domenica 22 marzo 2020

I saggi danno fiducia - 22 marzo 2020


Vidiadhar Surajprasad Naipaul “La máscara de África. Un viaje por las creencias africanas” Debolsillo s.p. (regalo di Ale)
[A: 01/11/2018 – I: 10/08/2019 – T: 22/08/2019] - &&&  
[tit. or.: The Masque of Africa. Glimpses of African Belief; ling. or.: inglese; pagine: 271; anno 2010]
Ovviamente, lo scrittore di Trinidad è più noto con le iniziali abbreviate (cioè V.S. Naipaul). A pochi mesi dalla sua morte, un estemporaneo viaggio alessandrino nelle premisis della sua amica Laura ha portato alla scoperta della bellissima libreria madrilena “Deviaje” (cioè, la “mia” libreria) ed al regalo di questo intenso e non facile libro sulle credenze africane, fatta dal premio Nobel naturalizzato inglese quando questi già si avviava verso gli ottanta anni. Confesso alcune cose: pur cercando, anche senza troppo successo, i libri di Naipaul, non ricordo di averne letti e tramati negli ultimi quindici anni, cosa che mi rende debitore verso lo scrittore. Seconda considerazione, non leggendo un libro in originale, se ne può leggere la traduzione in una delle lingue conosciute (da me) con lo stesso impatto: non è esatta in tutte le sfumature, ma è possibile leggerne. Terza ed ultima: in realtà, un saggio mi riesce meglio di leggerlo in italiano, qualunque sia la lingua originale; che invece un romanzo è più agevole, laddove le sfumature e le circonvoluzioni linguistiche si seguono nel corso della trama, mentre in un saggio, in un certo senso, bisogna stare più concentrati. Non è un caso, quindi, che abbia impiegato due settimane a leggere di questo libro. La bellezza, iniziale e che mi ha rapito, è la considerazione che fa l’anziano scrittore ed il suo scorrere del tempo. Ormai poco incline, se mai lo è stato, a mettersi ad un tavolo e scrivere, preferiva dividere il suo tempo in due: sei mesi di viaggi e sei mesi di riflessioni sui viaggi fatti, magari scrivendone, rivoltandoli nella mente e nella carta. Così fa anche in questo, dove decide di trascorrere questo tempo altro, lontano dalla sua casa inglese, nel percorrere alcune strade africane. In parte per fare a ritroso un viaggio contrapposto a quello fatto più di quaranta anni prima, trovando le mutevolezze delle cose viste. In parte, e congiuntamente, per percorrere, come dice il titolo, le strade, gli scorci delle credenze africane. Senza pensare di fare un saggio religioso, ma abbozzando schizzi di sensazioni, e magari andando alla ricerca di alcuni nodi delle credenze stesse. In questo viaggio dal centro al sud dell’Africa, Naipaul visita (e ci parla di) Uganda, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Gabon e Sudafrica. Per me, restano impressa la prima e l’ultima. La prima per la rivisitazione dei luoghi dove era stato da studente, con lo scoprire i cambiamenti che sono arrivati via via, ma anche per le storie dei re ugandesi e dei lori miti. Per la distinzione fra le varie zone, e la mia scoperta che esiste (esisteva) un Buganda. Per il viaggio di Stanley per quelle terre, le storie di Sunna e degli altri potenti del 1800. La seconda perché, come confessa lui stesso, è costretto a parlare di politica, anche non volendo. Che il Sudafrica, comunque, è apartheid, è Mandela, è Soweto, sono i ghetti neri di Johannesburg di un tempo ed i ghetti bianchi sempre di Johannesburg di ora (e ben li ho visti anche nelle mie visite al paese). I vari pezzi poi sono sempre pieni di piccoli spunti, di approfondimenti. Mi hanno riportato in Mali, anche se non ne ha parlato, quando cita Amadu Hampaté Ba rispetto alla sua morte e sepoltura in Costa d’Avorio. Ancor di più se si parla di Gabon e della vita colà trascorsa da Albert