Gregory David Roberts “Shantaram” Abacus euro 8,75
[A: 24/02/2019 – I: 23/09/2019 – T: 13/10/2019] - && --
[tit. or.: Shantaram; ling. or.: inglese; pagine: 913; anno 2003]
Ne avevo sentito tanto parlare, magnificare,
fare dotte discussioni, che prima o poi dovevo senz’altro leggerlo. Capita così
che in febbraio (2019) mi reco nell’India del Sud per fare un giro guidato
dalla solerte Patrizia. Capita inoltre che ci si fermi nel rilassante centro di
Varkala, nel Kerala. Una mega spiaggia con faraglione prospicente dove si
affacciano bungalow e ristoranti, nonché bancarelle ed altro. Due giorni di
grande riposo e pace, dove, girando tra i banchi, ti vedo proprio questo “uomo
della pace” (questo il significato di “Shantaram” in lingua Marathi, la lingua
di Mumbai). Mi sembra un’ottima congiuntura. Ora, dopo sette mesi di attesa, ne
leggo, con molta fatica. E sebbene si riesca (ma solo nella prima parte) a
tornare con la mente e lo spirito alla mia amata India, alla fine, devo
riconoscere che l’autore ed il libro sono largamente sopravvalutati. Certo, un
discreto fascino è dato dal fatto che, seppur con trasfigurazioni varie, il
libro è fortemente autobiografico. Perché in effetti, l’autore, australiano, ha
realmente avuto una giovinezza anarcoide, per poi passare, dopo la fine del
matrimonio, verso un atteggiamento pseudo-rivoluzionario alla “Cesare Battisti”
(l’attuale non l’irredentista), dove, seppur senza spargimenti di sangue, si
occupa di furti e droghe, finendo arrestato. Riesce a fuggire sia dalla
prigione che dall’Australia, finendo nell’India che ci racconta. Dopo la fine
del libro, Roberts intorno al ’90 (a quasi 40 anni) viene arrestato in
Germania, decide di scontare la pena australiana, in carcere scrive questo
romanzone, e nel 2003, libero da pene giudiziarie, lo pubblica con successo.
Dicevo, la prima parte è coinvolgente. Ci porta a Mumbai, facendocene
riscoprire le bellezze intime. Ma anche le degradazioni infime. Mi ero quasi
emozionato all’inizio, ripensando al mio primo sbarco a Bombay, alla visione
della Porta delle Indie e del Taj Mahal Hotel. Ma anche alle passeggiate nelle
stradine tra Victoria Terminal ed il porto, i ristorantini con le loro spezie,
ed il giorno di monsone che subii. Il nostro fuggiasco, un po’ per non
mescolarsi troppo con gli occidentali, giustamente temendo possibili
tradimenti, si accompagna con più trasporto con i locali. Sia gli indiani indù,
con il simpaticissimo Prabaker (il Prabu che diventerà suo mentore ed amico)
sia con i mussulmani, anche se all’inizio c’è del timore nell’approccio. Timore
che viene fugato dalla visione della bellissima Karla, un’americana fuggita
dagli States per qualche motivo oscuro (che scopriremo alla fine), che per
Gregory, che si fa chiamare Linley, subito abbreviato in Lin, è la donna più
bella che abbia visto, e di cui si innamora, e rimarrà innamorato nonostante
tutto. Ed è altrettanto bello e coinvolgente il racconto della sua calata negli
slum, nella parte povera della città, dove si vive di niente e per niente si
muore. Dotato comunque di grande vivacità e capacità espressive, ha il dono di
imparare presto i vari dialetti locali. Sia di hindi che di urdu ne mastica ben
presto. Ma soprattutto, con Prabu impara il Marathi, la lingua di Mumbai.
Lingua che gli aprirà molte porte chiuse ai forestieri. Lì nello slum, con
quanto appreso in carcere, ed altre piccole nozioni, mette su una specie di
dispensario per i poveri, che per due-tre anni cura vivendo con loro del poco
che hanno. Poi cominciano le svolte. Il capo mafia locale, un profugo afghano
di grande cultura ed esperienza, lo prende a ben volere, lo convince ad uscire
dallo slum, lo riporta nel “gran mondo”. Qui comincia la seconda, lunga parte
che realmente, alla fine, è stancante e poco coinvolgente. Assistiamo a tutte
le vicissitudini del mondo fuori le regole indiano, ma non solo. Cambio nero,
vendita di passaporti contraffatti ed altre azioni non proprio regolari. Il suo
nuovo mentore Khader, però, non si mescola mai né con la prostituzione né con
la droga. Roberts ricalca un po’ ricamando la rettitudine del suo passato
banditesco. Era infatti noto in patria come il bandito gentiluomo, che salutava
prima e dopo le rapine, che rubava ad istituti di credito che avevano grosse
assicurazioni a copertura dei furti, ed altre galanterie. Tanto che si vanta di
non aver mai ucciso nessuno. Qui, è tutto un fiorire di nuovi personaggi,
europei e mussulmani, i primi che si riuniscono al Leopold’s bar, con intrecci
di vita complicati e poco coinvolgenti. Mi rimane in mente solo il simpatico
Didier, un gay francese che vivacchia facendo da intermediario: non si sporca
le mani, ma sa a chi chiedere, e ci fa il suo margine. Ci sono belle donne
(Ulla, Lisa ed altre). Poi c’è la mafia di Khader, dove il nostro Lin riesce ad
arrivare in posizioni preminenti, soprattutto nelle forniture di passaporti
falsi. Tanto che il capo mafia decide di portarlo con sé nella terza parte del
libro. Dedicata alla missione di Khader in Afghanistan a supporto dei
mujaheddin contro gli invasori sovietici. Una parte di una pallosità
stratosferica. Dove ci sono tradimenti a tutto spiano, voltafaccia, persone che
appaiono e scompaiono. Poi, nel ritorno a casa, Khader muore, e nell’ultima
parte vediamo le lotte tra le varie fazioni. Ma anche tutte le agnizioni di Lin
sui vari personaggi incontrati lungo le 900 pagine. Capiamo finalmente chi ha
fatto cosa, e perché. E capiamo perché, alla fine, Lin (al contrario di
Gregory) decida di tornare dai suoi amici indù e nello slum che aveva visto
tutta la sua parte di serenità all’inizio di questa avventura. Ripeto, sarà la
faticosità dell’inglese, ma la prima parte (l’arrivo, la conoscenza di Mumbai
ed il dispensario nello slum) è bella ed avrebbe meritato un bel voto. Finendo
lì ci sarebbe stato, anche se non integralmente, un ripasso della “Città della
gioia”, con una bella storia dietro. Tutte le altre 650 pagine si trascinano
stancamente. E sebbene si sia curiosi di capire perché e se Lin e Karla
finiscano o non finiscano insieme, questa curiosità non giustifica tutta la
lettura. A me rimane il senso dell’India, delle mie passeggiate, solo o con
Alessandra, tra il Taj Mahal e le piccole taverne. Aspettando di tornare ancora laggiù.
