Ero indeciso se privilegiare la
Befana o la domenica. Alla fine la vecchia signora con la scopa ha vinto, come
ben vedrete nel denso allegato. Ma prima di dedicarci ai recuperi letterari,
ecco che andiamo ancora per una tornata di gialli anglosassoni, che non sono
“epifanici”, nel senso di portare una rivelazione particolare, ma che,
tuttavia, si mantengono su un livello di quasi sufficienza che non sempre è
presente in questi libri. Inoltre, parlo di un libro che, per la mia famiglia,
è imperdibile, a prescindere dal contenuto stesso del libro. Cioè, il libro di
D.G. Browne “Troppi cugini”. No comment.
Victor L. Whitechurch “Il delitto della portantina” Corriere della Sera
Gialli euro 6,90
[A: 12/04/2016– I: 28/07/2018
– T: 30/07/2018] - &&
[tit. or.: Murder at the Pageant; ling. or.: inglese; pagine: 266; anno 1930]
Un
dignitoso prodotto, discretamente godibile, infarcito di qualche trovata.
Tuttavia, complessivamente, non un grande giallo. Sebbene il poco conosciuto
autore non demeriti il ruolo centrale che Ellery Queen gli dedicò nelle
antologie sui cento maggiori autori della metà del secolo XX. Non però per
questi gialli, che cominciò a scrivere solo dalla metà degli anni ’20, per
l’ultimo decennio della sua vita, dato che l’autore muore nel 1933 a 65 anni.
Un autore destinato ad altro, e che altro fece, come simbolicamente descrive il
suo nome. Da una bianca chiesa non poteva che scaturire un pastore anglicano,
con la sua brava parrocchia nell’entroterra inglese, e con un po’ di tempo da
dedicare ai suoi passatempi preferiti: le ferrovie ed i gialli. Che tra l’altro
unì nei primi racconti pubblicati, creando un personaggio di detective maniaco
delle ferrovie, di cui conosceva tutto. Certo, deve essere stato un detective
di nicchia, magari curiosa, ma senza tanto spazio nel panorama investigativo di
carta. Comunque, il nostro buon Victor, dopo le serie maggiori, quelle appunto
che gli valsero il riconoscimento di Ellery Queen, scrive alcuni degni gialli.
Degni come questo, che ha una trama intrigante, ma che si vede che, se lasciato
a qualche penna di maggior calibro, avrebbe raggiunto senz’altro un più alto
grado di interesse e gradimento. Intanto dispiace il cambiamento di scenario
del titolo, dove l’originale puntava allo Spettacolo rievocativo al termine del
quale si svolgerà l’omicidio, mentre gli editor italiani puntano gli occhi
sulla portantina dentro la quale viene trovato il morto. Altro punto debole del
romanzo è la vera mancanza di un detective centrale alla trama, laddove sono
presenti due personaggi investigativi, che sembrano competere tra loro, ma nessuno
dei due riesce a prendere il centro della scena. Non l’ispettore Kinke, che
gestisce le indagini con i tranquilli metodi delle polizie anglosassoni. E
neanche il colonnello Bristow, ex-agente segreto a riposo, che invece cerca di
utilizzare metodi deduttivi alla Sherlock. Arriveranno insieme alla meta,
magari aiutandosi a vicenda nel finale, che tuttavia risulta uno dei punti
mosci del romanzo. Il nocciolo della questione comincia nella serata seguente
alla rievocazione storica della visita ai quei luoghi campestri della regina
Anna, avvenuta più di 200 anni prima. Festa in costume, atta a camuffare i
personaggi. A valle della quale si scopre: la scomparsa di una preziosa collana
di diamanti portata al collo da Mrs. Croswell, lo strano comportamento della di
lei amica, Miss Sonia, la reticenza del rampollo di famiglia Charles, forse
innamorata della suddetta Miss, la morte misteriosa di tal James Hurst,
personaggio da poco installatosi nella contea e di cui nessuna sa molto,
l’atteggiamento tra lo sfrontato e l’impaurito di Bates, la cameriera di Sonia.
A tutta la vicenda è presente Bristow, che fornisce i dettagli da lui scorti:
due persone che si allontanano con la portantina, lui che corre, i due lasciano
la portantina, lui scopre il morto, i due fuggono su di un’auto, che si ferma
al cancello, benché aperto, poi fugge nella notte. Bristow nota la targa, che
si scopre essere dell’auto del parroco. Cui però è stata sottratta la sera
prima da Curtis, il nipote scavezzacollo. Che poi sparisce. Un’auto analoga a
quella fuggitiva viene ritrovata incidentata. Poi l’auto del parroco viene
trovata in aperta campagna, con l’astuccio della collana, ma senza collana.
Bristow e Kinke, l’ispettore sopraggiunto per le indagini, cominciano a tirar
fuori una ridda di ipotesi. Curtis, bisognoso di soldi, si accorda con qualcuno
per il furto. Sonia si accorda con Curtis sempre per il furto. Mrs. Croswell, a
corto di denaro, tenta di vendere la collana per poi inscenare il furto.
Qualcuno, travestito da Sonia, si accorda con qualche d’un altro, sia esso
Curtis o un terzo uomo, per il furto. Furto che poi fallisce per l’intervento
di Hurst, che si scopre essere un investigatore privato. Ma, benché si
ritrovino la macchina, l’astuccio, ed i modi della morte di Hurst, non si viene
a capo del rebus. Le idee del colonnello e dell’ispettore convergeranno sulla
ex-moglie di Hurst, di cui non sapremo la vera identità sino alla fine del
romanzo. Ma come detto il tutto scorre senza mordente. Si sarebbe ad esempio
dovuto spingere di più sul rapporto Charles-Sonia. Si poteva rendere più cupo
il personaggio di Curtis. Si poteva far entrare nel vivo dell’azione la
simpatica Anstice, sorella di Charles, che ha un paio di uscite brillanti, ma
che viene ben presto dimenticata. La capacità del nostro parroco anglicano
risiede più che altro in questi piccoli bozzetti, che però non ha la capacità
di legare in una trama più robusta ed intrecciata. Rimane, nel fondo, la
passione del nostro per i treni, dato che buona parte della trama si intreccia
sulla possibilità di prendere dei treni, di usufruire di collegamenti
ferrovieri dell’ultimo minuto, ed altre astuzie da orari e tragitti ferroviari.
Come dicevo, una prova onesta, che prometteva di più, ma che alla fine non
mantiene.
Douglas Gordon Browne “Troppi cugini” Corriere della Sera Gialli euro 6,90
[A: 24/06/2016– I: 09/08/2018
– T: 11/08/2018] - && +
[tit. or.: Too many cousins; ling. or.: inglese; pagine: 270; anno 1946]
È presumibile che prima o poi
avrei comunque letto questo libro, in qualsiasi collana fosse uscito o
ripubblicato. Ne approfitto in lettura facendo parte della trentina di libri
dei “Gialli Anglosassoni” del Corriere, magari anticipandone un po’ la lettura
stessa in questa calda estate toscana. Penso che abbiate subito capito il
perché avrei comunque letto questo libro. Si può ragionevolmente parlare di
“Troppi cugini”, in una trama che vede protagonisti 6 cugini, e non tutti di
primo grado? Io, in effetti, di cugini ne ho molti (e non troppi), per cui
potrei intitolare la mia saga “Molti cugini” (Many cousins): per chi non fosse
aduso alle mie vicende familiari, ricordo che ho 26 cugini di primo grado per
parte di mamma e 14 cugini di primo grado per parte di papà. Purtroppo, stiamo
tutti invecchiando, e siamo rimasti in totale sui 37 (compresi io e mio
fratello). Ma sempre sei volte di più di questa sparuta truppa messa in scena
da Browne. Che era uno strano tipo di intellettuale, nata da famiglia colta e agiata
(il padre Phiz Browne era pittore), uomo senza troppi impieghi, e poi dedito a
scrivere di storia e militari. Solo verso i cinquanta prova il filone
poliziesco, sfornando 15 libri, di cui questo è il penultimo. Senza troppo
eccellere, e con due personaggi fissi alternati: il maggiore Hemyock,
investigatore dilettante, e Harvey Tuke, della Pubblica Accusa londinese. In
questo, che è tra i suoi migliori, seguiamo i ragionamenti di Tuke, che, seppur
in vacanza, viene coinvolto in una strana storia familiare. Prima di entrare
nel merito, tuttavia, sottolineo che se la storia sembra a prima vista lineare,
il nostro Douglas allunga il brodo, cercando di complicare a noi la lettura e a
Tuke le indagini, ma con scarsa maestria. Se all’inizio sembrava coinvolgere il
lettore, pagina dopo pagina si accumulano ruggini di scrittura, si introducono
personaggi che fanno pezzi di lavoro, a volte indagini, per poi scomparire
nell’ombra (o nella penombra). Senza mai né far risaltare le idee investigative
di Tuke (che pare averne, visto che risolve brillantemente il caso) né dar modo
al lettore di brillare per le proprie investigazioni. L’idea finale, di
lasciare un piccolo mistero senza apparante soluzione, ma con qualche indizio,
è divertente ma poco riuscita. Il mistero, il giallo nasce dalla narrazione
della storia della famiglia Shearsby, narrata prima da un improbabile scrittore
di coccodrilli giornalistici, poi da Cecile, amica della moglie di Tuke, nonché
una dei sei cugini di cui al titolo. La famiglia Shearsby dispone di un
notevole patrimonio accumulato dal bisnonno dei cugini attuali. Bisnonno che,
poco prima di morire, sposa in seconde nozze la sua governante (ora si direbbe
badante) e redigendo un testamento che lascia i suoi beni divisi in parti
eguali a tutti gli eredi in vita, non alla sua morte, ma alla morte della
governante cui, nel frattempo, viene fornito un cospicuo vitalizio. Essendo la
tata giovane, nel corso degli anni muoiono i tre figli di bisnonno Rutland. Poi
anche quattro dei cinque genitori degli attuali cugini. Il quinto, che viene
dato per morto in Belgio, probabilmente non lo è. Dato che era una persona ai
limiti della legge, forse ha preferito far perdere le tracce, per poi, forse,
tornare sotto mentite spoglie in patria, e trovarsi, forse, un lavoro di
sostentamento, visto che l’unico figlio, che, forse, sa la verità, non gli darà
mai una sterlina. Mi scuso dell’abbondare dei “forse” che serve per creare
un’atmosfera di mistero. Ora, un cugino muore a marzo per un incidente
stradale. In aprile Cecile viene spinta verso un camion in transito ma, pur
barcollando, si salva. Tra giugno e luglio, poi, muoiono Raymond, scrittore
misogino che vive in campagna, ed annega in un ruscello locale (anche se
potrebbe aver ricevuto un colpo in testa) e Blanche, solitaria insegnante di
biologia, che scambia (scambia?) il sale con un nitrato di sodio dallo stesso
colore ma velenoso. Rimangono in vita la Cecile che chiede aiuto a Tuke,
Vivien, la cugina di liberi costumi e facili feste, e Mortimer, il tristo cugino
di campagna, con la moglie Lilian. Per tutto il romanzo, Browne cerca di
portarci in giro facendo cadere i sospetti ora sull’uno ora sull’altro dei
cugini (compresa la cugina acquisita), ed anche sullo zio falsamente scomparso.
