domenica 1 marzo 2020

Scritture femminili - 01 marzo 2020


Stefania Auci “I leoni di Sicilia” Editrice Nord s.p. (regalo de “I Floridi”)           
[A: 07/05/2019 – I: 14/10/2019 – T: 17/10/2019] - &&& e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 437; anno 2019]
Questa lettura nasce da una duplice congiuntura favorevole. Da un lato, il gradito regalo della famiglia di Alessandra per il mio ultimo compleanno (insieme ad un'altra ingente mole di libri), dall’altro la necessità, ogni tanto, di leggere qualcosa anche di appena uscito e di ben accolto dal pubblico. Questo libro, sulla storia della nascita della leggenda della famiglia Florio ne risulta un esempio esimio. L’autrice, una vera siciliana come direbbe il mio amico Franco, ha preso, legato, imbastito, supposto, ed infine steso una storia discretamente avvincente, scritta con grande proprietà (rispetto dei tempi, anticipazioni ma non troppe per non rovinare possibili suspense, sufficiente scorrevolezza) riuscendo ad irretirci nelle vicende della nascita di una leggenda siciliana: la famiglia Florio. Certo, per il mio immaginario personale, il nome Florio è legato a due elementi ben lontani, anche se uno vicino a questo libro. Il mio sodale Massimo Florio, che frequentai assiduamente negli anni ’70, ora esimio professore di Scienza delle Finanze, per sempre, anche se orami solo nei ricordi, legato a Mario, a Corradino, a Franco, ed ovviamente a Luciano. L’altro elemento è sportivo, la ben famosa “Targa Florio”, una delle più antiche corse automobilistiche italiane, istituita nel 1906 da un discendente della famiglia di cui stiamo parlando (Vincenzo, uno dei figli maschi di Ignazio Florio), e che, pur mutando nome ed aspetto (ora si chiama “Rally Targa Florio”), si corre tuttora. Ma qui si sta divagando, perciò torniamo al libro, ai Florio, ed alla scrittura. Le vicende della famiglia, in generale, sono discretamente note, anche se qui seguiamo la prima metà della storia dei Florio. Un impero che durò più o meno 140 anni, e di cui seguiamo i primi 70. Dalla partenza nel 1799 dalla natia Bagnara (non ancora Calabra, toponimo che assumerà solo dopo l’unificazione italiana per distinguerla da Bagnara di Romagna; ricordo ai non attenti conoscitori, che Bagnara Calabra si rammenta per aver dato i natali a Lucio Villari, grande storico, ed alle sorelle Bertè, grandi cantanti) fino alla morte, nel 1868, di Vincenzo, il vero artefice dell’ossatura della grande casa Florio. I Florio, come molti “bagnaroti”, avevano nel sangue la navigazione (forse dovuta all’origine fenicia del luogo), ed il commercio. A causa di terremoti, che spesso funestano la zona (non ci scordiamo quello devastante del 1908 su Messina e dintorni, che poco dista da Bagnara), Paolo Florio decide di prendere la moglie Giuseppina ed il fratello Ignazio, e trasferirsi a Palermo, dove avevano aperto una piccola bottega di rimedi medicali. La storia pubblica e privata della famiglia si intreccia bene nelle parole dell’autrice. Vediamo Giuseppina che non accetterà mai il trasferimento siciliano, che avrà sempre il dolore di essere sposata con Paolo ma di voler bene ad Ignazio (un amore che non sboccerà mai). Vediamo Ignazio che ben presto dovrà prendere le redini del gioco, data la prematura morte del fratello ed essendo il piccolo Vincenzo di soli 8 anni senza ancora la possibilità di inserirsi. Ignazio metterà le basi della famiglia, e farà da padre a Vincenzo. Sarà lui a costituire la prima generazione dei Florio, quella che inizia vendendo chinino ed altri medicinali, e pian pianino comincia ad allargare le proprie iniziative. Alla morte di Ignazio, vediamo crescere ed approfondirsi il ruolo di Vincenzo, uno che vuole e quando vuole ottiene. Vuole Giulia, la figlia dei milanesi venuti in Sicilia per clima ed affari. E la prende, ne fa l’amante, e