Dolores Redondo “Il guardiano invisibile”
TEA euro 12
[A: 26/09/2017– I: 27/09/2019 – T:
29/09/2019] - &&
+
[tit. or.: El guardian invisible; ling.
or.: spagnolo; pagine: 393; anno 2012]
La scrittura della “giovane” (solo cinquantenne
infatti) Dolores non è affatto male. In alcuni momenti però, cade, e si
attorcina sia in descrizioni che portano in basso il ritmo del romanzo, sia in
rami laterali che non si capisce perché si inseriscano nel corpo del discorso.
La cosa migliore, in realtà, è l’ambientazione nella provincia di Navarra, con
alcune estensioni verso i paesi baschi (e si capisce anche da alcuni nomi
impronunciabili). La storia infatti comincia a Pamplona, dove è di stanza
l’ispettore Amaia Salazar, giovane donna in buona carriera e di grandi capacità
analitiche, con il marito americano James, presente ma un po’ inutile
nell’economia del libro. Poi ci si sposta sul luogo di efferati delitti, la
cittadina di Elizondo, verso la Francia, e sotto i Pirenei. Con i suoi boschi,
e con tutte le leggende che nei boschi basco-navarrini hanno una loro terra
fertile. Per fare un po’ di polpa al racconto (se ce ne fosse bisogno),
Elizondo è anche la città nativa della famiglia Salazar, che lì ha impiantato
una fiorente industria pasticcera. Ora gestita dalla sorella anziana Salazar,
Flora, e dove, fino a poco tempo prima, lavorava anche la terza sorella,
Rosaura detta Ros. Questa ambientazione familiare serve anche a Dolores Redondo
per impolpare il romanzo di storie “personali”. Ed è l’ambientazione uno dei
punti di forza di un romanzo altrimenti un po’ scarico di tensione
“poliziesca”. Infatti, le indagini, di cui parleremo poi, porteranno Amaia a
tornare nella natia Elizondo, un luogo magico vicino a Pamplona ed alla riserva
naturale di Baztán. L’atmosfera basca è rievocata allora dalle strade e dai
vicoli della cittadina, ma soprattutto attraverso tradizione e folklore.
Tradizione della cucina basca, di cui ci parleranno Amaia e le sue sorelle,
nonché dei dolci, sfornati dalla famosa “Pasticceria Salazar”, il luogo della
famiglia, che sforna i migliori txatxingorri di tutta la regione (un dessert di
forma tonda, tradizionalmente prodotto al momento della macellazione del maiale
i cui ingredienti principali sono maiale fritto, strutto, pasta di pane e
zucchero; insomma manca poco per farne un sanguinaccio…). Ed il folklore della
zona navarrina, magico per l’ancestrale culturale druidica, abitato dalle
“lamiak”, fate dai piedi d’anatra, custodito da un “basajaun”, una specie di yeti,
mezzo uomo e mezzo orso che protegge la vita dei boschi, osteggiato dalla
strega Belagile, donna potente e malvagia, capace di alterare i fatti per far
trionfare la propria malvagia volontà. In questo luogo magico deve tornare la
nostra eroina, l’ispettore Amaia, donna a capo di una squadra tutta maschile
per indagare su omicidi seriali tra il vero ed il magico. Anche se sorretta
psicologicamente e fisicamente dall’amato marito James, americano nonché
scultore, il ritorno ad Elizondo riporta ad Amaia i ricordi sospiti del trauma
vissuto ad otto anni, quando sua madre Rosaria, assai fuori di testa, cercò di
ucciderla a colpi di mattarello. Amaia viene da allora inviata dalla zia
Engrasi, che le insegna l’arte dei tarocchi, attraverso i quali (anche) cercherà,
a parte l’indagine scientifica, di trovare il bandolo delle morti. Che sono
Carla, Ainhoa, Anne, le adolescenti vittime del serial killer. Tutte trovate
con i vestiti strappati, ma con cura, le mani rivolte verso l’alto, e sul pube,
rasato per farle tornare bambine, uno txatxingorri. Le indagini, ed è ovvio da
quanto sopra scritto, si intrecciano con il personale di Amaia, il marito, le
sorelle, la zia, il mondo tra Navarra e Paesi Baschi, là sotto i Pirenei. Però
le indagini non hanno il risalto che potrebbero avere, si trascinano tra molte
difficoltà, non solo ambientali. Ma non ne tracciamo il percorso, che vi
consiglio di seguire leggendone. Sottolineo solo che, rispetto alla mole
prodotta, il finale è un poco affrettato. Non si riesce a decodificare fino in
fondo la psicologia del serial killer, e, sebbene la parte finale abbia un buon
ritmo, avrebbe meritato un diverso respiro (rimando sempre alla lista di S.S.