“In matters of food I am French, in matters of love I am Italian, and in
matters of business I am Swiss.” [Per il cibo sono francese, per l’amore
sono italiano e per gli affari sono svizzero] (49)
“A friend is anyone you don’t despise.” [Un amico è chiunque tu
non disprezzi] (58)
“One of the reasons why we crave love, and seek it so desperately, is
that love is the only cure for loneliness, and shame, and sorrow.” [Uno
dei motivi per cui bramiamo l'amore, e lo cerchiamo così disperatamente, è che
l'amore è l'unica cura per la solitudine, la vergogna e il dolore] (124)
“I sometimes think that the size of our happiness is inversely
proportional to the size of our house.” [A volte penso che la dimensione
della nostra felicità sia inversamente proporzionale alla dimensione della
nostra casa] (244)
Jean Renoir “Renoir, mio padre” Corriere della
Sera Arte 29 euro 7,90
[A: 21/02/2017 – I: 01/11/2019 – T: 13/11/2019] - &&&-
[tit. or.: Pierre-Auguste
Renoir, mon père; ling. or.: francese; pagine: 376; anno 1962]
Si sente che è un libro di quasi sessant’anni,
abbastanza lento nella descrizione molto personale della vita di Renoir fatta
dal figlio. Il grande regista francese, sulla soglia dei suoi settanta anni,
cerca il filo della memoria che lo ha legato al grande padre, il pittore
impressionista Pierre-Auguste Renoir. Si nota, e non a caso, la vita da regista
che Jean ha trascorso. Riesce sempre a farti entrare nelle descrizioni di un
paesaggio, di un caffè, di una casa in campagna come se fosse lì con la
cinepresa, e ci potesse mostrare tutto dietro l’obiettivo. Però questo è anche
il limite dello scritto, che spesso rimane lì nel descrittivo, e non scende con
il cuore, con la pancia, in una vita che, questo è certo, è stata interessante
ed intensa. Certo, lo scritto serve anche a Renoir figlio per fare in un certo
senso i suoi conti con il padre ingombrante. Come dovremmo fare tutti, anche se
i nostri genitori sono meno ingombranti. E la pace ce la comunica, con
l’affetto che in molte pagine esce fuori, anche senza volerlo. Quando vediamo
il vecchio Renoir sulla carrozzella, a colazione che sbocconcella un pezzo di
pane, quando si stende nelle ultime ore sul letto della sua dipartita, è con
commozione che seguiamo le frasi del libro. In altre invece si legge ma non
prende. Vediamo i vari personaggi della vita parigina prima e di campagna poi,
entrare, agire, uscire, ma, pur con tutti i loro nomi, non riescono a
coinvolgerci. Vediamo i personaggi, vediamo come in quadro la Parigi lontana,
sia da Jean che da Giovanni, i balli sul Lungo Senna, la vita minuta degli
abitanti della storia (anche se hanno fatto la Storia). L’occasione per far
incontrare padre e figlio, è una ferita del figlio che lo fa tornare a casa dal
fronte e camminare con le stampelle, così come il padre che invece per
un’artrite deformante da anni sta su di una sedia a rotelle. Incontro fortunato
e fecondo, che nel comune male Pierre-Auguste racconta e Jean immagazzina.
Anche perché il padre si sposò tardi e Jean nacque che il padre aveva già 54
anni. Renoir sr. è infatti nato a Limoges nel 1841, sesto figlio di un sarto e
di un’operaia. Per sfruttare le possibilità della capitale la famiglia si
trasferisce nel ’45 a Parigi e lì vive da sempre il pittore. Che aveva anche
una bella voce (fu allievo del coro di Gounod), ma il padre, vedendolo usare i
gessetti da sarto, lo indirizza verso la lucrosa carriera di dipintore di
porcellana, come si usava nella natia Limoges. Ma sui vent’anni, di fronte alle
difficoltà del mercato, Renoir decide di votarsi alla pittura, ed entra
nell’atelier dell’Ecole des Beaux-Arts. Lì conosce quelli che diventeranno suoi
amici e sodali nell’avventura impressionistica (sulla quale entro poco che già
tanto e meglio se ne parlò). Ecco Sisley, Bazille, Claude Monet, con i quali
inizia a dipingere “en plein air”. Gli inizi per Renoir furono duri, ma,
contando su qualche accumulo dei tempi della “porcellana”, ed accontentandosi
di poco, tra il ’74 ed il ’77, dipinge i suoi capolavori come il “Bal au Moulin
de la Galette”. Incontra anche Aline Charigot che diventerà modella poi amante
ma che sposerà solo a cinquant’anni, che Aline non voleva bloccare l’estro
artistico del suo grande amore. Che conosce in questo crocevia di belle
persone, quello che diventerà uno dei suoi più grandi amici, Cézanne. Tanto che
Jean crescerà molto in solidarietà con i figli del grande provenzale. Nella
grazia delle parole di Jean, riusciamo a sederci a tavola in campagna per
mangiare i grandi pranzi preparati da Aline nella natia Essoyes. Vediamo
iniziare la malattia di Renoir, il trasferimento in clima più miti a
Cragnes-sur-Mer, dove muore il 3 dicembre 1919. Il regista, con le capacità del
suo tocco da film, ci presenta anche dei piccoli siparietti illuminanti
dell’epoca e dei personaggi. Ne ricordo alcuni. Il signor Choquet, un tempo
funzionario delle dogane poi mecenate dell’arte che si rifiuta di incontrare
Dumas figlio che aveva rinunciato all’eredità paterna per non pagarne i debiti.
