così come Marco Corona, repubblicano italiano un tempo sodale della zia di Charlotte Pitt. Fetters, pur anelando riforme sociali, rifugge i metodi violenti. Per questo, alla fine, Adinett, pur suo sodale, non può che ucciderlo. Mentre Corona tenta un ultimo colpo, per inguaiare la monarchia con attentati nella zona calda degli zuccherifici. Sarà Pitt che troverà il bandolo della matassa, facendo acquisire le industrie direttamente dal Principe di Galles, dopo che sia il giornalista che Corona trovano repentine morti. Tutto risolto, ovviamente. Ma il tentativo di mescolare Storia e storia non risulta particolarmente coinvolgente. Unico punto, è la spiegazione del passaggio di Pitt da un ruolo ad un altro. Ne vedremo l’evoluzione, anche se già sappiamo che sarà tutto a vantaggio suo, della sua famiglia, e dei suoi sodali.
“Gli uomini che non sanno ridere di sé stessi mi spaventano più di quelli che ridono di tutto.” (229)
Anne Perry “L’amante egiziana” Mondadori euro 3,60 (in realtà scontato a 1,50 euro)
[A: 28/01/2017 – I: 18/09/2018 – T: 20/09/2018] &&
[titolo: Seven Dials; lingua: inglese; pagine: 280; anno: 2003]
PITT 23
Qui saltiamo un solo episodio, dove credo non ci sia molto da aggiungere, tanto che in questa nuova storia non sembra ce ne siano strascichi. Certo, gli editor italiani non hanno invece risparmiato sull’idea di usare un titolo “acchiappino”, puntando sull’esotico e sull’erotico, quando il titolo originale, come quasi sempre nelle storie di Thomas Pitt, si riferiva ad un luogo di Londra. Nella fattispecie, “Seven Dials”, che si trova come al solito vicino a Covent Garden, una delle zone più a rischio all’epoca dei fatti (ricordo che siamo sempre intorno al1892), ed altrettanto vicino a Keppel Street, la strada dove abita la famiglia Pitt. Per quanto riguarda la storia, invece, siamo nelle punte più basse della scrittura e del coinvolgimento che ci offre Anne Perry. Si batte e ribatte su argomenti ripetuti, su situazioni similari, senza darci più quegli spunti che ci offrivano i primi volumi. Sarà che il passaggio di Pitt dalla Polizia ai Reparti Speciali, frena molto le ricerche poliziesche, spostandosi sempre più su intrighi, complotti ed altre amenità. Tenta la Perry di mescolare indagini poliziesche, come nel primo Pitt, con il suo incarico attuale, molto più sul versante diplomatico relazionale. Ma il romanzo procede a rilento, senza prendere mai una sua andatura coinvolgente. C’è un morto, il tenente Lovat, ex-ufficiale ora diplomatico, trovato morto nel giardino della bella egiziana Ayesha Zakhari, che ha ancora in mano la pistola. Ma l’omicida pare essere il di lei amante, il ministro del governo Gladstone, Saville Ryerson. Per questo lo stesso primo ministro chiede l’intervento dei Progetti Speciali. Il comandante Narraway, che ancora non entra in intimità con la famiglia Pitt, decide quindi di affidare tutto a Thomas. Che indaga, ma sia l’egiziana che il ministro tacciono. Mentre gossip mirati escono sui giornali. Anche perché Ryerson è deputato in Manchester, grosso centro del commercio del cotone. Dove ci sarebbero grossi problemi se venisse a mancare la materia prima che, guarda caso, viene proprio dall’Egitto. Al fine di togliere veli alla vicenda, Pitt va anche ad Alessandria per indagare su Ayesha. Scoprendo che è copta e non islamica, che ci sono torbide vicende alle spalle, avvenuti proprio durante l’occupazione inglese. Sembra che ci sia stata una carneficina innescata da ufficiali britannici. Ma Pitt scopre poco altro, se non l’ambiguo comportamento di un console britannico. Nel frattempo, sulla vicenda principale si innesca la storia della scomparsa di Martin, fratello di un’amica di Gracie, la tata dei Pitt. Che coinvolge il vecchio (temporalmente non anagraficamente) sottoposto di Pitt, nella ricerca. Ricerca che si complica dato che anche il principale del detto fratello è scomparso. Come ci si immagina, noi astuti lettori delle opere della scrittrice già pensiamo di sapere che ci sia una possibile convergenza tra le due storie. Tutto si snoderà nel momento del processo. Qualcuno vuole