Trama prenatalizia,
con gli ultimi cinque libri dedicati alla collana “L’arte come romanzo”. Ribadisco
quanto già ho detto: una collana con alcuni spunti, ma complessivamente al di
sotto delle mie aspettative. Anche qui, su cinque si salva solo il libro su
Dora Marr ed il suo rapporto con Picasso. Gli altri galleggiano tra una quasi
sufficienza ed una insufficienza piena.
Luca
Romano “La vita di Pantasilea” Corriere della Sera Arte 20 euro 7,90
[A: 29/11/2016
– I: 24/06/2019 – T: 27/06/2019] - &&-----
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 392;
anno 2012]
Ma
domandiamoci pure che c’entra questo libro con l’assunto della collana? Si cita
Benvenuto Cellini in poche pagine scarse e senza costrutto. Si parla di tal
Marcello Corvini che forse, trenta anni dopo i fatti diventerà papa (e sarà
l’ultimo che utilizzerà il proprio nome, facendosi chiamare Marcello II). Si
parla, e molto, del sacco di Roma del 1527. Ma dov’è l’arte come romanzo? Boh!
Se invece ci asteniamo dal contesto, e
cerchiamo di leggerlo come un romanzo a sé, pur nella considerazione che non lo
avrei mai comprato, ha alcune parti che scorrono abbastanza. Altre meno, altre
per nulla. Quello che esce fuori di positivo è un abbozzo della vita romana del
1500, incluse le vicende papali e imperiali. Si vede la vita dei vicoli, specie
quelli dell’allora Borgo, mussolineamente distrutto ora. Si vede il castello
dell’Angelo, il Passetto, Ponte Sisto, l’odierna via di Panico, ed altre
bellezze centro-romane. Tra l’altro tutto centrato 426 anni prima della mia
nascita. Quando i Lanzichenecchi, aiutati da mercenari di varia nazionalità,
mettono a ferro e fuoco la città. Anche se in realtà, la storia narrata
comincia due mesi prima, quando una delle amanti di Benvenuto Cellini, la
giovane Pantasilea di Trastevere usciva dalla propria abitazione indossando un
lungo abito elegante di taffettà ricoperto da una mantellina turchese che
rivelava la sua condizione di cortigiana non ricca ma onesta, espressione che
allora voleva dire colta e di buon gusto. La giovane sospetta di essere incinta
e si avvia a pregare sulle reliquie di San Giuda, il santo delle cause disperate,
nella Basilica di San Crisogono. Per non finire reietta da tutti, una donna
senza onore, la sua speranza è di sposarlo. Ha messo da parte una dote quasi
sufficiente, anche se il giovane Benvenuto Cellini (all’epoca ha 26 anni)
sembra poco interessato a lei e al matrimonio. Anzi ha ceduto Pantasilea al suo
amico pittore, il Bachiacca, per una prossima festa fra amici alla Locanda
dell’Orso. Erano gli ultimi giorni del carnevale romano, ora più parco secondo
il volere del parsimonioso Clemente VII Medici e di quella “sanguisuga” del suo
camerlengo, il Cardinale Armellino. Il popolo romano abituato da sempre a
principi e a imperatori, non poteva certo immaginare che i barbari fossero alle
porte. Gli abitanti dell’Urbe non ci credevano, perché gli stranieri vanno e
vengono, “noi siamo qui da due-mila anni e ci restiamo”. I barbari “morti di
fame” di Carlo V acquartierati presso Bologna aspettavano solo un segnale per
vilipendere, offendere, brutalizzare qualsiasi pietra e abitante di questa
città considerata santa. Solo Brandano, il Cassandra di Roma, profeta di
sventura, aveva intuito che il pericolo era imminente. Mentre si dirige verso la
chiesa Pantasilea s’imbatta nella processione del cardinale Farnese, appena
uscito dal suo palazzo ancora incompiuto. L’emerito cardinale rimane colpito
dalle doti della cortigiana e, promettendole cento scudi d’oro, la invita a una
«cena» con un giovane chierico «che avrà un grande futuro nella Chiesa». Una
prospettiva allettante per Pantasilea, che deve completare rapidamente la sua
dote e sposare Benvenuto. Una prospettiva che, tuttavia, deve fare i conti con
l’esercito comandato da Carlo di Borbone che si avvicina inesorabilmente alla
città. Da qui tutta la storia contorta della vita delle cortigiane a Borgo, dei
rapporti tra Pantasilea e il futuro papa Marcello, e di questi con l’eretico
Brandano. Nonché una serie di richiami a presunti diari germanici delle truppe
in avanzamento e poi in Sacco di Roma. Pantasilea si salverà dal Sacco, e con
l’aiuto segreto di Marcello potrà ambire ad una vecchiaia serena. Corvini diventerà
papa. Brandano morirà quasi trent’anni dopo a Siena, in odore di santità.