L’elegante Claude Monet, che andava sempre in giro con camice di pizzo,
liquidando le donne che lo assediavano (era anche un bell’uomo) dicendo che andava
a letto solo con le duchesse. La magnifica scena del camerino di un’attrice
dove troviamo Renoir con l’amico Zola, quest’ultimo intento a sfoggiare il suo
sapere. Renoir si scoccia, e chiede alla donna: «Parliamo di cose serie. Il petto vi regge bene?». La diva apre la camicetta e mostra lo stato dell’arte delle tette, con la
conseguenza che Zola arrossisce e scappa. Per tutto il libro poi il figlio
cerca di illustrare la filosofia di vita del padre: il turacciolo, che segue la
corrente senza affondare. Perché quelli che vogliono risalirla sono “sono pazzi
od orgogliosi o, peggio ancora, distruttori”. Ci si aggiusta, ma sempre nel
senso della corrente, perché i grandi uomini sono semplicemente coloro che
sanno guardare e capire. A me è risultato un po’ lento, pur nella voglia di
ripercorrere luoghi e momenti sempre a me cari. Ma soprattutto, mi ha dato il
senso di una frase che ora nella maturità sento ogni tanto rimbalzarmi in testa
(“Arriva un momento in cui un figlio si scopre identico al padre”). Ecco,
questo più di ogni altro mi ha attirato: il rapporto padre-figlio, la voglia di
entrarci e di starci bene. E non è mai facile.
“Basta una freddura a distruggere un’amicizia
… le parole sono troppo pericolose.” (66)
“Per tutta la vita non ho fatto altro che
commettere errori grossolani. Il vantaggio d’invecchiare consiste
nell’accorgersi dei propri sbagli un po’ più in fretta.” (174)
Pietro De Santis “Grazie, professore”
Prospettiva s.p. (regalo dell’autore)
[A: 10/09/2019 – I: 26/12/2019 – T:
28/12/2019] - &&& +
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 140; anno 2019]
Non è mai facile parlare di un libro
conoscendone l’autore, anche in contesti diversi dalla scrittura stessa. Fu
difficile per il genero di Pietro ed i suoi libri “noir”. Non è semplice per
questo, un libro quasi da flusso di memoria, con salti interni ed esterni alla
scrittura ed alla storia. Ho avuto anche la “sfortuna” di sentirne parlare
prima di leggerlo, quasi avessi letto una quarta di copertina senza aver ancora
toccato il testo. E voi sapete che non è una cosa che né mi piace né mi riesce
facile poi dedicarmi alla lettura senza condizionamenti. Ma tutto ciò porta
soltanto ad “excutatio non petita” e quindi, come direbbe il mio vecchio
professor Morganti, “accusatio manifesta”. Cioè, se non hai da giustificarti,
non scusarti. Ed in realtà, più che scuse, queste vorrebbero essere premesse.
Per introdurre il testo di Pietro, valente fisico, ma ancor più valente
psicologo, nonché (e lo si capirebbe anche non conoscendolo) profondo
conoscitore ed estimatore di un piccolo grande autore di nicchia. Quell’Antonio
Pizzuto, autore per me legato ad uno dei miei primi e vecchi Einaudi, “La
signorina Rosina”. Con una tecnica che ne rimanda l’idea, se non il modo, anche
qui le parole fluiscono, vanno a descrivere azioni e modi, per rimandarci alla
fine un quadro di un momento storico (e personale) dell’autore e del
protagonista. Non avendo interesse a scandagliare quanto di Pietro ci si nel
professore del testo, e quanto di rimandi e di scritture traversali, io mi
rimetto alla linearità del testo. Sottolineando, comunque, che la “storia” è
uno dei due elementi, quello forse più semplice da esporre. Il modo in cui
invece Pietro la espone è tutt’altro e servirebbe qualcuno più aduso di me alla
critica per cavarne fuori non dico la bellezza, ma quanto meno l’interesse descrittorio.
Dicevo, la storia è semplice, eppur intrigante, almeno per me che ho vissuto
esperienze analoghe. Un professore di liceo accetta, obtorto collo, di far
parte di una commissione d’esame che include tre privatisti detenuti in
carcere. Vediamo i tormenti delle decisioni, le piccole manie quotidiane del
professore, che uomo come tanti di noi è, il suo approccio con i colleghi.
Anzi, con le colleghe che tutte professoresse sono. E quando ci sono uomini e
donne, c’è sempre un che di sensuale, se non di sessuale, che aleggia
nell’aria. Ma in particolare, ed è qui che il mio personale si è sentito
coinvolto, il professore narra i suoi sentimenti nell’entrare in carcere. I
problemi protocollari, le limitate libertà di manovra all’interno di strutture
penitenziarie, poi l’incontro con i detenuti. Con la loro vita, sia con quella
all’interno del carcere, sia con la precedente che li ha portati a crimini
vari. L’umanità del professore si istanzia anche nelle domande, implicite ed
esplicite, che si pone. Perché quei detenuti hanno deciso di studiare, di
prendere un pezzo di carta che sicuramente in carcere non serve, e che fuori
chissà quando potrà essere utilizzato? Rispetto al mio rimaner fermo a
considerare quella platea una platea, il professore si pone domande, cerca di
capire, in qualche modo, chi siano quei tre. Ma cerca anche di capire chi siano
i professori che con lui costituiscono gli esaminatori dei detenuti. Affiora,
come dice lo stesso Pietro, e come si capisce dalla sua storia, il tributo ad
un rapporto di causa – effetto del sociale sul mentale che anche qui persone
con più nozioni delle mie sarebbero in grado di analizzare e portare alla
gradita attenzione dei lettori. Io ritorno a quanto detto sopra, alle mie
orticellari esperienze carcerarie, ed al ritrovamento, nello scritto di Pietro,
di quelle sensazioni allora affioranti, e poi ben radicate, anche in altro. Non
è stata una lettura semplice, che a volte passaggi letterari e modi di
scrittura mi hanno tenuto a rileggere pagine che sembravano sfuggire dalla
immediata comprensione. Ma una lettura che ho gradito, ed ho ritenuto (cioè
tenuto con me) perché mi ha riportato indietro di quasi venti anni, perché mi
ha fatto (ri-)vedere che alcune esperienze comunque sono universali e
comunicabili. Mi ha fatto anche pensare che potevo chiederne parere alla mia
amica Luciana. Per ora, dico a Pietro di insistere nella scrittura, che non è
una cosa semplice, come tutti sappiamo (tant’è che non credo la userò mai), che
io aspetto di leggere ancora, di lui, di Fako e di tutti i miei amici che hanno
il coraggio di prendere in mano una penna.