Schweitzer. Che io credevo fosse di tutt’altra parte, ma poi ho scoperto (grazie wiki) che stava in Africa Equatoriale Francese. O la storia di Mary Kingsley, che, dopo una vita trascorsa nelle parti equatoriali, con degni scritti di viaggi, muore a 38 anni, di febbre tifoide in Sudafrica. Per finire, quando si parla di Sudafrica, con la storia del mio coetaneo Rian Malan, la sua vita in una famiglia pro-apartheid, e la sua crescita verso i lavori interrazziali. Una parte politica interessante, anche se l’intervista tra Naipaul e Winnie Mandela mi ha convinto poco. Mentre il punto migliore e che mi ha tenuto più a lungo in riflessione riguarda il Nigeria e le guerre di un tempo, vecchie e/o molto antiche. In particolare, visto che si parla di scene sulle credenze africane, l’autore riporta una storia antica. La guerra tra due fazioni che non riuscivano a sconfiggersi, una delle due guidata da una eroina yoruba. La quale per vincere va da un oracolo per chiedere aiuto, e questi gli dice che gli dirà come vincere se lei sacrificherà la cosa a cui più tiene. Quindi l’eroina uccide suo figlio, l’oracolo gli rivela i segreti per vincere e gli yoruba trionfano. Una storia che Naipaul rapporta a Maria e suo figlio Gesù. Ma che a me ricorda anche altro, Abramo e Isacco, Agamennone e Ifigenia. Insomma, il sacrificio del Figlio per il bene di tutti. E qui mi fermo. Ricordo solo Telmo Pievani e le sue storie di migrazioni. Se siamo tutti africani, anche le nostre storie lo sono. Comunque, una bella lettura, difficile, ma intrigante nella sua costruzione. Con quella punta di riflessione sul girare per il mondo e poi rifletterci su. Lo faremo.
“Se puede sobrevivir a todo menos a la muerte (Wilde).” (249) [Puoi sopravvivere a tutto tranne che alla morte.]
“Un libro es un libro; tienes sus necesidades narrativas ... el lector tiene que despedirse con una sensación de haber llegado a una meta.” (267) [Un libro è un libro; ha i suoi bisogni narrativi ... il lettore deve finirlo con la sensazione di aver raggiunto un obiettivo.]
Albert Camus “Il mito di Sisifo” Bompiani s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A: 07/05/2019 – I: 14/11/2019 – T: 21/11/2019] - &+    
[tit. or.: Le mythe de Sisyphe; ling. or.: francese; pagine: 137; anno 1942]
Avendo tra i miei tanti difetti (come dice la canzone “…i tuoi difetti son talmente tanti che nemmeno tu li sai…”) quello di essere un inguaribile francofilo, sono veramente dispiaciuto di dover dare un giudizio soggettivamente negativo a questo bello scritto dello scrittore franco-algerino (terrei a sottolineare che il Premio Nobel del 1957 era nato vicino ad Algeri). Per un motivo forse troppo personale, dato che, filosoficamente parlando, sono abbastanza digiuno dal pensiero esistenzialista, mentre questo libro è totalmente imbevuto di esistenzialismo e della critica allo stesso. Ma questo sarebbe forse solo un peccato veniale, se Camus, nella foga dei suoi non ancora trent’anni, non presupponesse che tutti sappiano di cosa stia parlando. In tal modo, lavora per ellissi ed iperboli, lasciando a me, povero fruitore a cotanta distanza solo piccoli elementi di gioia e molti di angoscia. Come il fatto che per le prima cinquanta pagine (quasi metà libro) non sia proprio riuscito a capire cosa stesse dicendo. Cioè leggevo le frasi e non si connettevano l’una all’altra. Solo alla fine, dopo un passaggio su altri testi, e su elementi sparsi colti su rete, e dopo essere ritornato al testo, penso di averne intuito qualcosa. Peccato anche che Camus è invece un autore che da sempre mi è stato caro, tanto che alla maturità, avendo per materie italiano e francese (oltre a matematica che per me era un