Cellini, con i soldi avuti (o forse rubati) a papa Clemente VII, continuò la
sua carriera di orafo ed attaccabrighe, sino alla morte che avverrà una
cinquantina di anni dopo in quel di Firenze. Ma tutta la parte romanzata mi ha
lasciato freddino. Mentre ho trovato impagabili ed emozionanti, perché parte di
una grande fetta della mia vita, tutti gli squarci descrittivi: la piazza in
Agone (l’attuale Piazza Navona), la costruzione della chiesa della Santissima
Trinità, la gigantesca Fabbrica di San Pietro, la Fabbrica di palazzo Farnese e
Sant’Agostino nel rione Ponte, la Parrocchia preferita dalle cortigiane da
quando alcuni anni prima era stata sepolta Fiammetta, la famosa amante
cortigiana di Cesare Borgia. Insomma, un altro titolo di poco spessore per una
collana dal destino migliore.
“È male prendere una decisione sbagliata, ma
è peggio non prenderne alcuna.” (154)
“Chi è mal governato paga caro il
malgoverno, mentre chi governa male ne gode dei frutti e di rado ne patisce. I
mali del popolo sono interamente dovuti a governanti incompetenti o malvagi. E
non può governare onestamente chi allo stesso tempo conduce una vita disonesta.”
(e chi vuole intendere…) (237)
“Non è forse vero che … non esiste nulla di
più scandaloso, velenoso, odioso della corte romana?” (243)
Maurizio
Cohen “L’ombra di Artemisia” Corriere della Sera Arte 22 euro 7,90
[A: 13/12/2016
– I: 28/06/2019 – T: 29/06/2019] - &&--
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 330;
anno 2012]
Le
ultime letture della collana del Corriere stanno riservando delle sorprese
negative una dopo l’altra. Soprattutto perché poco si parla di arte, o solo di
sfuggita, o solo come pretesto per parlare d’altro. Qui troviamo Maurizio
Cohen, per altro anche regista e sceneggiatore, che, nelle premesse, sembrava
aver scritto un libro su di un interessante momento di arte, soprattutto
romana. Infatti, speravo, dal titolo, in un’opera che ritornasse sulla bella
figura di Artemisia Gentileschi, ed invece poco o nulla si parla dei suoi
quadri, e molto ci si sofferma sul processo per stupro. Mah! Quello che in
particolare mi ha disturbato è il fatto che, per l’appunto, Artemisia sia solo
un pretesto. Per parlare di un film che viene girato sulla prima pittrice donna
degna di questo nome (cioè del nome di pittrice). Poiché inoltre, parlare
d’arte in un film non è facile, l’attenzione dell’autore del libro e del
regista del film si concentra sull’episodio topico della vita di Artemisia
Gentileschi. Donna e pittrice in un mondo maschile, si fa abbindolare per anni
da un sodale del padre, che però è già sposato. Quando si ribella e lo accusa
di stupro, il processo sarà tutto volto a scandagliare la vita irregolare di
Artemisia, come era costume ed uso precipuo all’epoca. Non si parla dei
rapporti pittorici con il padre Orazio. Non si parla della frequentazione con
Caravaggio. Questo è il plot del film che la bella Jenny, alla sua prima
esperienza cinematografica si appresta ad interpretare. Jenny, attrice e donna
libera, che gira per Roma come tutte le donne dovrebbero fare, senza alcun
timore. Jenny che si sente attratta da Alain, tenebroso regista del film. Jenny
che pochi giorni dopo l’inizio della lavorazione del film, dietro piazza
Navona, viene stuprata da tre bellimbusti romani di buona famiglia. Mi ero
dimenticato di dire che Cohen alterna capitoli storici con Artemisia a capitoli
attuali con Jenny, cercando sempre di tirar fuori paragoni, similitudini,
somiglianze. D’altra parte, che la condizione della donna non sia migliorata di
tanto negli ultimi 400 anni non è che sia un mistero. In particolare, dal punto
di vista sessuale. È sempre lei che provoca, ed il maschio non può che
arrendersi alle schermaglie delle streghe dell’altro sesso. Cercando di
ottenere il proprio piacere, con le buone (poco) o con le cattive (purtroppo
più spesso di quanto sembri). Così assistiamo al parallelo del processo allo
smargiasso Agostino Tassi ed ai tre furbetti che hanno violentato Jenny. Ci
mette tempo e spazio, ma alla fine, il nostro scrittore ci fa arrivare alla