Giuseppe Munforte “Il fruscio dell’erba
selvaggia” Neri Pozza s.p. (Natale degli Ossicini)
[A: 25/12/2019 – I: 04/01/2020 – T:
08/01/2020] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 143; anno 2018]
Per questo, e per altri libri analoghi, devo
ringraziare la mia grande famiglia, ed in particolare mia cugina Annalisa, che,
reduci dal premio Roma, per Natale hanno portato a cugini e parenti una massa
di libri, che io ho fagocitato (almeno per quelli che erano novità e/o con
interessanti sembianze). Capita così nella fucina di lettura questo libro,
scritto nel ventennale della sua prima uscita, opera complessa, anche se non
sempre riuscita, di Giuseppe Munforte, Autore milanese, or quasi sessantino,
con alcuni (seconde i critici) interessanti libri alle spalle (tra l’altro
finalista allo Strega del 2014). Io mi presento vergine di notizie alla
lettura, e ad un libro in cui ho trovato spunti interessanti, ma anche momenti
di difficile ed involuta lettura. Intanto un piccolo lungo inciso sul titolo.
Che viene da un verso del poeta russo Yevgeny Yevtushenko, tratto dalla poesia
“Babij Jar”, dedicata dal poeta al massacro avvenuto in quella località, dove
nazisti e collaborazionisti ucraini uccidono 33.771 ebrei. Il poeta denuncia in
questo poema del 1961 l’antisemitismo russo. Denuncia rafforzata l’anno
seguente dall’inserimento della poesia nella Sinfonia n.13 del compositore
sovietico Dmitrij Šostakovič. Quale sia il nesso tra ebrei e questo testo, o
tra un massacro ed il testo, o tra la rimozione dello stesso e questo romanzo a
me sfugge. Quindi ne salto la domanda, e vado al testo, che segue tre diverse
linee narrative, sfalsate per soggettiva dei protagonisti e per andamenti
temporali. Quasi fossero tre racconti lunghi, che alla fine si ricompongono in
un quadro unitario. In “Nero uno” uno zio bislacco si suicida, ed il nipote
seminarista viene incaricato dalla zia, che il tipo aveva abbandonato senza
motivo anni prima, di mettere a posto le ultime cose del morto. Il nipote così
fa un viaggio nella memoria, dello zio giocatore e forse rapinatore e forse
altro, ma trova anche una misteriosa busta con dieci milioni di lire (siamo qui
nel 1991) indirizzata da una donna sconosciuta. Coincidenze strane, unite ad
altre che si scopriranno solo nel concitato finale che unisce i puntini come
fossero un rompicapo della Settimana Enigmistica. In “Nero due” vediamo il
trentenne Abele, che in ospedale negli anni Novanta incontra Massimo, uomo
estroverso e casinista, che gli racconta la sua vita: orfano cresciuto dai
frati, sbandato, poi criminale e rapinatore, infine, camionista dopo l’incontro
con la bella Eleonora. Amicizia ospedaliera, puntellata dai racconti strani di
Massimo, dal rapporto con il frate della giovinezza, a quello con il boss in
carcere (uno dei punti migliori). Storia finita con le dimissioni
dall’ospedale, che si riapre con la comparsa di Eleonora a casa di Abele, e con
l’agnizione del pericolo che sta correndo Massimo. In “Nero tre” veniamo
riportati al tempo della gioventù di Massimo, quando stava dai frati, quando
scelse la sua cattiva strada, quando ignorò l’aiuto del frate che speravo di
toglierlo dalla strada. Alla fine, in quel finale che non mi convince più di
tanto, i tre racconti lunghi collassano cercando di far intrecciare tutti i
possibili forse della narrazione. Si riuscirà a cavarne un disegno unitario? Un
senso logico? Una qualche possibilità di comprensione? Personalmente non l’ho trovata.
Motivo per cui, seppur la scrittura e la struttura di ogni fase mi abbia
interessato, ed in alcune parti coinvolto, alla fine, il testo complessivo non
raggiunge quello stomaco di piacere o quel cuore di passione che a me devono
dare, anche in piccola parte, gli scritti che tengo a conservare tra i “miei”.
L’altro punto che mi rimane è un rimando di memoria, che tocca solo in margine
il libro, ma che mi tornava in mente in alcuni punti. La storia di mio prozio
Giovanni (cioè lo zio Giovanni di mio padre). Personaggio strano, di cui non si
ha storia certa nella famiglia. Autonomo e solitario, ogni tanto, nel
dopoguerra, ricoverato al “Fatebenefratelli” all’Isola Tiberina, dove mio
padre, unico nipote, andava a trovarlo e confortarlo. Non si sa che mestiere
facesse, né se avesse famiglie alle spalle. Se ne sa la solitaria esistenza
(quasi come un personaggio di Munforte), e la volontà estrema di “non dar
fastidio”. Tanto che, dopo un’ultima crisi, zio Giovanni esce dall’ospedale, e
sparisce. Non se ne saprà più nulla. Forse morto, forse emigrato, di sicuro
allontanatosi volontariamente da tutti, per vivere la sua fine solo e senza
altri fardelli. Ma questa è la mia storia, non quella del libro, che lascio a
chi voglia intraprendere la non facile lettura.
