domenica 8 marzo 2020

Insufficienza nera 08 marzo 2020


Remo Bassini “La notte del santo” Fanucci euro 13 (in realtà scontato a 11,05 euro)
[A: 04/07/2017 – I: 11/10/2019 – T: 14/10/2019] && ---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 2017]
Due anni fa, nelle mie visite librarie, notai la presenza di una nuova collana di un editore a me ben noto. Sì, perché Fanucci è stato un idolo della mia giovinezza fantascientifica, con titoli che il pur fornito catalogo mondadoriano non riusciva a sfornare. L’ho perso di vista, sia per il progressivo mio abbandono di quel filone, sia per il progressivo impoverimento del catalogo editoriale. Quindi, visti tre titoli presenti sullo scaffale, con quel per me accattivante basso di copertina (”Neroitaliano”) li ho presi. Or se ne legge, e penso di aver fatto bene, almeno per ora, a limitarmi a quei titoli. Che questa prima lettura non mi ha per nulla soddisfatto. Certo Bassini, da giornalista e maneggiatore di penne, sa come scrivere e sa intrecciare storie e parole. Ma qui, passando dalla sua ben nota Vercelli, alla satanica Torino, lascia a desiderare assai per l’ambientazione. Poi, volendo mettere troppa carne al fuoco, ci lascia l’arrosto abbastanza bruciato, tanto che alla fine risulta un po’ indigesto. Dicevo l’ambientazione. Bassini conosce il Piemonte, e pensa bene di sfruttare la fama di Torino come città piena di misteri, inscenando una serie di delitti che cominciano proprio il giorno del Santo patrono di Torino (da cui il titolo). Che ovviamente è San Giovanni, il Battista. Quindi, oltre ad essere il mio onomastico, è anche il 24 giugno. Uno dopo l’altro muoiono cinque persone, accomunate da una propensione per qualche vizio. Omosessuali, drogati, sessualmente sfrenati. Come se appunto Bassini volesse mandarci un messaggio: Santo à religiosità à irregolarità. Cerchiamo qualche moralista… Poi si ingarbuglia sui personaggi (dove torneremo più avanti), non ci fa partecipe dell’atmosfera cittadina, escono fuori altri possibili bersagli. Che, benché protetti, sono altrettanto barbaramente uccisi. Peccato che erano i tre rampolli di un altolocato nobile torinese, che, in barba alle indagini ed alla polizia, attraverso diciamo i servizi segreti, si farà giustizia da sé. La poco perizia dello svolgimento della trama sta nel fatto che per più di 200 pagine assistiamo ad uno snocciolarsi ora dopo ora dei fatti. Dopo di che, in una ventina di pagine, sorvoliamo più di 9 mesi, più di un avvenimento che poteva essere importante, arrivando ad una fine che, come direbbe qualche giallista ben noto, è già nota fin dall’inizio. Perché ci sono pagine in corsivo, e quindi sappiamo che la verità può essere diversa. Perché c’è una accelerazione finale, che porta a disvelare tutta la possibile trama. Che però risulta molto più improbabile di quella iniziale. Se prima, e coerentemente, poteva essere la vendetta di un padre addolorato (per qualche problema familiare che non c’è dato conoscere se non molto avanti nella trama), alla fine questa vendetta si mescola ai servizi segreti, alla vendita delle armi a stati esteri, alla rivolta del Chiapas. Vedete bene che diventa un guazzabuglio che Bassini non riesce a tenere a freno, e che deborda e si affumica da tutte le parti. Veniamo allora ai personaggi della storia, che dovrebbero essere meglio trattati, anche perché (come ho scoperto sul web) l’investigatore capo Pietro Dallavita sarà anche protagonista di un secondo libro (che non credo leggerò). Insomma, sì, c’è questo Pietro, con figlio grande e sbandatello (ma solo perché non sa quale sia la sua strada), ed una situazione familiare poco gradevole. Si sente stretto dalle mura domestiche, pensiamo che abbia una sbandata per la giovinetta Benedetta, ma forse serve solo a mascherare il rimpianto di non aver seguito il