stessa conclusione. In entrambi i processi, la donna vince “de iure” e perde
“de facto”. Non entro nelle dinamiche “artemisiane” del post processo, del
matrimonio per fuggire, e di quant’altro succede alla nostra pittrice (che
altrove e meglio sono descritti). Citando solo l’unico tentativo indiretto di vendetta,
laddove, nel dipingere “Giuditta e Oloferne”, dà a quest’ultimo, decapitato, le
sembianze del Tassi. Nel presente di Jenny, che occupa poi stabilmente tutta la
seconda parte del libro, assistiamo alla “rinascita” dell’attrice dopo il buio
delle violenze. All’aiuto che Alain le fornisce, sia privatamente, sia decidendo
con lei di riscrivere la storia di Artemisia tutta ribasandola sulla violenza
verso le donne. E nel percorso di approfondimento, Jenny conosce altre vittime
dei tre cattivi e strafottenti (di cui non veniamo mai a sapere i nomi, ma i
soprannomi che ci fornisce Jenny, derivanti dal loro odore durante la violenza:
Whiskey, Sudore e Tabacco). Così Jenny conosce la storia di Michela e Caterina,
quest’ultima suicida dopo lo stupro subito e la conseguente non condanna di
Whiskey. Vediamo come il nuovo film sia accolto e con grandi onori. Vediamo
come Michela si trasformi nella Giuditta del quadro. Altro non accenno, avendo
già detto troppo. Ripeto, non capisco l’assunto di mettere un romanzo basato
sulla descrizione di un film che si basa sullo stupro di una donna, che incidentalmente
ha dipinto dei quadri, all’interno di una collana dedicata all’arte come
romanzo. Una collana in cui ci si aspettava narrazioni di pittori, di vicende
cromatiche ed altre amenità, vere o presunte. Laddove le ultime prove
continuano a battere sentieri vicini all’arte ma non, purtroppo, agli artisti.
Sinceramente speravo meglio. In ultimo, anche la scrittura di Cohen non è che
sia un fulmine di coinvolgimento. Certo, si vede la capacità da sceneggiatore.
Ma non sempre chi sceneggia ben romanza.
“L’amore è fatto di cose semplici che
diventano straordinarie e talvolta addirittura miracoli.” (292)
Osvaldo
Guerrieri “Schiava di Picasso” Corriere della Sera Arte 24 euro 7,90
[A: 02/01/2017
– I: 25/08/2019 – T: 27/08/2019] - &&&-
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 282;
anno 2016]
Il
critico teatrale de “La Stampa”, Osvaldo Guerrieri riporta ad un buon livello
una serie che ha vissuto alcuni momenti interessanti, ma anche tante prove poco
convincenti. Con un discreto occhio scenico, ci porta sul teatro della vita di
Picasso, visto e seguito attraverso una descrizione non puntuale ma ben
seguibile degli anni che il grande pittore visse in un rapporto difficile e
problematico con la fotografa croato-francese Henriette Theodora Marković, meglio nota con il suo nome d’arte Dora
Marr. In effetti, quello che seguiamo è il percorso di Dora, piuttosto che
quello di Pablo. E benché si respiri il profumo dell’arte, il romanzo è molto
sulle persone, anche se queste sono artisti (uso il plurale maschile solo per
comodità). Quando si incontrano Dora è appena uscita da un rapporto tormentato,
dolorosa, devastante con Georges Bataille, lo scrittore e filosofo teorico
dell’erotismo e della trasgressione. La scena iniziale, che poi ci darà tutto
il senso del libro e della vita di Dora, si svolge nel celebre caffè parigino
“Les Deux Magots”, dove Dora si accanisce in un gioco pericoloso: mette la
propria mano guantata a ventaglio e con un coltello inizia a pugnalare a
velocità sempre crescente lo spazio tra le dita. Ferendosi, a volte. Picasso la
guarda, e le viene presentato dal comune amico, il poeta Paul Eluard. Picasso
le chiede in dono il guanto, e le dà un appuntamento. Noi già sappiamo che il
focoso spagnolo è sposato con l’ucraina Olga, da cui ha avuto il primo figlio
Pablo. Ma l’ha anche lasciata, anche se non otterrà mai il divorzio, per
mettersi con la modella francese Marie-Thérèse Walter, da cui ha avuto una
figlia, Maya. Dora ha ventisette anni, ha un’interessante carriera di fotografa
ben avviata. Ma è attratta dal grande genio. Ed il grande genio è attratto da
tutte le donne, le vuole tutte, e le vuole tutte ai suoi piedi, ai suoi ordini.
