Vidiadhar Surajprasad Naipaul “La máscara de África. Un viaje por las
creencias africanas” Debolsillo s.p. (regalo di Ale)
[A: 01/11/2018 – I: 10/08/2019 – T: 22/08/2019] - &&&
[tit. or.: The Masque of Africa. Glimpses of African Belief; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 2010]
Ovviamente,
lo scrittore di Trinidad è più noto con le iniziali abbreviate (cioè V.S.
Naipaul). A pochi mesi dalla sua morte, un estemporaneo viaggio alessandrino
nelle premisis della sua amica Laura ha portato alla scoperta della bellissima
libreria madrilena “Deviaje” (cioè, la “mia” libreria) ed al regalo di questo
intenso e non facile libro sulle credenze africane, fatta dal premio Nobel
naturalizzato inglese quando questi già si avviava verso gli ottanta anni.
Confesso alcune cose: pur cercando, anche senza troppo successo, i libri di
Naipaul, non ricordo di averne letti e tramati negli ultimi quindici anni, cosa
che mi rende debitore verso lo scrittore. Seconda considerazione, non leggendo
un libro in originale, se ne può leggere la traduzione in una delle lingue
conosciute (da me) con lo stesso impatto: non è esatta in tutte le sfumature,
ma è possibile leggerne. Terza ed ultima: in realtà, un saggio mi riesce meglio
di leggerlo in italiano, qualunque sia la lingua originale; che invece un
romanzo è più agevole, laddove le sfumature e le circonvoluzioni linguistiche
si seguono nel corso della trama, mentre in un saggio, in un certo senso,
bisogna stare più concentrati. Non è un caso, quindi, che abbia impiegato due
settimane a leggere di questo libro. La bellezza, iniziale e che mi ha rapito,
è la considerazione che fa l’anziano scrittore ed il suo scorrere del tempo.
Ormai poco incline, se mai lo è stato, a mettersi ad un tavolo e scrivere,
preferiva dividere il suo tempo in due: sei mesi di viaggi e sei mesi di
riflessioni sui viaggi fatti, magari scrivendone, rivoltandoli nella mente e
nella carta. Così fa anche in questo, dove decide di trascorrere questo tempo
altro, lontano dalla sua casa inglese, nel percorrere alcune strade africane.
In parte per fare a ritroso un viaggio contrapposto a quello fatto più di
quaranta anni prima, trovando le mutevolezze delle cose viste. In parte, e
congiuntamente, per percorrere, come dice il titolo, le strade, gli scorci
delle credenze africane. Senza pensare di fare un saggio religioso, ma
abbozzando schizzi di sensazioni, e magari andando alla ricerca di alcuni nodi
delle credenze stesse. In questo viaggio dal centro al sud dell’Africa, Naipaul
visita (e ci parla di) Uganda, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Gabon e
Sudafrica. Per me, restano impressa la prima e l’ultima. La prima per la
rivisitazione dei luoghi dove era stato da studente, con lo scoprire i
cambiamenti che sono arrivati via via, ma anche per le storie dei re ugandesi e
dei lori miti. Per la distinzione fra le varie zone, e la mia scoperta che
esiste (esisteva) un Buganda. Per il viaggio di Stanley per quelle terre, le
storie di Sunna e degli altri potenti del 1800. La seconda perché, come
confessa lui stesso, è costretto a parlare di politica, anche non volendo. Che
il Sudafrica, comunque, è apartheid, è Mandela, è Soweto, sono i ghetti neri di
Johannesburg di un tempo ed i ghetti bianchi sempre di Johannesburg di ora (e
ben li ho visti anche nelle mie visite al paese). I vari pezzi poi sono sempre
pieni di piccoli spunti, di approfondimenti. Mi hanno riportato in Mali, anche
se non ne ha parlato, quando cita Amadu Hampaté Ba rispetto alla sua morte e
sepoltura in Costa d’Avorio. Ancor di più se si parla di Gabon e della vita
colà trascorsa da Albert Schweitzer. Che io credevo fosse di tutt’altra parte,
ma poi ho scoperto (grazie wiki) che stava in Africa Equatoriale Francese. O la
storia di Mary Kingsley, che, dopo una vita trascorsa nelle parti equatoriali,
con degni scritti di viaggi, muore a 38 anni, di febbre tifoide in Sudafrica.
