Una carrellata intorno al globo,
passando tre continenti. Un Giappone che ha visto prove migliori che più mi
hanno coinvolto. Una buona Europa, con un libro italiano non spiacevole (forse
il migliore del lotto), ed un’America, tra il Nord e il Sud, dove il Trono di
Spade la fa sicuramente da padrone rispetto ad una dimessa argentina.
Haruki Murakami “La fine del mondo e il paese delle meraviglie” Einaudi
s.p. (prestito di Fako)
[A: 02/05/2017 – I: 14/09/2018 – T: 24/09/2018] - & +
[tit. or.: 世界の終りとハードボイルド・ワンダーランド Sekai no owari to Hādo-boirudo Wandārando; ling. or.: giapponese; pagine: 509;
anno 1985]
Continuo ad essere
molto ondivago nei confronti del grande giapponese, un altro dei Premi Nobel in
pectore. Anche se quest’anno per le note vicende legate al #MeToo, il premio
non sarà assegnato. Ci sono passaggi della sua scrittura che avvincono, legano
alla pagina, e si ha voglia di sapere subito cosa succederà dopo, chi farà
cosa, come avverrà quell’avvenimento. Poi ci sono momenti di stanca, dove vien
voglia di prendere tutto, rimetterlo sullo scaffale e dirsi: ok, sarà per
un’altra volta. Comunque, leggendo questo libro che è del 1985 si capisce molto
della genesi e della struttura di “1Q84”, scritto circa 25 anni dopo. Qui ci
sono elementi in bozza, possibili sviluppi, e pensieri che vagano, con la
scrittura doppia che caratterizzerà quello che viene considerato una delle sue
massime espressioni (anche se, per me, “Norwegian Wood – Tokyo Blues” rimane
insuperato). In questo romanzo, non avendo ancora trovato la cifra di
caratterizzare meglio i due mondi, li lascia così come li nomina, lasciandone
anche il doppio nome nel titolo. Abbiamo quindi il racconto che si svolge nel
paese chiamato “La fine del mondo” ed il racconto nel paese chiamato “Il paese
delle meraviglie”. Rispetto alla sua opera più matura, la differenza, qui, è
che entrambi i mondi hanno un protagonista maschile, che si capisce ben presto
è la stessa persona. Ci si potrebbe incuriosire cercando di capire il passaggio
tra uno scenario e l’altro, l’evoluzione temporale sottesa. Ma le due storie
sono talmente pallose che più che altro si aspetta un qualche colpo di coda,
qualcosa che possa far virare tutto il libro in altro, in un emblema, in un
punto di riferimento per ricordarci qualcos’altro. Invece, seppur pieno di
eventi, niente sconvolge la flemmatica inutilità del tutto. Arrivando così ad
una fine, scontata da un lato, e senza nessuna particolare attrazione
dall’altro (tipo, come finirà male questo mondo, cosa ci sarà dopo, e via
elucubrando). Perché, da un lato, nel violento e molto attuale (per il tempo
dello scritto) paese delle meraviglie, si fa una piccola estrapolazione del
mondo presente, e, sulle onde di una mini-fantascienza di maniera, si ipotizza
cosa possa essere da qui a qualche anno. Peccato che, letto trenta anni dopo, i
piccoli “passi verso il futuro” sono stati talmente sorpassati che sembra quasi
di leggere un racconto manieristico dell’Ottocento. In Murakami non ci sono
cellulari (i telefoni hanno fili, e senza telefoni è difficile raggiungere
persone in pericolo), non ci sono TV digitali, satelliti, GPS, insomma c’è poca
fantasia (e pensate che cinque anni prima Douglas Adams aveva scritto la
insuperabile “Guida galattica”). Purtroppo, Murakami usa come personaggio
centrale e cardine un esperto di computer, un “cibermatico”, che usa
connessioni neuronali per criptare i dati, ed una tecnica tipo ipnosi per
“mescolarli”, cioè per avviare una seconda fase di crittografia che permetta di
non poterli più utilizzare, se non conoscendo una chiave che è solo nel
cervello del protagonista. Il tutto avviato da uno scienziato (pazzo?) che
