Stefania Auci “I leoni di Sicilia” Editrice
Nord s.p. (regalo de “I Floridi”)
[A: 07/05/2019 – I: 14/10/2019 – T:
17/10/2019] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 437; anno 2019]
Questa lettura nasce da una duplice
congiuntura favorevole. Da un lato, il gradito regalo della famiglia di
Alessandra per il mio ultimo compleanno (insieme ad un'altra ingente mole di
libri), dall’altro la necessità, ogni tanto, di leggere qualcosa anche di
appena uscito e di ben accolto dal pubblico. Questo libro, sulla storia della
nascita della leggenda della famiglia Florio ne risulta un esempio esimio.
L’autrice, una vera siciliana come direbbe il mio amico Franco, ha preso,
legato, imbastito, supposto, ed infine steso una storia discretamente
avvincente, scritta con grande proprietà (rispetto dei tempi, anticipazioni ma
non troppe per non rovinare possibili suspense, sufficiente scorrevolezza)
riuscendo ad irretirci nelle vicende della nascita di una leggenda siciliana:
la famiglia Florio. Certo, per il mio immaginario personale, il nome Florio è
legato a due elementi ben lontani, anche se uno vicino a questo libro. Il mio
sodale Massimo Florio, che frequentai assiduamente negli anni ’70, ora esimio
professore di Scienza delle Finanze, per sempre, anche se orami solo nei
ricordi, legato a Mario, a Corradino, a Franco, ed ovviamente a Luciano.
L’altro elemento è sportivo, la ben famosa “Targa Florio”, una delle più
antiche corse automobilistiche italiane, istituita nel 1906 da un discendente
della famiglia di cui stiamo parlando (Vincenzo, uno dei figli maschi di
Ignazio Florio), e che, pur mutando nome ed aspetto (ora si chiama “Rally Targa
Florio”), si corre tuttora. Ma qui si sta divagando, perciò torniamo al libro,
ai Florio, ed alla scrittura. Le vicende della famiglia, in generale, sono
discretamente note, anche se qui seguiamo la prima metà della storia dei
Florio. Un impero che durò più o meno 140 anni, e di cui seguiamo i primi 70.
Dalla partenza nel 1799 dalla natia Bagnara (non ancora Calabra, toponimo che
assumerà solo dopo l’unificazione italiana per distinguerla da Bagnara di
Romagna; ricordo ai non attenti conoscitori, che Bagnara Calabra si rammenta
per aver dato i natali a Lucio Villari, grande storico, ed alle sorelle Bertè,
grandi cantanti) fino alla morte, nel 1868, di Vincenzo, il vero artefice dell’ossatura
della grande casa Florio. I Florio, come molti “bagnaroti”, avevano nel sangue
la navigazione (forse dovuta all’origine fenicia del luogo), ed il commercio. A
causa di terremoti, che spesso funestano la zona (non ci scordiamo quello
devastante del 1908 su Messina e dintorni, che poco dista da Bagnara), Paolo
Florio decide di prendere la moglie Giuseppina ed il fratello Ignazio, e
trasferirsi a Palermo, dove avevano aperto una piccola bottega di rimedi
medicali. La storia pubblica e privata della famiglia si intreccia bene nelle
parole dell’autrice. Vediamo Giuseppina che non accetterà mai il trasferimento
siciliano, che avrà sempre il dolore di essere sposata con Paolo ma di voler
bene ad Ignazio (un amore che non sboccerà mai). Vediamo Ignazio che ben presto
dovrà prendere le redini del gioco, data la prematura morte del fratello ed
essendo il piccolo Vincenzo di soli 8 anni senza ancora la possibilità di
inserirsi. Ignazio metterà le basi della famiglia, e farà da padre a Vincenzo.