creare lo scandalo per vendicarsi della carneficina, coinvolgendo il servitore di Ayesha, lui sì mussulmano, e colpendo Lovat e il padrone di Martin. Ma cercando anche di scatenare una guerra commerciale sul cotone, come aveva previsto Narraway. Quindi Ayesha, copta, viene mandata dall’Egitto in Inghilterra per “affascinare” Ryerson, diventandone amante, dato che sono comunque cristiani, e cercando di convincerlo ad aumentare i soldi inviati in Egitto per il cotone. Come servitore, qualcuno le appioppa il mussulmano Tariq, la cui famiglia fu sterminata in un incendio doloso provocato da Lovat e compagni. Tutte queste “pedine” poi erano manovrate da un personaggio, che vediamo alla fine palesarsi, ma che si poteva suppore un po’ prima. La fine, come spesso accadde nei romanzi della Perry, è sempre un po’ frettolosa. Condensata in poche pagine, si arriva a sistemare tutti puntini sulle “i” ed a sventare tutte le possibili minacce, in un crescendo, dove inizia Charlotte, la moglie di Pitt, a risolvere il mistero di Martin, a collegarlo agli egiziani, e Pitt, mettendo sotto torchio Ayesha, scopre gli intenti di Tariq. Ma anche del vendicatore di cui sopra. Tuttavia, la storia decolla poco, come detto ampiamente. Anche perché, questa mescolanza tra storia e Storia, è poco congeniale alle corde della scrittura di Anne Perry. Che meglio si trova nel narrare l’ambiente vittoriano, i suoi orpelli, le sue formalità, i suoi personaggi vacui, ma che ha anche un buon tocco quando scende sul versante opposto, dei poveri e degli oppressi (come meglio gli riesce però nella serie di Monk). Rimane sempre sospesa tra questi due versanti, il patrizio ed il plebeo. Dove qui si privilegia il primo, e dove io continuo a pensare che, invece, alla fine, sia più interessante e meglio descritto, il secondo. Speriamo torni presto anche Monk.
Anne Perry “Mezzanotte a Marble Arch” Mondadori euro 5,90
[A: 24/06/2016 – I: 21/09/2018 – T: 22/09/2018] &&--
[titolo: Midnight at Marble Arch; lingua: inglese; pagine: 273; anno: 2012]
PITT 28
Ed invece, eccoci ad un nuovo capitolo delle vicende di Thomas Pitt. C’è un salto di ben cinque libri, che però io ho già letto e tramato. Motivo per cui sappiamo come si sia evoluta la storia di Pitt, come sia diventato a sua volta il capo dei Progetti Speciali, mentre il suo vecchio capo, “promoveatur ut amoveatur”, diviene membro della Camera dei Lord. Dopo tutte le vicende che hanno portato a questi cambiamenti, che coinvolgevano da vicino anche l’Irlanda ed i movimenti irredentisti locali, in questa nuova avventura, pur toccata da elementi diplomatici, torniamo quasi a vedere le movenze del vecchio sovraintendente. Ovviamente, anche l’entourage di Pitt è cambiato, essendo la tata Gracie finalmente andata in sposa al sergente Tellman. Fortunatamente rimane ad aiutare i nostri con le sue conoscenze aristocratiche, la prozia lady Vespasia Cumming-Gould. Temporalmente, intanto, siamo arrivati al 1896, data importante per uno degli aspetti del romanzo. Non per il principale, che qui la nostra scrittrice affronta un argomento delicato, in tutte le età: lo stupro. Dopo aver fatto morire molte donne in molti modi nei precedenti 27 romanzi, qui, pur mantenendo un linguaggio raffinato, la scrittrice si cala nella descrizione della brutalità sessuale tra le classi superiori. Le donne violate (nei romanzi, nella vita, sempre) dicono in modo sincero e crudele che le loro vite sono rovinate. Ancor più nell’era vittoriana, anche se le parole del patologo della polizia che esegue l’autopsia su di una di queste donne possono venir ripetute in ogni età: "Molte donne non superano mai lo stupro. Non possono sopportarne la vergogna e l'orrore". Non solo le vittime si sentono danneggiate irreparabilmente, ma assistiamo spesso a come siano i mariti stessi che incolpano le loro mogli di comportamenti provocatori. Ma non voglio entrare in una disamina morale degli accaduti, per cui ritorno alla finzione. Laddove, a mano a mano che si svolge il romanzo, scopriamo diversi stupri e diversi comportamenti seguenti alla triste vicende. C’è Angeles