aveva con questi dati costruito un “altro mondo”. Tutto quindi deve passare
nella testa del tipo, cosa che avviene, anche se ci sono molti passaggi per evitarlo,
cattivi che entrano in scena e poi spariscono, una giovane di 17 anni vergine,
una bibliotecaria bulimica, ed altre invenzioni catastrofiche. Una volta
avviato, e non sarà possibile altrimenti, tutto si trasferirà nell’altro
racconto, dove la vita è rinchiusa in una città contornata da un muro
invalicabile, dove vivono gli unicorni, dove, per poter restare nella città e
continuare a “vivere” bisogna essere separati dalla propria ombra. Dove ci sono
figure emblematiche, un Guardiano cattivo, un Generale che gioca a scacchi,
persone che, senza costrutto, fanno delle buche in un prato (ricordandomi il
famoso “Io fo buchi nella sabbia…”). Anche qui c’è solo una persona positiva, e
guarda caso fa anch’essa la bibliotecaria. Sarà un caso? Sarà un segnale? Il
nostro inutile protagonista sembra voler fare una ribellione, sembra voler
fuggire. Ma alla fine, come nel paese delle meraviglie accetta il suo
“destino”, anche qui pare piegarsi alla volontà ineluttabile del fato. Così,
dopo 500 pagine in cui aspettiamo qualche scatto in avanti, il tutto si chiude
senza, appunto, nessuno scatto. E seppur in altre prove (tipo “Kafka sulla
spiaggia”) almeno ci si incuriosiva in alcuni passaggi, qui l’unica curiosità
che mi è venuta riguarda i motivi per cui il libro è stato scritto. Il
messaggio? La necessità di mettere su carte le proprie circonvoluzioni mentali?
Altro che io non ho capito? Non so. Certo, il prossimo Murakami dovrà essermi
spiegato bene prima che se ne possa leggere. Con tutta la benignità che voglio
al mio amico Fako.
“Col passare degli anni aumentano le cose che non riusciamo più ad
aggiustare.” (226)
“Se qualcuno … mi avesse gridato ‘La tua vita è un fallimento’ non
avrei auto nessuna prova per negarlo.” (433)
“Vuoi che ti dica una cosa? Adoro sentirmi fare dei complimenti.” (477)
“Chissà se avevo davvero la capacità di far felice qualcuno?” (504)
Alberto Rollo “Un’educazione milanese” Manni editore euro 16
[A: 23/06/2017 – I: 01/10/2018 – T: 10/10/2018] &&& +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 317;
anno: 2016]
Non meravigliatevi
se ogni tanto anche il vostro ragno preferito che tesse trame e reti sottili,
decide di investire in un libro a prezzo pieno. Ma questo era un finalista del
Premio Strega 2017, e mi aveva incuriosito il premio, l’autore, nonché
l’editore di cui credo avere poco o nulla. Non meravigliatevi anche del lungo
tempo di lettura, che, come orami sapete, quest’ottobre sta diventando il mio
mese da badante ben referenziato. Non mi dispiace, ma di necessità questo
sottrae tempo a tutte le altre amene attività che compongono il puzzle della
mia vita. Allora, per prima cosa il Premio. Non che io straveda per i premi
letterari, ma la vincita o la nomina nelle cinquine finali portano interesse a
libri nuovi, magari aprendo panorami che non ci si aspettava di vedere (pardon,
di leggere). Avendo quindi dato una scorsa ai finalisti, ho deciso che questo
mi attirava più degli altri, anche se poi non vinse, ma prevalse il montanaro
Cognetti. Saltando l’autore, dedico alcune note alla casa editrice, piccola ma
sempre foriera di una sua linea di coerenza. Nascosta nelle pieghe del barocco
leccese, ha sempre avuto un suo interesse in alcuni ambiti, diciamo anche di
nicchia, di letteratura e saggistica. Nonché, ricordo, la speciale attenzione alla
poesia, con Alda Merini e Giorgio Caproni in testa. Infine, Rollo, uno dei
grandi operatori culturali, anche se non sempre noto al grande pubblico, ed
anche non sempre uscito dalla cerchia milanese. Dopo un suo percorso personale,