Sarà lui a costituire la prima generazione dei Florio, quella che inizia
vendendo chinino ed altri medicinali, e pian pianino comincia ad allargare le
proprie iniziative. Alla morte di Ignazio, vediamo crescere ed approfondirsi il
ruolo di Vincenzo, uno che vuole e quando vuole ottiene. Vuole Giulia, la
figlia dei milanesi venuti in Sicilia per clima ed affari. E la prende, ne fa
l’amante, e comincia a far figli con lei. Anzi, figlie. Che quando arriverà il
maschio, Ignazio jr lui Giulia la sposa anche contro tutte le macchinazioni
materne. Sarà un amore duro, ma è uno di quegli amori che sostengono la coppia,
nel bene e nel male, per sempre. Questa è la parte centrale, anche del rapporto
pubblico-privato. Che ora l’impero Florio si allarga sulla seta, sul tonno, sul
marsala, e su tante altre attività industriali. Ma si deve anche scontrare con
il clima esterno. Prima con i moti del ’48, poi con la repressione borbonica,
infine con i garibaldini e l’annessione al Nord Italia, avvenimento che i
siciliani non digeriranno mai. Comunque, c’è anche il rapporto tra i Florio,
ricchi e capaci di gestire nell’ombre (e poi anche alla luce del sole) le fila
della vita palermitana, e gli aristocratici che mai accetteranno la presenza
ingombrante dei “facchini di Bagnara”. Anche quando Ignazio jr sposa la nobile
Giovanna D’Ondes Trigona, ed Ignazio jr dopo sarà la terza ed illuminata
generazione dei Florio, quella dell’acquisto delle Egadi e dei cantieri navali.
Ma già si è alla fine del libro, e si pensa anche che ce ne possa essere una
seconda parte, dedicata alla caduta della dinastia. Per ora, il libro prende,
la scrittrice ben si comporta nella scrittura. Forse un filo di intreccio
maggiore tra pubblico e privato, soprattutto nell’ultima parte verso il Regno
d’Italia non avrebbe guastato. In ogni caso un libro che non dispiace leggere.
In special modo a chi, in ogni caso, ha la Sicilia vicino al cuore.
[A: 28/08/2017 – I: 18/10/2019 – T: 26/10/2019] - &&&
[tit. or.: Hotel Florida. Truth, love and death in the Spanish Civil War; ling. or.: inglese; pagine: 482; anno 2014]
Era un ovvio regalo per Alessandra, che,
altrettanto ovviamente, ho chiesto di leggere per quell’accenno ad un albergo
madrileno dal nome prefigurante. Sembra inoltre un possibile interessante
intreccio con l’accattivante sottotitolo italiano. Peccato appunto che sia
un’invenzione degli editor italiani, che, correttamente, il titolo originale
parla di “Verità, amore e morte nella Guerra Civile Spagnola”. L’autrice si era
già cimentata in biografia immerse nel corso della storia, piccola o grande che
sia. Qui affronta una problematica non semplice, comunque sorretta, e questo è
un grande merito, da un forte e sostanzioso corredo bibliografico, anche con
fonti inedite, cosa che non guasta, nel tentativo di portare qualche nuovo
sassolino nel marasma di un periodo storico complesso e controverso. Questo
porta ad affrontare un compito leggermente più arduo del previsto, così che non
escono fuori né le “storie d’amore”, né, compiutamente, le “storie di guerra”.
Intanto l’Hotel Florida entra di striscio nella storia, e non si capisce bene
perché sia stato preso ad emblema nel titolo. Vero è che i protagonisti ci
transitano, ma il 90% del libro si svolge altrove. La difficoltà, del lettore e
della scrittrice, è seguire i due filoni narrativi, delle storie d’amore e del
loro intreccio con la guerra civile, senza perdersi in tanti rivoli. Una
difficoltà non sempre ben gestita. Alla fine, ed è vero, seguiamo le avventure
di tre coppie nel periodo turbolento dal 1936 al marzo del 1939. La prima, e la
più tragica, è quella composta da Gerda Taro e Robert Capa. Che non si
chiamavano così, essendo lei tedesca ed ebrea, nata Gerta Pohorylle, e lui
ungherese, nato come Endre (André) Ernő Friedmann. Diciamo che questa scoperta
è stata forse la miglior sorpresa che mi ha offerta il libro. Lui fotografo in
crescita di 23 anni, lei spirito libero e pronto ad ogni iniziativa di 26, si
conoscono a Parigi, si innamorano follemente. Sarà Gerda a portare Capa su di
un filone fotografico che poi Robert svilupperà alla grande, diventando il
magistrale fotografo che noi conosciamo, nonché il fondatore con Cartier-Bresson
ed altri della famosa agenzia “Magnum”. Lei è già vicina alla sinistra di
opposizione a Lipsia, dove viveva, e con la crescita del nazismo decide di
emigrare in Francia. Lì conosce Robert, costituiscono un sodalizio bellissimo
di amore e lavoro, ed allo scoppio della Guerra Civile Spagnola è lì che vanno.