Anche perché nessuno ha un alibi conclamato. Alla fine, Tuke, incrociando
notizie ed altre attività, risolve il mistero, lasciando quel piccolo dubbio
cui accennavo, e che non vi rivelo. Quello che non si capisce è perché i cugini
non si siano messi d’accordo per uccidere la tata, invece di aspettare a
dividersi l’eredità dopo anni ed anni. La precisione storiografica di Browne ci
fa capire che i sei cugini, all’epoca dei fatti, sono sui trentacinque anni,
mentre la tata (che non vedremo mai in azione) si avvicina ai sessanta. Alla
fine, l’ho letto per i cugini, ma non fa una grande impressione.
James Harold Wallis “La formula del delitto” Corriere della Sera Gialli
13 euro 6,90
[A: 18/04/2016 – I: 15/08/2018 – T: 16/08/2018] - &&
e ½
[tit. or.: Murder by Formula; ling. or.: inglese; pagine: 283;
anno 1931]
Benché
non risulti abbia scritto più di una decina di titoli, Wallis ha un suo
interesse per la peculiarità di alcuni scritti, in particolare questo di cui
stiamo per narrare ed un altro di cui parlo anche se non l’ho letto. Inoltre,
dopo aver passato anni nel giornalismo e nell’attivismo, il nostro scrittore
risulta essere stato per anni il Segretario del 31° Presidente americano,
Herbert Hoover. E come Wilson incoraggiò Joseph Smith Fletcher alla scrittura
di contenuto poliziesco, così fece Hoover con Wallis. Cosa che a Wallis riuscì
abbastanza bene in alcune occasioni. In questa, abbastanza. Meglio in quello
pubblicato nel 1942, dal titolo “Once Off Guard”, e conosciuto in italiano col
nome de “La donna del ritratto”, in quanto poco dopo l’uscita, Fritz Lang ne
fece un memorabile film giallo-psicologico con Edgar G. Robinson e Joan
Bennett. Tornando invece a questa formula, l’interesse e la curiosità del libro
sono proprio per la formula, e per un’aria di meta lettura che si avverte in un
paio di occasioni, soprattutto a pag. 29. Quando Wallis cita autori gialli, ne
discetta ed esprime la sua preferenza per “La fine dei Greene” di Van Dine
rispetto ad altri. Come un appunto di meta testo fuori contesto. Ma che rientra
presto nella logica del libro. Sono alcuni membri dell’elitario Aristos Club
che ne discettano dopo una lauta cena: Andrew Wingdon, scrittore affermato,
sposato con Lais, Tergis Mestrin, poeta affermato ma poco apprezzato dai
critici, Odelon Carlow, noto scultore, Rudolph Herds, brooker presso la cui
agenzia molti dei soci hanno investimenti, Stuart Biller, pittore paesaggista,
Frederick Fellowes, importante chirurgo e cultore di giallo, e Terence
Sullivan, avvocato e politico, dell’entourage del Pubblico Ministero. Sarà
proprio uno di essi, il dr. Fellowes alla fine del paragrafo che se ne esce con
la sua “formula” per un giallo ben congeniato: un morto nei primi due capitoli,
seguito da almeno un altro per scongiurare un calo di tensione, le vittime sono
di una certa importanza per la vicenda, ma non tali da farne sentire la
mancanza o il dolore al lettore, bisogna inserire un’atmosfera di continua
minaccia sugli attori della vicenda, e all’investigatore non deve essere
fornito nessun indizio in più di quelli a disposizione del lettore. Dopo questa
meta introduzione, si svolge tutta la vicenda, con l’inserimento del suo alter
ego come motore delle indagini, l’ispettore di polizia Wilton Jacks (che sarà
poi protagonista di quasi tutti gli scritti di Wallis) e con l’autore che torna
a dialogare con il lettore nel finale, sottolineando come lui, come scrittore,
abbia rispettato la formula enunciata all’inizio. Fatto sta che Wingdon muore
subito, facendo cadere i sospetti sui partecipanti alla cena. In particolare,
su Mestrin che è infatuato di Lais e su Sullivan che ha descritto il “modus
uccidendi” poi seguito su Wingdon. Jacks segue piste, e fa cadere i sospetti
anche su Lais stessa, che potrebbe essere una “mantide religiosa” più che una
vedova affranta. Il fatto che poco dopo, Mestrin venga ucciso con uno dei due
pugnali rubati nella sala della morte di Wingdon (avvenuta con la stessa arma)
e lo stesso avvenga con una poliziotta che aveva sostituito Lais nel suo
appartamento, modifica gli orientamenti dell’indagine. Che, come dalla formula,
ha previsto già alcune morti, ed un senso di minaccia sui presenti. Si
introduce una figura laterale, il poco chiaro italo-americano Bernardini
assunto come lustrascarpe al Club. E si continuano a mescolare le carte
coinvolgendo proprio il dr. Fellowes come possibile sospettato. Tra piccole
schermaglie amorose (oltre alla possibile tresca tra Mestrin e Lais, c’è anche
un inizio di penchant tra Lais e Jacks), cambiamenti di scena sui possibili
autori degli omicidi (Sullivan, misterioso e non molto tracciabile nei suoi
spostamenti in quanto troppo vicino ai vertici della Polizia, e forse anche lui
preso da Lais, Carlow, geloso dei successi dello scrittore e forse preso da una
sorta di vortice ricattatorio, Herds, magari con speculazioni rovinose che
mettono in pericolo la banca ed i conti dei clienti), inseguimenti e
sparatorie, Jacks risolve il caso, anche se alla fine sarà colpito da una
pallottola (non in modo grave) e da un mazzo di fiori indovinate inviato da
chi. La trama alla fine risulta un po’ nebulosa, soprattutto quando,
riprendendo proprio Van Dine, il nostro deve descrivere tutti i come ed i
perché della vicenda. Motivo per cui cala un po’ il giudizio ed il gradimento.
Che rimane alto solo per quell’idea della formula e per la sua applicazione
fedele. Insomma, giallo di riferimento per un certo modo di interpretare la
scrittura poliziesca, ma anche con alcuni “buchi”. Ad esempio, ci si domanda
che fine fa il morto somigliante a Wingdon scoperto nel primo capitolo? Ed
anche, sarà Bernardini quello che fugge anche se lo si ritrova al Club in un
tempo non consono agli spostamenti? Wallis lascia queste ed altre questioni
senza risposta. Anche se alla fine ci mostra tutto l’impianto degli omicidi,
ben riusciti e ben motivati (secondo la logica dell’assassino, ovviamente).