Dora, rispetto alla sola bellezza delle altre conquiste, ha anche una testa,
permette a Picasso di confrontarsi con un altro da sé che non è solo supino ai
suoi piedi. Forse per questo, sempre più crudele si fa il suo gioco. Dora gli
trova una casa vicino alla sua, in Rue des Grands-Augustins. Lo frequenta, ne
viene sedotta. Ma quando Picasso dipinge la caccia in malo modo. E poi, per non
privarsi delle visite di Maya, consente a Marie di frequentare la sua casa, e
costringe Dora a fare da spettatrice ai propri tradimenti. C’è solo un momento
di grande arte, e di adesione alle idee della collana. Quando, e non torno sui
come ed i perché, fin troppo noti, a Picasso viene commissionato un grande
quadro per denunciare le stragi tedesche effettuate dalle incursioni aeree
tedesche in aiuto della rivolta del generale Franco. Vediamo la nascita e la
costruzione del grande quadro “Guernica”, che Dora vede nascere (anche perché
fa da modella ad una delle facce). Poi Dora riprende la macchina fotografica, e
comincia a scattare foto. Una documentazione fotografica della nascita di un capolavoro
che rimarrà unica nel suo genere. Ma oltre all’amore di Dora per Pablo (e non si
riesce mai a capire se Pablo ricambi o sfoghi solo la sua incontentabile
sessualità), c’è nel libro tutta la descrizione dei un’epoca, la Parigi tra la
fine degli Anni Trenta ed i primi Anni Quaranta. Ci sono i “cafè”, ed i loro habitué:
Paul Éluard, Jacques Prévert, Man Ray, Jean Cocteau, tanto per citarne alcuni a
memoria. Ci sono le fughe verso la Costa Azzurra, ritrovo della banda di amici,
dei pittori, dei fotografi, dei liberi costumi. E sempre in mezzo, con le sue tristezze,
le sue incomprensioni, le sue idee, le sue sottomissioni che “la madonna che
piange” (così la chiama Pablo). C’è Dora, che andrà fuori di testa quando, accantonata
Marie-Thérèse, e quando lei pensa dia ver campo libero, ecco affacciarsi
Françoise, che si accompagnerà a Pablo per una decina d’anni, dandogli altri
due figli (Paulo e Paloma). Dora invece entrerà in cura da Lacan, e ne uscirà.
Anche discretamente. Visto che alla fine è l’unica donna che sopravvivendo a
Picasso, non finirà per togliersi la vita (a parte la prima moglie Olga, morta
di cancro). Così farà Marie-Thérèse a 68 anni, così farà Jacqueline, la seconda
moglie, a 60 anni. Picasso, lasciandola, le regala una casa in cui vivere e dei
quadri, che Dora conserverà per tutta la vita, fino alla morte avvenuta nel
1997, a 90 anni. E fino alla fine, a chi le chiedeva conto, lei ripeteva il suo
mantra: “Non fui l’amante di Picasso. Lui era il mio padrone.” Per questo Guerrieri
giustamente qui ci parla della “schiava”. Guerrieri ci ha fatto fare un bel
viaggio, mi ha fatto ritornare in angoli della mia amata Parigi che ricordavo
ma non veniva più fuori. Non si parla molto di arte, e si parla molto d’amore.
Forse sono l stessa cosa.