Questo
mese ha cinque domeniche, sicché ne approfitto per recuperare cure passate dove
i libri citati erano stati letti dopo la pubblicazione dell’allegato relativo.
Ebbene sì, siamo alla seconda settimana di
reclusione, o meglio di “restiamo tutti a casa”. Lo faccio, come tutti. Ne
soffro, come tanti. Mi adatto. Leggo, aiuto quel che posso. Vivo anche una
dimensione familiare non usuale ma per nulla dispiacevole. Di certo, le
limitazioni alla libertà sono tante, e non facili. Di certo, gradirei dei gradi
di libertà, seppur minimi. Ma facciamoci forza, e stiamo tutti uniti, che, come
dicevano i cileni quaranta anni fa, “unido jamas sera vencido”.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
Quasi PASQUA 2020
Quando c’è una domenica in più,
come in questo marzo anomalo, cerco di recuperare trame e malanni passati.
Eccone tre.
Cent’anni, avere più di
I DIECI MIGLIORI ROMANZI PER CHI HA PIÙ DI CENT’ANNI
1. Thomas
Bernhard Estinzione
2. Andrew Sean
Greer Le confessioni
di Max Tivoli
3. Jonas Jonasson Il centenario che
saltò dalla finestra e scomparve
4. Yasunari
Kawabata La casa delle belle addormentate
5. Milan Kundera L’immortalità
6. Cormac McCarthy Oltre il confine
7. A. A. Milner Winnie the Pooh
8. Georges Perec La scomparsa
9. Osvaldo
Soriano Un’ombra
ben presto sarai
10. Giuseppe Tomasi
di Lampedusa Il gattopardo
MATERNITÀ
Barbara
Comyns “I miei anni a rincorrere
il vento”
Allison
Pearson “Ma come fa a far
tutto?”
«‘‘Non sopporto l’idea di fare il
papà e spingere il passeggino!” disse George. Allora risposi: “Nemmeno io
voglio fare la mamma, accidenti; me ne vado”. Poi però mi ricordai che se me ne
andavo il bambino sarebbe venuto con me ovunque. Mi sentii soffocare e scoppiai
a piangere».
Questo brano tratto da “I miei
anni a rincorrere il vento”, romanzo ambientato negli anni Trenta, lo
potrebbero stampare sulle confezioni di pillole anticoncezionali come
promemoria di cosa significhi davvero avere un bambino. Quando c’è, c’è sempre,
e voi ne siete responsabili, che vi piaccia o no. (A meno che, ovviamente, non
siate la protagonista di “Inseguendo l'amore” di Nancy Mitford, che abbandona la
figlia perché sia allevata dalla sorella Emily. Anche questo è un modo per
affrontare la maternità: far lavorare gli altri al posto vostro).
La maternità non può essere
guarita, ma esistono dei trattamenti da somministrare, e il romanzo autoironico
e in gran parte autobiografico di Barbara Comyns è un ottimo punto di partenza.
Sophia è una ragazza inesorabilmente ottimista, che si sposa troppo giovane,
gira con in tasca un tritone che si chiama Great Warty e non è assolutamente
pronta a diventare madre. Lei e il marito sono due convinti bohémien ripudiati
dalle famiglie che vivono grazie ad alcuni assegni trovati in un cassetto e
guadagnano qualche soldo facendo da modelli per alcuni artisti mentre Charles
dipinge i propri quadri. Sophia non ha un bambino, ma addirittura due, e la
scarsa volontà di Charles a fare concessioni alla paternità non fa ben sperare
per la loro. Le terribili esperienze vissute da Sophia in ospedale sono già
sufficienti a scoraggiare molte future madri, ma la sua capacità di riprendersi
dopo le peggiori disavventure - come quando la suocera prima giura di non
andare al matrimonio, e poi arriva con sciami di parenti e si aspetta di essere
ospitata nello squallido appartamento della nuova coppia - fa di lei una compagnia
vivace e positiva. Passa da un lavoretto all’altro, e spesso mantiene la
famiglia da sola, mentre Charles continua a credere di avere un grande talento
e che la paternità non può mettergli i bastoni fra le ruote.
Tutto questo, alla fine,
rappresenta una versione estrema di quella che è l’esperienza di molte nuove
madri, ma l’umorismo anticonformista e tonificante, insieme alla voce
ammaliante di Sophia, farà sì che molte donne ridano con lei mentre fa del suo
meglio per giocare alla famigliola felice senza alcun aiuto da parte del
marito. Se ne avete appena avuto uno, eviterete di sbattere la testa contro un
muro per diversi anni, facendo vostro il suo spirito di sopravvivenza.
Per una visione più moderna della
maternità, “Ma come fa a far tutto?” di Allison Pearson è una divertente
analisi delle abilità da giocoliere necessarie a mantenere un ottimo lavoro, un
amante, l’apparenza di un matrimonio e al contempo fare la mamma. Il libro
inizia con Kate Reddy, trentacinque anni, sveglia alle 1.37 del mattino del
tredici dicembre, che «maltratta» tortine di frutta secca comprate da Marks
& Spencer per farle sembrare fatte in casa. È decisa almeno a sembrare una
«buona madre», una donna «pronta a sacrificare tutto per cucinare una buona
torta di mele, un’indefessa sorvegliante della vasca da bagno» oltre che una
madre «dell’altro tipo», quello che tutti criticavano negli anni Settanta della
sua infanzia.
Di giorno Kate gestisce fondi per
una società della City, dove il suo capo le guarda il seno «come se fosse in
offerta speciale»; lavora fino a tardi, il suo unico svago è una storia d’amore
via e-mail con Jack Abelhammer, un uomo troppo bello per essere vero. Si
preoccupa continuamente di perdere i momenti importanti nella vita dei figli
(«Oggi è il primo compleanno di mio figlio e io sono seduta in cielo proprio
sopra Heathrow») e si infuria contro il mondo misogino che l’ha messa in quella
situazione. Il suo matrimonio sembra un’eredità del secolo scorso, perché è lei
che si fa carico di tutto quello che riguarda i figli, delle faccende
domestiche e di andare avanti e indietro con la scuola, da sola o con il
telecomando.