Clifford Witting “Ipotesi per un delitto” Corriere della Sera Gialli 17
euro 6,90
[A: 16/05/2016– I:
18/08/2018 – T: 20/08/2018] - &&
[tit. or.: Let X be the murder; ling. or.: inglese; pagine: 314; anno 1947]
L’inizio era abbastanza
promettente di questo strano giallo di un autore realmente inglese questa
volta. Nato a Londra, morto a Londra, impiegato per 18 anni presso la Lloyd
Bank e autore di una quindicina di romanzi. Non particolarmente noto né
brillante, l’unico romanzo pubblicato in Italia è questo scritto sui
quarant’anni. Dove è al centro delle indagini il suo investigatore preferito,
l’ispettore Charlton. Come detto è tipicamente inglese, e quindi ci si aggira
tra piccole città di provincia, ville o altre abitazioni di prestigio, con
giardini e dependance, tè e governanti, pub ed alcolizzati. E tanti misteri.
L’idea intrigante di Witting è di trattare questo giallo come un problema di
matematica. Tanto che il titolo originale ricalca l’inizio di enunciati a me
ben noti: “Sia X l’omicidio…”. Per poi sviluppare il caso in quattro parti:
teorema, ipotesi, interpretazione (noi l’avremmo forse chiamata tesi),
dimostrazione. Nella prima parte si cerca di capire chi e perché voglia la
morte di Sir Victor. Nella seconda si sviluppa la ricerca alternativa, dato che
l’omicidio non coinvolge il baronetto, ma la sua governante, Enid. Nella terza
si scava a fondo sulle diverse alternative, cercando di capire chi sia cosa, e
quando, e perché. Nell’ultima, com’è ovvio, i nodi vengono al pettine, e
l’ispettore svela chi abbia commesso il crimine, con tutte le motivazioni
connesse. Una penna forse un po’ più abile di quella del nostro avrebbe forse
avvolto il tutto con un po’ più di mistero. Mentre Witting, cercando di far
cadere i sospetti a destra ed a sinistra, non fa altro che farci capire chi
abbia senso sia colpevole e chi no. La storia, come detto, si svolge nella
villa di Sir Victor, un magnate dell’automobile avviato verso la demenza senile
e la morte. Il suo tracollo inizia durante la guerra, quando, in un
bombardamento in quel di Londra, perdono la vita la moglie e la figlia. Al
momento della nostra entrata in campo, nel castello vivono, oltre a Sir Victor,
un tale Charles, marito della figlia e vanesio personaggio. Una decina di anni
prima, scopertane l’inconsistenza, il baronetto lo manda in Brasile, dove pare
muoia in un incidente ferroviario. Dopo la guerra, invece, morta Rosalie, la
figlia di Victor, Charles ricompare con una seconda moglie, tal Gladys, che nella
prima metà sembra assurgere al ruolo di Lady Macbeth. Peccato che nella seconda
parte del libro scompaia senza lasciare traccia (ecco una delle pecche
dell’autore, che la figura di Gladys poteva avere risalti migliori). I due
tornano perché attirati dalla possibile eredità, che Charles otterrebbe in
quanto marito non divorziato di Rosalie. Sempre nel castello c’è Enid, la
governante, acida e dispotica, che sembra avere a volte buoni propositi, a
volte meno. Ma che non ci sorprende essere destinata ad una brutta fine. Enid
ha adottato un bambino di quasi 10 anni, John. È abbastanza palese, fin
dall’inizio, che John dovrebbe essere in realtà figlio di Rosalie, e quindi
erede di Sir Victor. Inoltre, avendo un buon rapporto con Enid, John poteva
consentirle una vecchiaia serena. Piani che ovviamente sono rovinati
dall’arrivo di Charles. Che, in quanto legittimo, poteva reclamare una grossa
fetta dell’eredità. Infine nella dépendance, vive Tom, figlio dell’amico
fraterno di Sir Victor, che attraversa una lunga e tormentata storia. Si sposa
con una sgualdrinella, che ad un certo punto lo lascia per tal Ray Valentine,
un alcolizzato che mira solo ai soldi. Nel corso della storia scopriamo anche
che Ray è fratello di Enid, che ha avuto una storia con Rosalie in gioventù
(tanto per farci credere che potrebbe essere il padre di John) ma nessuno ci
casca. Di volta in volta, Witting cerca di far cadere i sospetti omicidi su
tutti i personaggi: Charles e la moglie, come minacciati nell’eredità, Ray che
potrebbe reclamarne parte, Tom, che forse sì o forse no aveva avuto una storia
con Rosalie e che è molto vicino a Sir Victor, vicinanza minacciata da Enid, ed
anche lo stesso Sir Victor, sia per bisogno di giustizia personale sia per una
(forse reale) demenza in atto. Tante sarebbero le strade percorribile, ma
Witting non ne percorre alcuna con maestria, portandoci all’epilogo della
vicenda lasciandoci il sospetto che poteva essere migliore. C’erano tanti fili
intrecciati che invece di essere tirati, si sciolgono come neve al sole. Così
come i personaggi stessi, sia i buoni che i cattivi, non arrivando mai a
troneggiare compiutamente sulla scena. Un libro minore, in fondo.
Jack Iams “Non si
uccide pima di Natale” Corriere della Sera Gialli 19 euro 6,90
[A: 01/06/2016– I: 11/09/2018 – T: 12/09/2018]
- &&
[tit. or.: Do Not Murder Before
Christmas; ling. or.: inglese; pagine: 283; anno 1949]
Nell’ambito della grande rassegna anglosassone, ecco che torniamo ad un
prodotto americano. Interessante, anche se non eccelso. Con l’autore, il
giornalista di Baltimora Samuel Harvey che decide di usare lo “short name” di
Jack vicino al suo originale cognome di Iams. Nasce nel 1910, e prima di
diventare giornalista e poi scrittore, studia a Princeton ed entra a far parte
del “Triangle Club” una compagnia di teatro amatoriale. È il 1932, ed il suo
“partner” nel teatro universitario è James Stewart. Basta questo per renderlo
simpatico. Poi scrive. Dopo la guerra scrive anche gialli. Non tanti, circa una
dozzina, più o meno. Ma pur essendo americano li scrive un po’ all’inglese,
senza sparatorie, senza inseguimenti mozzafiato, ma con ironia ed un sorriso a
fior di labbra. Quasi che ci fosse ancora Cary Grant ad interpretare i suoi
eroi, prima che arrivi Humphrey Bogart. Ed è così anche in questo suo scritto
esemplare, in cui (e non sarà il solo) l’eroe è un giornalista capo redattore
di un giornale di provincia. Con una storia che risulta essere più brillante
che gialla, più sul filo del sentimento che dell’investigazione. Certo, non
manca un morto, non manca la ricerca del colpevole, non manca neanche un
tentativo di ingarbugliare le acque. Ma noi siamo subito attirati dal
protagonista, Stanley “Rocky” Rockwell, un giornalista come Iams, che infatti
basa molte descrizioni sulla sua esperienza nei giornali americani. Rocky è
allegro, diretto, ed anche un po’ troppo sicuro di sé (un allegro americano,
come il grande Stewart che lo vedrei bene in un film tratto dal libro). Ben
descritto è anche l’ambiente provinciale, con i ricchi e borghesi, in parte
decaduti, e con i nuovi ricchi, rampanti e predatori. Con le dovute varianti
del caso, sembra una situazione che possiamo avere ben presente anche in
Italia. Tra l’altro, gli “arrivisti”, oltre a gestire una rete di corruzioni,
comprano anche uno dei giornali cittadini che da quel punto in poi sforna
articoli in loro favore. Niente di nuovo sotto il sole. L’elemento centrale,
come dal titolo, si ha intorno al Natale. Martin, il rampollo dei cattivi,
vuole organizzare una festa nel suo Centro Ricreativo (usato per riciclare
soldi) in concorrenza con la festa tradizionale che dà il vecchio giocattolaio
dei quartieri poveri, chiamato da tutti zio Poot. Il tutto complicato
dall’animatrice di Martin nonché suo probabile fidanzata, che però non appena
vede Rocky cambia subito bandiera (tra l’altro è un’oriunda locale, che aveva
approfittato di Martin per tornare a paese, ma quando si accorge che Martin è
tra i cattivi non ci pensa due volte a trovare la giusta collocazione). Ed è
proprio zio Poot che viene ucciso alla Vigilia di Natale -
apparentemente per la mazzetta di denaro che ha riposto fiduciosamente nei
cassetti del suo negozio di giocattoli. Il negozio di giocattoli di zio Poot è
il preferito di tutti i bambini - perché il suo negozio è il primo negozio in
cui i genitori li portano e perché ogni anno a Natale apre il suo negozio per
una festa di Natale e fa prendere ai bambini delle famiglie più povere della
città qualsiasi giocattolo che sia rimasto nel negozio dopo la corsa
all'acquisto di Natale. Lo zio Poot ha un rituale caratteristico per i bambini
quando vengono a trovarli - o firmano il loro nome nei suoi libri del registro
o lasciano un altro segno se non sanno scrivere (impronte digitali e, a volte,
anche segni di piccoli baci dolci da piccole labbra). E ad ogni visita i
bambini aggiornano le loro informazioni: sono stati bravi o meno, i capricci e
le buone azioni. Ma quando lo zio Poot viene ritrovato morto nel suo negozio
diventa evidente che deve aver riconosciuto qualcuno. C'è un accenno di connessione
con una famiglia benestante, ma questi sono i giorni in cui il denaro può
comprare qualsiasi cosa, compreso un rapido silenzio di storie sconvenienti ...