comincia a far figli con lei. Anzi, figlie. Che quando arriverà il maschio, Ignazio jr lui Giulia la sposa anche contro tutte le macchinazioni materne. Sarà un amore duro, ma è uno di quegli amori che sostengono la coppia, nel bene e nel male, per sempre. Questa è la parte centrale, anche del rapporto pubblico-privato. Che ora l’impero Florio si allarga sulla seta, sul tonno, sul marsala, e su tante altre attività industriali. Ma si deve anche scontrare con il clima esterno. Prima con i moti del ’48, poi con la repressione borbonica, infine con i garibaldini e l’annessione al Nord Italia, avvenimento che i siciliani non digeriranno mai. Comunque, c’è anche il rapporto tra i Florio, ricchi e capaci di gestire nell’ombre (e poi anche alla luce del sole) le fila della vita palermitana, e gli aristocratici che mai accetteranno la presenza ingombrante dei “facchini di Bagnara”. Anche quando Ignazio jr sposa la nobile Giovanna D’Ondes Trigona, ed Ignazio jr dopo sarà la terza ed illuminata generazione dei Florio, quella dell’acquisto delle Egadi e dei cantieri navali. Ma già si è alla fine del libro, e si pensa anche che ce ne possa essere una seconda parte, dedicata alla caduta della dinastia. Per ora, il libro prende, la scrittrice ben si comporta nella scrittura. Forse un filo di intreccio maggiore tra pubblico e privato, soprattutto nell’ultima parte verso il Regno d’Italia non avrebbe guastato. In ogni caso un libro che non dispiace leggere. In special modo a chi, in ogni caso, ha la Sicilia vicino al cuore.
[A: 28/08/2017 – I: 18/10/2019 – T: 26/10/2019] - &&& 
[tit. or.: Hotel Florida. Truth, love and death in the Spanish Civil War; ling. or.: inglese; pagine: 482; anno 2014]
Era un ovvio regalo per Alessandra, che, altrettanto ovviamente, ho chiesto di leggere per quell’accenno ad un albergo madrileno dal nome prefigurante. Sembra inoltre un possibile interessante intreccio con l’accattivante sottotitolo italiano. Peccato appunto che sia un’invenzione degli editor italiani, che, correttamente, il titolo originale parla di “Verità, amore e morte nella Guerra Civile Spagnola”. L’autrice si era già cimentata in biografia immerse nel corso della storia, piccola o grande che sia. Qui affronta una problematica non semplice, comunque sorretta, e questo è un grande merito, da un forte e sostanzioso corredo bibliografico, anche con fonti inedite, cosa che non guasta, nel tentativo di portare qualche nuovo sassolino nel marasma di un periodo storico complesso e controverso. Questo porta ad affrontare un compito leggermente più arduo del previsto, così che non escono fuori né le “storie d’amore”, né, compiutamente, le “storie di guerra”. Intanto l’Hotel Florida entra di striscio nella storia, e non si capisce bene perché sia stato preso ad emblema nel titolo. Vero è che i protagonisti ci transitano, ma il 90% del libro si svolge altrove. La difficoltà, del lettore e della scrittrice, è seguire i due filoni narrativi, delle storie d’amore e del loro intreccio con la guerra civile, senza perdersi in tanti rivoli. Una difficoltà non sempre ben gestita. Alla fine, ed è vero, seguiamo le avventure di tre coppie nel periodo turbolento dal 1936 al marzo del 1939. La prima, e la più tragica, è quella composta da Gerda Taro e Robert Capa. Che non si chiamavano così, essendo lei tedesca ed ebrea, nata Gerta Pohorylle, e lui ungherese, nato come Endre (André) Ernő Friedmann. Diciamo che questa scoperta è stata forse la miglior sorpresa che mi ha offerta il libro. Lui fotografo in crescita di 23 anni, lei spirito libero e pronto ad ogni iniziativa di 26, si conoscono a Parigi, si innamorano follemente. Sarà Gerda a portare Capa su di un filone fotografico che poi Robert svilupperà alla grande, diventando il magistrale fotografo che noi conosciamo, nonché il fondatore con Cartier-Bresson