“Non ci fu mai rottura, anche se lei gli ripeteva:
‘Sarai pure un grande artista, ma come uomo sei una merda’. … E Picasso non
faceva che dirle: ’Non puoi lasciarmi, nessuna donna lascia Picasso’”. (261)
Antonio
Forcellino “Raffaello. Una vita felice” Corriere della Sera Arte 31 euro 7,90
[A: 21/02/2017
– I: 11/09/2019 – T: 22/09/2019] - &&
+
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 284;
anno 2006]
Speravo finalmente
in un lavoro che, seppur romanzato, portasse acqua al mulino di un libro che
facesse dell’arte una chiave di volta del racconto. Purtroppo, Forcellino,
sicuramente mi si dice grande conoscitore dell’arte in genere e cultore del
periodo gravitante intorno al 1500, non riesce a fornire una prosa scorrevole,
un ritmo accattivante. Insomma, il libro si legge, è foriero di molte notizie,
e di sicuro è analiticamente preparato sulla genesi e sul testo stesso
dell’opera raffaelliana. Ma se questo doveva essere un’opera divulgativa, con
l’intenzione di aprire anche agli ignoranti come me le porte del mistero del
grande urbinate, devo dire che ha fallito sicuramente il compito.
Probabilmente, chi già sa di Raffaello, della sua vita e delle sue opere,
riesce a seguire meglio di quanto abbia fatto io il percorso personale ed
artistico del pittore. Anche perché, idealmente, il libro si colloca mediano
nella trilogia dedicata ai tre grandi che svoltarono quel quindicesimo
centenario. Preceduto da “Michelangelo. Una vita inquieta” e chiuso da
“Leonardo. Genio senza pace”. Ricordo ai meno attenti, che Leonardo (anzi Leonardo
di ser Piero da Vinci) nasce nel 1452 e
muore nel 1519, e Michelangelo (Michelangelo di Ludovico Buonarroti) nasce nel
1475 e muore nel 1564. Raffaello Santi (nome poi storpiato in Sanzio, data l’abitudine
del pittore di firmare le sue opere alla latina come “Sancti”) nasce in Urbino
il 28 marzo 1483 (Venerdì Santo) e muore a Roma il 6 aprile 1520 (altro Venerdì
Santo). Già in questa concordanza, l’autore avrebbe potuto trarre elementi di
risonanza e di incroci cabalistici. Ma ciò non avviene, come non avviene un
disvelamento di quanto le sue opere siano spesso state commissionate da donne e
signore in genere. Che Raffaello era notoriamente un bel giovane, e sicuramente
dedito a coltivare buoni ed intimi rapporti con l’altro sesso. Contrariamente a
Leonardo, che si dice preferisse i giovani (e come si sa “non sono note
relazioni di Leonardo con donne, non si sposò mai, non ebbe figli”) o a
Michelangelo, che rimase austero per tutta la vita, sostenendo che le fatiche
amorose, in ogni senso, lo privavano della forza di affrontare la sua arte
(alcuni dicono tra l’altro che fosse affetto dalla sindrome di Asperger). Ma
qui, sebbene passino e si vedano gli altri due grandi, ci si deve dedicare a
Raffaello. Tuttavia, io, dal testo, non sono riuscito a seguirne bene né i
movimenti, né le motivazioni. La madre muore che lui ha due anni, e non la
ricorda. Il padre quando lui ne ha undici, e quindi si, il padre, pittore
affermato, qualcosa gli ha di sciuro tramandato, ma non ha certo potuto avere
gli influssi attribuitigli. Certo, rimane nella bottega paterna (cioè messa su
dal padre) sino ai 16 anni, e lì apprende i rudimenti dell’arte che poi
dispiegherà in maniera potente. Ed è probabile che molto ci fosse di un “dono”
suo personale, anche quando passa a bottega dal Perugino. Conscio delle sue
capacità, ha anche un altro elemento positivo. È capace di metterle a frutto,
di sfruttare tutte le occasioni, e di sbaragliare sul campo i suoi avversari.