ovvio default), portai una tesina su Gramsci ed una su “Lo straniero” di Camus (ovvio che lo avevo letto in lingua ed in lingua ne parlai con la commissione). Libro che l’autore aveva pubblicato solo pochi mesi prima. Ma il testo letterario, pur se sottende tesi proprie di Camus, riesce, nel contesto romanzesco, a farsi comprendere. Certo meglio di questo pamphlet. Cercando di riprendere, tra un testo e l’altro, il senso del testo, Camus cerca una riflessione sul senso della vita. Poiché, secondo l’esistenzialismo e Camus, se la vita è assurda, perché non suicidarsi? Dopo tutto un percorso, su cui si ritorna, si arriva alla negazione della scappatoia personale, ed alla coscienza che la vita è come il mito di Sisifo, condannato a spingere il messo lungo una china, da qui nasce l’idea dell’autore, nasce la fiamma di una nuova vita. La morte è ineliminabile e i valori proposti non danno giustificazione alcuna alla vita, allora (come Meursault) dedichiamoci alla vita piena. Dobbiamo vivere come morituri, consci che il nostro destino avrà una fine, fare della propria vita un capolavoro. Vivere con ciò che si sa, adattarsi a ciò che si è. Se non esistono valori, bisogna cercare di avere una vita lunga. Siamo dunque arrivati al mito di Sisifo. Che personalmente non conoscevo ed allora sono andato a cercarne in giro. Ora pare che Sisifo fosse una persona molta astuta, tanto che in alcune leggende lo si considera il vero padre di Ulisse, con conseguente cornificazione di Laerte. Il mito dice che Zeus, per una delle sue solite fughe d’amore, rapisce una donzella. Ma Sisifo lo vede, ed in cambio di un acquedotto per la sua Corinto, fa l’infame con il dio. Che ovviamente si altera, e lo spedisce dal dio della morte per toglierselo di torno. Ma Sisifo fa ubriacare Tanato, lo incatena, e torna tra gli uomini, cosicché, per un po’, la morte scompare dalla terra. Chi sfida gli dèi, però, deve essere punito. Zeus, con l’aiuto di Ares e degli altri dei, vince il povero uomo Sisifo, e lo condanna ad una ripetitiva azione: trasportare un grande masso fino alla cima di una montagna per poi vederlo rotolare subito dopo fino alle pendici. Camus, narrandocene, ribalta l’ottica. Non vede l’angoscia di salire il monte, ma il momento di riflessione di Sisifo quando, senza il masso, scende la montagna per andare di nuovo incontro al proprio destino. Momenti in cui Sisifo riflette sul suo gesto, ne ricava l’estrema consapevolezza, ed in questo breve momento di vita, prima di riprendere l’assurdità della vita, “bisogna immaginarsi Sisifo felice” (parola di Camus). Nel mezzo del percorso per passare dal nichilismo iniziale a questa specie di inno alla vita, nel libro si citano filosofi (Šestov, Jaspers, Heidegger e Kierkegaard, tanto per ricordarne a mente alcuni), ma anche letterati, nella mirabile analisi del comportamento di Aleksej Nilič Kirillov un personaggio del romanzo “I demoni” di Dostoevskij, o nel percorrere l’opera di Kafka, saltabeccando tra “Il Castello” ed “Il Processo”. Ma anche verso archetipi, come il conquistatore, il Don Giovanni, ma soprattutto, per la mia sensibilità, l’attore. Quello che in tre ore diventa un altro, ce ne fa vivere i tormenti, l’angoscia, le vittorie e la sconfitta. Per poi tornare ad essere altro. Una persona piena non di una vita ma di tante. Forse è questo il punto su cui sarei rimasto a lungo, magari parlandone di più e meglio, che non solo ne capisco il senso, ma ne vedo, in alcuni modi, ad esempio nella mia amica Rosa, una personificazione magistrale. Per chiudere ricordo solo l’epigrafe posta da Camus al testo. La frase di Pindaro: "O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile" (Pitiche III).