Castelbranco, la figlia sedicenne dell'ambasciatore portoghese, che si ritrae quando viene avvicinata dal perfido Neville, tanto da buttarsi coscientemente oltre la finestra. C’è una prostituta che lo stupratore uccide. C’è Alice, che riesce a fuggire benché violata. C’è Catherine Quixwood, che muore bevendo del laudano dopo essere stata violentata da qualcuno di cui si fidava, non essendoci traccia di scasso in casa. Poiché alcune morti sono in ambienti aristocratici, Pitt comincia ad indagare, ma deve lasciare il compito al suo vecchio capo, Narraway, essendo lui invece convolto in questioni delicate di sicurezza a fronte di una possibile guerra con i boeri nell'Africa meridionale. L’abilità della Perry è nel cercare di portare avanti i due filoni, di collegarsi a fatti storici reali (uno dei nodi centrali della parte economica e storica del romanzo è la spedizione Jameson, che, sostenuta dal magnate Cecil Rhodes, quello della Rhodesia appunto, doveva scacciare i boeri e permettere agli inglesi di sfruttare oro e diamanti sudafricani; spedizione che appunto nel 1896 fallì, anche se poi l’Inghilterra meno di dieci anni dopo avrebbe avuto la meglio), e nel trovare il modo di risolvere il tutto, in modo che i cattivi siano puniti.  Il castello che Narraway deve affrontare e smantellare è complesso: c’è un banchiere violento che, anni prima, uccide la moglie che stava per fuggire con il suo amante. Il quale cerca il modo di vendicarsi, inducendo il banchiere, con carte falsificate, ad investire nella spedizione Jameson. Tuttavia la moglie del banchiere, subodorando le malefatte del marito, e volendo invece fermarlo, si lega di forte amicizia ad un impiegato di alto livello del Tesoro, che le fornisce prove di quanto sta accadendo. Ma il banchiere se ne accorge, e fa una contromossa che rischia di essere fatale: convince l’altrettanto violento figlio del banchiere, già autore di diversi stupri, a violentare la moglie, avendo nel frattempo avvelenato il vino presente nel suo salone, sicuro che, dopo lo stupro, la donna avrebbe bevuto per poter reagire allo shock. Inoltre il banchiere fa in modo che tutti i sospetti possano cadere sul misero impiegato di cui sopra. Alla fine, Pitt, una volta circoscritto il pericolo di una guerra anglo-boera (che scoppierà solo da lì a tre anni), viene in aiuto a Narraway, fornendo le prove bancarie dell’accaduto. La fine, come ho già detto nella precedente trama, è di una velocità spasmodica, tanto che tutto si risolve nelle cinque pagine finali. Con un respiro affannoso, dove vediamo coinvolti, nella scena madre che serve a salvare l’impiegato dalla forca, ed a portare la giusta punizione i cattivi, Pitt, Narraway e pesino Lady Vespasia. Ed è con il fiato corto che arriviamo all’ultima riga, dove ancora alcune cose vengono lasciate in sospeso. Come ad esempio uno sguardo strano tra Narraway e Lady Vespasia. Ne sapremo forse di più in altre puntate. Certo è che il punto di svolta è stato il coinvolgimento dell’unica vittima sopravvissuta, Alice, con una forzatura, che non credo sia credibile il suo atteggiamento proprio in quel mondo vittoriano che tanto bene la Perry andava descrivendo. Alla fine, queste storie recenti di Pitt sembrano veleggiare un po’ troppo verso momenti rarefatti, lasciandoci il ricordo del buon sapore delle prime storie di Thomas e Charlotte. Vedremo cosa ci riserverà il futuro.
“Io mi ricordo di essermi innamorata una buona dozzina di volte di uomini che, se li avessi sposati, bè… non oso immaginare il disastro.” (46)
Dopo un allegato di cura, vi propongo anche uno dedicato ai guasti dell’amore, in cui vi farò trovare un’altra sventagliata libri: tutto Bridget Jones, per chi ha il coraggio di seguirmi.
Continuiamo intanto a seguire con il fiato sospeso la possibilità del viaggio indiano che tarda a maturare. Ma non ci mancano attività da seguire e momenti tristi-allegri da ricordare. 

I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GENNAIO 2019
Iniziamo quest’anno di splendida felicità, riprendendo il percorso terapeutico per risollevare il cuore dai suoi poveri acciacchi.