Per finire, quando si parla di Sudafrica, con la storia del mio coetaneo Rian
Malan, la sua vita in una famiglia pro-apartheid, e la sua crescita verso i
lavori interrazziali. Una parte politica interessante, anche se l’intervista
tra Naipaul e Winnie Mandela mi ha convinto poco. Mentre il punto migliore e
che mi ha tenuto più a lungo in riflessione riguarda il Nigeria e le guerre di
un tempo, vecchie e/o molto antiche. In particolare, visto che si parla di
scene sulle credenze africane, l’autore riporta una storia antica. La guerra
tra due fazioni che non riuscivano a sconfiggersi, una delle due guidata da una
eroina yoruba. La quale per vincere va da un oracolo per chiedere aiuto, e
questi gli dice che gli dirà come vincere se lei sacrificherà la cosa a cui più
tiene. Quindi l’eroina uccide suo figlio, l’oracolo gli rivela i segreti per
vincere e gli yoruba trionfano. Una storia che Naipaul rapporta a Maria e suo
figlio Gesù. Ma che a me ricorda anche altro, Abramo e Isacco, Agamennone e
Ifigenia. Insomma, il sacrificio del Figlio per il bene di tutti. E qui mi
fermo. Ricordo solo Telmo Pievani e le sue storie di migrazioni. Se siamo tutti
africani, anche le nostre storie lo sono. Comunque, una bella lettura,
difficile, ma intrigante nella sua costruzione. Con quella punta di riflessione
sul girare per il mondo e poi rifletterci su. Lo faremo.
“Se puede sobrevivir a todo menos a la muerte
(Wilde).” (249) [Puoi sopravvivere a tutto tranne che
alla morte.]
“Un libro es un libro; tienes sus necesidades
narrativas ... el lector tiene que despedirse con una sensación de haber llegado
a una meta.” (267) [Un libro è un libro; ha i suoi bisogni
narrativi ... il lettore deve finirlo con la sensazione di aver raggiunto un
obiettivo.]
Albert Camus “Il mito di Sisifo” Bompiani
s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A: 07/05/2019 – I: 14/11/2019 – T: 21/11/2019] - &+
[tit. or.: Le
mythe de Sisyphe; ling. or.: francese; pagine: 137; anno 1942]
Avendo
tra i miei tanti difetti (come dice la canzone “…i tuoi difetti son talmente
tanti che nemmeno tu li sai…”) quello di essere un inguaribile francofilo, sono
veramente dispiaciuto di dover dare un giudizio soggettivamente negativo a
questo bello scritto dello scrittore franco-algerino (terrei a sottolineare che
il Premio Nobel del 1957 era nato vicino ad Algeri). Per un motivo forse troppo
personale, dato che, filosoficamente parlando, sono abbastanza digiuno dal
pensiero esistenzialista, mentre questo libro è totalmente imbevuto di
esistenzialismo e della critica allo stesso. Ma questo sarebbe forse solo un
peccato veniale, se Camus, nella foga dei suoi non ancora trent’anni, non
presupponesse che tutti sappiano di cosa stia parlando. In tal modo, lavora per
ellissi ed iperboli, lasciando a me, povero fruitore a cotanta distanza solo
piccoli elementi di gioia e molti di angoscia. Come il fatto che per le prima
cinquanta pagine (quasi metà libro) non sia proprio riuscito a capire cosa
stesse dicendo. Cioè leggevo le frasi e non si connettevano l’una all’altra.
Solo alla fine, dopo un passaggio su altri testi, e su elementi sparsi colti su
rete, e dopo essere ritornato al testo, penso di averne intuito qualcosa.
Peccato anche che Camus è invece un autore che da sempre mi è stato caro, tanto
che alla maturità, avendo per materie italiano e francese (oltre a matematica
che per me era un ovvio default), portai una tesina su Gramsci ed una su “Lo
straniero” di Camus (ovvio che lo avevo letto in lingua ed in lingua ne parlai
con la commissione). Libro che l’autore aveva pubblicato solo pochi mesi prima.
Ma il testo letterario, pur se sottende tesi proprie di Camus, riesce, nel
contesto romanzesco, a farsi comprendere. Certo meglio di questo pamphlet.