di cui questo libro dona una traccia esauriente, alla fine degli anni Settanta
(più o meno lì dove finisce l’educazione del titolo) inizia a lavorare
nell’editoria. Prima con Editori Riuniti, poi per vent’anni alla Feltrinelli,
diventandone nell’ultimo periodo Direttore Letterario, quindi una breve
stagione da Baldini+Castoldi, per diventare nell’ultimo anno consulente
narrativo alla Mondadori. Nelle sue lunghe stagioni, di lavoro e di formazione,
è inserito intrinsecamente nella vita culturale e politica (ma una volta questi
erano anche sinonimi) milanese. E se ora può parlare di Testori o di Fo, di
Caproni o di Rostagno, in questa sua prova letteraria, esordio narrativo, dopo
aver fatto da curatore e saggista per decenni, prova a mettere in fila i
pensieri spettinati che lo hanno portato dalle “case di ringhiera” al suo stato
attuale, di Alberto Rollo a tutto tondo. Con un andamento narrativo che non
sempre mi è stato di aiuto, che troppe volte andar per ponti e viali mi ha
distolto da uno scorrimento lineare delle vicissitudini di Rollo, l’autore
cerca di dare sensi e nomi al modo in cui ha costruito sé stesso. Tolte le
sovrastrutture, al fine vedo disegnarsi a poco a poco il personaggio. Figlio di
immigrati pugliesi, con il padre operaio meccanico in una “fabbrichetta” come direbbe
un milanese doc, e madre ex-sarta, ora sposata e dedicatasi tutta alla famiglia
(ci sarebbe anche da riflettere sulla possibilità di mantenere una famiglia di
4 persone con un solo stipendio, ma forse è un discorso lungo). Padre operaio,
dicevo, e comunista. Di quel comunismo di adesione piena che nasceva nel
dopoguerra, e che si è sviluppato come filo rosso fino alla fine degli anni
Sessanta. Alberto a scuola alle elementari, Alberto con i parenti, i sodalizi
amicali della gioventù, la sorella maggiore ma di troppo più grande per essere
un sodalizio vero. Poi il liceo, nel pieno del ’68, visto che Rollo è del ’51.
Con gli amici, i compagni veri, che segneranno la sua vita. Le manifestazioni,
la morte di Pasolini e quella di Feltrinelli. Insomma, tutta l’Italia che ho
vissuto anch’io, seppur di poco più giovane di Alberto. Mescolate alle pieghe
narrative, questi intarsi miei e suoi mi hanno suonato a fondo (anche perché
sono anche fresco della lettura dello speciale di MicroMega sul ’68). Meno
altro, meno l’espediente narrativo centrale, di tirar fuori tutto il corpo
centrale della sua narrazione mentre, ora, “carico d’anni”, ma forse non di
sventura, aspetta forse inutilmente l’ultima metropolitana per tornare a casa.
Lì sulle panchine deserte, come bolle affiorano questi ricordi, ritornano i
pensieri di cosa sarebbe potuto essere, e non è stato. Ritorna l’incidente
mortale dell’amico Marco, ed in sottofondo, ma non scordato, la morte per
overdose dell’amico Franco. Il tutto condito con Milano, una città che in
gioventù rifiutavo, non capivo, ma che, andata a vedere in tempi maturi, mi ha
lasciato impressioni diverse e contrastanti. Capisco cosa sia potuto nascere
lì, come capisci, quando li vedi, i luoghi dove nascono le cose. Se non vedi
Milano non capisci, tanto per dire una battuta, “Avanguardia Operaia”, come se
non passeggi per il Ladakh non capisci Milarepa. Pur con tutta la buona
volontà, alla fine, tuttavia, il libro è rimasto distante da me. Che sono
abituato ad essere coinvolto direttamente, di pancia, quando ce n’è bisogno.
Mentre pensare anche in modo profondo attraversando il Ponte della Ghisolfa lo
capisco con la testa ma non con il cuore. Qualcuno meno romantico di me (o del
mio essere attuale) ne sarà entusiasta. Io l’ho trovato un libro che, seppur a
fatica, non mi è dispiaciuto leggere.