Van Dine a questo punto). Non è un caso, inoltre, che le ultimissime pagine
lascino spiragli che fanno presagire l’ovvio seguito (che noi sappiamo esserci,
essendo questo definito il primo libro della “trilogia di Baztán). Il secondo
l’ho preso di già, ma per ora sta sugli scaffali.
Gwen Bristow & Bruce Manning “L’ospite
invisibile” TEA euro 10
[A: 09/03/2018 – I: 15/10/2019 – T:
16/10/2019] - &&
+
[tit. or.: The Invisible Host; ling. or.: inglese; pagine: 185; anno 1930]
Un
tipico “giallo da camera” degli anni Trenta, confezionato con garbo dalla
coppia marito-moglie composta da due giornalisti di New Orleans. Lei, Gwen
Bristow viene dalla Carolina die Sud, lui, Bruce Manning da New York. Si
conoscono nella redazione del “The Times-Picayune”, uno dei più antichi
giornali di New Orleans (fondato ben nel 1837 ed assurto agli onori della
cronaca per aver ricevuto il Premio Pulitzer come giornale per gli articoli
sull’uragano Katrina del 2006). Per arrotondare i mai troppo sostanziosi
introiti, la coppia decide di scrivere qualche libro a quattro mani. Ne
usciranno 4, dal ’30 al ’33, ma poi, soprattutto con le entrate del primo
(questo di cui parliamo), e con la carriera di sceneggiatore che intraprende
Manning non avranno più grossi problemi economici. Devo dire che la scrittura
si nota che è ben datata, con passaggi di poca agilità, anche se l’impianto
generale è interessante e sicuramente, per l’epoca, innovativo. In pratica ci
sono otto personaggi convocati da un “ospite misterioso” ad un festeggiamento
in un palazzo di New Orleans. C’è Margaret
Gaylord Chisholm una signora dell'alta società, che fa e disfa i ricevimenti in
città, che ritiene di essere stata invitata dal professor Reid per festeggiare
l’esclusione dalle feste della rampante famiglia Slamon. C’è Max Chambers Reid
un professore universitario che pensa di essere stato invitato da Jason Osgood
per celebrare l’allontanamento del rampante e “democratico” Abbott
dall’Università stessa. C’è Jason Osgood un uomo d'affari che pensa
l’anfitrione sia Peter Daly, al fine di brindare alla creazione della
Fondazione Osgood. C’è Peter Daly uno scrittore sicuro che sia stata Sylvia ad
invitarlo per festeggiare il successo delle sue ultime opere. C’è Sylvia
Inglesby un avvocato certa che l’invito venga da Slamon per festeggiare la
vittoria politica su di un candidato nelle ultime discussioni preelettorali.