Pearson scrive con tanto umorismo
che leggere questo romanzo sarà una vera sfida per i muscoli del vostro
pavimento pelvico, messi già a dura prova dal parto. Se non siete ancora
entrate nel paese della maternità, ma siete curiose di sapere cosa succede al
di là del confine, questo romanzo servirà a mettervi in guardia contro la
pretesa di «avere tutto». Chi vive già certe situazioni, invece, si divertirà moltissimo
a guardare Kate Reddy che si prepara per la sua prossima mossa - e continua a
destreggiarsi tra il matrimonio, la carriera e i figli. Leggete questo romanzo,
e fatevi coraggio. Si può avere tutto, basta ricordarsi di tenere a portata di
mano un matterello per dare qualche colpo alle torte comprate in pasticceria.
OSPEDALE, ESSERE RICOVERATI IN
Quando siamo
in ospedale vorremmo un angelo custode che si occupasse di noi, con dolcezza –
ma anche poter fuggire in un luogo selvaggio e avventuroso. Per questo vi
proponiamo due serie di libri: “angeli” e “avventure”.
I
DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE IN OSPEDALE
Don
DeLillo “Underworld”
Cecil
Scott Forester “La regina d’Africa”
David Grossman “Che tu sia per me il coltello”
Jack
Kerouac “I sotterranei”
Barbara
Kingsolver “L’albero dei fagioli”
Jack
London “Il richiamo
della foresta”
Daniel
Pennac “Il paradiso degli
orchi”
Jo
Soares “L’uomo che
uccise Getulio Vargas”
Osvaldo
Soriano “Futbol – Pensare con
i piedi”
Bruno
Traven “Il tesoro della
Sierra Madre”
Bugiardino
Allora, eccoci ancora alle prese
con i centenari, che in questi tempi “coronati” (ma non regali) sembra più un successo che una malattia. Sempre
in temi di attualità, c’è la maternità (che di certo avrà qualche impennata).
Per poi finire con i ricoveri ospedalieri, di cui possiamo parlare a lungo.
Cormac McCarthy “Oltre il confine” Einaudi euro 12,50 (in realtà,
scontato a 9,35 euro)
[tramato il 21 luglio 2019]
Non
è che manchino i libri di McCarthy nella mia libreria, li ho letti quasi tutti,
ne ho gustato il dolore della scrittura, la sapienza della parola scritta,
l’asciuttezza flaubertiana con cui l’autore ci porta per mano lungo le pagine
delle sue storie. Perché tutto il mondo è una storia, e tutte le storie che si
raccontano fanno parte di un’unica storia. Quella storia che è il mondo. Ma la
ragione in più della lettura è il solito consiglio delle cure librarie, dove si
consiglia che sia un libro da leggere ai nostri centenari (ed auguri a chi ci
arriva). Venendo per prima cosa al testo, è un vero libro da “far west”, nel
puro stile Cormac. Paesaggi, persone, morti inutili. Come se si fosse ancora
nell’Ottocento. Invece siamo al tempo della Seconda Guerra Mondiale. Un libro
che tiene fede al suo titolo originale, quel confine che bisogna attraversare
per crescere, per diventare adulti. Quel confine che il protagonista principale
del libro, ed i coprotagonisti, attraversano tre volte. Billy, alla fine di
tutti questi sconfinamenti, diventerà adulto? Crescerà? Sarà consapevole? A
Cormac non interessa dircelo, e forse non è importante. Vediamo allora questo
confine, che in realtà è anche fisico. Il confine tra Stati Uniti e Messico,
iniziando in un tempo che si colloca negli anni Trenta. La famiglia Parham si è
da poco trasferita nel New Messico, vive di caccia e di agricoltura, come
ancora si faceva in quegli anni laggiù lontano dalle grandi città. Al centro
della storia c’è il sedicenne Bill, ed in secondo piano suo fratello
quattordicenne Boyd. Le mandrie dei Parham sono minacciate da una lupa che,
sconfinata dal Messico, è venuta lì fuggendo cacciatori e per partorire. I
Parham le danno la caccia, e sarà Bill a trovarla. Dovrebbe ucciderla, ma lì c’è
lo scatto interno, il moto che fa di Billy “un diverso”. Vedendo l’ingiustizia
di una possibile esecuzione dell’animale, Bill decide di riportare la lupa
nelle terre natie. Intraprende così, senza dirlo a nessuno, un lungo viaggio,
pieno di peripezie, pieno di incontri. Un viaggio che contiene le più belle
pagine del rapporto tra uomo e animale, e tra uomo e natura. In Messico, Bill
viene sopraffatto dai cattivi che prendono la lupa per utilizzarla in
combattimenti animali. Bill non potrà che assistervi, e quando la lupa sarà
stremata, decide lui di por fine alle sofferenze ed ucciderla. Torna a casa,
dover scopre che la sua famiglia è stata massacrata e tutti i loro animali
rubati. Si è salvato, a stento, il solo Boyd. I due allora decidono di
attraversare di nuovo il confine, alla ricerca dei ladri e dei cavalli. Che
troveranno entrambi, che in parte riprenderanno, che saranno coinvolti in
sparatorie dove, ancora una volta, Boyd rischia di morire. Sarà salvato dalle
cure di una bella indigena. Ma il rapporto a tre non è, non può essere
equilibrato. Così che Bill ritorna a casa, mentre Boyd e la bella rimangono
ramenghi tra le colline messicane. Passa il tempo, passa la guerra, ed alla
fine Bill intraprende l’ultimo viaggio. Per ritrovare le ossa del fratello,
morto in una qualche sparatoria, e sepolto chissà dove. Dopo aver trovato la
tomba di Boyd, Bill cade in un’imboscata tesa da uomini che dissacrano i resti
di Boyd e pugnalano il cavallo di Billy, Billy, con l'aiuto di una zingara,
riesce a far guarire il cavallo e con lui ritorna verso casa. riporta il
cavallo alla condizione di poter cavalcare. L'ultima scena mostra Billy solo e
desolato, che incontra un cane terribilmente maltrattato che gli si avvicina
per chiedere aiuto (quasi un contraltare dell’inizio). Ma qui, in contrasto con
il suo legame giovanile con il lupo, spara al cane con rabbia. Poi se ne pente,
torna a cercare il cane, che però è sparito. Bill si ferma e comincia a
piangere. Questa è la storia, cui mancano i tanti incontri di Bill lungo le sue
peregrinazioni. Predicatori, attori, messicani cattivi, messicani buoni. E
tanto altro. Che il senso di Cormac è tutto qui, forse. Facciamo tante cose,
incontriamo tanta gente, ognuna che ci dona un pezzo della sua umanità, per far
sì che noi possiamo costruire la nostra, di storia, di umanità. Che non
dovremmo mai tradire, una volta raggiunta. E quando ci accorgiamo di aver fatto
un errore, non possiamo che cercare di rimediare. Di tornare indietro. E
comunque, di piangere. Un pianto liberatorio, che solo può svelare, senza tante
parole, chi siamo diventati. McCarthy ha questo suo stile che a volte mi
irrita. Ma alla fine non posso non dire che il libro è interessante,
blandamente conradiano, profondamente ben scritto.