TERAPIE D’AMORE (VIII)

IL DIARIO DI BRIDGET JONES di HELEN FIELDING (1996)

Pillole di trama
È il diario schietto e sincero di un anno vissuto comicamente da una trentenne pasticciona e inguaribilmente romantica, tra buoni propositi mai mantenuti (mettersi a dieta, smettere di bere, di fumare e di spendere più di quello che guadagna...), un lavoro insoddisfacente, amici insostituibili, una madre oppressiva con l’ansia di sistemarla e, soprattutto, la ricerca incessante dell’uomo dei sogni. Anzi di un uomo e basta, una persona «normale» con cui avere una relazione «adulta». Quando finalmente non uno, ma ben due uomini irrompono nella goffa vita di Bridget, nessuno dei due assomiglia neanche lontanamente all’immagine del principe azzurro. Uno è il suo capo, un donnaiolo impenitente e poco raccomandabile dal fascino irresistibile, l’altro è un noioso, rigido, borioso e presuntuoso avvocato che indossa improbabili golf regalati da mammà che da soli basterebbero a tenerlo alla larga. Quale sarà quello giusto? Ovviamente il più sbagliato. Vi dico, però che l’avvocato si chiama Mark Darcy (in caso non coglieste il richiamo, rimando a “Orgoglio e pregiudizio”. Se non lo avete mai letto, rimediate al più presto).
Supposta-saggezza
Bridget Jones è l’eroina di tutte le donne che si sentono piene di difetti. Bridget è l’Indiana Jones delle single irrequiete e inquiete, alla perenne e instancabile ricerca dell’Arca dell’Alleanza tra i sessi (includendo anche il sesso, se possibile) e del Tempio Maledetto delle relazioni stabili. È il cavaliere in gonnella (corta, cortissima) in missione per l’Ultima Crociata del Terzo Millennio: trovare un fidanzato, ovvero il Sacro Graal.
Impossibile che una qualsiasi donna dotata di senso dell’umorismo e di una forte dose di autoironia non s’innamori di Bridget all’istante, immedesimandosi anche solo in minima parte in questo disastroso e disastrato personaggio che è la summa di quasi tutte le insicurezze e debolezze femminili. In perenne lotta con la bilancia, in guerra costante con i bilanci (di vita e di soldi), alla continua ricerca della realizzazione personale, che quasi mai coincide con quella professionale ma sempre con quella sentimentale (e in tempi precari come questi non si sa quale sia più difficile da raggiungere), è piena di nevrosi, vizi e difetti in eccesso: mangia, beve e fuma troppo, parla anche di più e ha una fantasia straordinariamente fervida... in una parola è smisuratamente umana e quindi irresistibilmente simpatica. Lontana dallo stereotipo della single sfigata ma anche dall’immagine della virago emancipata e aggressiva con tutti i difetti degli uomini ma in equilibrio sui tacchi a spillo, Bridget segna la rivincita della donna insicura di sé e sicura delle proprie insicurezze che, con le ciccette barocche, i capelli spettinati, i mutandoni della nonna e l’unica abilità sportiva di accumulare figuracce, riesce a tranquillizzare la stragrande maggioranza delle sue consimili (quelle che sui tacchi traballano e per le quali il tanga è un retaggio degli strumenti di tortura dell’Inquisizione). Bridget è l’Indiana Jones della vita imperfetta e dell’amore perfettibile, un’eroina cosi improbabile da essere diventata un’icona di stile. Di free style, ovviamente.