e, naturalmente, aiuta un tubo con le impronte del cosiddetto “scemo del
villaggio”. Un tubo che potrebbe essere l'arma del delitto. Lo scemo, Loopy,
che potrebbe essere l’omicida. Una soluzione rapida e semplice che metterà
definitivamente a tacere i ben pensanti locali. Ma la soluzione è ovviamente
altra, che Iams giostra con il triangolo amoroso Rocky – Jane – Marty. Poi c’è
anche il poliziotto buono. C’è tutta la voglia dei buoni di farla pagare ai
Malloy. Ci riuscirà Rocky, anche con l’aiuto della Natalia Aspesi locale, che
salva Jane dal rapimento, aiuta Rocky a sbugiardare Marty, ed altre piccole
lavorazioni, che consentono al bello di aiutare i buoni e di debellare
definitivamente i cattivi. Non c’è molto giallo nella probabile sostituzione di
persona che capiamo subito poterci essere. C’è una robusta descrizione della
vita di provincia ed una buona rappresentazione della vita in un giornale
locale. Tutta farina del sacco degli anni di Iams giornalista. Non sarà un
grande scrittore, ma a me è stato simpatico, anche con la mossa finale di
ritirarsi in pensione andando a vivere in Francia. Non se ne leggerà altro, ma
questa è stata una buona lettura rilassante.
Come detto, per la Befana regalo
a tutti un supplemento di libri “curativi”, dedicati a molte cure che sono
passate ma i cui rimedi li ho letti in ritardo. Recupero e pubblico.
Come dice che l’Epifania tutte le
feste le porta via, mi sono ritrovato a guardare questo gennaio nuovo. Scoprendo
che è uno dei mesi più denso di mie festività: nove compleanni (se la memoria
non mi inganna). Invece non si festeggiano viaggi, che al momento nulla di
gruppo si profila, né di auto-organizzazione. Vorrà dire che ci dedicheremo
alle costruzioni, di case, di amicizie, e di tanti avvenimenti immateriali ma
fortissimi.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
GENNAIO 2019 – BEFANA
Visto che è la Befana e che non
posso mandarvi dolcetti, vi riempio le feste di libri “curativi”.
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE GIÀ DESCRITTE
DIVORZIO
Hanif Kureishi “Nell’intimità”
Richard Ford “Sportswriter”
Zora Neale Hurston “I loro occhi guardavano Dio”
LETTURA, APPASSIONARSI ALLA
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER
FAR APPASSIONARE IL VOSTRO PARTNER (FEMMINA) ALLA NARRATIVA
Per ragioni misteriose, alcune
donne non leggono romanzi. Se il vostro partner non ha il gene della narrativa,
seducetelo con una storia raccontata davvero bene. Avvincenti, coinvolgenti,
divertenti, questi li hanno scritti alcuni tra i migliori narratori dei nostri
tempi.
Ingeborg
Bachmann “Malina”
Antonia
S. Byatt “Possessione”
Jennifer
Egan “Il tempo è un bastardo”
E.
M. Foster “Camera con vista”
David
Grossman “A un cerbiatto somiglia il
mio amore”
Khaled
Hosseini “Mille splendidi soli”
John Irving “Hotel New Hampshire”
Guy de Maupassant “Bel-Ami”
Elizabeth Strout “Olive Kitteridge”
Walter
Tevis “La regina degli
scacchi”
RECUPERO DI LIBRI LETTI PER CURE PASSATE
Andare dietro a una donna, anche se è una suora
Michael Ondaatje “Nella pelle del leone”
Se siete nella sfortunata
posizione di esservi innamorati di una suora (dando per scontato che la maggior
parte dei nostri lettori non obiettino al fatto che definiamo questa situazione
come un ‘disturbo’, per tutti gli altri rimandiamo ad ‘Amore non corrisposto’;
solo allora, e solo se la situazione non è cambiata, dovrebbero prendere in
considerazione questa cura), “Nella pelle del leone” di Michael Ondaatje è il
romanzo che fa per voi.
In primo luogo, perché contiene
il miglior incontro casuale tra un uomo e una donna in letteratura, e se siete
innamorati di una suora avrete bisogno di progettare un ottimo incontro
casuale. Lui, Nicolas Temelcoff, è un operaio migrante, appeso per la sua
imbragatura a un viadotto in costruzione al centro di Toronto. Lei è una delle
cinque suore che per sbaglio si sono avventurate sul viadotto, di notte, e sono
state separate da un improvviso colpo di vento. Quando lei viene spinta oltre
il bordo, Temelcoff, sospeso a mezz’aria, la vede cadere e allunga un braccio.
Per afferrarla si provoca una lussazione. Terrorizzata e in stato di shock lei
lo guarda con gli occhi spalancati. Lui, paralizzato dal dolore e a stento in
grado di respirare, le chiede, cortesemente, di urlare.
Questo incontro senza precedenti
(ispirato da una vera caduta da un vero viadotto) è particolarmente felice
perché segna l’inizio del percorso alla fine del quale la suora di Temelcoff
decide che vuole rinunciare all’abito – come, ovviamente, a un certo punto
dovrà fare anche la vostra. Prima che la notte sia trascorsa, la monaca di
Temelcoff si è tolta il soggolo, la benda sotto la gola, e glielo ha dato per
utilizzarlo come una fionda, ha assaggiato del brandy, ha immaginato che cosa
voglia dire avere un uomo che le carezza i capelli e sì è ribattezzata Alice,
per via di un pappagallo. Se il vostro incontro casuale non ha un effetto
altrettanto trasformativo, non disperate. Continuate a leggere. “Nella pelle
del leone”, infatti, racconta anche di un altro uomo (Patrick Lewis) che è così
innamorato di un’altra donna (Clara, un’attrice) che anche dopo un certo numero
di bruschi rifiuti, anche dopo che lei cerca di passarlo alla sua migliore
amica Alice (l’ex suora, appunto), e anche dopo che il suo ragazzo Ambrose
Small gli dà fuoco con una molotov, ha ancora voglia di dormire con lei. E ci
riesce.
Alla fine, Patrick Lewis si
ritroverà con la suora, ma ancora una volta non è questo il punto. (Se state
pensando che è una trama troppo complicata, avete ragione). La lettura di
questa storia vi insegnerà la determinazione. Avrete la vostra suora. E quando
succederà potrete leggerle dei brani da quello che è, a nostro avviso, uno dei
romanzi più lirici e ingegnosamente costruiti dell’ultimo mezzo secolo.
Età, differenza di (tra innamorati)
Marina Lewycka “Breve storia dei trattori in lingua ucraina”
Le storie d’amore tra persone di
età molto diversa tendono a preoccupare quelli che le osservano dall’esterno
più di quelli che effettivamente le vivono. La disapprovazione e il sospetto
degli altri, tuttavia, possono scardinare tutto, e se siete sul punto di cadere
tra le braccia di qualcuno notevolmente più anziano o più giovane di voi, vale
la pena domandarsi se il vostro rapporto sarà abbastanza forte da sopportare il
radicato pregiudizio culturale contro le grandi differenze di età che persiste
in Occidente.
Per primo dovete stabilire cosa
vi aspettate – entrambi – dal rapporto, e se uno di voi, per caso, non voglia
ammettere la propria vera motivazione o quella del partner. Quando il padre
ottantaseienne di Nadja annuncia il suo fidanzamento con Valentina, una
divorziata ucraina di trentasei anni con un «seno di un altro livello» e il
desiderio di sfuggire alla propria squallida vita nell’Est, la figlia va dritto
al punto: «Capisco perché vuoi sposarla. Ma ti sei chiesto perché lei vuole
sposare te?». Il padre sa, ovviamente, che Valentina cerca un visto e un’auto
elegante con cui portare a scuola il figlio quattordicenne, ma non vede nulla
di male nel salvare lei e Stanislav in cambio di un po’ di affetto giovanile.
Lei cucinerà, terrà pulita la casa e si prenderà cura di lui nella vecchiaia.
L’uomo, comunque, rifiuta di ammettere che voglia anche impadronirsi dei suoi
magri risparmi di una vita, e metterli tutti in ginocchio con i suoi pasti
precotti, e ci vuole una buona dose di lavoro di squadra tra Nadja e la sua
stralunata «Big Sis» Vera per convincerlo ad aprire i suoi occhi cisposi e
riconoscere il danno che questa «morbida bomba a mano rosa» sta infliggendo alla
loro famiglia.
Dovreste essere un po’ meschini
per rimproverare all’anziano esperto di trattori il ritorno alla vita che
Valentina, malgrado tutti i difetti, gli regala, e finché entrambe le parti
comprendono e accettano le reciproche motivazioni, un rapporto tra persone alle
estremità opposte dello spettro tra innocenza ed esperienza può rivelarsi
qualcosa di meravigliosamente simbiotico. Serve una certa apertura mentale da
parte di entrambi, tuttavia, senza fare troppi giochetti. Se questa apertura
c’è, avete la nostra benedizione. Lasciatevi cadere tra quelle braccia,
qualunque sia la loro età.