George R.R. Martin “Il trono di Spade” Mondadori euro 12
[A: 05/07/2016 – I: 17/10/2018
– T: 20/10/2018] - &&& e ½
[tit. or.: A Game of Thrones; ling. or.: inglese; pagine: 423; anno 1996]
Ci
sono voluti più di 20 anni per arrivare a leggere in maniera critica ed
analitica il primo libro de “Il Gioco dei Troni”, così come appunto nel 1996
l’immaginifico George Raymond Richard Martin decideva di chiamare l’inizio di
una delle saghe più lette, più viste e più amate. Purtroppo, oltre a scontrarci
con i titoli italiani (ma ormai “Il trono di spade” è diventato un marchio), ci
si imbatte anche nella pervicacia delle edizioni, dove i cinque romanzi di
Martin dedicati alle “Cronache del ghiaccio e del fuoco” vengono spezzettati in
circa una dozzina di volumi. Per cui questo, in realtà, è metà del primo libro
della serie, dove appunto “A Game of Thrones” viene diviso in questo e nel
successivo “Il grande inverno”. Comunque, dopo averne letto qualcosa quando
fantasy e fantascienza erano più presenti nel mio orizzonte letterario, e dopo
averne parlato con gli appassionati, e dopo aver visto almeno la Croazia e la
Scozia, due dei luoghi must dove è stata girata la serie TV (manca la Nuova
Zelanda, un po’ lontana forse), non potevo esimermi di includere anche questo
esempio, ormai classico, di letteratura. Sicuramente la scrittura è di buon
livello (anche se qualcuno si è lamentato delle traduzioni mondadoriane non
sempre accurate), ed accompagna una saga che ha il sapore di un classico, pur
essendo farcita di elementi nuovi ed interessanti. Martin ambienta la sua
epopea in un mondo altro, forse futuro, ma di sicuro regredito ad un Medioevo
europeo di stampo classico. Tornei di cavalieri, strutture feudali ed altro ne
sono un chiaro esempio. Su questo si innestano tre elementi “diversi”: il lato
fantasy, rappresentato da animali fantastici (i meta-lupi), uova di drago
dormienti per millenni, e zombie (o simili creature) che vengono a minare i
fragili equilibri del mondo conosciuto; il lato “guerresco”, con una struttura
che sembra ricalcare la Guerra dei Cento Anni di britannica memoria, con
alleanze, tradimenti ed altre tipologie ben presenti in Europa negli anni bui;
il lato “osé”, che c’è sesso, normale e straordinario, etero ed omo, incestuoso
perfino, tanto per solleticare il lettore di quando in quando a non distrarsi
dalle vicende. Che sono poi vicende corali, che si svolgono in un mondo diviso
tra due grandi continenti: Westeros (riportato in italiano come “Il grande Nord”),
luogo freddo e dove è difficile vivere, dove arrivano stagioni senza cadenze e
durate predeterminate, diviso in Sette Regni, che rispondono ad un unico re, ed
Essos (“Il libero Sud”), dove scorrazzano popoli nomadi e sorgono e prosperano
città libere. Tra l’altro, all’estremo Nord c’è una Barriera, un gigantesco
muro di ghiaccio, mutuato dal Vallo d’Adriano in Inghilterra, controllato dalla
confraternita dei Guardiani della Notte, per tener fuori dal mondo civile i
Bruti e gli Esterni. Non ho molta intenzione di addentrarmi nei meandri del
primo volume, che, pur tipicizzanti, andrebbero corredati da tutti i restanti
altri 11 tomi italici, cosa che per il momento non è nelle mie intenzioni. Per
chi si incuriosisce, vorrei invece delineare quanto succede prima
dell’inizio della saga. Infatti, quindici anni prima del primo romanzo, i Sette
Regni sono sconvolti da una prima Guerra Civile. Il figlio del Re Folle, Aerys
II Targaryen, Rhaegar, rapisce Lyanna Stark, a scopi sessualmente
comprensibili, suscitando, com’è ovvio, le ire del promesso sposo di Lyanna,
Robert Baratheon. Ma quando la famiglia Stark ne chiede la liberazione, il Re
Folle uccide i capi della famiglia. Eddard Stark, capo del più grande regno del
Nord, “Grande Inverno”, si unisce a Robert e Jon Arryn, dichiarando guerra ai
Targaryen. Nel gioco delle alleanze, Eddard e Jon sposano le sorelle Tully,
Catelyn e Lysa, rinsaldando i legami tra loro. Il culmine della contesa si avrà
nella famosa “Battaglia del tridente”, dove Robert uccide Rhaegar (che aveva
già fatto fuori Lyanna), e Jaime Lannister, di una casata un tempo fedele ai
Targaryen, li tradisce, uccide a tradimento il Re Folle, concedendo a Robert di
farsi nominare Re dei Sette Regni, suggellando l’accordo tra le famiglie con il
matrimonio tra lo stesso Robert e Cersei Lannister, la sorella gemella di
Jaime. Pur essendo sconfitti, i due ultimi Targaryen, il giovane Viserys e la
neonata Daenerys si salvano fuggendo al di là del Mare Stretto, verso i regni