Nella scrittura del suo best seller, Helen Fielding si è dichiaratamente ispirata a quel cult della letteratura inglese che è “Orgoglio e pregiudizio”. Nonostante alcune dinamiche emozionali non cambino mai (la ricerca di un uomo è sempre al centro della vita di una donna, sia essa una figlia che sogna il principe azzurro o una madre che mira al buon partito), “Il diario di Bridget Jones” ha messo in luce alcuni cambiamenti epocali. Se la mamma è sempre la mamma e il suo unico scopo continua a essere la sistemazione della progenie (la signora Jones ha la stessa mania ossessivo compulsiva di Mrs Bennet con in più timidi slanci adulteri da “Madame Bovary”), la povera Bridget è costretta dalla società a impegnarsi in nuovi calcoli, ancor più frustranti e complicati. Non si trova tanto a dover soppesare la rendita dell’ipotetico spasimante, ma le calorie che minacciano la sua linea, una linea di condotta imposta dai media che è una forma addolcita (con l’edulcorante perché lo zucchero ingrassa) di repressione sociale. Ma Bridget Jones si ribella alle convenzioni rivendicando il diritto al piacere dissociato dal senso di colpa. Bridget sceglie di essere emancipata e non emaciata. Altro cambiamento sociale è il passaggio dalla famiglia tradizionale a quella allargata. Se Elizabeth ha quattro sorelle, Bridget, figlia unica e single incallita, può contare su quella che definisce una “famiglia metropolitana”, composta da amici sgangherati che, rispetto ai familiari, non toccano in sorte ma presentano il vantaggio di poter essere scelti. E per questo non sarà mai zitella ma sempre in allegra compagnia, desiderosa di un uomo come dell’ossigeno ma autosufficiente con le bombole dell’amicizia (fino a esaurimento scorte).
Posologia
Grazie alla sua composizione che lo rende uno dei più efficaci esempi di “chick lit” (letteratura post femminista e post Liala per ragazze spigliate, ironiche ed emancipate), il romanzo di Helen Fielding è un antibiotico ad ampio spettro per contrastare un vasto assortimento di dolori femminili. Risulta fondamentale, per esempio, quando si ha il morale a terra per travagli sentimentali e/o professionali e/o familiari e/o legati ai chili di troppo. Utile anche come antidepressivo, la lettura di qualche pagina riporta immediatamente il buonumore. Scritto come un diario, è perfetto se si ha poco tempo per leggere: non è necessario divorare il romanzo d’un fiato, può essere tranquillamente assunto a piccole dosi senza perdere il filo della trama né diminuirne i benefici.
“Il diario di Bridget Jones” è un’efficace cardioaspirina per contrastare gli stati infiammatori e dolorosi del cuore malconcio delle single quasi arrese alla speranza di trovare l’uomo giusto, terrorizzate all’idea di restare sole (e divorate dai cani alsaziani) e nelle quali si è insinuato questo malefico, ossessivo e comune pensiero: «Ma sarò io a essere sbagliata? Sono troppo grassa, non abbastanza bella, poco brillante, insipida, oppure, Dio ce ne scampi, sono “un tipo”?». Consiglio, in questi casi, di massaggiare dolcemente sul petto fino al graduale assorbimento la sincera dichiarazione d’amore che Mark Darcy fa a Bridget: «Mi piaci così come sei», un balsamo più efficace del tradizionale “ti amo”. Si dice che l’amore è cieco, ma è sempre augurabile trovare qualcuno che veda i nostri difetti e ci apprezzi comunque.
Avvertenza: l’allegria di Bridget è contagiosa. Il suo diario garantisce abbondanti dosi di risate terapeutiche e liberatorie, utili sempre per affrontare la vita con lo spirito giusto e non solo per curare gli acciacchi del cuore.
Effetti collaterali
Rivedere alcuni dei propri difetti in un personaggio innegabilmente simpatico come Bridget potrebbe causare un’eccessiva indulgenza nei confronti delle proprie debolezze, portando a usarle come una scusa per adagiarsi e crogiolarsi con compiacimento in quelle imperfezioni che rischiano di diventare vizi insopportabili. Nell’attesa di trovare qualcuno che ci apprezzi per come siamo, conviene lavorare un po’ sul carattere per evitare di mettere in fuga tutti i possibili pretendenti, anche i più volenterosi.
Potreste essere contagiati dall’idea di scrivere un diario. In questo caso, raccomando di fare attenzione perché annotare i propri pensieri può essere una pratica terapeutica liberatoria che consente di far esplodere sulla carta le emozioni ma può rivelarsi anche devastante qualora si scrivessero solo sciocchezze con il pericolo di vergognarsi rileggendole a distanza di tempo. A volte è meglio non lasciare traccia dei propri pasticci.
Consigli
Suggerisco di rendere la cura ancora più efficace leggendo il secondo capitolo delle vicende della nostra eroina, “Che pasticcio Bridget Jones!”, in cui la protagonista è alle prese con la vita di coppia, difficile e insidiosa quanto quella da single.
Se avete superato da un pezzo i trent’anni, potreste trovare beneficio nel terzo capitolo della saga: “Bridget Jones. Un amore di ragazzo”. Immancabilmente pasticciona, sempre in lotta con i chili di troppo, ma anche con le rughe, Bridget è una madre single ancora alla ricerca dell’amore. E Mark Darcy? Vi avviso: pena la vanificazione della terapia del buonumore, è meglio che le più romantiche non leggano il libro.