Fotografano, documentano, saranno loro le testimonianze forti anche del pesante
intervento italo-tedesco a favore delle milizie di Franco. Finché nel ’37 Gerda
viene travolta da un carro armato, e muore (penso che ne leggerò nel libro
della Janeczek). Robert è distrutto, ma per lei e nel suo ricordo, continuerà a
favore il fotografo di guerra, sino a morire in Indocina nel ’54 calpestando
una mina. La seconda è anch’essa di nazionalità mista. Da un lato Arturo Barea,
sindacalista e giornalista spagnolo, che allo scoppio della guerra, con il
primo matrimonio in crisi, per le sue conoscenze linguistiche, viene inserito
nell’ufficio dei censori della stampa estera a Madrid. Dove passano e conosce
tutte le persone importanti che si affacciano sul territorio spagnolo. Da John Dos Passos a
Ernest Hemingway, da Willy Brandt a tal Eric Blair (poi meglio noto come George
Orwell), da Kim Philby a Robert Capa. Ad
aiutarlo arriverà una volontaria austriaca, conoscitrice di un numero
imprecisato di lingue, tale Ilse Kulcsar (nome del marito da cui si stava
separando). Tra i due nasce un’intesa forte, di lavoro prima e di vita poi.
Tanto che si sposeranno nel 1938, e riusciranno a fuggire dalla Spagna subito
dopo, prima in Francia e poi in Inghilterra, dove Arturo, dedicatosi alla
scrittura, morirà nel ’57. La terza, ovvio, è formata da Hemingway e dal suo
nascente amore, Martha Gellhorn. Lo scrittore era ancora sposato con Pauline
Pfeiffer, ma era insofferente della vita a Kay West, non riuscendo a trovare
spunti che rinverdissero i passati successi. A Key West, in un bar, incontra
Martha, di dieci anni più giovane. Amore a prima vista, ma irrealizzabile lì in
America. Per questo, e per opposti motivi (Martha era spinta anche da un vento
di sinistra che Hemingway in realtà solo subodorava), si trovano in Spagna, a
seguire le vicende della Guerra. Com’è come non è, tra alti e bassi, e spesso
al seguito delle paturnie (e delle bevute) dello scrittore, i due si troveranno
sempre più spesso insieme. Tanto che vivranno, lontano dall’America, per 4
anni, per poi sposarsi, dopo il divorzio da Pauline, nel ’40. Matrimonio che
durerà fino al ’45, visto che il burbero Ernest mal supporta l’indipendenza di
Martha. Intanto, e qui ne viene narrata parte della storia, attraversano i difficili
momenti spagnoli, dove Hemingway troverà un nuovo guizzo artistico, che lo
porterà alla scrittura del suo capolavoro “Per chi suona la campana”. La Vaill
riesce, anche se bisogna molto leggere tra le righe, a farci altri spunti di
riflessione, questa volta più politici: la posizione di Stalin a favore dei
Repubblicani, ma fino ad un certo punto, laddove i servizi segreti russi usano
la guerra anche sul fronte interno per far piazza pulita dei trotzkisti, i
conseguenti difficili rapporti tra comunisti e anarchici, che portano a lotte
intestine devastanti, il neutralismo colpevole di Francia ed Inghilterra.