C’è Tim Slamon un uomo politico ed anche magnate delle arti, certo che il
pittore Henry Abbott voglia festeggiare l’apertura di un Circolo artistico. C’è
Henry "Hank" Abbott il pittore, ma anche ex-professore universitario,
sicuro che il mandante sia una messa in scena hollywoodiana. Ed infine c’è
appunto Joan Trent l’attrice, reduce appunto da Hollywood, ed ora a New Orleans
per il lancio del suo nuovo film, che quindi non poteva che essere festeggiato
dalla signora Gaylord. Questo rondò di sapore schnitzleriano è forse la cosa
migliore del libro. Conosciamo gli otto personaggi, li vediamo entrare nella
casa. E lì accolti dall’incubo. Il nono ospite, l’ospite invisibile, dopo la
lauta cena, comunica, parlando attraverso un apparecchio radiofonico (siamo pur
sempre nei Trenta) che li ha convocati lì per ucciderli. Sarà una sfida di
intelligenze, e se qualcuno riuscirà a battere il proprietario della voce (così
contraffatta che può essere sia maschile che femminile), questi si ucciderà
lasciando gli eventuali superstiti uscire dalla casa. Da questo punto comincia
un gioco al massacro, in cui, uno dopo l’altro, i più deboli della riunione
vengono uccisi. Seguendo regole ben precise, cioè sfruttando ogni volta il loro
punto debole, o una loro mania, o comunque facendo vedere da subito che
l’ospite invisibile ben li conosce. Altrettanto ovvio che, per essere
credibile, comunque, il nono ospite deve essere una delle persone presenti, che
avrebbe un sapore poco allettante (e scarsamente professionale) l’intervento di
un personaggio esterno. Purtroppo, sebbene i nostri scrittori ci provino
abbastanza, viene fuori l’intreccio di interessi personali e magagne pubbliche
che hanno portato i nostri otto personaggi sulla scena. Ma l’intreccio non
avvince come sarebbe giusto. Ed anche la fine è in tono minore. Si, sapremo chi
ha fatto cosa, e tutti i retroscena del caso, ma in un finale che non riesce a
rendere giustizia della brillante idea iniziale. Ripeto una bella idea di base,
svolta con diligenza, ma che poteva portare a migliori sviluppi. Non è un caso
che, in seguito, il romanzo sia un po’ caduto nel dimenticatoio. Anche se, come
si può capire, è proprio un giallo da camera, tutto rinchiuso nell’appartamento
e nelle sue stanze. Tanto che ben presto fu anche portato sulle scene teatrali,
anche se con il titolo “Il non ospite” (misteri…). Dal punto di vista formale,
poi, non possiamo che pensare ad un altro, anche se molto meglio realizzato
“giallo da camera”, che vedrà la luce una decina di anni dopo. Ovviamente,
parliamo di “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie (anche se il titolo
originale era “Ten little niggers”, poi abbandonato per problemi di correttezza
politica). Agatha conosceva il testo dei nostri? O la versione teatrale? Difficile, visto che erano molto “american
based”. Ma forse conobbe e prese spunto dal film del ’34, diretto da Roy William
Neill (che non ebbe fama per questo film, ma per aver diretto ben 11 film su
Sherlock Holmes interpretati dall’inarrivabile Basil Rathbone). Nessuno ne
dice, ma sospetti ne vengono.
“Chi
mai desidera arrivare a quell’età in cui l’essere umano se ne sta rannicchiato
in una poltrona aggrappandosi disperatamente al filo della vita che gli sfugge
minuto dopo minuto?” (34)
Timothy Fuller “Delitto a Harvard” TEA euro
10
[A: 09/03/2018 – I: 22/10/2019 – T:
24/10/2019] - &&&
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[tit. or.: Harvard Has a Homicide; ling. or.: inglese; pagine: 213; anno 1936]
Una
riflessione a valle di una lettura leggera e rilassante. Quanti scrittori hanno
prodotto opere non eccelse ma sicuramente al di sopra degli standard, a volte
un po’ mediocri, dell’editoria normale e poi sono spariti senza lasciare
traccia di sé? Fuller è un tipico esempio di questa categoria. Dopo una lunga e
infruttuosa ricerca, di lui posso dire che nacque nel 1914, figlio di tal
Robert Fuller, proprietario di una libreria a Boston. Studiò ad Harvard, a 22
anni scrive questa novella che, per una serie di fortuiti accidenti, finisce
sul tavolo dell’editore di “The Atlantic Monthly”, una rivista di generi vari
fondata nel 1857 da Ralph Waldo Emerson. Lo scritto piacque e Fuller divenne,
nel 1936, il primo autore di gialli pubblicato sulla rivista che aveva visto
gli articoli di Mark Twain sul Mississippi. Nel corso di una decina d’anni o
poco più, Fuller scrive altri quattro romanzi con il protagonista di questa
prima opera. In seguito, dal 1950 in poi non se ne sa più nulla, se non che
muore nel 1971. Dei suoi cinque libri, so che due (questo ed il terzo) sono
usciti in Italia. Ma della sua fortuna o di cosa altro abbia fatto, nulla so. E
dire che questo, per un poco più che ventenne, era sicuramente un avvio
promettente. Non un capolavoro, si è detto. Ma un libro scorrevole, con un
gradevole personaggio al centro, ed una trama, non dico originalissima, ma ben
studiata. Il personaggio principale, che diventerà emblema per Fuller, è un
post-graduate di Harvard, Edmund Jones, soprannominato “Jupiter” quando era
matricola, soprannome che gli rimane attaccato, tanto che lui stesso si
presenta come Jupiter Jones. Intelligente, a volte con intuizioni geniali,
studioso il giusto, ma laureatosi brillantemente, e destinato (se si legge tra
le righe in un’intervista dell’autore, l’unica, rilasciata nel 1937) ad una
brillante carriera universitaria. Dedito a burle ed altro per non annoiarsi, e
per interessi universitari si dedica all’arte, ed a frequentare la biblioteca,
in particolare perché c’è la simpatica Betty (che nel terzo libro diventerà sua
moglie). Detto questo, l’impianto giallo, a dire il vero poco americano e molto
anglo-sassone, prevede la morte di un professore di storia dell’arte.