Cercando di riprendere, tra un testo e l’altro, il senso del testo, Camus cerca
una riflessione sul senso della vita. Poiché, secondo l’esistenzialismo e Camus,
se la vita è assurda, perché non suicidarsi? Dopo tutto un percorso, su cui si
ritorna, si arriva alla negazione della scappatoia personale, ed alla coscienza
che la vita è come il mito di Sisifo, condannato a spingere il messo lungo una
china, da qui nasce l’idea dell’autore, nasce la fiamma di una nuova vita. La
morte è ineliminabile e i valori proposti non danno giustificazione alcuna alla
vita, allora (come Meursault) dedichiamoci alla vita piena. Dobbiamo vivere
come morituri, consci che il nostro destino avrà una fine, fare della propria
vita un capolavoro. Vivere con ciò che si sa, adattarsi a ciò che si è. Se non
esistono valori, bisogna cercare di avere una vita lunga. Siamo dunque arrivati
al mito di Sisifo. Che personalmente non conoscevo ed allora sono andato a
cercarne in giro. Ora pare che Sisifo fosse una persona molta astuta, tanto che
in alcune leggende lo si considera il vero padre di Ulisse, con conseguente
cornificazione di Laerte. Il mito dice che Zeus, per una delle sue solite fughe
d’amore, rapisce una donzella. Ma Sisifo lo vede, ed in cambio di un acquedotto
per la sua Corinto, fa l’infame con il dio. Che ovviamente si altera, e lo
spedisce dal dio della morte per toglierselo di torno. Ma Sisifo fa ubriacare
Tanato, lo incatena, e torna tra gli uomini, cosicché, per un po’, la morte
scompare dalla terra. Chi sfida gli dèi, però, deve essere punito. Zeus, con
l’aiuto di Ares e degli altri dei, vince il povero uomo Sisifo, e lo condanna
ad una ripetitiva azione: trasportare un grande masso fino alla cima di una
montagna per poi vederlo rotolare subito dopo fino alle pendici. Camus,
narrandocene, ribalta l’ottica. Non vede l’angoscia di salire il monte, ma il
momento di riflessione di Sisifo quando, senza il masso, scende la montagna per
andare di nuovo incontro al proprio destino. Momenti in cui Sisifo riflette sul
suo gesto, ne ricava l’estrema consapevolezza, ed in questo breve momento di
vita, prima di riprendere l’assurdità della vita, “bisogna immaginarsi Sisifo
felice” (parola di Camus). Nel mezzo del percorso per passare dal nichilismo
iniziale a questa specie di inno alla vita, nel libro si citano filosofi (Šestov,
Jaspers, Heidegger e Kierkegaard, tanto per ricordarne a mente alcuni), ma
anche letterati, nella mirabile analisi del comportamento di Aleksej Nilič
Kirillov un personaggio del romanzo “I demoni” di Dostoevskij, o nel percorrere
l’opera di Kafka, saltabeccando tra “Il Castello” ed “Il Processo”. Ma anche
verso archetipi, come il conquistatore, il Don Giovanni, ma soprattutto, per la
mia sensibilità, l’attore. Quello che in tre ore diventa un altro, ce ne fa
vivere i tormenti, l’angoscia, le vittorie e la sconfitta. Per poi tornare ad
essere altro. Una persona piena non di una vita ma di tante. Forse è questo il
punto su cui sarei rimasto a lungo, magari parlandone di più e meglio, che non
solo ne capisco il senso, ma ne vedo, in alcuni modi, ad esempio nella mia
amica Rosa, una personificazione magistrale. Per chiudere ricordo solo
l’epigrafe posta da Camus al testo. La frase di Pindaro: "O anima mia, non
aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile"
(Pitiche III).
“Una
volta offerto lo spettacolo [l’attore] … non è più nulla, e lo si vede, due ore
dopo, desinare fuori casa.” (74)
“Un
uomo è tale più per le cose che tace che per quelle che dice.” (80)
“Se
il mondo fosse chiaramente comprensibile, l’arte non esisterebbe.” (96)
“Il
numero dei romanzi cattivi non deve far dimenticare la grandezza dei migliori.”