“Una volta offerto lo spettacolo [l’attore] … non è più nulla, e lo si vede, due ore dopo, desinare fuori casa.” (74)
“Un uomo è tale più per le cose che tace che per quelle che dice.” (80)
“Se il mondo fosse chiaramente comprensibile, l’arte non esisterebbe.” (96)
“Il numero dei romanzi cattivi non deve far dimenticare la grandezza dei migliori.” (97)
Zygmunt Bauman “Vite di scarto” Laterza euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 24/09/2018 – I: 13/01/2020 – T: 16/01/2020] - &&& e ¾   
[tit. or.: Wasted lives. Modernity and its Outcasts; ling. or.: inglese; pagine: 166; anno 2004]
In occasione di una vendita in sconto dei libri di Laterza, ritorno su uno dei pensatori da me più seguiti negli ultimi anni. Certo, dispiace che come molti ci abbia ormai lasciato, ma i suoi scritti meritano comunque un’attenta lettura. Pur nella difficoltà della materia, e pur nel limite che, qui come altrove, avevo rilevato. Una grande capacità di lettura del mondo che ci circonda, unita ad una scarsa incisività nel proporre non dico soluzioni, ma vie di percorrenza. Qui, ad esempio, il nodo centrale di queste vite sprecate (questo forse il senso migliore del “wasted” del titolo) mi è sembrato enuclearsi nelle prime pagine del saggio, quando Bauman analizza il passaggio fondamentale del mondo del lavoro negli ultimi anni (anche se lo scritto è del 2004). Un tempo la dicotomia sul lavoro era il binomio occupazione/disoccupazione. Se sei disoccupato puoi ragionevolmente pensare di riciclarti o ricostruirti una carriera nel suo opposto, il mondo del lavoro attivo, l’occupazione. Ora, invece, si passa al concetto di “esubero”. E quando sei in esubero significa che per te non c’è posto altrove. Non c’è un concetto opposto di esubero. Un concetto che ripete spesso in tutto il libro, ripetendo verso la fine che “La modernità … è una civiltà dell’eccesso, dell’esubero, dello scarto e dello smaltimento dei rifiuti”. Essere moderni significa muoversi, significa scegliere, e quindi, scartare i progetti che promettono di non andare a buon fine, i progetti falliti. Scordandoci che a volte, nel lungo periodo, un progetto ora senza sbocco, potrebbe portare a soluzioni inaspettate. Ma la velocità non ci consente di attendere, e quindi tagliamo e siamo tagliati. Siamo dominati dalla paura della solitudine e dalla rottamazione che potrebbero darci amici e partners. Così si spiegano i meccanismi che portano alla felicità del tutto e subito, alle lotterie, alle vincite, anche sentimentali, immediate. Non sembrano più esistere progettualità di lungo orizzonte. Quella che Bauman ci offre è l’interpretazione di un contesto attuale della globalizzazione, dove dobbiamo anche costantemente aggiornare le nostre definizioni, i nostri paradigmi sociali. Rimanendo sul concetto di progetto e fallimento, il progresso, la progettualità del mondo moderno, porta con sé, come contraltare sempre presente, l’idea del suo fallimento. Una possibilità prevista sin dall’inizio del progetto. Una possibilità esclusa dei progetti che si facevano prima della modernità. Quindi è ovvio che si producano materiali di scarto, materiali da smaltire. E quando il progetto è l’uomo, la sua comunità, io materiale di scarto diventa l’insieme dei “rifiuti umani”, l’insieme degli individui "che non si adattano alla forma progettata né possono esservi adattati". Ed allora gli esuberi non sono solo le persone fuori linea nei ricchi paesi occidentali, ma tutti quelli che vi arrivano da altrove, gli immigrati, i richiedenti asilo e i rifugiati provenienti dalle regioni del Sud del mondo. Uno dei discorsi più attuali nonostante i quindici anni del testo, è proprio la centralità che viene data alle migrazioni internazionali, che ha intaccato, modificato, perverso lo Stato Sociale a cui eravamo abituati. Passando (come ci insegnano i Trump o i Salvini attuali) ad un ritorno all’attenzione alla priorità della tutela dell'incolumità fisica dei propri cittadini. Si passa quindi da uno Stato sociale quanto meno ad uno Stato guardiano, se non ad uno Stato penale. Anche se spesso, e sono anch’io in accordo con Bauman, gli attacchi dall’esterno sono più immaginati che veri. Si pensi a tutto il processo degli Stati Uniti dopo l’11/9 che lo ha portato non ad una riflessione sulle ragioni di quell’attacco, ma ad un diffondere la paura contro le aggressioni che potrebbero venire da altrove. Non sappiamo dove scaricare questi rifiuti, queste vite scartate, contemplando molto spesso e con vivace immaginifica prospezione, che noi stessi possiamo diventare un rifiuto. Come sappiamo dalle analisi di Bauman, e da altri suoi titoli, diventa sempre più urgente, ma anche sempre più difficile trovare una via d’uscita. Bauman non la offre. Ci sarà qualcuno che prende il suo bastone da staffetta e lo porterà al traguardo. Intanto, Come conclude Bauman, ci muoviamo tra Huxley ed Orwell, e poiché conosciamo le due grandi opere della letteratura. Ci muoviamo con cautela, perché le abbiamo lette tutti e tutti sappiamo la fine che hanno fatto i protagonisti.