Fratelli, rivalità tra
- José Saramago Caino
- George
Eliot Il mulino sulla
Floss
- Louisa
May Alcott Piccole donne
La letteratura è piena di
fratelli litigiosi, giovani e vecchi. Fratelli minori che adorano senza essere
corrisposti i fratelli maggiori, fratelli che competono per l’attenzione dei
genitori, fratelli che maltrattano, fratelli che tradiscono, fratelli che amano
troppo, fratelli che si danno fastidio a vicenda solo perché sono fratelli.
Un po’ di competizione tra
fratelli è normale, ma fate attenzione a Caino, che ha esagerato. Quasi tutti
conosciamo questa storia, l’archetipo del fratricidio, dalla Bibbia, ma in
“Caino”, il romanzo di José Saramago, ne abbiamo un quadro più completo. I
fratelli all’inizio sono due ottimi amici, ma quando crescono, e si dedicano
all’agricoltura, la competizione tra loro arriva a livelli pericolosi. Un
giorno fanno delle offerte a Dio – Abele la carne di un agnello, Caino alcuni
ortaggi – e il Signore mostra di non gradire molto la verdura. Caino è così
invidioso del successo di Abele che prende la mascella di un asino e la usa per
uccidere il fratello in una grotta. Prova subito un rimorso terribile – e
incolpa Dio per non essere intervenuto. (Francamente, non è che abbia tutti i
torti). Per tutto il resto del romanzo, Caino cerca di vendicarsi
immischiandosi nei piani dell’Onnipotente e mettendogli i bastoni tra le ruote
in tutte le principali vicende dell’Antico Testamento, da Sodoma e Gomorra al
diluvio. I risultati sono spassosi.
Nel romanzo di Saramago, Dio è un
genitore fin troppo umano - contraddittorio, inaffidabile e viziato dal
favoritismo. I figli di genitori così incompetenti hanno davvero bisogno di
porsi un obiettivo difficile: essere migliori del cattivo esempio che hanno
avuto e volersi bene a prescindere dal modo diverso in cui vengono trattati. In
definitiva, quindi, Caino ha sbagliato. Non cadete nella stessa trappola, e non
prendetevela con i vostri fratelli per gli errori dei vostri genitori.
Il signor Tulliver ne “Il mulino
sulla Floss” di George Eliot, cerca di dare il buon esempio: dice alla sorella,
la signora Moss, che non deve restituirgli il denaro che le ha prestato nella
speranza che Tom se ne accorga e, un giorno, si mostri altrettanto gentile
verso la sorella Maggie. Il rifiuto di Tom di perdonare Maggie quando si
dimentica di dare da mangiare ai suoi conigli (che muoiono) rivela un carattere
crudele. Ecco un fratello maggiore che, adorato dalla sorella più piccola, le
nega continuamente l’approvazione che tanto desidera – e così la tiene sempre
sulla corda. Non si può dire a qualcuno nella situazione di Maggie di smettere
di amare così tanto il fratello maggiore, ma si può suggerirle di provare a farlo
di nascosto. Se Maggie avesse avuto ambizioni diverse da quelle di «fare da
governante» a Tom, un giorno forse sarebbe riuscita a capovolgere la situazione
e guadagnarsi l’ammirazione del fratello. Di sicuro, i fratelli letterari
sembrano andare più d’accordo quando combattono insieme contro qualcuno o
qualcosa – e se non è contro un genitore, di solito è contro la povertà o
contro qualche prepotente. Ma che cosa succede se non ci sono né difficoltà né
genitori incompetenti ad avvicinare voi e i vostri fratelli – con i quali
magari non avete nulla in comune? L’unica possibilità è imparare di nuovo a
volersi bene da adulti. Studiate il legame tra Meg, Jo, Beth e Amy in “Piccole
donne” di Louisa May Alcott. Se esistono gruppi di consanguinei che hanno motivo
di domandarsi se davvero sono nati dallo stesso pool genetico (o dalla stessa
penna), queste sono le sorelle March: la responsabile Meg, il maschiaccio Jo,
la santarellina Beth e la viziata Amy non potrebbero essere più diverse e
tuttavia, piuttosto che disprezzarsi l’un l’altra per ciò che le rende diverse,
le sorelle March (e ancora di più dopo che una di loro ha evitato la morte per
il rotto della cuffia) sanno comprendere e apprezzare con sincerità i
rispettivi punti di forza in un modo che vale la pena fare proprio, se riuscite
a resistere a quell’atmosfera da romanzo per ragazze e ad andare avanti – e dovreste,
perché fa tutto parte del fascino di questo libro.
I fratelli resteranno tali per
tutta la vita. Trattateli bene - anche se questo significa coalizzarsi contro i
vostri genitori o andare via di casa. Dite addio alle dinamiche che avete
instaurato da bambini e imbarcatevi in un nuovo rapporto, da adulti, con questi
fratelli e sorelle cresciuti che, grazie al cielo, sono completamente diversi da
voi.
Bugiardino
Come per altri recuperi, non mi
ripeto sul “Divorzio” (che rimando al maggio 2015) e della passione per la
lettura (del giugno 2016), a parte il fatto singolare che entrambi furono
tramati lo stesso giorno. Mentre parlerò degli altri tre “disturbi” e libri
relativi. Non dimentico certo che da anni sto cercando una vecchia edizione del
paziente inglese di Ondaatje e nel frattempo questa lettura è stata intrigante
(soprattutto per chi deve ancora andare in Canada). Altrettanto curiosa e
strana la lettura dei trattori in lingua ucraina, che se non citato qui non
avrei sinceramente mai letto. Mentre di Saramago leggo e leggerò, in
particolare questi ultimi romanzi e frammenti che mi riconciliano con il
portoghese a volte troppo complicato da decifrare nelle sue circonvoluzioni
linguistiche.
DIVORZIO
Zora Neale Hurston “I loro occhi guardavano Dio” Cargo euro 17,50
[tramato
il 3 settembre 2017]
Bellissimo
suggerimenti delle libropeute, per un libro ottantenne ma fresco e doloroso e
gioioso come non mai. L’introduzione, partecipata, di Zadie Smith l’avevo da
poco letta nel saggio della Smith su “Cambiare idea”, anche se, riletta ora
dopo aver letto il libro, mi ha fatto sentire meglio alcuni passaggi. Cosa che
non riesce a fare la postfazione, praticamente inutile, di Goffredo Fofi. Oltre
alla Smith, dobbiamo anche ringraziare Alice Walker che negli anni ’70 iniziò
l’opera di recupero di questa scrittrice nata nel 1891 in Alabama, presto
trasferitasi in Florida, di cui anche qui dà un’immagine particolarmente viva,
e poi a New York, per far parte negli anni ’20 a quel movimento detto “Harlem
Renaissance”, sul recupero delle radici degli afro-americani. Ma i suoi
romanzi, quattro scritti negli anni ’30, dopo un piccolo exploit, vennero poi
accantonati. Dai bianchi che non capivano tutto questo interesse verso i
“colored”, ma anche dai neri che le rimproveravano l’uso del dialetto, quasi a
denigrare il loro modo di vivere. Invece è proprio questo il modo che, a me, fa
sorgere un sentimento di gratitudine per questa scrittrice. Si sente che è
anche antropologa, che affonda le sue righe nella cultura, spesso orale del
popolo afro-americano. Dandoci qui, oltre alle vicende della crescita personale
di Janie, cui torneremo tra un po’, anche il modo di vedere e descrivere un
mondo tutto “nero”. Come fu la cittadina di Eatonville, dove lei stessa abitò
in gioventù. Città della Florida, la prima in tutta l’America ad essere abitata
solo da neri. E le descrizioni del modo di vivere, della nascita del borgo, poi
della città, con l’emporio, poi l’Ufficio Postale (due pilastri della cultura
americana, cui presto si unirà la pompa di benzina), dello stare insieme, ma
anche del razzismo interno tra quelli, come Janie e la signora Turner, che
hanno del sangue bianco al loro interno. Ma mentre Janie lo vive “da sinistra”
(anche se la Hurston era una repubblicana, e forse anche per questo, purtroppo,
messa al bando dagli estremismi neri), la signora Turner lo vive “da destra”,
deprecando l’esistenza di tutta questa gente di colore che non sa vivere “come
noi bianchi (!!)”. Tuttavia questo è il contorno, ben costruito e descritto,
della vicenda centrale. La crescita e presa di coscienza della nostra Janie.
Abbandonata dalla madre vive l’infanzia con la nonna, una ex-schiava che ha una
visione in tono minore del mondo. Basta stare al proprio posto, avere un tetto
sulle spalle, e magari un uomo che ti protegge. Per questo, quando Janie
comincia a manifestare i segni dell’adolescenza, la manda in sposa con un
tristo figuro, anziano, non comunicativo, ma che ha una casa e del terreno.