(97)
Zygmunt Bauman “Vite di scarto” Laterza
euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 24/09/2018 – I: 13/01/2020 – T: 16/01/2020] - &&& e ¾
[tit. or.: Wasted lives. Modernity and its Outcasts; ling. or.: inglese; pagine: 166; anno 2004]
In
occasione di una vendita in sconto dei libri di Laterza, ritorno su uno dei
pensatori da me più seguiti negli ultimi anni. Certo, dispiace che come molti
ci abbia ormai lasciato, ma i suoi scritti meritano comunque un’attenta
lettura. Pur nella difficoltà della materia, e pur nel limite che, qui come altrove,
avevo rilevato. Una grande capacità di lettura del mondo che ci circonda, unita
ad una scarsa incisività nel proporre non dico soluzioni, ma vie di
percorrenza. Qui, ad esempio, il nodo centrale di queste vite sprecate (questo
forse il senso migliore del “wasted” del titolo) mi è sembrato enuclearsi nelle
prime pagine del saggio, quando Bauman analizza il passaggio fondamentale del
mondo del lavoro negli ultimi anni (anche se lo scritto è del 2004). Un tempo
la dicotomia sul lavoro era il binomio occupazione/disoccupazione. Se sei
disoccupato puoi ragionevolmente pensare di riciclarti o ricostruirti una
carriera nel suo opposto, il mondo del lavoro attivo, l’occupazione. Ora,
invece, si passa al concetto di “esubero”. E quando sei in esubero significa
che per te non c’è posto altrove. Non c’è un concetto opposto di esubero. Un
concetto che ripete spesso in tutto il libro, ripetendo verso la fine che “La
modernità … è una civiltà dell’eccesso, dell’esubero, dello scarto e dello
smaltimento dei rifiuti”. Essere moderni significa muoversi, significa
scegliere, e quindi, scartare i progetti che promettono di non andare a buon
fine, i progetti falliti. Scordandoci che a volte, nel lungo periodo, un
progetto ora senza sbocco, potrebbe portare a soluzioni inaspettate. Ma la
velocità non ci consente di attendere, e quindi tagliamo e siamo tagliati.
Siamo dominati dalla paura della solitudine e dalla rottamazione che potrebbero
darci amici e partners. Così si spiegano i meccanismi che portano alla felicità
del tutto e subito, alle lotterie, alle vincite, anche sentimentali, immediate.
Non sembrano più esistere progettualità di lungo orizzonte. Quella che
Bauman ci offre è l’interpretazione di un contesto attuale della
globalizzazione, dove dobbiamo anche costantemente aggiornare le nostre
definizioni, i nostri paradigmi sociali. Rimanendo sul concetto di progetto e
fallimento, il progresso, la progettualità del mondo moderno, porta con sé,
come contraltare sempre presente, l’idea del suo fallimento. Una possibilità
prevista sin dall’inizio del progetto. Una possibilità esclusa dei progetti che
si facevano prima della modernità. Quindi è ovvio che si producano materiali di
scarto, materiali da smaltire. E quando il progetto è l’uomo, la sua comunità,
io materiale di scarto diventa l’insieme dei “rifiuti umani”, l’insieme degli
individui "che non si adattano alla forma progettata né possono esservi
adattati". Ed allora gli esuberi non sono solo le persone fuori linea nei
ricchi paesi occidentali, ma tutti quelli che vi arrivano da altrove, gli
immigrati, i richiedenti asilo e i rifugiati provenienti dalle regioni del Sud
del mondo. Uno dei discorsi più attuali nonostante i quindici anni del testo, è
proprio la centralità che viene data alle migrazioni internazionali, che ha
intaccato, modificato, perverso lo Stato Sociale a cui eravamo abituati.
Passando (come ci insegnano i Trump o i Salvini attuali) ad un ritorno
all’attenzione alla priorità della tutela dell'incolumità fisica dei propri
cittadini. Si passa quindi da uno Stato sociale quanto meno ad uno Stato
guardiano, se non ad uno Stato penale. Anche se spesso, e sono anch’io in
accordo con Bauman, gli attacchi dall’esterno sono più immaginati che veri. Si
pensi a tutto il processo degli Stati Uniti dopo l’11/9 che lo ha portato non
ad una riflessione sulle ragioni di quell’attacco, ma ad un diffondere la paura
contro le aggressioni che potrebbero venire da altrove. Non sappiamo dove
scaricare questi rifiuti, queste vite scartate, contemplando molto spesso e con
vivace immaginifica prospezione, che noi stessi possiamo diventare un rifiuto.