Quando sa della presenza di Leonardo e Michelangelo a Firenze, nel 1504,
abbandona le Marche e l’Umbria e lì si presenta per capire i grandi, e
sfruttare le sue capacità. Ovviamente, con una lettera di presentazione firmata
da una donna, Giovanna da Montefeltro. Lo stesso avverrà 4 anni dopo, che,
capendo ormai il centro dell’arte gravitasse su Roma, sempre con i buoni uffici
di Giovanna, e della di lei famiglia (che sposò un Della Rovere), lì si
trasferisce, ottenendo, in virtù ovviamente delle sue capacità, prima una parte
poi l’intera gestione delle “Stanze Vaticane” devote alla celebrazione del Papa
Giulio II. Nella grande arena romana avrà modo poi di dispiegare tutta la sua
arte, financo intervenendo, dopo il Bramante, nella Basilica di San Pietro. Non
intendo addentrarmi oltre in questa disamina, sia perché meriterebbe la
capacità almeno di mio cugino Alessandro per farvi capire quanto sia avvenuto
in Vaticano, sia perché vorrei tornare a Forcellino. Terminando con il notare
come la morte del trentasettenne pittore, secondo le fonti note, avvenne in
seguito ad un sovraccarico di gesta amorose che lo avevano talmente prostrato
da lasciarlo senza forze, anche perché la forte febbre venne curata da ingenti
salassi che ho il sospetto ne accelerarono la fine. Dicevo Forcellino riesce,
questo bisogna senza dubbio ammetterlo, a costellare la narrazione non lineare
che ho cercato brevemente di riassumere, con la descrizione delle opere che
hanno punteggiato tutti i momenti della vita di Raffaello. E poiché Forcellino
è di sicuro un acuto conoscitore del periodo, riesce a descrivere queste opere
con l’occhio acuto del critico. Ma sono tante, a me si confondevano l’una via
l’altra, non riuscendo a tenere il conto delle Madonne, delle Pale, e poi anche
dei palazzi e delle ville. Troppi dati generano rumore, questo mi disse un mio
mentore informatico. Qui il rumore copre quella che sicuramente è stata una
vita felice, piena di successi, piena di affermazioni, piena di donne. Una vita
piena. Ma Forcellino non riesce mai a farmi capire se sia stata anche una vita
appagante per Raffaello. Era questo che voleva? Era questa la gloria, la fama,
cui ambiva? Come erano i suoi “giorni felici”? Mi è mancata questa parte della
vita di Raffaello, lasciandomi alla fine più curioso che soddisfatto.
John North “Il segreto degli ambasciatori”
Corriere della Sera Arte 33 euro 7,90
[A: 28/02/2017 – I: 22/11/2019 – T: 30/11/2019] - &&---
[tit. or.: The Ambassadors’ Secret: Holbein and the World of the Renaissance; ling. or.: inglese; pagine: 380; anno 2002]
Con quest’ultimo libro abbiamo quindi finito
il lungo viaggio attraverso due espressioni artistiche che in genere fanno
funzionare i miei pur pochi neuroni. Il romanzo, espressione che tutti sanno
essere tra i miei interessi di punta, e l’arte, che conosco solo di pancia, e
che mi sembrava interessante poter esplorare meglio. Purtroppo, la collana non
sempre ha risposto alle attese. Ci sono stati, nevvero, libri interessanti ed
anche coinvolgenti, dove peraltro ci sono state molte, troppe prove al di sotto
delle aspettative. Non è un caso, allora, che anche quest’ultimo si collochi
nel solco negativo delle prove non esaltanti. Non perché in premessa non avesse
un suo input di curiosità. Anche per quel sotto titolo che riporta “La nuova
interpretazione di uno dei grandi enigmi della pittura”. È un peccato tuttavia,
che non sia stata riportata nel titolo la menzione all’autore, ed al mondo in
cui si è sviluppato il quadro, così come sapientemente riportava il titolo
inglese: “Holbein ed il Mondo del Rinascimento”. L’autore era uno storico delle
scienze inglese (era in quanto ci ha lasciato una decina di anni fa), che si è
occupato nella sua lunga carriera accademica di matematica, filosofia,
politica, economia nonché astronomia. Usando molti dei suoi dotti studi, nella
massa dei suoi variegati scritti, qui si è dedicato ad un quadro e ad un
periodo storico. Il libro, molto denso devo dire, ha una sua prima parte
discretamente interessante, in cui si diletta nel narrarci del tempo della pittura,
dell’autore e dei personaggi rappresentati. Purtroppo, questa parte, anche