Janie si sente ben presto soffocare, e quando passa di lì l’allegro Joe Starks,
gran parlatore, ma anche grande organizzatore, fugge con lui. I due, attratti
dal miraggio della città dei neri, di Eatonville, vi si trasferiscono. E Joe ha
modo di far vedere tutte le sue doti. Pensa in grande e fa in modo che la città
cresca. Tira su un emporio, diventa sindaco. Con sempre Janie al suo fianco.
Tuttavia Joe, con il potere, con la responsabilità che sente, vede anche di
cattivo occhio la bellezza di Janie, il fatto che tutti la guardino, che tutti
le stanno intorno. La deprime così nel ruolo subalterno di “moglie di…”.
Passano gli anni, la città si consolida, e così i rapporti di forza e di
amicizia. Ma anche Janie si sente stretta nel suo ruolo, vede invecchiare
precocemente Joe, si ribella a poco a poco. Fino ad emergere con la sua
dirittura, anche quando, per anzianità e stravizi, Joe muore. Rimane lei, a
gestire l’emporio, ad avere bei soldi da parte per fare una vita tranquilla.
Fino a che non irrompe la giovialità di Tea Cake, quindici anni meno di lei, ma
allegro, strampalato, sempre pronto a buttarsi in tutte le imprese folli. Con
la sua freschezza conquista Janie, ed i due abbandonano la città e si danno
alla vita girovaga. Ma Tea ha una sua dirittura, non prende i soldi di Janie,
ma ne guadagna con lavori astrusi, per poi arrotondarli (ed anche perderli a
volte) giocando ai dadi. Ma quello che importa è la spensieratezza del tempo
che passano insieme. Fino ad una tempesta che squassa le loro vite (come il
ciclone Katrina), anche perché Tea è morso da un cane rabbioso e si ammala.
Brutta malattia, che ne annebbia il cervello, tanto che cerca di assalire la
stessa Janie, che per difendersi lo deve uccidere. Triste semi-finale, anche se
Janie viene assolta dal Tribunale. E torna, mesta, ma cresciuta nella sua
Eatonville. Ora è una quarantenne, due volte vedova, ma con la saggezza di aver
compiuto quello che voleva nella vita. Ora si metterà di nuovo lì, nei portici
della città, a parlare con le sue amiche, a narrare delle sue avventure. A
vivere, serenamente anche se non spensieratamente, il resto della sua vita. La
scrittura di Zora è talmente scorrevole che non ci si accorge del passare delle
pagine. Solo rileggendone, si colgono le sfumature, i messaggi che ci manda,
tutto il bello della descrizione di un mondo che sta nascendo. E che si
imbastisce di mille episodi tramandati dalle tradizioni orali della gente di
colore. Se non ci fosse stata la Hurston, non saremmo arrivati alla Morrison.
Un bel libro, una bella scrittura. Una storia che pur nella sua dolorosità, fa
riflettere, ma comunica anche tanta gioia di vivere. Vivere la vita che si
vuole, che si sceglie, che ci si costruisce intorno.
“Con i mariti, la terza volta è quella buona
(dall’Introduzione di Zadie Smith, ripresa in “Cambiare idea”).” (11)
“Se hai visto la luce dell’alba, non
t’importa di morire all’imbrunire. C’è tanta gente che non vede mai la luce.”
(215)
LETTURA, APPASSIONARSI ALLA
Elizabeth Strout “Olive Kitteridge” Fazi editore euro 18,50 (in realtà,
scontato a 13,88 euro)
[tramato
il 3 settembre 2017]
Anche
se non fosse stato consigliato dalle mie libropeute, avrei letto primo o poi
questo testo, che risulta essere il dodicesimo premio Pulitzer che leggo. Con
un ravvicinamento negli ultimi anni a questo interessante premio americano. Di
cui ho letto sei titoli pubblicati prima del 2000 (Hemingway, Harper Lee, Alice
Walker, Toni Morrison, Philip Roth e Michael Cunningham) e sei dopo (Michael
Chabon, Jeffrey Eugenides, Cormac McCarthy, Junot Diaz, Jennifer Egan e
questo). Di questi dodici devo dire che Roth e Eugenides sono quelli che più mi
hanno deluso. Questo di Elizabeth Strout si pone in una posizione intermedia.
Un bel libro, scritto bene, con alcune pagine affascinanti. Ma è la struttura
complessiva che mi ha lasciato un po’ di difficoltà nella lettura. Viene
infatti acclamato come “romanzo di racconti”, in quanto poi risulta composto da
13 “tranche di vie”, ambientate nella cittadina di Crosby nel Maine (ovviamente
fittizia, ma che, da attenta ricerca sembra potersi collocare sovrapposta alla
reale città di Brunswick), e che vedono tutti e 13 comparire (come protagonista
o come comparsa) la signora del titolo, l’interessante e controversa Olive
Kitteridge. Io che ho difficoltà con i racconti mi sono trovato spaesato.
Perché se parliamo di romanzi in cui racconti si incastrano per creare una
struttura diversa (e leggibile) mi viene subito in mente “Il tempo è un
bastardo” di Jennifer Egan. O, racconti che si potrebbero leggere come parti di
un “romanzo” complessivo, ed allora penso a “In fuga” di Alice Munro. Qui la
situazione è più varia e più complessa. Da un lato abbiamo una serie di
racconti che ci tratteggiano la vita di alcuni cittadini della poco ridente
città del Maine (a 150 km a Nord di Boston, abbarbicata tra il freddo Atlantico
ed un improbabile Androscoggin River), dall’altra ci fanno seguire l’evoluzione
della vita della nostra eroina, Olive, che, di racconto in racconto, cresce ed
invecchia. Cambia anche, perché il mondo introno a lei cambia. Mantenendo
tuttavia il suo difficile carattere. Di certo capiamo come possa rendere
difficile la vita ad alcuni, ma come altri non dico ne siano affascinati, ma ne
abbiano un ritorno positivo. Primo fra tutti il marito Henry, che seguiamo
nelle prime battute quando è ancora farmacista, tutto dedito al lavoro.
Farmacia dove si prende una cotta per la giovane Denise (troppo giovane), che
aiuta nelle difficoltà, ma verso cui non muoverà mai un capello, frenato anche
dalla necessità di avere accanto un punto fermo come Olive. Anche se Olive è
burbera, anche se Olive in quel momento di reciproca rilassatezza pensa di
lasciarlo per Jim. Ma questi muore in un incidente, ed il mondo va avanti. Anche
il mondo di Olive e Henry, con il loro figlio Chris oppresso dalle due opposte
realtà: la bonomia del padre che non prende mai una decisione e la durezza
della madre, che ne prende troppe. Tanto che per sfuggire ai due Chris si
sposa. Ma non sfugge alla morsa, ed allora dal Maine si sposta in California
(il più lontano possibile). Dove divorzia, e contemporaneamente il padre Henry
ha un ictus che lo costringe, cieco ed immobile, per anni ed anni in una casa
di cura. Dove Olive lo cura amorevolmente, fino a quando Henry se ne andrà
senza aver saputo che il figlio si è sposato di nuovo, si è trasferito a New
York, ha avuto un figlio suo (ed Henry aveva per tutta la vita sognato di fare
il nonno). Ma Chris non farà mai pace con Olive, cui salta la mosca al naso per
un nonnulla (una macchia sulla camicetta in questo caso) e si ritira nelle sue
stanze chiudendo la porta a tutti. Soprattutto ai sentimenti, che, forse,
lascerà andare soltanto molto avanti con gli anni (credo vada sui 72),
trovandosi probabilmente innamorata di un nuovo vicino, nonostante questi abbia
una figlia gay e voti repubblicano. Intorno, poi, ci sono gli altri che
passano. Kevin, che era stato suo allievo, che non si è mai ripreso dal
suicidio della madre, e che medita anche lui l’estremo gesto. Angela la
pianista che suona sempre la stessa canzone per i Kitteridge e che incontra una
sua vecchia fiamma ora in declino. Nina l’anoressica che tenta di salvare,
inutilmente, insieme ad Harmon e Bonnie. Harmon che lascerà la moglie per una
serena vecchiaia insieme a Daisy. Jane che al concerto insieme ai Kitteridge
scopre un antico tradimento del marito. Ma non vorrei fare l’elenco di tutte le
microstorie di questo mosaico. Alla fine è comunque un bel mosaico, da cui ne
esce, con tutti i pregi ed i difetti, l’eroina del titolo. Ho avuto solo
difficoltà a raccordarmi tra tutti gli episodi, che spesso ritornano nomi di
racconti precedenti. Ed io che sono un po’ maniacale avrei voluto un bel
compendio che me ne riportasse la ragnatela delle relazioni. Ma va bene così,
si può (si deve) leggere lasciando scorrere tutto verso la fine, con
quell’immagine delle due fette di formaggio svizzero premute insieme (immagino
groviera) in modo che ognuno dei due conoscesse i buchi che può dare all’altro.
Un inno d’amore e di speranza che risolleva tutti i momenti del libro che non
sono stati né d’amore né, purtroppo, di speranza. Un solo appunto di dispiacere
sulla (forse cattivamente voluta) battuta a pagina 128, quando, ricordando la
morte di Jerry Garcia, si dice che “spero sia morto con gratitudine”. Per i non
addetti alla musica, ricordo che Jerry Garcia era il leader del gruppo musicale
“Grateful Dead”.