“Sapere significa scegliere.” (24)
“Eliminare … non è un movimento negativo, ma uno sforzo positivo di organizzare l’ambiente.” (25)
 “Sulle terre dei ricchi incombe quest’altro volto poco attraente della guerra contro la ‘sovrappopolazione’: la fosca prospettiva della necessità di importare un numero maggiore, e non già minore, di ‘loro’ solo per tenere in piedi il ‘nostro stile di vita’.” (59)
“Per dirla con Robert Louis Stevenson, viaggiare animati dalla speranza è meglio che arrivare.” (123)
Tiziano Terzani “Buonanotte, signor Lenin” TEA euro 10           
[A: 04/12/2017 – I: 02/01/2020 – T: 23/01/2020] - &&&& + 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 413; anno 1992]
A prescindere da tutte le riflessioni che questo libro mi ha (re-)suscitato, basta quella frase che riporto come prima, e che Terzani mette a poche righe dall’inizio di questo saggio, per dare un senso alla mia lettura, ed a gran parte delle cose che ho fatto e che sto facendo. Ma dato atto a Terzani di ciò (ed anche a quella frase che mi riporta in Ladakh), bisogna entrare nello scritto, più che nel viaggio. Ed entrambi sono affascinanti e coinvolgenti. Terzani si imbarca, nell’agosto del 1991, in una spedizione congiunta tra URSS e Cina per risalire il fiume Amur, nella zona siberiana di confine tra le due repubbliche. Mentre cerca di capire le differenze tra le due rive del fiume, giunge una notizia inaspettata: un golpe contro Gorbaciov. Terzani pensa di recarsi subito a Mosca, per vedere gli eventi drammatici con i propri occhi. Poi invece fa una scelta che si rivela geniale: attraversare la Siberia, l’Asia Centrale, il Caucaso, prima di arrivare a Mosca. Vedendo da vicino cosa sta succedendo nei meandri dell’ormai ex-impero sovietico. Il viaggio alla fine dure 3 mesi, dall’agosto all’ottobre del ’91. Un viaggio che tocca (a che nomi magici), la Siberia (e già ripenso alle lettere di mio padre da Ulan Bator), il Kazakistan, l’Uzbekistan (ahi Samarcanda e Tamerlano!), la Kirghisa, il Tajikistan, il Turkmenistan, l’Azerbaigian, la Georgia e l’Armenia, per concludersi sulla Piazza Rossa a Mosca, nel mausoleo di Lenin (dove io stesso andai due anni dopo, dopo il golpe di Eltsin del ’93). Terzani si muove come riesce e come può: la nave “Propagandist” sino a Komsomol, traballanti aerei della Aeroflot, financo taxi di fortuna, amici compiacenti, autisti improvvisati attratti della magia dei suoi dollari, ed un ultimo aereo da Erevan a Mosca. Vedendo da vicino cosa sta succedendo nelle piccole realtà marginali, parlando con tutti (potenti e dissidenti, artisti e commercianti, preti e imam) ci ricostruisce le modalità di una caduta e la visione di una prospettiva che ancora oggi, dopo trenta anni, è lontano dall’essere tranquilla o foriera di sempre buoni futuri. Tanti sono i motivi, le motivazioni, le domande che emergono dallo scritto e dagli incontri di Terzani. Andando in giro per i posti meno frequentati, più reconditi, ma anche più “veri”, vediamo tutti i passi che si sono avvicendati nel territorio. Prima, e quasi ovunque, la russificazione del territorio, tesa a cancellare le storie del territorio e spinta dalle migrazioni forzate verso le periferie. Poi c’è la crisi di identità dei popoli che si trovano “liberati” dagli organi di controllo del comunismo: il risorgere del nazionalismo, la ricomparsa del fondamentalismo islamico per ridare l’identità del territorio, gli attriti che risorgono, così come da lì a