Insomma, un grande affresco, forse troppo grande per un libro solo. Qui vorrei
fermarmi, rilevando ancora la difficoltà di seguire un testo presupposto
romanzesco che diventa presto storico. Che quindi mi è piaciuto leggere, ma da
cui mi aspettavo altro e meglio. Finisco con due notazioni. Una vedendo passare
la Brigata Garibaldi dei volontari italiani, con Pacciardi e Nenni. L’altra per
rilevare una imprecisione, laddove, a pagina 122 si parla “della romanziera
cattolica e conservatrice Evelyn Waugh”, che ovviamente tutti sanno essere “UN”
romanziere, e precisamente Arthur Evelyn St. John Waugh.
“Ho
paura se penso alle centinaia di migliaia di persone che vivono ancora in pace
in altre parti del mondo [rispetto alla Spagna n.d.r.] e un giorno potrebbero
andare incontro allo stesso destino [scappare a piedi, trascinandosi valige e
fagotti n.d.r.]” (386)
Helena
Janeczek “La ragazza con la Leica” Guanda s.p. (prestito della signora
Laura)
[A: 23/09/2019 – I: 27/10/2019 – T:
30/10/2019] - &&&
--
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 332; anno 2017]
Avendo appena finito di leggere “Hotel
Florida” che parlava di Guerra Civile Spagnola e di varie coppie che vi
giravano intorno, tra cui, per l’appunto Robert Capa e Gerda Taro, mi sono
gettato subito su questo prestito che volevo capirne di più, avendo fresche le
notizie sui personaggi. Un romanzo della tedesca-ebrea di famiglia polacca che
da trentacinque anni vive in Italia, e che scrive i suoi testi ormai in un
fluente italico. Inoltre, questo testo ha vinto il Premio Bagutta, il Premio
Selezione Campiello ed il premio Strega nel 2018. Motivo quindi per capire se i
premi italiani hanno ancora una loro ragion d’essere (visto che abbiamo parlato
assai del Premio Nobel e prima o poi parleremo anche di altri premi esteri).
Alla fine, ne esco con un sentimento misto. Di certo una bella scrittura ed un
romanzo intrigante, anche se non lo trovo particolarmente ben riuscito. Ne ho
seguito le tracce proprio perché fresco della scrittura di Amanda Vaill, così
che sono riuscito a colmare i passaggi letterari con le reminiscenze storiche.
Dicevo romanzo, che romanzo e non biografia è, anche se alla fine quello che ne
esce è “un” ritratto della fotografa austriaca morta in Spagna travolta da un
carro armato nel luglio del 1937 a 27 anni. Perché Helena decide di parlarci di
questa “ragazza” degli anni Trenta, mai direttamente (o quasi), ma attraverso
racconti che passano per il filo della memoria di persone a lei vicine. Non il
suo grande ultimo amore, quel André Endre Ernő Friedmann con cui inventò lo
pseudonimo di Robert Capa, e con il quale mise le basi dei reportage
fotografici di guerra. Dove lei morì a Brunete nel ’37 e lui a Thai Binh in
Vietnam nel ’54. Ma attraverso le voci ed i ricordi di due uomini, una donna ed
un epilogo di coppia. C’è Willy Chardack, detto il Bassotto, ora cardiologo e
per breve tempo quasi fidanzato di Gerda, prima che lei si rifugiasse a Parigi
ed incontrasse André. Con Willy c’è più che altro il rimpianto (Suo) di non
averla capita, anche perché, almeno la mia sensazione, è che sia stato come un
momento di passaggio tra l’intenso Georg e l’immenso André. C’è il lungo
(temporalmente) fidanzamento con Georg Kuritzsek, quello che l’aveva dischiusa
ad una vita che già si preparava in lei, che le aveva mostrato, con il suo
esempio e la sua famiglia, la libertà di essere vivi (la madre Dina ebbe una
storia con Lenin) e la volontà di essere sempre dalla parte giusta. Ora Georg è
un funzionario della FAO, vive a Roma, e incontrandosi con il partigiano e
fotografo Mario Bernardo, ripensa a quegli anni tedeschi e spagnoli con Gerda.