suo istinto, dieci anni prima, con l’appassionata ed innamorata Carmen. Di cui, forse, potrebbe superare il ricordo, magari aiutato dalla psicologa Maria Grazia. Ma nelle convulse pagine del finale, senza nessun motivo apparente, ma solo attraverso  qualche parola, capiamo che sì sta con la psicologa, ma rimane sempre sulle sue. E senza un vero motivo ultimo, i due si lasciano. Così che non capiamo né l’atteggiamento di Maria Grazia né quello di Pietro. Come non capiamo le sue doti investigative, visto che non fa un cavolo per tutto il libro se non lamentarsi delle sue sfortune amorose, e l’unico elemento positivo è che conosce uno dei deus ex-machina della faccenda, anche se, fino a pagina 240 non si capisce. E non si capisce perché, per tutto il libro vediamo il suo astio (con reciprocità) verso l’ispettore Tavoletti, tanto che sembra profilarsi una bella battaglia all’interno delle mura poliziesche. Poi tutto si sgonfia, i due sembrano andare d’amore e d’accordo, per costruire anche gli ultimi mattoncini del finale. E pensare che Tavoletti c’era parso infido fin dall’inizio, con quel suo machismo a me poco consono, quel suo arraffare tangenti ed altro (cioè donne). Così che compare come una meteora il suo rapporto con l’investigatore Moreno, che potrebbe portare: 1) alla soluzione del giallo e 2) all’incriminazione di Tavoletti per comportamenti non regolari. Dopo un gira e rigira, sappiamo tutto quello che Moreno sa, sappiamo che lo dice, e poi Moreno sparisce. Non ucciso o altro, ma sembra che ce ne dimentichiamo (o se ne dimentica Bassini). Che invece fa entrare in scena una donna argentina, coinvolta in tutte le fasi della vicenda, che vi entra a pagina 200, e vi esce poche pagine dopo. Non vi dico come entra e come esce, ma se, come ci dice il cieco alla fine (e non vi dico neanche che sia il cieco) era una delle pedine importanti del gioco, mi sembra veramente poco serio farle fare una capatina di una decina di pagine e tre capoversi. E come lei, altri entrano ed escono senza un vero motivo.  Perché il questore è bravo, solidale con Dallavita, e poi emarginabile. Perché il procuratore è uno stronzo e ne abbiamo le prove, e non viene sputtanato, ma solo alla fine allontanato. Insomma, tanto ci sarebbe da dire, anche perché il motore primo della vicenda, che dovrebbe essere alla portata di tutti essendo questo un giallo a tutti gli effetti, viene nascosto per pagine e pagine. Dispiace, quindi, che un prodotto che poteva essere nelle premesse di interesse, anche per rappresentarci una città ed il suo mondo, alla fine si vada complicando e risolvendo in sterili accuse contro i potenti. Che alla fine sono responsabili di tutto. Quindi, realmente, non c’è nessun colpevole, e tutto continua come prima, nelle zone grigie di una grigia Italia (o forse dovrei dire nera?).
Jonathan Arpetti & Christina B. Assouad “Delitto dietro le quinte” Fanucci euro 13 (in realtà scontato a 11,05 euro)
[A: 12/07/2017 – I: 07/11/2019 – T: 09/11/2019] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 282; anno: 2017]
Non conoscevo sino ad ora gli autori di questo secondo giallo italiano della collezione Fanucci. Per cui mi sono documentato, scoprendo che Jonathan, non ancora cinquantenne, è marchigiano (di San Severino Marche), è un cultore di romanzi a 4 mani (ne sono usciti a iosa) ed è un super tifoso della Juventus. Mentre Christina è americana di Denver, ma si laurea a Macerata, e lì rimane. Tra l’altro, mentre Jonathan scrive con diversi autori, Christina scrive o da sola o con Jonathan. Sembra inoltre che le avventure del commissario Luca Bonaventura, di cui questa è la prima, proseguano con altre scritture marchigiane. Anzi, maceratesi. E questo è un punto che fa salire il gradimento del libro, l’ambientazione di provincia, e la capacità degli autori di restituirci