Decisamente antipatico, secondo me. Sbruffone, arrivista, e coltivatore di
svariati interessi femminili. Cioè ci prova con tutte, e sembra con qualcuno
riesca. Parlavo di impianto anglo-sassone, visto che Jupiter scopre il
cadavere, e, tramite l’agenda e con l’aiuto di un simpatico sergente, ci rivela
che il morto, in prossimità dell’ora dell’omicidio, aveva una serie notevole di
appuntamenti. Con Fitzgerald, un pittore, che recrimina un credito di Singer
(questo il nome del morto) avendogli fatto un ritratto, che però nessuno ha mai
visto. Con Fairchild, un benefattore dell’Università, che ben presto si scopre
esserci andato per minacciarlo visto che aveva adescato la moglie, e questa si
era ritirata, ma sempre sotto le mire di Singer. Ovvio che anche la moglie sia
transitata nello studio, per motivi suoi. Con Hadley, un collega anziano che
Singer aveva scalzato dalla cattedra e che, presumibilmente aveva motivi di
rancore. Poteva (ma questa è solo un’ipotesi) aver visto anche il rettore
Sampson, con la cui moglie aveva ora una nuova tresca, vista la fine della
precedente. Secondo elemento molto “inglese”, sia la stanza di Jones che quella
di Hadley, attraverso una porta facilmente scassinabile, erano comunicanti con
l’appartamento di Singer. C’è infine Miss Slade la segretaria del Museo di cui
Singer è uno dei curatori esimi, che sospetta qualcosa di losco nei traffici
artistici dell’ambiente, senza tuttavia averne prove. Elemento incongruo, c’è,
in giro per Harvard, anche Monsieur Renier, un mercante d’arte francese venuto
a vedere quadri, ma che forse qualcosa sa e/o nasconde. Lo scanzonato Jones,
aiutato dalla simpatica e pronta alla battuta Betty, per mezzo di un ritaglio
di giornale scovato nelle carte di Singer, riesce a risalire a tutta la trama,
ed a dipanarla. Fuller, da bravo almeno conoscitore di letteratura gialla,
riesce anche a servirci un controfinale convincente, prima di smontarlo ed
arrivare alla soluzione del caso. In fondo, non è tanto il giallo, come dicevo
pur ben costruito, ma di facile comprensione, almeno da metà libro in poi.
Quanto l’atmosfera di Harvard e di Boston che ben riescono ad uscire dalla
penna di Fuller. I professori ed i loro tic, le confraternite studentesche, la
presenza di servitori di colore, come il buon Sylvester, che non fa altro che
mescere alcolici a Jones ed a tutti i giornalisti presenti. I giornalisti, a
volte più interessati all’alcol che alla vicenda. I poliziotti, visti comunque
sotto una buona luce. Un discreto romanzetto corale. A me, inoltre, ha
divertito l’incipit, il primo capitolo, dove Jones e tre suoi amici giocano a bridge.
E dove, una volta Jones uscito, gli altri tre, indicati solo con il nome del
bridge e cioè Est, Sud e Ovest, ci introducono sulla personalità e le opere di
Jones, come studente e come dottorando. Noto di passaggio che quindi Jones in
quella mano doveva essere Nord, che, generalmente, indica il morto nelle
partite di bridge. Intrigante.