Alla Lipsia che videro insieme, a quando si lasciarono, al suo rifugio in
Italia per studiare, dove per due lunghe settimane lo raggiunge Gerda. E lui la
rivede anche lì, nella sua Roma, nella sua Napoli. Per poi l’ultimo incontro in
Spagna, lui arruolato nelle Brigate Internazionali, lei sempre a fotografare e
documentare gli avvenimenti spagnoli. C’è l’amica del cuore, almeno per lunghi
periodi, Ruth Cerf. Quella che andava nella stessa scuola. Quella che con lei
va a Parigi. Quella che, alla morte di Gerda, troviamo che mette (o cerca di
mettere) ordine nei negativi delle tante foto di Robert e Gerda. Quella dalle
cui parole esce la Gerda quotidiana, più che la fotografa sui campi di
battaglia (che Ruth non ha visto). Poi ci sono altri “comprimari” delle scene
soprattutto parigine. I coniugi Stein, che ospitano Gerda quando questa viene
sfrattata. E soprattutto Emerico Imri Weisz detto “Csiki”, colui che gestiva la
camera oscura dell’atelier Capa a Parigi e che, con vicissitudini incredibili,
riesce a salvare una cassetta di rullini, ritrovata pochi anni fa in Messico.
Da questi rullini nasce quell’incipit fotografico che per me è la parte
migliore di tutto il testo. Quello in cui Helena si focalizza sulla foto di
Gerda e Robert seduti ad un tavolino di un caffè parigino. Ce ne fa vedere il
sorriso, ne analizza i tratti portandoci a seguire, attraverso sorrisi e mosse
(in effetti le foto sono due in sequenza, e scattate da Fred Stein), il filo
dei pensieri. Facendoci anche ragionare su come la foto sia altro da quello che
rappresenta. Un momento congelato, che alla fine ha poco da relazionarsi con la
vita del soggetto rappresentato (con buona pace di tutti i maniaci dei selfie).
Prima di concludere mi devo scusar con Helena, che per lunghi tratti mi sono
innervosito nel fatto che la nostra ragazza venisse sempre chiamata Gerda,
finché, nelle righe finali, lei stessa spiega che ha scelto di usare lo
pseudonimo, e non il vero nome Gerta, perché era quello che Gerta Pohorylle
preferiva. Ed infatti, per noi, per tutti, sarà solo Gerda Taro. Alla fine, di
certo un bio-romanzo gradevole, da cui mi aspettavo di più, e che sono contento
di aver letto dopo il libro della Vaill, così che ne ho potuto cogliere meglio
riferimenti e passaggi. Due minuscole precisazioni: il Circo Massimo veniva
usato ben prima di Giulio Cesare per le corse con le quadrighe, Giulio Cesare
fu solo colui che fece costruire gli spalti in marmo. Sarebbe stato meglio
indicare la via del Pigneto dove si aggira Georg come “via Ettore Giovenale”
(ricordo che fu location di film di Pasolini), e che ricorda uno dei
condottieri della disfida di Barletta. Indicandola solo con Giovenale, si può
confondere con la piazza, dedicata invece al poeta romano.
[A: 17/10/2019 – I: 18/12/2019 – T: 21/12/2019] - &&&+
[tit. or.: Changer
l’eau des fleurs; ling. or.: francese; pagine: 473; anno 2018]
Eccoci allora nelle nuove nervature di
lettura, quelle che dirazzano dall’andamento storico arcaico delle mie solite
letture. Anche sotto la spinta di suggerimenti, graditi, apprezzati, e spesso
seguiti con tanto di ringraziamento dovuto. Così entra ad ottobre ed esce a
dicembre questo gradevole libro di una scrittrice francese che mi era ignota,
ma che sentivo dal nome avere delle risonanze che non riuscivo a collocare. Che
finalmente ho dispiegato leggendo nel risvolto di copertina essere l’attuale
moglie di Claude Lelouch. Ah, ecco da dove mi suonava. Ed anche il libro, alla
fine, assume un’aria dorata e trasognata che rimanda, alla lontana e con
qualche eco soltanto, alle atmosfere di “Un uomo, una donna”. Mentre risuona
“chabadabada”, ci immergiamo nella vita e nelle vicende di Violette Toussaint.