ed altri della famosa agenzia “Magnum”. Lei è già vicina alla sinistra di opposizione a Lipsia, dove viveva, e con la crescita del nazismo decide di emigrare in Francia. Lì conosce Robert, costituiscono un sodalizio bellissimo di amore e lavoro, ed allo scoppio della Guerra Civile Spagnola è lì che vanno. Fotografano, documentano, saranno loro le testimonianze forti anche del pesante intervento italo-tedesco a favore delle milizie di Franco. Finché nel ’37 Gerda viene travolta da un carro armato, e muore (penso che ne leggerò nel libro della Janeczek). Robert è distrutto, ma per lei e nel suo ricordo, continuerà a favore il fotografo di guerra, sino a morire in Indocina nel ’54 calpestando una mina. La seconda è anch’essa di nazionalità mista. Da un lato Arturo Barea, sindacalista e giornalista spagnolo, che allo scoppio della guerra, con il primo matrimonio in crisi, per le sue conoscenze linguistiche, viene inserito nell’ufficio dei censori della stampa estera a Madrid. Dove passano e conosce tutte le persone importanti che si affacciano sul territorio spagnolo. Da John Dos Passos a Ernest Hemingway, da Willy Brandt a tal Eric Blair (poi meglio noto come George Orwell), da Kim Philby a Robert Capa. Ad aiutarlo arriverà una volontaria austriaca, conoscitrice di un numero imprecisato di lingue, tale Ilse Kulcsar (nome del marito da cui si stava separando). Tra i due nasce un’intesa forte, di lavoro prima e di vita poi. Tanto che si sposeranno nel 1938, e riusciranno a fuggire dalla Spagna subito dopo, prima in Francia e poi in Inghilterra, dove Arturo, dedicatosi alla scrittura, morirà nel ’57. La terza, ovvio, è formata da Hemingway e dal suo nascente amore, Martha Gellhorn. Lo scrittore era ancora sposato con Pauline Pfeiffer, ma era insofferente della vita a Kay West, non riuscendo a trovare spunti che rinverdissero i passati successi. A Key West, in un bar, incontra Martha, di dieci anni più giovane. Amore a prima vista, ma irrealizzabile lì in America. Per questo, e per opposti motivi (Martha era spinta anche da un vento di sinistra che Hemingway in realtà solo subodorava), si trovano in Spagna, a seguire le vicende della Guerra. Com’è come non è, tra alti e bassi, e spesso al seguito delle paturnie (e delle bevute) dello scrittore, i due si troveranno sempre più spesso insieme. Tanto che vivranno, lontano dall’America, per 4 anni, per poi sposarsi, dopo il divorzio da Pauline, nel ’40. Matrimonio che durerà fino al ’45, visto che il burbero Ernest mal supporta l’indipendenza di Martha. Intanto, e qui ne viene narrata parte della storia, attraversano i difficili momenti spagnoli, dove Hemingway troverà un nuovo guizzo artistico, che lo porterà alla scrittura del suo capolavoro “Per chi suona la campana”. La Vaill riesce, anche se bisogna molto leggere tra le righe, a farci altri spunti di riflessione, questa volta più politici: la posizione di Stalin a favore dei Repubblicani, ma fino ad un certo punto, laddove i servizi segreti russi usano la guerra anche sul fronte interno per far piazza pulita dei trotzkisti, i conseguenti difficili rapporti tra comunisti e anarchici, che portano a lotte intestine devastanti, il neutralismo colpevole di Francia ed Inghilterra. Insomma, un grande affresco, forse troppo grande per un libro solo. Qui vorrei fermarmi, rilevando ancora la difficoltà di seguire un testo presupposto romanzesco che diventa presto storico. Che quindi mi è piaciuto leggere, ma da cui mi aspettavo altro e meglio. Finisco con due notazioni. Una vedendo passare la Brigata Garibaldi dei volontari italiani, con Pacciardi e Nenni. L’altra per rilevare una imprecisione, laddove, a pagina 122 si parla “della romanziera cattolica e conservatrice Evelyn Waugh”, che ovviamente tutti sanno essere “UN” romanziere, e precisamente Arthur Evelyn St. John Waugh.