poco nell’ex-Jugoslavia. Tagiki contro uzbeki o armeni contro azeri. Emerge forte il disastro ecologico delle repubbliche dove le risorse ambientali vengono sfruttate senza alcuna tutela. Esemplare la descrizione delle fabbriche chimiche che appestano la città azera di Sumgait. Terzani ci fa vedere, anche se con i suoi occhi che sono però molto simili ai miei, la bruttezza degli edifici, il degrado, le code per ogni più piccola azione, e fianco l’ipocrisia del potere che abbatte indiscriminatamente le statue di Lenin, fino a poco prima osannate, cambia i nomi ai partiti, ma poi lascia i vertici al loro posto le stesse persone di prima. Viene sottolineata la dipendenza tra le varie repubbliche, che ora faticano ad ottenere le materie prime. Una citazione su tutte: «L’Azerbaigian, per esempio, può farsi le sue sigarette, ma non quelle col filtro. I filtri venivano tutti dall’Armenia. Gli armeni dal canto loro non hanno più verdura perché gran parte dei loro contadini erano azerbaigiani e, ora che quelli sono partiti, nessun armeno vuole andare a coltivare i loro campi». Ed infine le mafie che sfruttano il disordine istituzionale alimentando fortemente il mercato nero. E ben sappiamo come le mafie russe abbiano avuto buon gioco in quegli anni. Nonostante riesca poi a spostarsi tra le varie repubbliche, in ogni momento vediamo le difficoltà di spostarsi, le richieste di visti impossibili, le difficoltà di comunicare e l’impossibilità di telefonare. Però, alla fine, si arriva a Mosca, con la scena finale del saluto alla mummia di Lenin, come ho riportato sopra. Terzani mi affascina sempre nei suoi scritti, e non mi lascia mai deluso. Le sue frasi le faccio spesso mie, e mi rammarico, sempre e comunque, che ci abbia già lasciato. Ma rimando, oltre che a questo, a quell’ultimo giro di giostra che rimane uno dei più bei libri da me letti negli ultimi anni.
“La spedizione mi dava una buona ragione per rimettermi in viaggio, per riprovare quella gioia unica che solo i drogati di partenze capiscono, quel senso di libertà che prende nell’arrivare in posti dove non si conosce nessuno, di cui si è solo letto nei libri altrui, quell’impareggiabile piacere nel cercare di conoscere in prima persona e di capire.” (10)
“Politica è ormai una parola che sta a indicare qualcosa di negativo, di sporco, di antiquato, mentre tutto ciò che non è politica è buono, giusto, moderno, nuovo, desiderabile.” (134)
“Non sono religioso, ma le montagne mi sono sempre parse la cosa più vicina al divino. Queste dell’Asia più di altre: purissime, apparentemente senza fine, al di là del bene e del male, al di sopra di ogni gioia o dolore.” (244)
“Quanti misfatti sono stati commessi in nome di un popolo cui di solito non è mai stato chiesto nulla!” (267)
“Il totalitarismo di certe repubbliche come l’Uzbekistan non è dovuto soltanto al comunismo ma alla vecchia struttura feudale che precedette il comunismo e che il comunismo non ha mutato.” (318)
Essendo alla quarta trama del mese, concedo il giusto riposo di altre citazioni ai miei lettori, tornando solo sulla prima fase di Terzani sopra riportata. Quella che sottolinea ed incornicia il senso di una vita, quello che definisce cosa sono stato sino ad ora (“drogato di partenze”). Stringiamoci tutti insieme affinché si possa tornare ad essere quello che siamo, con la consapevolezza che, tuttavia, dovrà essere uno stesso modo però diverso. 

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