le sensazioni delle piccole città. Sia direttamente, con le descrizioni delle strade, dei negozi, ed anche dei sobborghi. Sia in controluce, quando irrompe sulla scena l’ispettore capo Francesca Gentilucci, proveniente da Milano, e dalle sue parole e dai suoi dialoghi con Luca, esce fuori la seconda vista sulle Marche. In effetti, se dovessi sezionare i libri di gradimento, ne darei tre per questa ambientazione. Due per i personaggi. In primo luogo, il commissario, uscito da non molto da una relazione sentimentale, e non per sua scelta, rollatore accanito di sigarette (anche troppe direi) e discretamente descritto sia nel pubblico che nel privato. Poi l’ispettore capo, trasferito da Milano per coprire un trasferimento interno improvviso, ma anche perché vuole lasciarsi alle spalle una storia d’amore finita, ma che le ha lasciato dei segni indelebili, e non solo figurati. Di routine, ma ben inseriti, i due poliziotti di manovalanza: Marinozzi, una specie di Catarella sovrappeso, e Pagliacci, silente ed efficiente. Ma anche l’atmosfera di Macerata nel mese del festival (in genere tra luglio e agosto), che si svolge nel bellissimo Sferisterio della città (se non lo conoscete, visitate Macerata, please), con registi, direttori artistici, scenografi, manovali delle quinte, cantanti e ballerine. Vediamo così Anselmo, il regista giovanile e piacione, sempre alla rincorsa di nuove gonnelle, Caterina, la moglie ricca e più anziana e gelosa, e Benedetta, l’amica di Chiara che l’aveva indotta a seguirla nel corpo di ballo, e Franco, il tecnico delle luci che sempre intorno a Chiara ronzava. Detto questo, però, al giallo in sé non è che potremmo dare più di uno, più che altro per lo sforzo, non per la realizzazione. La storia, infatti, inizia con il ritrovamento del corpo della giovane Chiara, ballerina allo Sferisterio, di famiglia normal-borghese. Ritrovamento da parte della giovane Lattanzi, giovane vedova con Christian, figlio autistico maniaco delle auto, di cui sa tutto. E visto che i Lattanzi abitano in periferia, dove di macchine ne passano in modo limitato, Christian si segna sul suo quaderno marca, modello, caratteristiche, anche targa se riesce. Ora, Chiara è vestita con un abitino da 800 euro, e gettata in un cassonetto di fronte a casa Lattanzi. Ebbene, per duecento pagine, il fatto che Chiara si vesta “costosamente” non viene minimamente preso in considerazione sui possibili moventi ed esecuzioni dell’omicidio. Che di certo non poteva comprarseli da sola, né potevano essere l’ex-fidanzato (operaio in un mobilificio) o il tecnico delle luci, a procurarglieli. Inoltre, dobbiamo aspettare pagina 250 perché le facoltà di Christian vengano prese in considerazione. Visto che aveva segnato marca e modello transitanti più o meno intorno all’ora del delitto, a pagina 18 si poteva chiudere baracca e burattini. Senza impelagarsi nella ricerca del passato di Chiara, delle sue frequentazioni, nonché del fatto che, all’autopsia, risulti incinta. Facendo saltabeccare la colpevolezza tra il padre del bambino non nato o qualcuno accecato dalla gelosia (una moglie, un’amica, un ex-fidanzato, e chi più ne ha…). Ah, le quasi trecento pagine servono anche a far scoprire il passato di Luca e di Francesca, ed a farci intravedere un possibile sviluppo. Di sesso, sicuramente, d’amore si vedrà, che un rapporto stabile e duratura tra un ispettore capo ed un commissario che tra l’altro lavorano insieme lascia non poche perplessità. Ma ripeto, immergersi nell’atmosfera marchigiana e nella bella cittadina di Macerata (magari facendo io, se non il libro, qualche salto nella Camerino di lucianesca memoria, soprattutto per l’impagabile ed indimenticabile torrone “Olimpico Bettacchi”!) è stato gradevole e riconciliante con le pagine del libro che andavano in direzioni poco scorrevoli.