Terapia cinematografica sostitutiva
Nel 2001 l’irruenza spumeggiante di Bridget è arrivata al cinema. “Il Diario di Bridget Jones”, diretto da Sharon Maguire, è un successo di pubblico a cui segue nel 2004 “Che pasticcio, Bridget Jones!” di Beeban Kidron. Nonostante alcune differenze, i film non deludono le aspettative (soprattutto il primo) ma aggiungono ulteriore divertimento e spensieratezza alla terapia. Se ne raccomanda pertanto la visione. Renée Zellweger nei panni larghi di Bridget, Colin Firth in quelli ingessati di Mark Darcy e Hugh Grant in quelli del bastardo Daniel sono irresistibili.

Commenti

Ho aspettato del tempo prima di comporre questa scrittura, di modo che sono riuscito a leggere (ma non a farmi piacere) i tre libri di Helen Fielding. Dove il primo ha un suo perché, anche storico forse. Ma gli altri vanno in un calando direi disastroso.
Helen Fielding “Il diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12
[pubblicato il 27 maggio 2018]
Certo riparleremo a lungo di questo libro nell’ambito delle terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho ripreso in mano dopo tanti anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco, almeno nei dettagli, se non nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è stato corroborato dal fatto di averne inseguito visto il film. Che devo dire mi aveva anche fatto sorridere. Nonché incuriosire con quell’ottimo tris d’attori dei tre protagonisti. Ricordate certamente Renée Zellweger nella parte di Bridget Jones, Colin Firth in quella di Mark Darcy e Hugh Grant che interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il luogo di critiche cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero sappiate, deriva dalla trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen Fielding teneva sul giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di parlare di una donna trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo della rubrica, vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un diario, questo, in cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno della sua vita. Con tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse esperienze di single avevano avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una specie di summa di piccoli comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si rivelano disastri, più o meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre abortito, di controllare il peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59 e qualcosa), di smettere di fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi che si perdono lungo la via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in ogni luogo, cerca di farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se lei a volte non lo capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di cucinare cene deliziose ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti. Ricordo solo un inciso che mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed altri pezzi animali, legati da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago blu. A cena gli amici si sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in una casa editrice, è perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo Daniel, che invece pensa solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli capitano a tiro. Ha una corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista sputa sentenze, Jude, che si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni venti pagine, e Tom, omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la sua più cara amica. Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre di essere stata troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa, comincia a fare l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con le sue pazzie (di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante portoghese, che si rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del redde rationem, nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel, Bridget decide anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una televisione, dove viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la sua aria innocente con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni successi, ed un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che incontriamo già nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso un terrificante maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo sempre qualche parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge. Tipica la scena dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente suonare il campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico. Ma alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da cui è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le cure, e probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce ne sono almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati hanno lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era di concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti (di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget & soci.