“Ho paura se penso alle centinaia di migliaia di persone che vivono ancora in pace in altre parti del mondo [rispetto alla Spagna n.d.r.] e un giorno potrebbero andare incontro allo stesso destino [scappare a piedi, trascinandosi valige e fagotti n.d.r.]” (386)
Helena Janeczek “La ragazza con la Leica” Guanda s.p. (prestito della signora Laura)            
[A: 23/09/2019 – I: 27/10/2019 – T: 30/10/2019] - &&& -- 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2017]
Avendo appena finito di leggere “Hotel Florida” che parlava di Guerra Civile Spagnola e di varie coppie che vi giravano intorno, tra cui, per l’appunto Robert Capa e Gerda Taro, mi sono gettato subito su questo prestito che volevo capirne di più, avendo fresche le notizie sui personaggi. Un romanzo della tedesca-ebrea di famiglia polacca che da trentacinque anni vive in Italia, e che scrive i suoi testi ormai in un fluente italico. Inoltre, questo testo ha vinto il Premio Bagutta, il Premio Selezione Campiello ed il premio Strega nel 2018. Motivo quindi per capire se i premi italiani hanno ancora una loro ragion d’essere (visto che abbiamo parlato assai del Premio Nobel e prima o poi parleremo anche di altri premi esteri). Alla fine, ne esco con un sentimento misto. Di certo una bella scrittura ed un romanzo intrigante, anche se non lo trovo particolarmente ben riuscito. Ne ho seguito le tracce proprio perché fresco della scrittura di Amanda Vaill, così che sono riuscito a colmare i passaggi letterari con le reminiscenze storiche. Dicevo romanzo, che romanzo e non biografia è, anche se alla fine quello che ne esce è “un” ritratto della fotografa austriaca morta in Spagna travolta da un carro armato nel luglio del 1937 a 27 anni. Perché Helena decide di parlarci di questa “ragazza” degli anni Trenta, mai direttamente (o quasi), ma attraverso racconti che passano per il filo della memoria di persone a lei vicine. Non il suo grande ultimo amore, quel André Endre Ernő Friedmann con cui inventò lo pseudonimo di Robert Capa, e con il quale mise le basi dei reportage fotografici di guerra. Dove lei morì a Brunete nel ’37 e lui a Thai Binh in Vietnam nel ’54. Ma attraverso le voci ed i ricordi di due uomini, una donna ed un epilogo di coppia. C’è Willy Chardack, detto il Bassotto, ora cardiologo e per breve tempo quasi fidanzato di Gerda, prima che lei si rifugiasse a Parigi ed incontrasse André. Con Willy c’è più che altro il rimpianto (Suo) di non averla capita, anche perché, almeno la mia sensazione, è che sia stato come un momento di passaggio tra l’intenso Georg e l’immenso André. C’è il lungo (temporalmente) fidanzamento con Georg Kuritzsek, quello che l’aveva dischiusa ad una vita che già si preparava in lei, che le aveva mostrato, con il suo esempio e la sua famiglia, la libertà di essere vivi (la madre Dina ebbe una storia con Lenin) e la volontà di essere sempre dalla parte giusta. Ora Georg è