del Sud. Avete già capito quanto e come si possa sviluppare la trama. L’ultima
invenzione di Martin, molto efficace dal punto di vista narrativo, è permettere
ad ogni personaggio di narrare in prima persona una sequenza di avvenimenti,
così che ogni capito è esposto dal Punto di Vista di uno di questi. In questo
inizio, ne parlano Eddard Stark e la moglie Catelyn Tully, il primo perché il
re Robert lo vuole come suo secondo, essendo improvvisamente morto il terzo
sodale, Jon Arryn, la seconda perché cerca di capire chi ha attentato la vita
del suo secondogenito, Bran. Poi abbiamo tre dei figli Stark: Bran, dalla cui
voce capiamo come siano stati Jaime e Cersei a cercare di ucciderlo, avendone
lui scoperto le tresche amorose, Sansa, la quattordicenne figlia maggiore degli
Stark, promessa sposa al figlio di Robert, e Arya, la minore degli Stark,
dodicenne irrequieta, più dedita a cercare di imparare la scherma che a giocare
alle bambole. C’è poi Jon Snow, il figlio bastardo di Eddard, di cui non si
consce la madre, e che entra, per sfuggire alle ire della famiglia, nei
Guardiani della Notte. Altre due voci sono poi importanti: Daenerys, ormai
anche lei quindicenne, che va in sposa con il re dei Dothraki, Drogo, cercando
di portarlo sul sentiero di guerra contro i Sette Regni, e Tyrion Lannister, il
cadetto della famiglia, chiamato il Folletto (in inglese “Imp” che propriamente
sarebbe “Diavoletto”), per le capacità verbali, le intemperie sessuali, nonché
il fatto che è affatto da nanismo (inoltre ha gli occhi di due colori
diversi!). Non so esattamente come si è andata sviluppando l’intera saga, ma da
questo primo assaggio, direi che 4 sono i personaggi che più mi vengono in
mente ed in simpatia: Bran e Arya Stark, Jon Snow e Tyrion il Folletto.
Concludo ribadendo la poca voglia, attuale, di seguirne le vicende letterarie,
ma l’idea, quando se ne ha tempo, di vederne i vecchi episodi della Serie TV
(di cui ho visto il primo che ritengo in ogni caso ben fatto).
“Le storie … non sono mie. … Le storie
esistono prima di me e dopo di me.” (252)
Ernesto Sabato “Il tunnel” Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 28/05/2018 – I: 06/11/2018 – T: 10/11/2018] - &&
--
[tit. or.: El Tùnel; ling. or.: spagnolo; pagine: 127;
anno 1948]
Di certo Ernesto Sabato è stato un
personaggio molto particolare della vita culturale (e non) dell’Argentina.
Figlio di immigrati calabresi (tanto che in vecchiaia prenderà la doppia
nazionalità italo-argentina), inizia la sua vita pubblica appassionandosi alla
letteratura ma laureandosi in fisico-matematica. Inoltre per alcuni anni, dal
’33 al ’36, è segretario giovanile del Partito Comunista. Emigrato in Europa
alla fine degli anni ’30, frequenta gli intellettuali parigini mentre collabora
agli studi sulle radiazioni atomiche nei laboratori dei coniugi Curie. Tornato
nel ’40 in patria, per alcuni anni insegna all’Università, per poi, dal 1945 (a
34 anni) dedicarsi solo alla letteratura. Ma come intellettuale, come saggista,
per lo più, che di romanzi ne scrive solo 3. Questo è il primo pubblicato in
patria, e ci si torna. Chiudiamo solo per dire che Sabato muore nel 2011, 55
giorni prima di compiere 100 anni. Veniamo quindi a questo suo primo scritto.
Niente da dire sulla forma, è una scrittura meditata, forse anche troppo. Si
sente che ogni frase non è messa lì a caso, è frutto di scrittura, di pensiero,
di meditazione, di riscrittura. Per approdare ad un testo che si legge in tanti
modi diversi. La storia, pura, lineare, della confessione dell’assassino Juan
Pablo Castel. La storia di ogni possibile interpretazione del reale, che cambia
faccia, ad ogni cambio di prospettiva. La storia della critica sottesa al mondo
fatuo di intellettuali che non sanno di cosa parlano, ma con le loro parole
pensano di governare il mondo. Il risvolto finale, di quell’ultima pagina,
aggiunta quaranta anni dopo la scrittura, con l’accenno alla morte di Allende,
che capovolge i giudizi, seppur ce n’erano stati, e ci porta a pensare che
tutto si possa leggere come una accusa a tutte le dittature che interpretando a
proprio modo il reale, se ne costruiscano una visione totalmente altra. E
terribile. Ma io non ho tutte queste capacità, e torno mestamente alla prima
storia, all’ossessione di Castel, ed al suo percorso, al tunnel che imbocca dal
primo istante della sua consapevolezza del mondo al di fuori di sé, e che non
può che percorrere fino in fondo, fino alle logiche conclusioni. Non ‘è via
d’uscita, se si entra nel tunnel. Si può solo andare avanti. Sino alla morte.