“Siamo nella cultura dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata limitata.” (192)
Helen Fielding “Che pasticcio, Bridget Jones!” BUR euro 9,90
[pubblicato il 23 dicembre 2018]
Tre anni dopo il successo planetario del “Diario”, Helen prova a rinverdire la sua fama con questo secondo capitolo della saga. Un tentativo veramente poco riuscito ed alquanto prevedibile. Se nel primo romanzo c’era la freschezza della novità, l’ingenuità delle situazioni (con Bridget sempre leggermente fuori fase rispetto a quanto le capita intorno), questo secondo romanzo, non variando molto lo stile, risulta ripetitivo ed anche un po’ noioso. La maggior parte dei protagonisti del primo si ripresentano qui con immutato stile, ripercorrendo senza troppe variazioni quanto di scellerato (dl punto di vista dell’attività umana quotidiana) facevano nel primo. Fortunatamente sparisce quasi del tutto “il bastardo Daniel”, con una puntatina dimenticabile. Dispiace invece la quasi totale assenza del “gay” Tom, troppo preso dai suoi amori americani. Invece le pagine sono piene di Jude e Shaz, con le loro improbabili ricette derivate dai libri di auto-aiuto (che la quarta di copertina lascia nell’inglese self-help). Sempre pronte a dare il consiglio sbagliato nel momento giusto. Precipitando sempre più in basso la stima e l’autocomprensione di Bridget. Grande spazio, invece, prende l’odiosa Rebecca, subito pronta a cercare di soffiare il buon Mark alla nostra. Organizzando cene, viaggi, e quant’altro riesca a mettere in difficoltà la nostra eroina. Ma prima di passare a Mark, c’è la solita tirata sui genitori di Bridget. Con la madre con non vuole crescere, e questa volta passa dall’improbabile indiano al fasullo keniota. Fortunatamente non viene ripreso a lungo, anche perché ripercorrerebbe la stessa solfa del primo. Wellington invece appare, fa delle stupidate, dice cose sagge inascoltate e se ne torna tranquillo e felice nella sua Africa. Lasciando mamma Jones alle prese con l’alcolismo di papà Jones. Unico momento esilarante: il rifiuto di rinnovare il passaporto da parte di mamma Jones, perché dovrebbe mettere una foto aggiornata, quindi “più matura”. Mark, per riprendere il filo, sembra sempre uguale a sé stesso. Molto imbranato, molto innamorato, ma incapace a) di mostrare a Bridget quanto la ami e b) altrettanto incapace di capire il modo di comportarsi di Bridget. Ma se ami qualcuno, non puoi stare solo lì sulla porta a vedere passare quello che succede, senza mai una volta intervenire, dire, fare qualche cosa. Solo quando Bridget passa un bruto momento sembra rinsavire e capisce che sia bene fare qualcosa. E facendolo, tira finalmente fuori dai guai la nostra eroina. In tutto questo Bridget prende al solito il centro della scena, ma continua a ripetere i suoi stereotipi: ingrassare/dimagrire, fumare/smettere di fumare, ubriacarsi, avere una fiducia cieca dell’altro che la porta ai tre momenti topici del libro. Il primo, unico, positivo ed esilarante, è l’intervista romana con il “vero” Colin Firth (e suggerisco di tornare ai film che ne sono tratti, con il momento double face: intervista con Colin e rapporti con Mark interpretato da Colin; gustoso). Il secondo è il conflitto con Gary il muratore, con la ristrutturazione di casa, con i soldi che mancano, e con la finale scoperta che Gary non è altro che un piccolo topo d’appartamenti, che ha l’unico intento di rubacchiare dove può (anche poco, vista l’imbranataggine palesata). Il terzo, e punto forte del libro, è invece il viaggio in Thailandia. Con tutto lo sballo di alcolici e funghi “eccitanti”, con la comparsa del perfido Jed, e con l’incastro che questi le procura nascondendo droga nel trolley di Bridget. Qui Helen fa un’operazione che vorrebbe essere ridanciana, ma che, per chi legge giornali e sa del mondo, risulta quanto meno improbabile. Il possesso di droga in Thailandia è perseguito con una durezza estrema. E le descrizioni della settimana nelle carceri thailandesi sono una discreta presa in giro, per chi sa che, una volta finito in quel girone, difficilmente se ne esce prima di un congruo lasso di tempo (anni!). E non se ne esce mai bene. Visto che siamo (almeno nello scorrere temporale) nel 1997, non poteva mancare l’accenno alla morte di Diana. Che tuttavia avrei omesso per rispetto del personaggio. Il tutto finisce poi come cominciato con Mark e Bridget che tornano insieme. Un po’ scontato. E non capsico, ne leggerò poi, perché i miei libri guida continuano a citare la Fielding nelle loro terapie. Un’ultima considerazione: il titolo. Perché modificare l’originale “limite della ragione” con questo “pasticcio”? Certo, Bridget continua a non combinarne una buona, come abbiamo visto, ma credo che l’idea dell’autrice sia stata invece di procedere su quel solco fra razionale ed irrazionale, per continuare a sostenere la sua idea di fondo. Tutti siamo un po’ sbalestrati in questo mondo, ed è difficile procedere perseguendo una razionalità che non ci è propria. Così come non è propria per la nostra povera Bridget. Ne vedremo ancora, di sue avventure? Ai postumi l’ardua sentenza.