un funzionario della FAO, vive a Roma, e incontrandosi con il partigiano e fotografo Mario Bernardo, ripensa a quegli anni tedeschi e spagnoli con Gerda. Alla Lipsia che videro insieme, a quando si lasciarono, al suo rifugio in Italia per studiare, dove per due lunghe settimane lo raggiunge Gerda. E lui la rivede anche lì, nella sua Roma, nella sua Napoli. Per poi l’ultimo incontro in Spagna, lui arruolato nelle Brigate Internazionali, lei sempre a fotografare e documentare gli avvenimenti spagnoli. C’è l’amica del cuore, almeno per lunghi periodi, Ruth Cerf. Quella che andava nella stessa scuola. Quella che con lei va a Parigi. Quella che, alla morte di Gerda, troviamo che mette (o cerca di mettere) ordine nei negativi delle tante foto di Robert e Gerda. Quella dalle cui parole esce la Gerda quotidiana, più che la fotografa sui campi di battaglia (che Ruth non ha visto). Poi ci sono altri “comprimari” delle scene soprattutto parigine. I coniugi Stein, che ospitano Gerda quando questa viene sfrattata. E soprattutto Emerico Imri Weisz detto “Csiki”, colui che gestiva la camera oscura dell’atelier Capa a Parigi e che, con vicissitudini incredibili, riesce a salvare una cassetta di rullini, ritrovata pochi anni fa in Messico. Da questi rullini nasce quell’incipit fotografico che per me è la parte migliore di tutto il testo. Quello in cui Helena si focalizza sulla foto di Gerda e Robert seduti ad un tavolino di un caffè parigino. Ce ne fa vedere il sorriso, ne analizza i tratti portandoci a seguire, attraverso sorrisi e mosse (in effetti le foto sono due in sequenza, e scattate da Fred Stein), il filo dei pensieri. Facendoci anche ragionare su come la foto sia altro da quello che rappresenta. Un momento congelato, che alla fine ha poco da relazionarsi con la vita del soggetto rappresentato (con buona pace di tutti i maniaci dei selfie). Prima di concludere mi devo scusar con Helena, che per lunghi tratti mi sono innervosito nel fatto che la nostra ragazza venisse sempre chiamata Gerda, finché, nelle righe finali, lei stessa spiega che ha scelto di usare lo pseudonimo, e non il vero nome Gerta, perché era quello che Gerta Pohorylle preferiva. Ed infatti, per noi, per tutti, sarà solo Gerda Taro. Alla fine, di certo un bio-romanzo gradevole, da cui mi aspettavo di più, e che sono contento di aver letto dopo il libro della Vaill, così che ne ho potuto cogliere meglio riferimenti e passaggi. Due minuscole precisazioni: il Circo Massimo veniva usato ben prima di Giulio Cesare per le corse con le quadrighe, Giulio Cesare fu solo colui che fece costruire gli spalti in marmo. Sarebbe stato meglio indicare la via del Pigneto dove si aggira Georg come “via Ettore Giovenale” (ricordo che fu location di film di Pasolini), e che ricorda uno dei condottieri della disfida di Barletta. Indicandola solo con Giovenale, si può confondere con la piazza, dedicata invece al poeta romano.