“Dobbiamo amare, altrimenti ci ammaliamo.”
(66)
“Non si poteva smettere di provare certi
sentimenti, qualunque cosa facesse l’altra persona. Bisognava solo aspettare.
Alla fine il sentimento svaniva perché ne arrivavano altri.” (84)
“Quand’era che aveva smesso di avere
opinioni?” (120)
“Dentro di te avevi paura di aver sposato
una donna noiosa… Graziosa, ma noiosa.” (181)
ANDARE DIETRO A UNA DONNA, ANCHE SE È UNA SUORA
Michael Ondaatje “Nella pelle del leone” Garzanti euro 8,26 (in realtà,
scontato a 7 euro)
[tramato
il 9 settembre 2018]
Una
conferma piuttosto che una sorpresa. Anche se de “Il paziente inglese” ricordo
più il film che il libro, e se, come suggeriva la mia amica Luana, sono anni
che cerco “Le opere complete di Billy the Kid”. Ma il buon Michael autore poco
più che quarentenne all’epoca del libro in questione, è una penna poco
prolifica ma di sicura presa. Nato da origini olandesi (come dice il cognome)
in quello Sri Lanka allora Ceylon, e dopo studi ed altre peripezie, ora vive in
Canada. Ed in questo libro il Canada è, forse, il protagonista silente che lo
attraversa tutto. Costruito con sapiente dosaggio di elementi, è anche un po’
spaesante, se non si è attenti alle premesse, e non si seguono altrettanto
attentamente gli avvenimenti. Che il romanzo è costruito a mosaico, con la
chiave di volta nelle prime righe (racconto che una ragazza alla guida ascolta)
e richiusa dalle ultime (quando vediamo Hana salire in macchina e Patrick che
comincia a narrare le “sue” storie). Sembra quasi un marchio di fabbrica
canadese (perché penso ad Alice Munro, ovvio), quello di costruire storie con
dei piccoli racconti che si raccordano (tecnica portata all’estremo da
Elisabeth Strout). Qui, infatti, ogni capitolo è una ministoria, dove a volte i
protagonisti scompaiono per poi riapparire decine e decine di pagine dopo. Alla
fine, comunque, si riesce a capire che il nostro eroe è Patrick, un “vero”
canadese, rispetto alla marea di immigrati che incontriamo man mano. Ne
seguiamo l’infanzia, nei boschi con il padre (senza nessuna madre di cui non si
parlerà mai, tanto che ci viene il dubbio che tutto il rapporto cercato con
l’altro sesso sia una ricerca subliminale proprio della madre). Entriamo quindi
nel mondo selvaggio del Canada dei grandi spazi, degli alberi, dei fiumi che li
portano a valle. Vediamo il padre specializzarsi in piccole esplosioni di
dinamite, proprio per spostare a proprio agio gli alberi. Tecnica che trasmette
al figlio, e che al figlio servirà quando sarà grande. Padre morto, e Patrick
che vaga, fino a trovarsi nella grande città, a Toronto, occupato in mille
lavori, dal grande impegno al piccolo guadagno. Si troverà a fare anche da
galoppino ad investigatori privati, alla ricerca dello scomparso miliardario
Ambrose. Non lo trova, ma ne trova traccia presso la di lui amante Clara. Di
cui lui si prende in maniera esagerata. Clara sfuggente, Clara misteriosa,
Clara che gli presenta la sua amica Alice. Che noi abbiamo seguito per pagine
traverse, ascoltando la storia dell’immigrato macedone Nicola, che costruisce
ponti, e che salva dal precipitare nel vuoto una suora. Suora che, sconvolta
dal salvataggio e da Nicola, abbandonerà il saio, prenderà una forte coscienza
politica, e si trasformerà nell’attrice Alice. Anche se per poco abbiamo
seguito Nicola, comunque interessante, non è lui il centro, rimandone sempre
Patrick, anche se serve per introdurlo nelle varie comunità di immigrati. Ed a
presentarlo ad un altro operaio protempore, che in realtà è un vero ladro,
soprannominato Caravaggio. Quando Clara scompare anche lei al seguito da
Ambrose, Patrick ritrova miracolosamente Alice (sono ormai passati almeno 10
anni), con una figlia al seguito, Hana. Patrick e Alice iniziano la loro
piccola grande storia, importante per Patrick che gli fa nascere coscienza
politica. Siamo, mi ero scordato di dirlo, all’inizio degli anni Trenta, epoca
di grande depressione sociale, di scioperi, di rivolte. Rivolte che vedono
Alice sempre in prima fila, che vedono Patrick presente ma ancora non
cosciente, dedita spesso più a proteggere Hana che sé stesso. Ma Alice, in
seguito ad una molotov mal confezionata muore. Patrick, usando le sue tecniche
dinamitarde, cerca di vendicarla, rimediando solo alcuni anni di carcere. Dopo
si lega al Caravaggio di cui sopra, non prima di aver consegnato Hana a Nicola
perché la protegga. Il libro finisce con una disperata telefonata di Clara che
cerca il “suo” Patrick, che Ambrose ora è realmente morto, e lei è realmente
sola. Patrick ha un braccio rotto (così come Nicola quando salvò Alice), e per
andarla a prendere convince la sedicenne Hana a guidare lei, anche se con
cautela (sappiamo che negli States è possibile avere la patente a sedici anni).
Per tenerla sveglia durante il lungo viaggio per recuperare Clara, Patrick le
promette di raccontarle le storie della sua vita, dei suoi amici e della madre
di lei. Cosa che ha fatto, e che noi abbiamo seguito leggendo il libro. E se
siete attenti cultori di nomi e trame, non vi meraviglierete certo di ritrovare
Hana ne “Il paziente inglese”. Comunque, un ringraziamento a Ondaatje, per le
sue origini che lui non dimentica, e per la sua scrittura, che noi non
dimenticheremo.
“Tu credi nella solitudine … Puoi
permetterti di essere romantico perché sei autosufficiente.” (115)
ETÀ, DIFFERENZA DI (TRA INNAMORATI)
Marina Lewycka “Breve storia dei trattori in lingua ucraina” Mondadori
euro 10 (in realtà, scontato a 7 euro)
[tramato
il 15 maggio 2016]
Tra
ricordi di guerra e presente di immigrati, una favola agra, comica e triste su
di uno spicchio di comunità ucraina che vive in Inghilterra. Primo e riuscito
romanzo di Marina Lewycka, di certo autobiografico. Ma come tutte le
autobiografie intelligenti, capace di uscire spesso dal puro privato per
affrontare temi universali. A parte i consigli di Ella e Susan, avevo pensato
al suo acquisto fin dalla strana combinazione del titolo. A proposito, un
aneddoto: quando Amazon lo mise in vendita, finì tra i manuali tecnici, e per i
primi mesi vendette quasi sotto zero; solo dopo aver corretto l’errore, ebbe
una buona risalita di pubblico (avendola già di critica e di premi vari).