Enrico Pandiani “Una pistola come la tua” BUR Rizzoli euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 22/08/2017 – I: 22/11/2019 – T: 24/11/2019] && -
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 406; anno: 2016]
Pur con tutto l’affetto che posso provare per un italiano emulo del grande Manchette e che ambienta sul suo d’Oltralpe le sue storie, con il passar del tempo e dei libri, le capacità inventive e di coinvolgimenti di Pandiani stanno scemando. Benché abbia scritto sulla brigata de “Les Italiens” praticamente un libro l’anno, dopo i primi quattro si è dato una pausa di riflessione, così che questo quinto esce quattro anni dopo le “pessime scuse”, ma forse avrebbe avuto bisogno di un po’ più di meditazione. Magari invecchiando come un buon rum, piuttosto che farci sorbire uno svampito novello. Gli ingredienti tipici di Pandiani ci sono e ci restano: un numero impressionante di morti, sparatorie ogni due per tre, (discretamente) belle donne e personaggi dal sesso ambiguo. Manca invece una trama che sorregga in modo adeguato i “massacri”. Niente bande di gangster, niente grandi o piccoli intrecci tra bene e male. Tenta, il nostro torinese francofilo di mischiare tematiche alte e basse, facendo intervenire (ma con poco mordente) anche il livello politico, poi il livello relazionale ed anche quello ambientale. Ma a parte qualche colpo di scena, inaspettato invero ma comprensibile, il grosso della trama si intravede sin dalle prime battute. A parte le primissime, dove abbiamo un paio di morti che nulla entreranno nel corso del romanzo se non per introdurre un inseguimento ed il ritrovamento del primo morto eccellente. Scordata l’inutile morte di tal Max, ci si concentra sulla morte di una signora bene, sulla scomparsa della nipote e su di una foto che ritrae la morte con il capo di Pierre. Che ricordo è il responsabile della sezione poliziesca de “les italiens”, quella composta dagli oriundi “rital”  Coccioni, Serandoni e Cofferati nonché dalla corsa Leila Santoni. La morte è anche imparentata con tal Balthazar, quello che crea il legame con la politica essendo in procinto di presentarsi alle elezioni presidenziali, ovviamente in compagine destrorse. Qui la faccenda si complica e svanisce un po’, che scompare la figlia di Balthazar, Tristane, con il nipotino, il piccolo Benjamin. Tristane è da sempre in rotta con il padre, tanto che si era sposata con tal Marcaggi, un losco figuro gestore di una ditta di smaltimento rifiuti. Tristane era anche molto legata alla zia uccisa, anzi era stata da questa invitata a scomparire, che lei stava lavorando ad un progetto che la metteva in collisione con il cognato. Intanto scompare anche un'altra nipote della morta. Non vi dico come, ma ad ogni piè sospinto si trovano morti a destra e sinistra, sia tra i cattivi, sia tra i rapiti, sia, purtroppo, anche tra le forze dell’ordine. Il capo Le Normand invia allora Pierre ed i suoi alla ricerca di Tristane, abbandonando tutto il resto. Tristane viene trovata e protetta dai nostri, aiutati dalla nera Kifkif, ex amante del marito di Tristane ed ora (anche) amante di Tristane, e dal trans Molly (ancora una volta Pandiani inserisce un elemento dal sesso ambiguo che scompagina le carte e verso di cui non si porta mai nessun sentimento né di giudizio né di critica). Tra la scoperta di un back di Tristane che ci dà l’unica adrenalina del libro, e qualche scontata altra informazione, che da subito si possono inquadrare in un disegno criminoso complesso, si va avanti stancamente, con l’unico intento di contare i morti che si accumulano, comprese sparatorie ed inseguimenti. La zia morta, che sicuramente aveva foto compromettenti per il cognato ed i cattivi, aveva anche inviato un sms concernente uno squalo alla nipote. Sapendo della presenza del piccolo Benjamin, noi si immagina subito che ci sia qualcosa nascosto in qualche parte. Elemento che Pierre impiega più di cento pagine per comprendere, nonostante vada più volte, anche se non spesso, a letto con Tristane (inducendo una forte gelosia in Kifkif) ed abbia un buon rapporto anche con  il piccolo Benjamin. Ora, sapendo ad un certo punto che la zia voleva costruire un resort in riva ad un lago, che Balthazar è titolare di una ditta di fabbricazione di armi e che il genero, come detto, lavoro nello smaltimento, il quadro è ben presto chiaro. Un quadro ed una storia che arriveranno ad una giusta fine, questa volta con poco amaro in bocca sulle morti (nelle precedenti puntate, veniva sempre uccisa la donna di Mordenti), anche se non con uno scioglimento propriamente lineare. Cattivi più o meno puniti, buoni più o meno salvati. Come salvo è l’onore della Repubblica, e perché no, della polizia. Certo, si lasciano punti in sospeso, e sappiamo che son usciti altri libri della brigata. Ma la china intrapresa non promette molto. Da un nero con morti anche di impatto, si è a poco a poco scivolato verso un hard boiled pseudo americano, dove i morti servono a poco, come a poco servono le città che si attraversano. Tra l’altro, qui per ¾ del libro ci si allontana da Parigi, e questo crea dei contraccolpi forti sull’impatto della storia. Non mi ha convinto, anche se non dico che non mi è del tutto piaciuto. Mostra molti limiti, ma anche alcuni punti ancora di pregio. Chi leggerà (i seguiti) vedrà.