[A: 17/10/2019 – I: 18/12/2019 – T: 21/12/2019] - &&&+    
[tit. or.: Changer l’eau des fleurs; ling. or.: francese; pagine: 473; anno 2018]
Eccoci allora nelle nuove nervature di lettura, quelle che dirazzano dall’andamento storico arcaico delle mie solite letture. Anche sotto la spinta di suggerimenti, graditi, apprezzati, e spesso seguiti con tanto di ringraziamento dovuto. Così entra ad ottobre ed esce a dicembre questo gradevole libro di una scrittrice francese che mi era ignota, ma che sentivo dal nome avere delle risonanze che non riuscivo a collocare. Che finalmente ho dispiegato leggendo nel risvolto di copertina essere l’attuale moglie di Claude Lelouch. Ah, ecco da dove mi suonava. Ed anche il libro, alla fine, assume un’aria dorata e trasognata che rimanda, alla lontana e con qualche eco soltanto, alle atmosfere di “Un uomo, una donna”. Mentre risuona “chabadabada”, ci immergiamo nella vita e nelle vicende di Violette Toussaint. Che incontriamo mentre svolge il suo di certo non allegro lavoro: guardiana nel piccolo cimitero di Brancion-en-Chalon in Borgogna. E subito ci sentiamo ematica con la sua vita. Pulisce le lapidi, cura ed innaffia le piante, ha un contorno di lavoranti alle tombe con parroco che ci tengono il cuore caldo. Ed ha tante piccole manie: due abbigliamenti (il triste “inverno” per le occasioni serie, il solare “estate” per i suoi momenti solari), trascrive i discorsi funebri per tenerne memoria, tiene un diario dove registra tutti i suoi avvenimenti, pubblici e privati. Come leggendo la storia scritta in una matrioska, incalzata da eventi esterni, Violette disvela lentamente la sua vita. Iniziando a farci percorrere un torrente in piena che non riusciamo più ad arrestare. Scopriamo così che Violette è figlia di ignoti, dopo aver fatto diversi lavori, sta passando verso l’adolescenza come barista. Nel locale incontra l’affascinante Philippe, di cui si innamora. Lui, attratto dalla strana ragazza, la intortora, la sposa, gli è spesso infedele, va e viene sovente lasciandola sola. Poi Violette rimane incinta e nasce Leonine. In quel tempo Violette e Philippe lavorano come guardiani di un passaggio a livello. Cioè, Violette lavora e Philippe fa quello che gli pare. Poi, le ferrovie chiudono, Violette accetta il posto di guardiana del cimitero, Philippe sparisce dalla sua vita. Ed è qui, al cimitero, dopo che l’autrice ci ha lasciato un po’ gironzolare per capire l’atmosfera, comincia il ballo delle agnizioni. Perché Philippe è sparito? Perché non si parla di Leonine? L’arrivo di un nuovo personaggio mette tutto in subbuglio. Il poliziotto Julien Seul cerca la tomba dell’avvocato Prudent, che la madre, morendo, gli ha chiesto di posare le sue ceneri accanto a quelle dell’avvocato. Solo a questo punto scopriremo i segreti di Violette. Ma anche di Gabriel e della signora Irène. Scopriremo le complicate vite di tutte le persone che gravitano intorno al cimitero. E soprattutto, io faccio il tifo affinché Violette riesca ad addomesticare i propri demoni. Ora, non è che lei sia tutta rose e fiori, certo a volte pecca di qualche debolezza ed insicurezza, in particolare, per il mio modo di essere, è carente nel fare domande per avere risposte. A volte fare lo struzzo è comodo, ma alla lunga non paga. Valérie, in ogni caso, riesce, variando anche la scrittura, a non cadere nel banale. Le epigrafi che mette ad ogni capitolo, come fossero le lapidi del cimitero sono impagabili. Le commemorazioni funebri di Violette anche. La storia di Irène e Gabriel bellissima, e non ne dico altro. Anche Julien, con tutto il suo poliziottesco andamento, risulta gradevole e gradito. Come si spera lo sarà suo figlio Nathan. E che dire della musica che Violette ascolta sempre, passando da quello “chabadabada” iniziale alle canzoni di Vincent Delorm (in particolare “La vie devant à soi” di cui riporto i versi salienti). Il romanzo, alla fine, prende. Come mi ha preso Violette. Come mi ha preso l’indagine di Julien prima su Philippe, poi su Leonine. Come mi ha spinto a spingere (scusa la brutta ripetizione) Violette a fare i conti con i suoceri. Come si sentono i profumi dei fiori di un cimitero che mi ricorda molto (nel mio immaginario) quello dei miei genitori in campagna. Con i suoi profumi, con le sue viste, con la vita intorno. Perché tutti noi, come Violette, siamo fatti di tanto, e soprattutto di quanto magari non abbiamo raccontato a nessuno. Dai francesi mi aspetto sempre qualche gradita sorpresa, così come dai suggerimenti amicali. E qui abbiamo fatto due centri insieme.