Helen Fielding “Bridget Jones: Un amore di ragazzo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 23 dicembre 2018]
Ed ecco che dopo quasi quindici anni la creatrice del “fenomeno” Bridget cerca di reinventarsi proponendo una nuova tappa della saga. Super-scontata! Non nel senso che costa poco, ma le situazioni, l’impianto e tutto il resto è visto, rivisto e senza nessuna innovazione. Certo, gli anni passano per tutti: per Helen, per Bridget e per Renée che continua ad interpretarla sullo schermo. Ma la formula del diario-verità, inaugurata venti anni or sono sul Telegraph e su Indipendent era vincente. Quindi, eccoci di nuovo ad un anno vissuto spericolatamente. Dall’inizio però abbiamo subito l’impatto con le novità. Come ci si aspettava dalla fine del precedente libro (sottolineo qui, che da un certo punto in poi libri e film divergono in modo marcatissimo), Bridget e Mark si sposano. Ed hanno due figli: William detto Billy e Mabel. Poi, con Mabel di pochi mesi, Mark muore in una missione di pace in Afghanistan. Per quattro anni Bridget fa la vedova inconsolabile, cercando di portare ordine alla sua vita: tata per i figli, impeccabile e molto simpatica, lavoro di sceneggiatrice (anche se non riesce a far uscire neanche una produzione), e solita routine con gli amici storici (in particolare Tom il gay, Shaz e Jude). Visto che sono passati un botto di anni, sono morti anche il padre di Bridget ed il suo amico Geoffrey. Così mamma Jones con l’amica Una sono a riposo in una casa che si prende cura di loro, e dove loro cercano di portare avanti l’invenzione di una giovane vecchiaia. La zeppa in tutto il meccanismo è l’introduzione dei social network, così come nei primi Bridget c’era il telefono con annessa segreteria. Qui si fa un uso sproposito e malaccorto di Twitter. Ma solo perché, usando frasi corte, è più gestibile sia degli SMS (che sono in parte presenti) sia di Facebook (che invece è praticamente assente). Però non c’è sugo, non c’è ironia, non c’è comicità in questo uso dei nuovi media. Jude e Shaz continuano ad entrare ed uscire da siti di incontri altamente improbabili, riuscendo a coinvolgere Bridget in alcune loro uscite. In una di queste, Bridget si imbatte in Roxter, giovane quasi trentenne, spigliato e con un grande bisogno di sicurezze, che Bridget, con la sua età matura riesce a dargli. Bridget, in realtà, si avvia ai cinquanta. Questo, anche se non in modo esplicito, lo deduciamo incrociando il film “Bridget Jones’s Baby” dove partorisce Billy a 43 anni, e qui dove Billy di anni ne ha sei. Lunghi sproloqui sull’ansietà di Bridget di aver un rapporto con un ragazzo così giovane, tanto che le amiche le parlano di “toy boy” (da Devoto-Oli: “uomo giovane, spesso molto attraente, che ha una relazione con una donna più avanti di lui negli anni”), altrettanto lunghi giri di pagine su Roxter e sulla sua gioventù (ma anche sulla freschezza di ridere, cosa che Bridget è sempre disposta a fare). Giri di frasi sui bambini di Bridget (anche se Helen non sembra saper gestire l’età infantile, sia nei due bimbi sia nei rapporti con gli altri bimbi coevi). Alcuni momenti di finta ilarità si avranno nei momenti scolastici, con l’introduzione di un nuovo personaggio, Mr. Wallaker. Che capiamo ben presto avrà un peso ed un ruolo determinante. Perché sembra serio, determinato, maturo. Insomma quello che poteva essere Mark se Mark non fosse morto. Ma con alcuni punti in più: più ironia, più atletismo, più sicurezza. Bridget e Roxter faranno un piccolo percorso insieme, tanto per uscire ognuno dalle proprie paranoie. Poi, ognuno per la sua strada. Dove quella di Bridget incontrerà … Vi lascio aperta l’ultima parte del libro, con l’unica avvertenza che, finalmente, mamma Jones deciderà di diventare nonna Jones. Senza neanche lamentarsi troppo. Allora, tra i vari libri di suggerimenti, mi erano arrivati questi tre tomi di Helen Fielding. Li ho letti, diligentemente. E diligentemente li metto da parte. Se volete vedere i film, tanto per rilassare la mente, ben venga. Ma credo che non sia il caso di insistere su questo filone. Come si dice, una lettura veloce, e poi in libreria a prendere la polvere.

Finalino

Ripeto un po’ quanto detto nelle pieghe delle trame. Se il primo diario ha un qualche divertimento esistenziale (anche per come inizia una parodia intelligente su “Orgoglio e pregiudizio”), gli altri non solo non sono all’altezza, ma probabilmente provano serie crisi di rigetto. Quindi astenetevi, soprattutto dall’ultimo.

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