John Banville “Un favore personale” TEA
euro 10
[A: 09/03/2018 – I: 04/02/2020 – T:
08/02/2020] - & +
[tit. or.: The Silver Swan; ling. or.: inglese; pagine: 326; anno 2007]
Secondo
episodio delle storie di Quirke, anatomopatologo, letto sette anni dopo il
primo, sperando di essermi sbagliato nello stroncare questa avventura
letteraria del peraltro noto e bravo scrittore irlandese. Avevo detto, e ripeto,
che Banville sa riportare le atmosfere degli anni ’50 di un Irlanda non ancora
sottoposta alle guerre degli anni ’70. Ma avevo rilevato, e riporto ancora, la
scarsa presa, la scarsa tensione che la storia comunica. Ci sono quasi tutti i
personaggi iniziali, con le evoluzioni che seguimmo allora. Al centro Quirke,
vedovo e trascinato dagli eventi, quasi incapace di prendere decisioni o
atteggiamenti positivi. Vedovo, ed abbastanza alieno, per ora, ad altre
avventure sentimentali, riversa le sue attenzioni sulla figlia Phoebe. Figlia
che per 20 anni aveva ignorato, lasciandone la gestione familiare a Sarah, la
sorella di sua moglie, ed a suo marito Mel. Nel precedente libro, Sarah muore,
e per una serie di vicende che non sto qui a ripercorrere, John, il padre di
Sarah, nonché nonno di Phoebe, e suocero di Quirke, viene coinvolto in una
serie di scandali, alla fine dei quali, primo Quirke è forzato a confessare la
verità a Phoebe, e secondo John ha un ictus invalidante. E qui lo ritroviamo, a
fatica curato, e ben presto anche (e con soddisfazione di Quirke che non lo
sopporta) morto. In questo episodio, tuttavia, sono Quirke e Phoebe che vengono
alla ribalta, e portandosi appresso il tenente Hackett, un poliziotto
integerrimo che risalta con la sua dirittura in contrasto con i dubbi e le
perplessità di Quirke. In questo episodio, poi, la storia, seppur articolata
nelle descrizioni, è abbastanza lineare. È tutta sulla vita e le avventure di
Deirdre Hunt, una ragazza uscita da un’infanzia problematica, commessa in
farmacia, che trova l’uscita dalle miserie infantili sposando Billy, più
anziano di lei. Sembra un ménage discretamente tranquillo, con i suoi alti e
bassi, sino a che in farmacia entra casualmente il dottor Kreutz, un anglo
indiano dal fascino magnetico. Kreutz colpisce la fantasia di Deirdre, che
comincia a frequentarlo. Il dottore si definisce guaritore spirituale, parla
solo di ricerca interiore, ma il suo studio è frequentato da molta gente
insolita, per la maggior parte donne. Ma anche da uno strano individuo, bello,
affascinante e senza scrupoli, Leslie White. Leslie entra casualmente in
contatto con Deirdre, la circuisce, le fa credere nelle sue potenzialità, tanto
che decidono di aprire insieme un centro estetico, il “Cigno d’argento” (cioè
il Silver Swan del titolo). Tanto che Deirdre cambia il suo nome in Laura Swan,
e diventa l’amante di Leslie. Che è anche sposato, ma che non disdegna tutti i
possibili lidi (e letti) altrui, in particolare perché spende molti soldi, e si
trova sovente in bancarotta. Laura scopre anche che Leslie e Kreutz sono
coinvolti in un giro di foto osé (ricordo che siamo negli anni ’50), Billy
scopre le tresche di Laura con Leslie e Kreutz, Leslie manda in rovina il
centro estetico. Tutto questo lo scopriamo in flashback, che la vicenda si
avvia quando Billy, ex-compagno di Università di Quirke, gli chiede come favore
personale (quello del titolo italiano) di non fare l’autopsia a Laura che è
trovata morta nelle acque prospicenti Dublino. Quirke, scoprendo però una puntura
strana sul corpo di Laura, fa l’autopsia, capisce che c’è qualcosa di losco, ne
discetta teoricamente con Hackett, ma non fa nulla per cambiare il verdetto di
suicidio emesso dal coroner. Nel frattempo, Leslie, cacciato di casa dalla
moglie, trova il modo di circuire la giovane Phoebe. Non solo, ma ad un certo
punto, anche Kreutz viene trovato morto, ma questa volta massacrato a pugni e
calci. Di certo non un suicidio. Mentre Quirke cerca solo di capire se la
figlia è coinvolta, e se lo fosse, come fare a tirarla fuori, l’unico che segue
il caso, pur non ufficialmente, è il tenente Hackett. In un convulso finale,
sarà lui a farci capire la dinamica di tutti gli avvenimenti, mentre Quirke
continua ad aggirarsi per il libro, ed io non capisco perché ne sia indicato
come il protagonista, che poco fa per risolvere il caso. Anzi, poco fanno quasi
tutti, ed il caso, ad un certo punto si risolve, tutti i puntini tornano al
loro posto, e noi cerchiamo di capire che caspita faccia Quirke nella vita.