Come sappiamo dalle analisi di Bauman, e da altri suoi titoli, diventa sempre
più urgente, ma anche sempre più difficile trovare una via d’uscita. Bauman non
la offre. Ci sarà qualcuno che prende il suo bastone da staffetta e lo porterà
al traguardo. Intanto, Come conclude Bauman, ci muoviamo tra Huxley ed Orwell,
e poiché conosciamo le due grandi opere della letteratura. Ci muoviamo con
cautela, perché le abbiamo lette tutti e tutti sappiamo la fine che hanno fatto
i protagonisti.
“Sapere significa scegliere.” (24)
“Eliminare … non è un movimento negativo,
ma uno sforzo positivo di organizzare l’ambiente.” (25)
“Sulle terre dei ricchi incombe quest’altro
volto poco attraente della guerra contro la ‘sovrappopolazione’: la fosca
prospettiva della necessità di importare un numero maggiore, e non già minore,
di ‘loro’ solo per tenere in piedi il ‘nostro stile di vita’.” (59)
“Per dirla con Robert Louis Stevenson,
viaggiare animati dalla speranza è meglio che arrivare.” (123)
Tiziano Terzani “Buonanotte, signor Lenin”
TEA euro 10
[A: 04/12/2017 – I: 02/01/2020 – T:
23/01/2020] - &&&&
+
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 413; anno 1992]
A prescindere da tutte le riflessioni che questo
libro mi ha (re-)suscitato, basta quella frase che riporto come prima, e che
Terzani mette a poche righe dall’inizio di questo saggio, per dare un senso
alla mia lettura, ed a gran parte delle cose che ho fatto e che sto facendo. Ma
dato atto a Terzani di ciò (ed anche a quella frase che mi riporta in Ladakh),
bisogna entrare nello scritto, più che nel viaggio. Ed entrambi sono
affascinanti e coinvolgenti. Terzani si imbarca, nell’agosto del 1991, in una
spedizione congiunta tra URSS e Cina per risalire il fiume Amur, nella zona
siberiana di confine tra le due repubbliche. Mentre cerca di capire le
differenze tra le due rive del fiume, giunge una notizia inaspettata: un golpe
contro Gorbaciov. Terzani pensa di recarsi subito a Mosca, per vedere gli
eventi drammatici con i propri occhi. Poi invece fa una scelta che si rivela
geniale: attraversare la Siberia, l’Asia Centrale, il Caucaso, prima di
arrivare a Mosca. Vedendo da vicino cosa sta succedendo nei meandri dell’ormai
ex-impero sovietico. Il viaggio alla fine dure 3 mesi, dall’agosto all’ottobre
del ’91. Un viaggio che tocca (a che nomi magici), la Siberia (e già ripenso
alle lettere di mio padre da Ulan Bator), il Kazakistan, l’Uzbekistan (ahi
Samarcanda e Tamerlano!), la Kirghisa, il Tajikistan, il Turkmenistan, l’Azerbaigian,
la Georgia e l’Armenia, per concludersi sulla Piazza Rossa a Mosca, nel
mausoleo di Lenin (dove io stesso andai due anni dopo, dopo il golpe di Eltsin
del ’93). Terzani si muove come riesce e come può: la nave “Propagandist” sino
a Komsomol, traballanti aerei della Aeroflot, financo taxi di fortuna, amici
compiacenti, autisti improvvisati attratti della magia dei suoi dollari, ed un
ultimo aereo da Erevan a Mosca. Vedendo da vicino cosa sta succedendo nelle
piccole realtà marginali, parlando con tutti (potenti e dissidenti, artisti e
commercianti, preti e imam) ci ricostruisce le modalità di una caduta e la
visione di una prospettiva che ancora oggi, dopo trenta anni, è lontano
dall’essere tranquilla o foriera di sempre buoni futuri. Tanti sono i motivi,
le motivazioni, le domande che emergono dallo scritto e dagli incontri di
Terzani. Andando in giro per i posti meno frequentati, più reconditi, ma anche
più “veri”, vediamo tutti i passi che si sono avvicendati nel territorio.