Oppure sino a qualcosa peggiore della morte, al rimanere in vita ripercorrendo
per sempre tutte le azioni che ci hanno portato alla fine del tunnel. Castel
era un degno pittore, parte dell’élite del proprio paese, osannato dalla
critica. Ma intimamente insoddisfatto. Nessuno, in realtà, penetrava veramente
il senso dei suoi dipinti. Pensa di trovare questo qualcuno che lo capisce,
vedendo una donna guardare un suo dipinto, e fossilizzarsi su di un
particolare, che tutti ignorano, ma che per Castel è il vero senso della sua
pittura. Da questo sguardo Castel costruisce il suo mondo. Decide che Maria è
la persona che lo può capire. La cerca, casualmente la trova. Irrompe con
brutalità psicologica nel suo mondo. Non si domanda mai chi sia Maria, cosa
abbia fatto prima, cosa faccia ora, quali siano le aspirazioni vitali di Maria.
Pensa solo a Maria rispetto a sé stesso, ai suoi quadri, alla sua vita. Così
cerca di intrufolarsi nella vita di lei, senza curarsi se sia sposata, se abbia
una famiglia. La travolge con la propria, indubbia, vitalità interiore. Con il
mondo che solo lui conosce, cristallizzato in quei particolari che solo lui e
forse Maria vedono nel quadro. Ma Maria è una persona, non un suo alter ego.
Fa, dice, agisce. Ma ogni sua azione, ogni suo pensiero, vengono letti in mille
modi dalla mente sempre più turbata di Castel. Maria va a trovare il cugino o
l’amante? Maria ha capito il suo quadro o è la sua immaginazione che vuole che
Maria abbia compreso? In un delirio che si approfondisce pagina dopo pagina,
Castel analizza tutto, e ne fornisce interpretazioni sempre diverse. Come tutti
gli alienati, ha anche momenti di grande lucidità, in cui si prende in giro, in
cui potrebbe, seguendo l’istinto, cambiare le carte. Non diventare un
torturatore. Non calarsi nei panni di un torturatore, come saranno i militari
argentini o quelli cileni, anni ed anni dopo, ma come sono stati da poco i
nazisti, ed anche gli stalinisti. Un ragionamento che si collega a quell’ultima
lezione di Bauman che ho da poco letto sulla memoria degli omicidi categoriali.
Tutto non potrà che finire così come annunciato nelle prime righe: “sono
Juan Pablo Castel, il pittore che uccise Maria Iribarne”. Dopo seguono le poco
più di cento pagine, dure, inflessibili, terribilmente conseguenti. Eppur
tuttavia, non mi è pienamente piaciuto, perché non dà sbocchi, perché ci
costringe a pensare che il nostro destino sia segnato, e che la fine sia
ineluttabile e predeterminata. Ma qui mi fermo, che, nonostante tutto, ritengo
un libro che è degno di una lettura, forse migliore della mia. Che però, per
Sabato, per l’uomo Sabato, ho tanta personale simpatia, che sono contento di
aver letto questo (ed anche il suo secondo libro “Sopra eroi e tombe”). Non
sempre mi piace quello che leggo, ma mi piace leggerne.
“Perché tutto deve avere una risposta?” (56)
“Il romano poliziesco rappresenta nel XX
secolo ciò che rappresentava il romanzo cavalleresco all’epoca di Cervantes.
[pensando a Chisciotte] immaginate uno … che si mette a cercare di risolvere
delitti e ad agire nella vita reale come il detective di un romanzo … Perché
non lo scrivi? Per due ragioni: non son Cervantes e sono un gran pigro.” (87)
Sebbene l’India non si sicura, è
sicura la partenza, che sto preparando un back-up di modo che, volenti o
nolenti, il 9 febbraio si sia su di un aereo. Per ora comunque un po’ di
riposo, dopo aver passato un bel pomeriggio a passeggio in una villa eclettica
che volevo da tempo visitare a fondo. Un saluto a tutti da Villa Blanc.
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