“Le
cose separate dalle loro storie non hanno senso … Quando ne abbiamo perso il
significato, non hanno più neppure un nome. La storia, d’altro canto, non può
mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo.”
(122)
Allison Pearson “Ma come fa a far tutto?” Mondadori euro 6,90 (in
realtà, scontato a 5,20 euro)
[tramato il 23 dicembre 2018]
Tipico
esempio di letteratura nata all’epoca dei “Baby Boomers” americani. Tipico
esempio di scrittura anglosassone. Certo, non ha proprio solo elementi
negativi, visto che, ogni tanto, mi ha fatto anche sorridere, anche se poco.
Nella grande ondata delle idee alla Bridget Jones, all’inizio del nuovo secolo,
molta letteratura di lingua anglosassone si interrogava sul rapporto tra vita
privata e vita pubblica (detto così sembra quasi un argomento importante). E su
queste tematiche escono film e libri che ne parlano. Con un piglio, come in
questo caso, fintamente femminista, ma ancora pieno (anche se forse non colmo)
di modi ed espressività più maschili che femminili. Si nota, dallo scrivere, la
provenienza giornalistica dell’autrice. Che sicuramente dà un tono spigliato
alla scrittura, ma che a me, a volte, lascia un tantino freddo. Il libro è una
sorta di diario della protagonista, Kate Reedy, e delle sue vicissitudini
familiari e lavorative. Ha un posto di responsabilità in una grande azienda di
gestione fondi (mestiere tipicamente anglosassone anch’esso), con un alto grado
di conoscenza del mercato, e con una grande abilità organizzativa e
previsionale (non disgiunta da un po’ di fortuna che non guasta mai) che le
consente di arrivare a posti di responsabilità aziendale. Fornendo molto materiale
di invidia ai colleghi maschi. Con, inoltre, la necessità di frequenti
spostamenti in giro per il mondo, al fine di seguire i suoi clienti. Una
situazione che ho ben presente (anche se con molte responsabilità in meno)
avendone avuto assaggi nella mia vita precedente. Ed avendo visto come, in
situazioni analoghe, le donne abbiano (ed hanno) da superare enormi difficoltà:
di credibilità, di disponibilità, ed altro. Insomma, tutto il bagaglio che è
ben noto in ambienti di lungo corso maschile, dove le donne venivano (vengono)
viste al massimo come segretaria di rara efficienza, non come colleghe a volte
(spesso) più brave e capaci dei colleghi maschi. La nostra Kate è contornata da
un marito architetto, che quindi avrebbe più facilità a disporre del proprio
tempo. Ma che, come tutti gli ometti analoghi, si aspetta di essere servito e
riverito. Non solo, ma non è in grado, non conosce, nessuno dei meccanismi di
funzionamento di una casa moderna. Non sa fare lavatrici, non sa cambiare
lampadine, non conosce i posti degli alimenti o dei vestiti. Per rendere il
tutto più completo e complicato, alla famiglia si aggiungono due bambini: Ellen
di cinque-sei anni e Ben di uno-due. Ovviamente, la gestione dei figli ricada
tutta su Kate. E per fortuna che a sostegno dei fanciulli c’è la tata Paula.
Certo anche lei con i suoi problemi, ma almeno presente (discretamente) quando
serve. Al contorno familiare si unisce il contorno sociale di Kate. La collega
Cole, single e sodale, che a metà libro rimane incinta. La neoassunta Maomao,
di origini asiatiche e colma di illusioni lavorative. Seguiamo allora
l’andamento di questo grande carrozzone, con tutte le crisi che possono
capitare. Colleghi pseudo-pornografi con le loro battute insopportabili.
Bambini da prendere a scuola, portare a feste. Bambini che si ammalano a
Londra, sempre quando Kate magari è per lavoro a New York. Tutto quello che
possiamo immaginare come difficoltà della vita di Kate si presenta, compresa la
crisi coniugale con il marito Richard e l’innamoramento virtuale con
l’americano Jack. Kate, da super-mamma e super-donna, affronta tutto
l’affrontabile, riuscendo, con un filo di sorriso sulle labbra, a sconfiggere
nemici e mulini a vento. Ma tutto ha un prezzo, e dopo un paio d’anni di questa
vita, Kate getta la spugna sul lavoro. Tuttavia, dopo un po’ di
casalinghitudine, eccola di nuovo sulla breccia, con nuove idee
imprenditoriali, con nuove sfide. La morale, un po’ maschile (forse?), è che se
Kate fosse un uomo avrebbe vinto sul fronte del lavoro, e si sarebbe trovato
una donna per gestire la casa. Non ritengo che sia una morale vincente, come
non la ritengo la morale opposta, che una donna per fare carriera e far valere
le sue capacità debba negare il suo essere donna. Non conosco soluzioni, solo
tentativi in cui una coppia cerca di gestire la propria vita paritariamente. Ci
vuole coraggio e capacità da entrambe le parti, e qualche passo avanti si può
fare. Ho tralasciato tutti gli episodi a margine della storia, il capo, le
amiche, i colleghi. Ognuno con qualche elemento di riflessione. Ma mi premeva
sottolineare il filone principale della storia. Ed il mio non concordare con le
decisioni che prende Allison, la scrittrice, per descrivere e decifrare (anche)
il suo mondo. Sono curioso, infine, di conoscere i motivi che ne consigliano la
lettura, e per quale malattia.