Che incontriamo mentre svolge il suo di certo non allegro lavoro: guardiana nel
piccolo cimitero di Brancion-en-Chalon in Borgogna. E subito ci sentiamo
ematica con la sua vita. Pulisce le lapidi, cura ed innaffia le piante, ha un
contorno di lavoranti alle tombe con parroco che ci tengono il cuore caldo. Ed
ha tante piccole manie: due abbigliamenti (il triste “inverno” per le occasioni
serie, il solare “estate” per i suoi momenti solari), trascrive i discorsi
funebri per tenerne memoria, tiene un diario dove registra tutti i suoi
avvenimenti, pubblici e privati. Come leggendo la storia scritta in una
matrioska, incalzata da eventi esterni, Violette disvela lentamente la sua
vita. Iniziando a farci percorrere un torrente in piena che non riusciamo più
ad arrestare. Scopriamo così che Violette è figlia di ignoti, dopo aver fatto
diversi lavori, sta passando verso l’adolescenza come barista. Nel locale
incontra l’affascinante Philippe, di cui si innamora. Lui, attratto dalla
strana ragazza, la intortora, la sposa, gli è spesso infedele, va e viene sovente
lasciandola sola. Poi Violette rimane incinta e nasce Leonine. In quel tempo
Violette e Philippe lavorano come guardiani di un passaggio a livello. Cioè,
Violette lavora e Philippe fa quello che gli pare. Poi, le ferrovie chiudono,
Violette accetta il posto di guardiana del cimitero, Philippe sparisce dalla
sua vita. Ed è qui, al cimitero, dopo che l’autrice ci ha lasciato un po’
gironzolare per capire l’atmosfera, comincia il ballo delle agnizioni. Perché
Philippe è sparito? Perché non si parla di Leonine? L’arrivo di un nuovo
personaggio mette tutto in subbuglio. Il poliziotto Julien Seul cerca la tomba
dell’avvocato Prudent, che la madre, morendo, gli ha chiesto di posare le sue
ceneri accanto a quelle dell’avvocato. Solo a questo punto scopriremo i segreti
di Violette. Ma anche di Gabriel e della signora Irène. Scopriremo le
complicate vite di tutte le persone che gravitano intorno al cimitero. E
soprattutto, io faccio il tifo affinché Violette riesca ad addomesticare i
propri demoni. Ora, non è che lei sia tutta rose e fiori, certo a volte pecca
di qualche debolezza ed insicurezza, in particolare, per il mio modo di essere,
è carente nel fare domande per avere risposte. A volte fare lo struzzo è
comodo, ma alla lunga non paga. Valérie, in ogni caso, riesce, variando anche
la scrittura, a non cadere nel banale. Le epigrafi che mette ad ogni capitolo,
come fossero le lapidi del cimitero sono impagabili. Le commemorazioni funebri
di Violette anche. La storia di Irène e Gabriel bellissima, e non ne dico altro.
Anche Julien, con tutto il suo poliziottesco andamento, risulta gradevole e
gradito. Come si spera lo sarà suo figlio Nathan. E che dire della musica che
Violette ascolta sempre, passando da quello “chabadabada” iniziale alle canzoni
di Vincent Delorm (in particolare “La vie devant à soi” di cui riporto i versi
salienti). Il romanzo, alla fine, prende. Come mi ha preso Violette. Come mi ha
preso l’indagine di Julien prima su Philippe, poi su Leonine. Come mi ha spinto
a spingere (scusa la brutta ripetizione) Violette a fare i conti con i suoceri.
Come si sentono i profumi dei fiori di un cimitero che mi ricorda molto (nel
mio immaginario) quello dei miei genitori in campagna. Con i suoi profumi, con
le sue viste, con la vita intorno. Perché tutti noi, come Violette, siamo fatti
di tanto, e soprattutto di quanto magari non abbiamo raccontato a nessuno. Dai
francesi mi aspetto sempre qualche gradita sorpresa, così come dai suggerimenti
amicali. E qui abbiamo fatto due centri insieme.