discretamente agile, viene poi annegata in una lunga e senz’altro dotta e
documentata disamina di ogni minimo particolare del quadro, al fine di arrivare
a quanto promesso dal sottotitolo italiano. Tuttavia, annegando il tutto in
molte parti tecniche, questo benedetto segreto alla fine esce fuori un po’
malconcio. Il quadro viene dipinto nel 1533, ritraendo, a grandezza naturale, Jean
de Dinteville, ambasciatore di Francesco I di Francia, ed il suo amico Georges
de Selve, vescovo di Lavaur, recatosi a Londra in visita in quel periodo. Per questo, il quadro prende
nome de “Gli Ambasciatori”, uno, il Dinteville, della corte francese, l’altro,
il de Selve, della corte papale. Holbein, facendo un passo indietro, è un
pittore che nasce ad Augusta, nell’Impero Germanico, lavora molto a Basilea,
per poi trasferirsi definitivamente a Londra, dove muore a 47 anni. Si intuisce
subito che il quadro non può che contenere anche accenni al momento politico e
religioso che l’Europa sta attraversando, essendo quegli gli anni dello scisma
religioso inglese, con il re Enrico VIII alla testa del protestantesimo, sulla
scia delle dottrine luterane coeve. Tra l’altro Holbein, in Svizzera, era stato
sodale di Erasmo da Rotterdam, cui fece un famoso ritratto. Perché, per
l’appunto, Holbein è fondamentalmente un ritrattista, e molti dei suoi quadri
rimastici propongono cortigiani, proprietari terrieri, dotti, ed altre figure
storiche (mentre pare sia andato perduto il suo ritratto di Anna Bolena).
Quello che intriga, al di là della pesantezza del testo, è poi tutto quanto è
rappresentato tra i due ambasciatori. Strumenti astronomici, quadranti, libri
degli inni, un crocifisso, un liuto con una corda spezzata, un libro di calcolo
aperto sulla pagina della descrizione di come effettuare una divisione, un teschio
anamorfico. Senza entrare nella lunga e penso esatta disamina di North, il
risultato della sua analisi (e di alcuni altri autori sulla sua scia), è
interessante. Una serie di elementi astronomici fa collocare il tempo del
quadro all’11 aprile 1533, il Venerdì Santo. Di certo un simbolo, visto che si
colloca esattamente 1500 anni dopo il Venerdì Santo della Passione di Cristo.
Non solo, tutta un’altra serie di elementi descrivono una configurazione
celeste con un’altezza solare di 27°, praticamente la stessa della prima Pasqua
cristiana. Inoltre, il 27 ricorre in molti punti del quadro stesso. Ad esempio,
ponendosi a 27° lo spettatore sarebbe in grado di ricostruire il teschio alla
base del quadro nelle sue esatte fattezze. Poi, 27 è, secondo l’iconografi
cattolica, tre volte la Trinità. Con il Crocifisso che si pone al centro del
quadro, a simboleggiarne una possibile unione tra politica e religione,
contraddetta dal liuto con la corda spezzata, simbolo della discordia. Un
ultimo elemento è il mappamondo rappresentato, che indica a chiare lettere dove
verrà collocato il quadro, cioè a Polisy (espressamente dipinta) luogo natio di
Jean de Dinteville, ma il quadro astrale è spostato su Roma, intendendo forse
la centralità. L’analisi di North poi si addentra in altri segni misteriosi: la
presenza di un esagramma che unisce una serie di simboli. E l’esagramma è
simbolo sia giudaico (la stella di David) sia cristiano (la stella della
Creazione). Infine, c’è il pavimento del quadro che riproduce il pavimento
dell’abbazia di Westminster. Devo dire, che dopo l’iniziale interesse al
contesto storico, il trasporto mentale per capire le capacità pittoriche di
Holbein, tutta l’ultima parte, pur contenendo elementi
geometrico-matematico-astronomici interessanti, è di un tale tecnicismo che
alla fine fa perdere di vista il famoso segreto. Il cosiddetto messaggio che
Holbein, secondo North, voleva inviarci. Io ho ritenuto a mente tanti
particolari, ma alla fine mi sono perduto al quanto. Comunque, la prossima
volta che andrò a Londra, cercherò di visitare la National Gallery per vederlo dal
vivo.
Non so se riuscirò a produrre altre trame per
questo 2019 intenso di tanti piccoli avvenimenti. Si preparano viaggi a medio e
lungo raggio, per iniziare anche il nuovo decennio all’insegna di letture e
viaggi. Che come mi ha etichettato un vecchio e gradito regalo. “Chi legge è un
viaggiatore”.