“Dobbiamo dire alla gente che le vogliamo bene, godercela finché è viva.” (174)
“Secondo me le eredità non dovrebbero esistere. Penso che bisognerebbe dare tutto alle persone a cui vogliamo bene in vita, il proprio tempo e il proprio denaro. Le eredità sono state inventate dal diavolo per dilaniare le famiglie. Io credo solo alle donazioni in vita, non alle promesse della morte.” (302)
“Ho voglia di aprire le finestre e gridare ai passanti: ‘Riconciliatevi! Chiedetevi scusa! Fate la pace con chi amate, prima che sia troppo tardi.” (433)
“Sarai per sempre tutti i miei amori, il primo, il secondo, il decimo e l’ultimo.” (433)
“Prendi un treno per la costa e sul traghetto siediti
Corri dietro ad un autocarro e nella notte oscura pensa a tutto ciò
Parla con una faccia del quinto piano e ascolta
Senti come sei viva come gli altri prima di te
La vita davanti a te”
Primo giorno del mese di marzo, e con gli auguri all’esimio Giovanni, andiamo a ripercorrere anche le letture del mese di dicembre. Con molti autori pluriletti (4 libri di Robecchi, 3 ciascuno di Camilleri e Manzini, 2 di Cussler) ed una resa mediamente buono. Dove si stacca, in alto e in basso, il solo Camilleri. Per la stupenda pièce su Tiresia e per il mal riuscito ultimo Montalbano. Raccomando inoltre, come descritto sopra, il libro della Perrin.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Alessandro Robecchi
Di rabbia e di vento
Sellerio
15
3
2
Alessandro Robecchi
Torto marcio
Sellerio
15
3
3
Clive Cussler & Graham Brown
Il segreto di Osiride
TEA
9,90
2
4
Isabel Allende
Il gioco di Ripper
Repubblica Noirissimo
7,90
2
5
Antonio Manzini
Pulvis et umbra
Sellerio
15
3
6
Andrea Camilleri
Il metodo Catalanotti
Sellerio
14
3
7
Alessandro Robecchi
Follia maggiore
Sellerio
15
2
8
Clive Cussler & Graham Brown
Nighthawk
Putnam
8,50
2
9
Antonio Manzini
Fate il vostro gioco
Sellerio
15
2
10
Andrea Camilleri
Il cuoco dell’Alcyon
Sellerio
s.p.
1
11
Valérie Perrin
Cambiare l’acqua ai fiori
E/O
18
4
12
Alessandro Robecchi
I tempi nuovi
Sellerio
15
3
13
Antonio Manzini
Rien ne va plus
Sellerio
14
3
14
Pietro De Santis
Grazie, professore
Prospettiva
s.p.
3
15
Andrea Camilleri
Conversazione su Tiresia
Sellerio
8
4
16
Danielle Steel
L’eredità segreta
Pickwick
s.p.
2

Assediati dalle notizie, a volte confortanti e volte desolanti, su epidemie e problemi di spostamenti, affrontiamo questo marzo “in attesa”. In attesa di saper se si parte, se migliora la salute, ed in particolare la deambulazione, se ci si può riposare in campagna. Attendiamo tanto, ma non aspettiamo Godot. Per questo, ottimisticamente, saluto chi parte, ma anche chi resta.

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