Lucio Figini “La bambina del mare” Fanucci euro 13 (in realtà scontato a 11,05 euro)
[A: 22/08/2017 – I: 24/11/2019 – T: 26/11/2019] && --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 296; anno: 2017]
Terzo e per ora (ma anche per dopo) ultimo titolo di questa collana nata per i tipi della Fanucci. Autori italiani (motivo dell’acquisto) ma trame di scarso coinvolgimento (motivo della fine). Qui inoltre siamo di fronte ad una strana operazione, almeno per come l’ho capita io. Tra il 2010 ed il 2013, Figini scrivi due, o forse tre, racconti lunghi anche se del terzo non so nulla per la “Cicorivoltaedizioni”. Poi tre-quattro anni dopo, Fanucci lo convince a prendere in mano i primi due, collegarli o raccordarli, in modo da farli diventare questo romanzo di cui state leggendo. L’ambiente è di necessità similare, in quanto Figini da una ventina di anni lavoro in ambito psichiatrico. Ed i due racconti da lì ne traggono linfa. Ovvio che ci siano delle diversità nel prodotto finale (ad esempio nei due racconti uno dei personaggi-chiave si chiama Francesco, mentre ora si chiama David), ma il prodotto finale, comunque ne risente, e, con tutta la buona volontà e la benevolenza, non riesce ad avere un respiro unitario. Certo, alla fine i personaggi e le loro vite si incastrano, ma si sente lo sforzo esterno per raggiungere questo risultato. Non si sente quello che poteva essere un respiro univoco, anche se penso che l’autore avesse comunque in mente qualcosa che si incastrasse. Figini, attingendo ad esperienze e fantasie, ci narra (anche) di persone disturbate. David, ad esempio, è di certo un buon educatore, empatico con i pazienti, ma incapace di costruirsi una sua vita di relazioni. Tanto che l’autore ci descrive, con maniacale esattezza, riti e modi affinché il buon David riesca a sopportare la realtà. Anche Ariel, che attraversa i due racconti (che per me non diventeranno ancora romanzo) è “strana”. Trovata alla stazione di Sestri, compulsivamente attratta dall’acqua, muta o incapace o volontariamente astenendosi dalla parola. Anche il fantomatico “Mister Black” del primo racconto non sembra sano: vestito sempre di scuro, con la mania di controllare tutto, sempre nell’ombra, ma attraversando le pagine anche in silenzio. O il dottor Marino del secondo, di successo, fintamente allegro, sicuramente con qualche ombra che ancora non si riesce a vedere. Certo ci sono persone “normali”: la barista Milena che cerca di rapportarsi con David o il commissario Michele che cerca di rapportarsi con Ariel. Di certo, alcune delle migliori cose sono le ambientazioni, invece. Primo perché si introduce la bella Pavia, non spesso teatro di trame moderne (lasciamo la Certosa dove sta, please), e che mi consente di rivolgere un saluto alla mia cara amica Nicoletta ed alla sua crescente famiglia. Ma soprattutto Sestri Levante, lì dove stanno per cominciare le Cinque Terre, con le sue viuzze, con le sue calate a mare, con i quartieri che non si raggiungono se non in barca. Insomma, se non un bel libro “noir” (e non è un bel libro), di certo un libro che suscita piccoli ricordi e piccole emozioni. Il romanzo in sé, allora, si svolge prima sulle tracce dei pensieri di David, che, in quanto collaboratore in una struttura psichiatrica, accoglie nell‘ospedale una bambina di 11 anni, scioccata ed apparentemente muta. Tra David e la piccola Ariel si instaura subito un rapporto di onde di pensiero, che portano i due a comunicare, anche se non verbalmente ma attraverso disegni. E portano David a cercare di risolvere il mistero della comparsa della bimba. Per questo si sposta tra Pavia e Sestri (poco meno di 200 chilometri), dove, sostenuto anche dalla bella Milena, riesce a trovare tracce del passato della giovane. Un passato che non ci sorprenderà intrecciarsi con molto presente. Nel secondo, passati sedici anni, Ariel scopre di avere una sensibile empatia verso la gente, così da poter essere d’aiuto al suo futuro fidanzato (almeno spero) il commissario Michele. Nell’indagine relativa alla strana morte di un dottore, anch’esso dedito alla psichiatria. Qui vediamo le patologie e le paturnie strane di Ariel, vediamo morire persone a grappoli, e vediamo costruirsi un castello di soluzioni troppo ovvio per essere vero. Non voglio dire di più, che troppe cose si capirebbero altrimenti, ed io verrei di nuovo accusato di raccontare troppo. Certo, è una mia mania, ed a volte mi prende la mano (o la penna). Sarei soltanto curioso di capire perché Figini alla fine bene o male ci svela tutte le pieghe ed i misteri, meno uno. Da dove viene e chi è la bella Caterina? Chissà se è volutamente ignorata per mancanza di adeguate soluzioni, o ci si riserva di tornarci sopra in un futuro. Per ora lasciamo che Fanucci torni alla fantascienza, dove si muoveva meglio, mentre riponiamo i neri italiani in uno scaffale apposito della grande libreria.