Quindi, storia noir azzerabile, coinvolgimenti emotivi anche, la testa che
cerca di capire i motivi del successo di questi libri. Nonché il motivo di
mettere quel titolo italiano, spostando l’attenzione dalla vicenda di Laura
Swan alle riflessioni di Quirke se sia giusto o meno fare l’autopsia, se sia
giusto o meno denunciare un possibile crimine. Misteri insondabili. Tra l’altro
le collane di Repubblica Noir hanno fatto uscire anche i seguiti di queste
storie, che ho in libreria, ma che non saranno letti con celerità.
“Essere
un sufi significa essere sempre in cammino, senza aspettarsi di giungere alla
meta. Viaggiare è tutto.” (122)
“Credo
che i nostri cari continuino a condizionarci anche dopo che se ne sono andati.”
(292)
Visto che pare si abbia poco per rallegrarci,
come terza trama mensile, vi allego una mini-recensione di un autore che ha
scritto ironiche cose, da leggere in relax nei tempi attuali.
Non
ritorno sui tempi che stiamo vivendo, abbiamo detto tanto ed in altre sedi.
Questi sono momenti che spero aiutino qualcuno a trascorrere momenti di
rilassatezza. E sappiamo che ce ne vuole.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
MARZO 2020
Continuiamo anche questo mese nella citazione e nella
disamina di libri con rilascio immediato di benessere.
SOLUZIONI
A RILASCIO RAPIDO 5
LIBRI CITATI:
LA SOVRANA
LETTRICE di ALAN BENNETT (2007)NUDI E CRUDI di ALAN BENNETT (2001)
LA CERIMONIA DEL MASSAGGIO di ALAN BENNETT (2002)
DUE STORIE SPORCHE di ALAN BENNETT (2011)
GENTE di ALAN BENNETT (2012)
Se non
credete fino in fondo che un libro possa considerarsi una medicina in grado di
alleviare dolori e malumori, e non siete del tutto persuasi che una storia di
fantasia possa influenzare la vostra storia, siete affetti da una spiacevole
forma di scetticismo letterario che potrebbe incidere negativamente sulla
riuscita della biblioterapia. La collaborazione del paziente e la fiducia nella
cura sono fondamentali ai fini della guarigione. In caso presentaste questo
disturbo, vi consiglio di iniziare il percorso terapeutico proprio da questa
sezione in cui trovate alcuni romanzi che dimostrano il potere della letteratura
nel modificare la nostra vita. Lasciatevi contagiare dalla loro influenza e
scoprirete che, se i libri non cambiano il mondo, possono cambiare le persone.
Possono cambiare noi. E noi, se ci applichiamo, possiamo provare a cambiare il
mondo.