Prima, e quasi ovunque, la russificazione del territorio, tesa a cancellare le
storie del territorio e spinta dalle migrazioni forzate verso le periferie. Poi
c’è la crisi di identità dei popoli che si trovano “liberati” dagli organi di
controllo del comunismo: il risorgere del nazionalismo, la ricomparsa del
fondamentalismo islamico per ridare l’identità del territorio, gli attriti che
risorgono, così come da lì a poco nell’ex-Jugoslavia. Tagiki contro uzbeki o
armeni contro azeri. Emerge forte il disastro ecologico delle repubbliche dove
le risorse ambientali vengono sfruttate senza alcuna tutela. Esemplare la
descrizione delle fabbriche chimiche che appestano la città azera di Sumgait.
Terzani ci fa vedere, anche se con i suoi occhi che sono però molto simili ai
miei, la bruttezza degli edifici, il degrado, le code per ogni più piccola
azione, e fianco l’ipocrisia del potere che abbatte indiscriminatamente le
statue di Lenin, fino a poco prima osannate, cambia i nomi ai partiti, ma poi
lascia i vertici al loro posto le stesse persone di prima. Viene sottolineata
la dipendenza tra le varie repubbliche, che ora faticano ad ottenere le materie
prime. Una citazione su tutte: «L’Azerbaigian, per esempio, può farsi
le sue sigarette, ma non quelle col filtro. I filtri venivano tutti
dall’Armenia. Gli armeni dal canto loro non hanno più verdura perché gran parte
dei loro contadini erano azerbaigiani e, ora che quelli sono partiti, nessun
armeno vuole andare a coltivare i loro campi». Ed infine le mafie che
sfruttano il disordine istituzionale alimentando fortemente il mercato nero. E
ben sappiamo come le mafie russe abbiano avuto buon gioco in quegli anni.
Nonostante riesca poi a spostarsi tra le varie repubbliche, in ogni momento
vediamo le difficoltà di spostarsi, le richieste di visti impossibili, le
difficoltà di comunicare e l’impossibilità di telefonare. Però, alla fine, si
arriva a Mosca, con la scena finale del saluto alla mummia di Lenin, come ho
riportato sopra. Terzani mi affascina sempre nei suoi scritti, e non mi lascia
mai deluso. Le sue frasi le faccio spesso mie, e mi rammarico, sempre e
comunque, che ci abbia già lasciato. Ma rimando, oltre che a questo, a
quell’ultimo giro di giostra che rimane uno dei più bei libri da me letti negli
ultimi anni.
“La spedizione mi dava una buona ragione
per rimettermi in viaggio, per riprovare quella gioia unica che solo i drogati
di partenze capiscono, quel senso di libertà che prende nell’arrivare in posti
dove non si conosce nessuno, di cui si è solo letto nei libri altrui,
quell’impareggiabile piacere nel cercare di conoscere in prima persona e di
capire.” (10)
“Politica è ormai una parola che sta a
indicare qualcosa di negativo, di sporco, di antiquato, mentre tutto ciò che
non è politica è buono, giusto, moderno, nuovo, desiderabile.” (134)
“Non sono religioso, ma le montagne mi
sono sempre parse la cosa più vicina al divino. Queste dell’Asia più di altre:
purissime, apparentemente senza fine, al di là del bene e del male, al di sopra
di ogni gioia o dolore.” (244)
“Quanti misfatti sono stati commessi in
nome di un popolo cui di solito non è mai stato chiesto nulla!” (267)
“Il totalitarismo di certe repubbliche
come l’Uzbekistan non è dovuto soltanto al comunismo ma alla vecchia struttura
feudale che precedette il comunismo e che il comunismo non ha mutato.” (318)
Essendo alla quarta trama del mese, concedo
il giusto riposo di altre citazioni ai miei lettori, tornando solo sulla prima
fase di Terzani sopra riportata. Quella che sottolinea ed incornicia il senso
di una vita, quello che definisce cosa sono stato sino ad ora (“drogato di
partenze”). Stringiamoci tutti insieme affinché si possa tornare ad essere quello
che siamo, con la consapevolezza che, tuttavia, dovrà essere uno stesso modo
però diverso.
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