“Afferro una barretta di cioccolato, non riesco a stare un solo giorno senza mangiarne. È una vera dipendenza, sono drogato di fondente, a non meno dell’ottanta percento.” (49) [anch’io]
“È pericoloso nuotare senza una persona che le stia vicino, come è pericoloso nella vita non avere nessuno accanto. Ci si abitua facilmente, mi creda, e poi è troppo tardi.” (200)
“Una tazza di tè fumante e un contenitore di miele di castagno. Speziato e con un retrogusto amaro, il mio preferito.” (233) [anche il mio]
Insufficienza anche per le nostre libropeute, che ci fanno pensare questo mese essere single sia una malattia!
Dopo aver preliminarmente rivolto un pensiero ad Elena, che è volata via, personalmente, ho deciso di autosospendermi da viaggi di gruppo, pur dispiacendomi di aver eventualmente messo in difficoltà gruppi e avventurieri. Ma un piccolo sforzo, si spera porti grandi risultati. Credo che invece, sia possibile continuare, nei limiti della non pericolosità, ad andare in giro, testimoniando che non tutti hanno l’influenza. Io, al solito, sono sempre ottimista. Per questo anche se non si dovrebbero avere contatti, saluto tutti con un bacio.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

MARZO 2020
Il mese scorso si parlava di età, e non era certo una malattia. Così come essere single. Mi sa che è un punto minore del libro di cura…
Single, essere
Helen Fielding    “Il diario di Bridget Jones”
Mercoledì 2 gennaio
07:I7 New Haven, casa nostra. Svegliata prima del bambino. Miracolo. Da mezz’ora accanto al marito che russa, sdraiata a pensare che è meglio alzarsi mentre il piccolo dorme. Fatto. Passata accanto alla cameretta in punta di piedi. Chissà quando ho cominciato a trattare il bambino come una creatura invadente e potenzialmente pericolosa. Scese le scale (scricchiolano), fatto il caffè.
07:29 Interrotta da urlo agghiacciante in camera da letto. Corro e scopro il bambino in piedi con tutti gli arti al posto giusto e nessuna traccia di sangue o vomito. Il bambino indica lo spazio vuoto sul mio lato del letto. «MAMMA NON c’ERI!». Penso ad allontanarmi. Noto che il marito ha gli occhi chiusi. Forse è diventato sordo durante la notte oppure è morto nel sonno. Il bambino mi lancia un libro in faccia. «COLAZIONE! E UNA STORIA. ADESSO!».
08:15 Goduto momento di pace, mangiato il porridge col bambino. Notato (grazie) che non sa parlare e mangiare insieme. Pensieri interrotti da orrendo suono di sveglia seguito da oscenità gridate dal marito. Poi silenzio. Concludo che è vivo e in grado di sentire, dopo tutto.
08:35 Pensieri interrotti da ripetute percosse sul capo con il libro delle storie. Propongo al bambino di fare qualcosa di meno fastidioso, come un disegno.
08:36 Caduti gli occhi su vecchia copia de “Il diario di Bridget Jones” messo a puntellare la gamba più corta del tavolo.
08:45-09:45 Trascorsa un’ora intera sotto al tavolo a rileggere “Il diario di Bridget Jones”, mentre il bambino mi usa come tela per un quadro astratto. Risatina quando Bridget evita domande sull’amore («Perché le persone sposate non capiscono che non è educato fare domande del genere? Noi mica corriamo da loro e strilliamo: “Come va E matrimonio? Fate ancora sesso?”»). Risate anche per equivalenti preistorici di e-mail affettuose da Daniel Cleaver al lavoro («Jones: Sembra che ti sia dimenticata la gonna»). Rido tanto che sbatto la testa sotto E tavolo. A un tratto piena di nostalgia per quando avevo trent’anni ed ero single, e per le bottiglie di Chardonnay tracannate nelle sedute di emergenza con Migliore Amica, e fine settimana passati a esfoliare i gomiti in previsione di cena a lume di candela con uomo emotivamente non disponibile. Non posso credere al tempo passato a desiderare di essere Sposata e Contenta e ora sono Sposata ma Non Contenta. Vedo che il tavolo pende pericolosamente e metto la mia copia di “Come essere felici dopo il matrimonio” sotto la gamba più corta. Nota: Leggere anche quello.