David Grossman “Che tu sia per me il coltello” Mondadori euro 12 (in
realtà, scontato a 9 euro)
[tramato il 14 ottobre 2018]
Ho
sempre una grossa difficoltà con Grossman, quasi un rapporto di amore e odio.
Perché sono in sintonia con le sue prese politiche pubbliche (e mangiammo a
Gerusalemme nel locale preferito da lui e Amos Oz, il Tmol Shilshom, dietro Ben
Yehuda), ritengo che sappia di certo maneggiare la scrittura, ordendo trame
complicate nella stesura e nella realizzazione, eppur tuttavia le sue opere non
mi coinvolgono quasi mai (forse ad eccezione di “Qualcuno con cui correre”), anzi
le trovo sempre di difficile lettura. Come questa, eccezionalmente lenta nel
dipanarsi temporale, cosa per me inusuale. e con molte difficoltà ad andare
avanti, a raggiungere la fine, ed a sentirmi in sintonia. Per cui il mio voto
composito prende un libro per la scrittura, un libro per motivi altri di cui
andrò narrando, ed un doppio meno per il piacere del testo e del suo sviluppo.
Come sa chi di Grossman ha letto, già il titolo è un omaggio letterario ed un
riferimento. Preso da una frase delle lettere che si scambiarono a suo tempo
Kafka e Milena (sulla cui storia un giorno ci sarebbe da tornare). Dove il
grande praghese chiede che l’amore di Milena sia il coltello con cui aprire e
scarnificare tutte le complicanze del proprio animo. Partendo da qui, David
costruisce il “suo” romanzo epistolare, tra Yair e Myriam. O forse tra Myriam e
Myriam stessa, anche se tutta la prima parte è costruita sulle lettere di Yair.
Che un giorno vede Myriam in una qualche manifestazione pubblica (credo di
studenti e professori) e rimane incantato da un gesto della donna. Un gesto che
nota lui solo, e che da quello parte per coinvolgere la donna in un rapporto
epistolare “alla lontana”, dove ognuno ha il diritto-dovere di aprirsi, di
confessare all’altro le sue più segrete cose. Leggendo le parole di Yair,
queste illuminano la complessità del personaggio maschile (scusate il piccolo
nascosto gioco di parole, dato che proprio Yair significa “luce,
illuminazione”). Inciso: mi viene anche in mente ora che Yair era il nome di battaglia
di un sionista che combatté negli anni Trenta nell’Irgun, per poi staccarsi e
fondare una sua “banda”, cadendo a 35 anni sotto i colpi della polizia
britannica. Un personaggio maschile, si diceva, che cerca di affascinare con le
sue trame, con le sue pillole di vita l’altro polo del romanzo. Yair è un
condensato di tutto quanto possa essere “maschile” nell’immaginario comune
(introverso da giovane, solipsista, autoproclamatosi brutto e poco
affascinante, sempre pronto a fare il cascamorto con le donne, senza spesso
molto successo, sposato, padre non sempre felice, fedifrago, e
fondamentalmente, molto pieno di sé). Leggiamo le sue confessioni, i modi con
cui cerca di scardinare l’universo “Myriam”, e lo si fa con molta fatica, senza
coinvolgimento. Io, anche, con un po’ di fastidio. Solo quando Myriam viene lei
in prima persona, quando vediamo le sue lettere, capiamo il suo mondo, da come
traspariva in controluce dalle parole di Yair, che il libro fa uno scatto in
avanti. È Myriam invero il motore principe delle idee, mi verrebbe da dire
positive, ma forse solo costruttive. Capiamo i suoi drammi di donna, le sue
amicizie, i suoi amori, il dolore del figlio autistico. Capiamo come dentro
abbia tanto di più di quanto possa avere Yair, e che, forse, Yair è servito
solo a darle un grimaldello per scardinare un mondo troppo chiuso, troppo
compresso. Sebbene ognuno con la propria vita sociale distinta, non potrà non
essere che alla fine, per complesse casualità, i due si incontrano, si
scontrano, e, fortunatamente, Grossman non ci dice come proseguirà nel futuro.
In fondo poco ci importa. Si capisce che, se Yair si lasciasse trascinare da
Myriam, potrebbe scaturire altro, ma non credo possa succedere. Io, tifo per
Myriam, sin dalle prime righe. Questo è quanto per giustificare il libro
dedicato alla scrittura (Grossman riesce, senza mai entrare direttamente nella
descrizione, ma per cenni e rimandi, a farci vedere ed immaginare chi siano
Yair e Myriam) ed il doppio meno dedicato alla trama. Rimane il mio rimando
personale, che mi è balzato prepotentemente agli occhi dopo le prime lettere di
Yair. Che ripensavo al me stesso quindicenne, al suo lungo (nella memoria, ma
in fondo durò solo otto mesi) amore epistolare con la bella friulana di un
incontro estivo-tortoretano. Già allora velleità scrittrici mi balzavano alla
penna. Ricordo che avrei voluto prendere le lettere di … beh chiamiamola
Tiziana (nome di fantasia) e riunirle in un romanzo ad una via. Sì, per fare in
modo che, leggendone da una parte sola, si potesse vedere, immaginare, il mondo
del rapporto a due. Avevo anche un titolo al libro, che avrei chiamato “Amanti
sotto il cielo, perplessi” (in questo drogato da mio cugino Paolo il cinefilo e
dal suo ardore verso il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel ’68,
“Artisti sotto la tenda del circo, perplessi” di Alexander Kluge). Tuttavia,
alla fine, proprio questi ricordi personali fan sì che Grossman rimanga ancora
tra gli autori che non mi dispiace leggere.
Conclusioni
Difficile trarre conclusioni
quando si parla di “malattie” disparate e che in fondo NON sono proprio delle
malattie. Per questa volta mi accontento di riproporvele, augurando a tutti una
buona lettura (e che si continui a leggere per lungo tempo).
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