“Dobbiamo
dire alla gente che le vogliamo bene, godercela finché è viva.” (174)
“Secondo
me le eredità non dovrebbero esistere. Penso che bisognerebbe dare tutto alle
persone a cui vogliamo bene in vita, il proprio tempo e il proprio denaro. Le
eredità sono state inventate dal diavolo per dilaniare le famiglie. Io credo
solo alle donazioni in vita, non alle promesse della morte.” (302)
“Ho
voglia di aprire le finestre e gridare ai passanti: ‘Riconciliatevi! Chiedetevi
scusa! Fate la pace con chi amate, prima che sia troppo tardi.” (433)
“Sarai
per sempre tutti i miei amori, il primo, il secondo, il decimo e l’ultimo.”
(433)
“Prendi un treno per la costa e sul
traghetto siediti
Corri dietro ad un autocarro e nella notte
oscura pensa a tutto ciò
Parla con una faccia del quinto piano e
ascolta
Senti come sei viva come gli altri prima
di te
La vita davanti a te”
Primo
giorno del mese di marzo, e con gli auguri all’esimio Giovanni, andiamo a
ripercorrere anche le letture del mese di dicembre. Con molti autori pluriletti
(4 libri di Robecchi, 3 ciascuno di Camilleri e Manzini, 2 di Cussler) ed una
resa mediamente buono. Dove si stacca, in alto e in basso, il solo Camilleri.
Per la stupenda pièce su Tiresia e per il mal riuscito ultimo Montalbano.
Raccomando inoltre, come descritto sopra, il libro della Perrin.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Alessandro
Robecchi
|
Di rabbia e di
vento
|
Sellerio
|
15
|
3
|
2
|
Alessandro
Robecchi
|
Torto marcio
|
Sellerio
|
15
|
3
|
3
|
Clive Cussler
& Graham Brown
|
Il segreto di
Osiride
|
TEA
|
9,90
|
2
|
4
|
Isabel Allende
|
Il gioco di
Ripper
|
Repubblica
Noirissimo
|
7,90
|
2
|
5
|
Antonio Manzini
|
Pulvis et umbra
|
Sellerio
|
15
|
3
|
6
|
Andrea Camilleri
|
Il metodo Catalanotti
|
Sellerio
|
14
|
3
|
7
|
Alessandro
Robecchi
|
Follia maggiore
|
Sellerio
|
15
|
2
|
8
|
Clive Cussler
& Graham Brown
|
Nighthawk
|
Putnam
|
8,50
|
2
|
9
|
Antonio Manzini
|
Fate il vostro gioco
|
Sellerio
|
15
|
2
|
10
|
Andrea Camilleri
|
Il cuoco
dell’Alcyon
|
Sellerio
|
s.p.
|
1
|
11
|
Valérie Perrin
|
Cambiare l’acqua
ai fiori
|
E/O
|
18
|
4
|
12
|
Alessandro
Robecchi
|
I tempi nuovi
|
Sellerio
|
15
|
3
|
13
|
Antonio Manzini
|
Rien ne va plus
|
Sellerio
|
14
|
3
|
14
|
Pietro De Santis
|
Grazie, professore
|
Prospettiva
|
s.p.
|
3
|
15
|
Andrea Camilleri
|
Conversazione su
Tiresia
|
Sellerio
|
8
|
4
|
16
|
Danielle Steel
|
L’eredità segreta
|
Pickwick
|
s.p.
|
2
|
Assediati
dalle notizie, a volte confortanti e volte desolanti, su epidemie e problemi di
spostamenti, affrontiamo questo marzo “in attesa”. In attesa di saper se si
parte, se migliora la salute, ed in particolare la deambulazione, se ci si può
riposare in campagna. Attendiamo tanto, ma non aspettiamo Godot. Per questo,
ottimisticamente, saluto chi parte, ma anche chi resta.
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