Torniamo al titolo, che sembra ironico, ma che, alla lettura, nasconde
sfumature drammatiche inaspettate. Il romanzo descrive le reazioni delle sue
due figlie, quando il padre Nikolai, 84 anni, vedovo, annuncia di voler sposare
la trentaseienne Valentina, immigrata ucraina, molto procace. Preoccupate a
causa di Valentina, Nadia e Vera, le figlie, dopo un lungo periodo di
allontanamento, tornano in contatto, coalizzate per far fronte al nemico
comune. Il vecchio sa che non ha molto da offrire a Valentina, ma l’idea di
avere qualcuno accanto che si prenda cura di lui, vedovo, lo seduce. Gli basta
una palpatina giornaliera alle tette di Valentina per convincersi della bontà
della sua scelta. Le figlie sono di tutt’altro parere, vedono in Valentina la
grande ladra, colei che ha osato rubare il posto della madre e che, non
contenta vuole i, pochi, soldi del loro vecchio e tonto papà. Valentina che,
noncurante delle rappresaglie, si trasferisce con figlio e bagagli a casa
dell’idealista eccitato ottantenne e ne svuota il conto in banca per acquistare
tutti i simboli dell’agognato capitalismo (e mi rimanda a tristi narrazioni
rumene). Il matrimonio si fa e la battaglia legale diventa sempre più
difficile, viste anche le appassionate lettere d’amore che l’ingenuo
ottuagenario semina per casa. L’idillio del povero Nikolaj dura poco e la
giunonica Valentina passa agli insulti e al disprezzo per quel marito che,
nemmeno tanto ricco, arriva a definire una "reliquia di merda secca di una
vecchia capra", per non citare i più coloriti epiteti sessuali. Ad
aggiungere spasso concorre una divertente storpiatura dell’inglese-ucraino, per
chi avesse voglia di leggere la versione originale. La vicenda precipita, ma
Nikolaj “moscio floscio” non si lascia scoraggiare e pensa addirittura di
essere il padre del nascituro figlio della disinvolta Valentina. Facciamo un
salto di lato, ricordando che Nikolai è un ex ingegnere, anche lui emigrato in
Gran Bretagna nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. E sta
scrivendo una storia dei trattori nella sua lingua madre, l’Ucraino. Estratti
del saggio compaiono qua e là nel testo, illuminando le figlie, anche, su
quanto succedeva ai loro genitori ed alla loro terra, prima che ne avessero
piena coscienza. Durante tutto il periodo in cui le due cercano di sganciare
Valentina da Nikolaj, ed alla fine riescono, Nadia trova il modo di farci
partecipe dei segreti della storia della sua famiglia e noi impariamo a
conoscere le loro dure esperienze durante la carestia ucraina e le purghe
staliniane. La storia, come detto, ha molto di autobiografico: il padre della
Lewycka non solo ha realmente scritto un saggio sui trattori, ma ha anche
sposato in seconde nozze e in età avanzata una giovane immigrata. La leggera
vena comica prevale indubbiamente, ma il lettore si troverà anche a riflettere
su immigrazione e fragilità della vecchiaia. Da notare il tono molto critico
nel confronto degli immigrati da parte delle due sorelle, che pur essendo loro
stesse immigrate, non esitano a denunciare Valentina nel tentativo di
liberarsene. I temi sono scomodi, il mezzo con cui vengono affrontati è la
commedia, il fondo è piuttosto amaro. C’è un assurdo di fondo in tutto il
libro: è difficile trovare un personaggio realmente simpatico, sia nella
squadra dei buoni sia in quella dei cosiddetti cattivi. C’è la brava Nadia,
corretta, renziano – buonista, quella che poveri gli immigrati. C’è Vera la
cattiva sorella maggiore, divorziata, avida, eppur piena di dolori che vengono
dal periodo bellico e mai sopiti. C’è Nikolaj, geniale e tuttavia completamente
scemo. C’è Valentina, intenzionata a sposarlo, avere la cittadinanza e sperare
che il vecchio muoia presto. Valentina andrebbe fatta fuori nelle prime dieci
pagine, poi si pensa che sotterrare il rimbambito sia meglio, ma in fondo anche
le due figlie del rincoglionito non sono mica tanto simpatiche. Alla fine, via,
salviamo tutti, con i loro tic e la loro cattiveria, perché ognuno di loro ha
buoni motivi per essere così. Un libro ironico, che ti fa anche pensare (a
volte non molto a fondo, però) che c’è gente poco simpatica (direi quasi
stronza), e che forse ha una ragione per esserlo.
FRATELLI, RIVALITÀ TRA
José Saramago “Caino” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80
euro)
[tramato
il 18 marzo 2018]
Fatto
salvo che ne riparleremo prima o poi per le cure librarie (ovviamente
nell’ambito della rivalità tra fratelli, ma non ne sono rimasto troppo
sorpreso), andando avanti con l’età, la scrittura del grande portoghese mi
rimane meno ostica del solito. Quando dicevo età, ovvio, che mi riferivo a José
(non alla mia), ed al fatto che, per l’appunto, rispetto ai primi romanzi,
quasi senza punteggiatura ed altre interpunzioni, quasi come fosse un unico
lungo pensiero, da seguire con lui, le ultime prove (e questo che poi è proprio
l’ultimo romanzo da lui scritto prima di morire) mi sono parse più leggibili.
Ricordo ancora che non sono mai riuscito a terminare “L'anno della morte di
Ricardo Reis”. Qui invece si legge, ed anche con discreta velocità, pur
soppesando le parole come macigni. Certo, sono parole di un ateo che utilizza
il Vecchio Testamento per i suoi scopi personali di lotta verso tutte le
istituzioni, passate, presenti e future. Saramago discende da Omero e non dalla
Bibbia, cristiana o ebrea che sia. Quindi sfida l’universalità che il primo
omicida incarna nella sua (a meno come tramandataci) fosca figura, sfida la
difficoltà che in molti si è avuta nell’affrontare Caino e la sua storia, e le
utilizza per il suo scopo preciso. Non tanto e solo per mostrarci un Dio
irascibile e geloso, quanto (almeno questo è quello che mi arriva dalla pagina)
per dire agli uomini: attenti a voi stessi, a quello che fate, siate coscienti
dei vostri passi. La fine, altrimenti, sarà irreversibile. Anzi, visto che
tutti sono malvagi, visto che non c’è speranza, come diceva il biblico giudice:
“Muoia Sansone con tutti i filistei”. Peccato però che Caino non possa morire,
quindi la sua vendetta sarà la più atroce. Tutti moriranno per le loro colpe,
rimarranno solo Dio e Caino a ragionare su questo per l’eternità. Questo il
terribile messaggio di Saramago, che tuttavia ci permette, in queste men che
150 pagine di afre una cavalcata nei massimi “topoi” biblici. A partire proprio
dalla storia di Caino e Abele, almeno di quella cristiana. Dove si vede Abele
il pastore rendere grazie a Dio con i migliori capi del suo gregge e Caino
l’agricoltore utilizzare solo alimenti di seconda fascia. Dio gradisce solo
Abele, e Caino ci rimane male. Da qui, interviene la potente penna del Premio
Nobel. Dove Abele prende in giro Caino perché solo le offerte di Abele sono ben
accette. Caino cui sale la mosca al naso, e uccide Abele. Dio che ne chiede
conto. Caino che rifiuta di essere messo alla prova. Da qui la punizione: andar
vagando per tutta la vita, senza che nessuno possa ucciderlo. Perché avrà il
marchio sulla fronte. Questa bella idea, permette quindi a Saramago di far
spostare nel tempo e nello spazio l’errante Caino, così che possa assistere a
tutte le prove cui viene sottoposta l’umanità. Vediamo allora, con gli occhi di
Caino la distruzione di Sodoma, la costruzione della Torre di Babele, i
massacri dell‘esercito di Giosuè, le pene inflitte a Giobbe, il sacrificio di
Isacco, fino alla costruzione dell’Arca ed al Diluvio Universale. Dove appunto
si svolgerà il dialogo finale tra le due anime del libro: il Dio vendicativo
del Vecchio Testamento ed il caino irriverente. Perché è proprio Caino che
chiede conto di tutte le prove cui sono sottoposti gli uomini. Che chiede conto
degli innocenti uccisi, ad esempio, nella distruzione di Sodoma e Gomorra. O in
quelli che moriranno in seguito al Diluvio. Insoddisfatto delle spiegazioni
divine (sempre sulla falsariga della messa in prova della fiducia umana verso
il divino), Caino darà vita ad un finale senza appello: imbarcato sull’Arca,
visto che ormai è segnato, uccide Noè e tutta la sua famiglia. Così che non
rimarrà più nessuno. Quindi è proprio Saramago che, per la sua scelta
personale, ripassa tutta la Bibbia, scegliendo le scene fondamentali
dell’Antico Testamento tra quelle in cui Dio si manifesta direttamente agli
uomini. Scene da cui sembra discendere un Dio collerico, ingiusto e,
soprattutto, illogico del quale. Ma qui c’è la grande vendetta della parola:
che per ribaltarne la figura (almeno nella sua immaginazione) deve comunque
presupporne la presenza, l’esistenza, e soprattutto il Verbo, quello che venne
detto in principio dei secoli e rimarrà iscritto per sempre. Non entro certo
nel merito della discussione tra Caino e Dio, né tra quella dei lettori del
grande scrittore portoghese, tra i fautori del Santo ed i sostenitori del
Diavolo. A me, molto modestamente, interessa mostrare la grande capacità
inventiva che ha uno scrittore puro anche quando raggiunge la soglia dei
novanta anni. La grande capacità di coinvolgerci, di farci ragionare, anche di
trovare le ragioni contrarie alle sue. Spero un giorno tornare su altri suoi
scritti, vincendo la difficoltà (o forse la pigrizia) che mi hanno sino ad ora
impedito di apprezzarli. Finisco anche con il dubbio se Saramago avesse avuto
anche il tempo di affrontare, oltre il Caino cristiano anche quello ebraico e
islamico. Laddove la storia è leggermente diversa. Che i primi due “nati da
donna”, erano in realtà dei parti gemellari. Il primo diede vita a Caino ed
Aclima. Il secondo ad Abele e Jumelia. Onde per generare figli e popolare la
razza umana, Adamo decide che Abele sposi Aclima e Caino Jumelia. Ma Aclima è
più bella, e Caino, incesti a parte (che ancora non erano previsti, visto che
la razza umana era composta solo da 6 persone) la vuole per sé. Poiché invece,
attraverso il rifiuto del sacrificio, Dio decide in accordanza con Adamo, Caino
l’invidioso piglia ed uccide il fratello. Dove si capisce allora che è tutta
una questione di donne. Come sempre. Sarebbe interessante, ma non è di queste
righe. Allora ve la lascio solo come provocazione.
Conclusioni
Non torno sulle letture passate,
già discusse a lungo. Né sul libro di Ondaatje che va letto, ma non per i
motivi su esposti. Parlo invece di Lewycka e Saramago, assolutamente centrati
nella lettura e nello spunto da cui traggono origine. Ma in fondo, cinque libri
che consigli di leggere. Tutti.
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