10:00. Disperazione. Leggo il libro di storie del bambino sotto il tavolo. A ciclo continuo.
10:30 Interrotta da grida del bambino: «MAMMA PERCHÉ HAI SMESSO?». Dico al bambino che stavo pensando. «A CHE COSA?» domanda il bambino. Rispondo che pensavo di accoltellare il coniglietto della storia e poi dare fuoco alla coda. «PERCHÉ?» domanda il bambino. «Perché quando ero single avrei potuto fare qualsiasi cosa e non l’ho fatto» dico. «CHE SIGNIFICA SINGLE?» dice il bambino. «Com’ero prima di incontrare papà e avere te». «E CHE FACEVI?» domanda il bambino. «Facevo quello che volevo, quando volevo e con chi volevo, entro certi limiti socialmente accettabili» dico. «Solo che non l’ho fatto abbastanza». «POSSO ESSERE SINGLE?» domanda il bambino. «No, non puoi» dico. «PERCHÉ NON POSSO ESSERE SINGLE?» piagnucola.
10:34 Trovata scusa e andata in bagno. Mando SMS a M. A. e chiedo se sa perché diavolo a venti/trent’anni non ci piaceva essere single. Guardo fuori dalla finestra pensando a cosa avremmo potuto fare, invece di fissare il telefono in attesa che squillasse. Interrotta da tono di SMS. «Perché cercavamo uomo perfetto» ha risposto M. A. «Perché avevamo paura di restare sole».
10:46 Interrotta dal marito che entra in bagno senza bussare. Dice: «Sono tue quelle mutande?» e «Sono rimaste delle uova?» e «Cos’è questa puzza di bruciato?».
10:47 Corsa al piano di sotto mentre tiro su vecchie mutande grigie seguita dal marito e trovo il bambino sotto al tavolo che accosta fiammifero al libro delle storie su cui ha piantato un coltello. Il bambino dice: «MAMMA SONO SINGLE ADESSO?».
10:49 Interrotta dal marito che chiede «Come ha fatto il bambino a prendere una scatola di fiammiferi?» e «Hai risposto sì o no, alle uova?» e «Cos’è questa storia di essere single?».
10:50 Interrotta dal bambino che grida: «MAMMA! CHE SIGNIFICA LIMITI SOCIALMENTE ASCETTABBILI ?».
10:53 II marito apre la credenza e guarda dentro. «Uova!» dice, e sorride. Dice: «Hai fatto un sacco di cose stamattina?» e «Più tardi facciamo sesso?» e «Stamani ho letto questo articolo molto interessante sui sistemi elettorali nelle democrazie emergenti. Ti interessa?».
10:54 Guardo fisso il marito. Penso: Uova? Democrazia? Sesso?

Bugiardino

Ribadendo che essere single NON è una malattia, sottolineo tuttavia che il modo di parlarne qui mi ha fatto sollevare il labbro in un accenno di riso. Come fece il film. E come, in  parte, ance il libro, riletto con più attenzione un paio di anni fa.
Helen Fielding “Il diario di Bridget Jones” Rizzoli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)
[tramato il 27 maggio 2018]
Certo riparleremo a lungo di questo libro nell’ambito delle terapie d’amore per essere felici. Intanto, l’ho ripreso in mano dopo tanti anni (credo di averlo letto, ma ne ricordavo poco, almeno nei dettagli, se non nella struttura). Ovviamente poi, il ricordo è stato corroborato dal fatto di averne inseguito visto il film. Che devo dire mi aveva anche fatto sorridere. Nonché incuriosire con quell’ottimo tris d’attori dei tre protagonisti. Ricordate certamente Renée Zellweger nella parte di Bridget Jones, Colin Firth in quella di Mark Darcy e Hugh Grant che interpretava Daniel Cleaver. Ma non è questo il luogo di critiche cinematografiche, bensì di parlare del testo. Che, spero sappiate, deriva dalla trasposizione in romanzo di una rubrica fissa che Helen Fielding teneva sul giornale “The Indipendent”, dove cercava ogni settimana di parlare di una donna trentenne single. Tutti questi elzeviri, dato il successo della rubrica, vennero quindi rimaneggiati, amalgamati e fatti diventare un diario, questo, in cui seguiamo la “povera” Bridget in un fondamentale anno della sua vita. Con tutti i passaggi ed i trabocchetti che le diverse esperienze di single avevano avuto nel giornale. Bridget diventa quindi una specie di summa di piccoli comportamenti, che, partendo da buone intenzioni, si rivelano disastri, più o meno grandi. A cominciare dal tentativo, sempre abortito, di controllare il peso (durante tutto l’anno oscilla tra i 