LA SOVRANA LETTRICE di ALAN BENNETT
Se
siete refrattari alle storie d’amore, intolleranti alla commozione, allergici
al sentimentalismo e soggetti a rischio di crisi iperglicemiche, probabilmente
non vorrete leggere alcuni dei libri proposti fin qui. Esiste un rimedio
alternativo per sciogliere lo scetticismo letterario in una tazza di tè, senza
zucchero ma con parecchie zollette di humor inglese. Come diceva una vecchia
pubblicità del caffè, «più lo mandi giù, più ti tira su»: questo è l’effetto
della cura che vi propongo e che dura circa il tempo di un tè. “La sovrana
lettrice” di Alan Bennett, infatti, è poco più lungo di cento pagine che si
bevono con voracità nonostante siano bollenti. Anche se breve, il racconto
ribolle di idee, battute fulminanti e lampi di genio come tutta l’opera dello
scrittore inglese. La prima trovata sorprendente è la scelta della
protagonista, nientemeno che la regina Elisabetta. È un giorno come un altro
nella vita di sua maestà, scandita dalla monotonia di impegni ufficiali,
protocollo ed etichetta, finché la sovrana non scopre che ogni settimana una
biblioteca ambulante fa una visita a palazzo, fermandosi vicino alle cucine. Il
colto lavapiatti Norman è l’unico a frequentarla, almeno finché Elisabetta,
incuriosita, non sale a bordo. Sale a bordo e parte in quarta: tra la regina e
i libri è amore a prima vista, una passione bruciante da vivere in assoluta
libertà senza vincoli né imposizioni. Guidata e consigliata da Norman, che
promuove a paggio personale, la sovrana inizia a dedicare alla lettura ogni
minuto libero, manifestando presto tutti i sintomi del virus dell’inguaribile
lettore. Scopre che «il libro è un ordigno per infiammare l’immaginazione» e
che «un libro tira l’altro; ovunque si voltava si aprivano nuove porte e le
giornate erano sempre troppo corte per leggere quanto avrebbe voluto». Così,
che si trovi a una cena ufficiale o a un incontro con i sudditi, non può fare a
meno di condividere la sua passione, domandando a tutti cosa leggono ed
elargendo consigli perché la condivisione è uno dei primi sintomi del contagio.
Si pone continue domande sulla lettura, prende appunti, riflette, tormenta
tutti cercando di conoscerne i gusti letterari e arriva ad autodiagnosticarsi
anche uno degli effetti collaterali del morbo che ha contratto: «È possibile
che mi stia trasformando in un essere umano». Il suo amore per i libri diventa
ingestibile, unico e solo argomento di conversazione come capita agli
innamorati durante la prima fase di una nuova storia. Solo che l’amore per i
libri, quando è sincero, rimane costantemente fermo al primo stadio, quello
dell’innamoramento euforico (in caso contrario, lo sapete, trovate in questa
sezione le cure adatte). La preoccupazione rimbalza dal Primo Ministro (un mai
nominato per nome Tony Blair) agli invidiosi valletti, dai familiari a tutto
l’entourage di corte (cani compresi). Il panico inizia a serpeggiare,
l’etichetta è messa a rischio, la forma è in pericolo perché la sostanza sta
prendendo il sopravvento. Il virus va debellato, il contagio va frenato... Ma
sarà troppo tardi? La sovrana lettrice potrà tornare a rinchiudersi nella
monotonia del suo grigio palazzo ora che i libri le hanno aperto i cancelli
della fantasia? Con un coupe de theatre degno di uno scrittore che è anche un
brillante drammaturgo, Elisabetta sbalordirà tutti, lettori compresi. E la
sorpresa più grande è affidata all’ultima, fulminante riga. Colpo di scena!
Questo
brioso trattato sulla lettura, geniale racconto a base d’intelligente umorismo,
dimostra che, e non solo in passato o in un futuro fantascientifico, per il
potere di far aprire gli occhi, rendere liberi, consapevoli e forti, i libri
sono visti come una minaccia all’ordine costituito delle cose, pericolosi portatori
di caos. Ma, come diceva Nietzsche, «bisogna avere il caos dentro di sé per
generare una stella danzante». Nel suo libro Alan Bennet ha generato una
“Dancing Queen”. E prendendo a prestito le parole degli ABBA, grazie alla
lettura «you can dance, you can jive, having the time of your life...». Mamma
mia quanto è vero!
“La
sovrana lettrice” favorisce la naturale sintesi del principio secondo il quale
la lettura è una malattia contagiosa che chiunque può contrarre diventando a
sua volta un untore. Anche la persola più insospettabile. Anche la regina
d’Inghilterra. E se la vita dell’imperturbabile queen Elizabeth viene stravolta
e migliorata dai libri, non credete che potrebbe capitare anche a voi?
L’umorismo
inglese di Alan Bennet può dare dipendenza risultando estremamente efficace a
livello umorale. È stato notato, infatti, che provoca cambiamenti d’umore
decisamente positivi, pertanto vi segnalo altri titoli dell’autore il cui
effetto curativo è sorprendentemente rapido qualora si senta l’urgenza di
ridere. Bennett è un maestro nel cavare fuori dalle storie più ordinarie il
lato più diabolicamente comico prendendo in giro, con sublime eleganza, piccoli
vizi e microscopiche virtù. Da non perdere “Nudi e crudi”, dove la monotona
vita di due coniugi è messa a soqquadro come il loro appartamento,
letteralmente svuotato da un insolito furto (gli rubano tutto, perfino la carta
igienica e una pirofila con sformato annesso), “La cerimonia del massaggio”, in
cui un prete omosessuale celebra il funerale del massaggiatore dei VIP in un
teatrino spassosissimo di malignità e pettegolezzi e “Due storie sporche”, un
paio di improbabili racconti tra eros e voyeurismo. Se vi divertono storie di
surreali situazioni piccanti, procuratevi anche “Gente”.
Commenti
Mi era preso un trip per Bennett fino ad una decina di anni
fa, per poi cadere tra le dimenticanze di stanche letture. Come vedete, poi,
anche i “vecchi” commenti sono molto più veloci degli attuali. Chissà cosa sia
meglio per voi “miei” lettori…
Alan Bennett – libri vari
[pubblicato il 17 dicembre 2006]
Il secondo è un autore di teatro inglese, Alan Bennett, che si cimenta anche in piccoli bozzetti
surreali, che mi hanno preso per il loro umorismo, e per la pietas che ne pervada
lo schizzo di umanità. Vado a citare quindi
"Nudi e
crudi" Adelphi 7 euro. "Ho finalmente riso di gusto in una vicenda
dalla banale quotidianità ma piena, per me, di messaggi. Quando non hai più
nulla puoi capire cosa veramente ti serve. E che dire della fine con
l’infarto?"
"La signora nel
furgone" Adelphi 6,50 euro "Si
ride di meno, ma in poche pagine viene a galla l’assurdo del vivere e
dell’essere o dell’immaginare che l’altro sia"
"La cerimonia del
massaggio" Adelphi 7 euro "Si
ridacchia, e si coglie l’essenza dell’effimero universo dell’apparire. Comunque,
preferisco Nudi e Crudi!!"
Alan Bennett “La sovrana lettrice” Adelphi
s.p. (regalo di Alessandra)
[pubblicato
il 3 maggio 2009]
Se non me
lo regalava non lo leggevo, credo, perché mi ero innervosito con “La visita
guidata”. Invece è carino, scorrevole, ed è stato oggetto di pubblica lettura
serale in Mauritania, a mo’ di surrogato televisivo. Il titolo italiano cerca
di riprodurre il gioco di parole inglese, anche se con poca efficacia (qui si
gioca sul termine sovrano, spesso usato per mettere il lettore al di sopra
dell’autore, lì, dove il titolo era “The uncommon reader”, sul lettore comune,
che si nutre di bassa lettura, e sul non-comune della lettrice specifica). Si
gioca, come altrove, sull'ironia e lo spaesamento. Questa Maestà, che per
bizzarria del caso, si immerge nei libri, creando lo sconcerto prima e lo
scompiglio poi, nel programmato mondo della regalità britannica. Ma leggere
produce pensiero, se lo si fa con la testa. Ed i pensieri non possono che
scardinare il protocollo reale, dedito alla più pura facciata. In controluce,
vedo altre scene in cui l’apparire ha completamente tolto il posto all'essere.
Quanto sarebbe bello che anche questo nostro apparire venisse buttato all'aria
da un sano ritorno al leggere, cioè al pensare. Cioè, in definitiva, all'agire
per un bene comune, non per un egocentrismo narcisistico. Il libro è corto e
veloce, e mi riconcilia con il Bennett che conoscevo, quello del bellissimo e
fulminante “Nudi e crudi”.
“L’attrattiva della letteratura … consisteva
nella sua indifferenza… i libri se ne infischiavano di chi li leggeva, loro
stavano bene lo stesso”
“Era meglio incontrare gli autori dentro le
pagine dei romanzi, creature dell’immaginazione del lettore come i personaggi”
“Io guardo le cose in prospettiva, come del
resto ho sempre fatto. A ottant’anni le cose non succedono, si ripetono”
Finalino
Notando di passaggio che all'epoca non riportavo coordinate
esatte per le citazioni, ritengo che Bennett possa essere autore di qualche
ilare lettura, antidoto forse ai cupi tempi attuali. Speriamo che anche lui
riesca a renderci (farci tornare) felici.
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