55 ed i 59 e qualcosa), di smettere di fumare, di bere poco. E tanti altri buoni propositi che si perdono lungo la via. Da single incallita, cerca di trovare l’amore in ogni luogo, cerca di farsi voler bene (e gli amici gliene vogliono, anche se lei a volte non lo capisce), cerca di vestirsi appropriatamente, cerca di cucinare cene deliziose ed elaborate. Tutti tentativi miseramente falliti. Ricordo solo un inciso che mi ha fatto sorridere: il brodo fatto con ossa ed altri pezzi animali, legati da uno spago, che, non avendone altri, è uno spago blu. A cena gli amici si sorbiranno una minestra blu. Ottimo. Bridget lavora in una casa editrice, è perdutamente, ed erroneamente innamorata del suo capo Daniel, che invece pensa solo al sesso, con lei e con tutte le donne che gli capitano a tiro. Ha una corte di amici single (o quasi): Sharon, femminista sputa sentenze, Jude, che si prende e si lascia con il “Perfido Richard” ogni venti pagine, e Tom, omosessuale e pieno di attenzioni (e consigli) verso la sua più cara amica. Bridget ha anche una famiglia: una madre Pamela, che scopre di essere stata troppo legata al marito Colin, per cui se ne va di casa, comincia a fare l’intervistatrice per una TV, imperversa per tutto il libro con le sue pazzie (di vestiario, di comportamento), fugge con il suo amante portoghese, che si rivela essere uno sfruttatore, per poi finire, il Natale del redde rationem, nel tornare con l’opaco Colin. Dopo le delusioni con Daniel, Bridget decide anche di cambiare vita, si licenzia, passa anche lei in una televisione, dove viene strapazzata anche dal nuovo capo, ma ottiene, con la sua aria innocente con cui passa attraverso tutte le disgrazie, anche dei buoni successi, ed un’intervista clamorosa. In questo aiutata dal timido Mark. Che incontriamo già nelle prime pagine, al Natale che avvia il libro, con in dosso un terrificante maglione a rombi. Mark entra ed esce dalle scene, mettendo sempre qualche parola buona verso Bridget, che ovviamente non se ne accorge. Tipica la scena dell’appuntamento dove Bridget aspetta Mark e non lo sente suonare il campanello perché si sta asciugando i capelli con un phon super-galattico. Ma alla fine il timido Mark, così come il Darcy di “Orgoglio e Pregiudizio” da cui è venuta l’ispirazione, avrà la sua rivincita, nonché l’attenzione e le cure, e probabilmente l’amore di Bridget. Il seguito alla prossima puntata (ce ne sono almeno due). Il problema però con il libro è che i venti anni passati hanno lasciato molta polvere sull’ironia di Helen-Bridget. Se il tentativo era di concentrarsi sulle abitudini sessuali attraverso la narrazione dei conflitti (di coppia, di rivalità, di amicizia), ebbene il tempo è corso molto più veloce di quanto Bridget riesca a dimagrire. Certo sorridiamo alle intemperanze della madre Pam, ma è un sorriso un po’ forzato, per nascondere l’imbarazzo. Come sorridiamo ai tentativi di Bridget di autoregolarsi, di darsi un codice di comportamento che sappiamo già (noi e lei) che non seguirà. Come rimangano molto datati molti comportamenti “da buona società borghese”. Mi ha solo colpito quella frase che riporto, dove già allora, quando cellulari e social non avevano ancora stravolto molte nostre abitudini, come la cultura dell’attenzione fosse già in declino. Rilevo solo in finale, un piccolo cammeo letterario, a pagina 249, quando viene citato Nick Hornby come guru del football, ovviamente per quel suo magistrale “Febbre a 90°”. Che forse venti anni fa non avrei colto, e che ora suona quasi una presa in giro del ben altrimenti noto scrittore. Rimaniamo alla finestra a guardare, magari mangiando un gelato. Di certo non ingurgitando tutti gli intrugli alcolici di Bridget & soci.
“Siamo nella cultura dei tre minuti. Abbiamo tutti un’attenzione di durata limitata.” (192)

Conclusioni

Ripeto, non solo essere single non è una malattia, come non lo è sposarsi, o avere dei figli. Perché tutto e niente è una malattia. Come direbbe un hollywoodiano: “è la vita, baby!”.

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